Posts Tagged ‘castel campagnano’

Terre del Volturno Pallagrello bianco Le Sèrole 2017 Terre del Principe

10 dicembre 2018

Castel Campagnano è un luogo ameno, un angolo della provincia di Caserta che sembra lontano anni luce dalla calca senza freni del circondario della maestosa Reggia, chiuso com’è dal Taburno da un lato e dal Matese dall’altro, con paesaggi bellissimi tratteggiati in larga parte da campi d’olivo e moggi di vite e qua e là da case di campagna vecchie e nuove.

A camminare queste strade di campagna si respira subito la ruralità di questi luoghi, vissuti da persone straordinarie con un legame molto profondo con questa terra, la città è a pochi chilometri ma rimane là, da raggiungere solo quando è veramente necessario, mentre la vita scorre lenta e indaffarata con i contadini che scorrazzano sin dalle luci dell’alba su e giù per i campi della zona a faticare la terra, coltivare la vigna, seminare il futuro.

Quella di Peppe Mancini e Manuela Piancastelli è una storia¤ che non smetteremo mai di raccontare, ancor più davanti a bottiglie come queste che seppur siano diventati ormai un grande classico della migliore produzione campana, riescono ogni volta a conquistare e colpire per fascino, sostanza e finezza.

Il “Vino Pallarello” e il “Vino Spumante di Pallagrello” venivano annoverati sin dai primi del Novecento negli annali storici di questi luoghi, prima di finire nell’oblìo e rischiare seriamente di scomparire quando, nei primi anni novanta, proprio Peppe Mancini, prima con Vestini Campagnano¤ poi con Terre del Principe¤ si impegna per il suo recupero in vigna, la rinascita e la valorizzazione ampelografica e vitivinicola.

Un po’ avara l’annata duemiladiciassette dalla quale sono state tirate via appena una manciata di bottiglie di questo cru, all’incirca 4.500, un vino che a distanza di poco più di un anno dalla vendemmia si esprime in maniera essenziale ed efficace. Il primo naso sa di fiori bianchi e note esotiche, di glicine e gelsomino, poi lentamente vira su note di albicocca e buccia d’agrumi, quindi sentori di macchia mediterranea. Il timbro gustativo è moderno e vivace, il sorso è sottile ma teso e fresco, agile e godibile, dal finale di bocca sapido e minerale. Un sorso tira un altro e un altro ancora. Forse non una versione delle più ricche per il Pallagrello bianco Le Sèrole, l’annata è stata quella che è stata, ma senz’altro tra le più godibili già nell’immediato. Poi si sa, le sorprese memorabili¤ con i vini di Terre del Principe non mancano mai!

Leggi anche Terre del Principe, la favola del Pallagrello¤.

Leggi anche Terre del Principe e le terre di Castel Campagnano¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Le Terre del Principe gentiluomo

10 luglio 2014

Siamo portati a ricordare il frate Dom Perignon come l’inventore dello Champagne. Un po’ come ai Biondi Santi viene riconosciuto il merito di aver creduto nel successo del Brunello di Montalcino ed alla famiglia Matroberardino, tutta, la conservazione ed il rilancio della viticultura campana in Italia e nel mondo.

Manuela Piancastelli e Peppe Mancini

A Peppe Mancini, fondatore di Terre del Principe, va dato atto della scoperta e la valorizzazione di vitigni pressoché sconosciuti fino agli anni ’90, il Pallagrello¤ bianco e nero¤ e il Casavecchia. Così ha dato il via alla rinascita di un intero territorio sino ad allora praticamente sconosciuto agli appassionati del vino. Un slancio che in pochi anni ha visto numerose aziende seguire le orme dell’azienda di Squille.

Ecco, ogni tanto non guasterebbe fermarsi un attimo, alzare la testa, guardare lontano, sussurrare un grazie.

Oggi nella mappa del vino campano c’è dell’altro, diversamente buono ed emozionante che va celebrato, magari sottovoce, in maniera semplice come piace fare da sempre a Peppe e Manuela a cui dedico questo mio piccolo pensiero dopo aver bevuto ieri l’altro un loro meraviglioso Centomoggia¤ 2006, assaggio che mi ha subito riportato alla mente una piacevole serata¤ dell’autunno 2008 passata assieme.

Grazie per aver consegnato agli annali la vostra bella storia d’amore e a noi i meravigliosi vini di Terre del Principe¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Casa Vecchia 2001 Vestini Campagnano e l’insostenibile successo degli anni che verranno

12 settembre 2013

La diversità, l’autenticità dei varietali campani sono per me l’arma letale con la quale stendere ogni qualsivoglia tentazione di omologazione si azzardi dalle mie parti; e quando ne parlo coi miei ospiti, spesso provenienti da tutto il mondo, con un bicchiere di questi in mano statene certi che ne rimangono profondamente colpiti e rapiti.

Terre del Volturno Casa Vecchia 2001 Vestini Campagnano - foto L'Arcante

Così per lasciargli cogliere a pieno quanto sono determinanti e ‘vincenti’ le intenzioni di recuperare e rilanciare la memoria storica e colturale di certe aree viticole regionali, durante una degustazione privata mi è venuto in mente di proporgli questo casavecchia, un 2001 alba della rinascita in quelle terre per un vitigno assolutamente unico fuori dal coro.

Uva dai grossi grappoli, in origine coltivata a ‘spalliera’ alta perlopiù nei soli comuni di Pontelatone, Formicola, Liberi e Castel di Sasso in provincia di Caserta, è stata spesso confusa come una varietà ‘da tavola’. Nome curioso casavecchia, che prende origine dal fatto che le prime piantine furono rinvenute proprio presso un’antica casa romana (da cui appunto: casa vecchia).

E’ quantomeno suggestivo riassaggiare questo 2001 di Vestini Campagnano¤, credo forse l’ultima firmata da Luigi Moio¤ e dal duo Barletta/Mancini¤ prima della separazione; vino tra l’altro premiato praticamente da tutti in quegli anni e che ha segnato il boom¤ di questo vitigno al pari dei suoi conterranei pallagrello bianco e nero.

D’acchito mi ricorda a grandi linee un aglianico (Taurasi) ben avviatosi a piena maturazione, dal colore ancora vivissimo e dal naso assai avvincente: ampio, terroso, che sa di tabacco ma che conserva ancora sottili e gradevoli nuances di frutta macerata. Il sorso è magnifico, risoluto, intenso e lungo, corpo perfettamente bilanciato e senza sbavatura alcuna. Il riassaggio a brevi intervalli regala ai più attenti una miriade di affinità coi migliori e grandi cabernet d’oltralpe. Ecco, il casavecchia sta giusto lì nel mezzo, tra i grandi. Assaggio da vino del cuore.

Del Casavecchia Centomoggia 2009 di Terre del Principe: l’attesa, il ritorno, la grazia di sempre

27 aprile 2013

Ci si deve andare a Castel Campagnano, per capire bene, cogliere a pieno tutto lo splendore che certe bottiglie riescono solo appena a sussurrare.

Manuela Piacastelli - foto M. Fermariello

A Peppe Mancini e Manuela Piancastelli¤ sono occorsi diversi anni per chiarire per bene di cosa si parlava quando versavano copiosi calici pallagrello bianco e nero e casavecchia ai curiosi che si avvicinavano al loro stand in fiera; qualcuno li aveva vivamente consigliati di cercarseli e starli a sentire, di assaggiare e riprovare i loro vini – il Fontanavigna¤, il Le Sèrole, l’Ambruco¤, il Centomoggia¤-, che dalla Campania qualcosa di nuovo, diverso, davvero particolare sembrava venir fuori alla grande.

Un cammino lungo di cui oggi beneficiano in molti: la scoperta, la valorizzazione, la fermezza nel cercare di dare a questi vitigni misconosciuti pari dignità degli altri già da tempo sulla scena, una carta d’identità che addirittura per un momento sembrava impossibile potessero avere, additati come fuorilegge, trattati alla stessa stregua di sigarette da contrabbando.

Peppe Mancini e Manuela Piancastelli

Radici profonde e valori assoluti, oltre la bottiglia di vino, oltre questa o quella etichetta. Una lotta vera e propria. Vinta, per nostra fortuna. Anche per questo vale la pena passarci da queste parti, per respirarne l’aria, sentire l’odore di questa terra, assaporare quanta fatica, quanta anima, quanto carattere c’è dietro ognuna di queste bottiglie. Toccare con mano una realtà tanto solida quanto affascinante quando suggerita liquida. Pontelatone, Castel di Sasso un po’ come Radda o Castellina in Chianti: tutto può essere.

Il tempo l’anello mancante. Mancava a noi appassionati, non certo a Peppe e Manuela, o Luigi Moio che li segue da sempre in cantina. Loro sin da subito ci hanno creduto, alla buona prospettiva dei bianchi come e più dei rossi, dell’Ambruco, del Centomoggia. Vini di grande appeal sin da subito, deliziosi i bianchi, succosi i rossi ma ancora poco conosciuti al cospetto del tempo passato.

Le Etichette di Terre del Principe

Proprio su queste pagine appena qualche anno fa scrissi di una verticale se vogliamo storica per il Centomoggia¤, vissuta proprio assieme a loro e qualche altro amico là in cantina a Squille. Sei annate tra le quali però mancava proprio il 2009, ancora in affinamento nei legni; l’ho saggiato poi l’anno scorso, senza trarne francamente un giudizio definitivo: lo trovai ‘immaturo’, ‘incazzato’ quasi.

Oggi, dopo un anno, ha voluto dimostrarmi che non ce l’aveva con me; voleva solo starsene un po’ per conto suo. Sottile, invitante, mediterraneo, finissimo il naso: è balsamico, sa di violetta, marasca e liquerizia che ritornano perentorie all’assaggio. Il sorso è pacato, nerboruto ma senza le velleità di alcuni millesimi indietro, né l’increspatura colta l’anno scorso. Ecco, il valore del tempo, dell’attesa. L’indomani ho aperto un 2004, che se non fosse stato per una chiusura di bocca lievemente amara sarebbe là a giocarsela alla grande. Di raffinata piacevolezza, si dice in perfetto stato di grazia.

Vigna Piancastelli 2005 Terre del Principe

3 gennaio 2013

Un formato speciale di 12 litri che se ne stava lì da più di quattro anni a ricordarmi una delle piacevoli soddisfazioni che mi ha regalato questo mestiere, vincere nel 2008 il titolo di Primo Sommelier della Campania.

Angelo Di Costanzo - foto L'Arcante

Icona ingombrante, quasi impossibile conservarla alla giusta maniera, con un paio di traslochi sul groppone, non s’aspettava che l’occasione giusta per farla fuori. E venne il giorno lo scorso 30 dicembre, quando l’abbiamo condivisa, bicchiere più bicchiere meno, con una cinquantina di persone in occasione della prima Festa del Clan®¤. 

Si tratta di pallagrello nero e casavecchia della vigna omonima “Piancastelli” in località Beneficio a Castel Campagnano. E’ il vino di Manuela¤, nel senso che è il suo prototipo: un rosso di caratura importante, grande struttura, non necessariamente votato al lungo invecchiamento perché destinato ad un consumo diciamo sul breve. Così nasce il Vigna Piancastelli, da grappoli selezionati uno ad uno, con una piccola percentuale lasciata addirittura appassire in pianta. Poi legno, nuovi e francesi, con tanti mesi di affinamento in bottiglia, all’incirca diciotto. 

Cosa raccontarvi? Lasciando stare parole troppo impegnative – non eravamo certo in una condizione ambientale assai favorevole ad una degustazione tecnica -, a quanto pare è piaciuto tanto; invero spiazzando molti, che nemmeno immaginavano si potesse osare tanto col pallagrello¤ e il casavecchia¤. Dalla sua, nonostante le ambasce di una conservazione non proprio ortodossa, sicuramente il formato speciale che l’ha aiutato a preservarsi al meglio; trovarlo però così pimpante ci ha rinsavito un po’ tutti: addirittura ancora vinoso, dal naso invitante, ben centrato sul frutto in molte sue declinazioni e sfumature (mirtillo, prugna ma anche melissa e tabacco), senza una sbavatura, con un sorso di spessore, teso e avvolgente e con un finale sì morbido ma piacevolmente setoso e ammiccante. Adesso non mi rimane che portarmi via quel titolo dalla bottiglia, con l’etichetta, bellina, firmata quell’anno da Giovanna Picciau.

Bianco e Nero

14 dicembre 2011

Il bianco è un colore, ma senza tinta, per questo per definizione è detto “acromatico”. Il nero invece è la totale assenza di colori. Eppure giurerei di averne almeno due, di bianco e di nero intendo, pienamente espressivi, ricchi di sfumature, sovrapposizioni, come due facce della stessa medaglia, quasi una dicotomia.

Il bianco è generalmente il colore della purezza, ma anche di una resa; bianco può essere detto un suono, una pagina, addirittura un’arma. Ma non questo mio bicchiere di Pallagrello Fontanavigna 2010, bianco per definizione eppure avvenente, seducente, invitante nelle sue nervature chiaramente gialle paglierino; luminosissimo. Da questa terrazza poi, con questo panorama così suggestivo qui a Castel Campagnano, a Terre del Principe, pare risplendere tutta la luce del sole, oggi inaspettatamente caldo e avvolgente. 

Il primo naso sa di glicine e gelsomino, poi lentamente si apre su lievi e piacevolissimi sentori di mela, mandarino e buccia di lime, poi ancora di albicocca e macchia mediterranea. Il timbro gustativo è moderno e vivace, pronunciato su una fresca acidità ma ben sostenuto da un corpo importante e agile al tempo stesso: la beva infatti è piuttosto sapida, senti il vino attaccarsi al palato eppure scivolare via con estrema gradevolezza, in attesa di un altro sorso, e un’altro ancora. Una delle più buone versioni di sempre, in questo momento davvero in grande equilibrio e corrispondenza gustolfattiva.

Il nero, si sa, solitamente è usato con una connotazione negativa: un giorno è nero quando tutto va storto, un periodo nero non lo vorrebbe mai nessuno, il dolore è nero, la sofferenza è nera; ma per fortuna vi sono anche decine di altri significati che ne danno una visione più bonaria e senza scomodare culture e arti figurative orientali, dove il nero assume valori assoluti a noi sconosciuti, ci basti pensare per esempio all’eleganza: il nero infatti, è da sempre considerato sinonimo di estrema eleganza, e così questo Pallagrello Nero Ambruco 2009, vino rosso che non esagero a definire di rarissima eleganza.

Il colore è  inchiostro, quasi viola sull’unghia del vino, denso, impenetrabile. Il primo naso è intriso di sentori balsamici di estrema finezza; poi, senza nemmeno troppo a spasso nel calice, si apre su chiare fragranze di frutti neri, spezie e note cioccolatose: ribes, confettura di mirtilli, tabacco, fondente anzitutto. Un rosso di grande spessore l’Ambruco, con una continuità espressiva che pare non avere fine, se non quando scivola via dal calice anche l’ultima goccia. In bocca è subito avvincente, lo capisci subito che è un vino importante, si distingue per il tessuto di tannini docili e di notevole finezza, ben fusi ad un frutto sempre in primo piano e che tutt’uno regalano un sorso di particolare fittezza, eleganza, equilibrio e profondità. Una infinita sorprendente conferma!

Intervallo. Il vino, il sogno di una vita, la felicità

4 settembre 2011

Verticali e Orizzontali

20 luglio 2011

Una settimana all’insegna dell’enigmistica, quella disegnatami da amici poco amici – in preda a tautologia compulsiva -, da avvenimenti che val la pena buttare subito alle spalle nonché da algoritmi incomprensibili, quelli che regolano il mondo 2.0, per me ancora troppo lontani dall’essere colti. Mi rimane da fare quello che son capace di fare: bere e raccontare.

Ci sono occasioni nelle quali ci si domanda cosa portare in tavola: fa caldo, tremendamente caldo, eppure bisogna rimediare con qualcosa. E’ il caso di magiare leggero, talvolta piatti freddi senza fronzoli né ambizioni particolari; un pomodoro, forse due, una mozzarella – o perché no -, dei filetti di tonno di quelli seri, una manciata di rucola, un filino d’olio extravergine e via così. Beh, semmai ci scappasse un tentativo – di quelli seri però – di vitello tonnato saremmo, come si dice, a cavallo; ma chi s’accontenta, si sa, gode lo stesso.

Opportuno non trastullarsi troppo per la scelta del vino, ma chi ha un pizzico di malizia non può non tentare l’asso nella manica, un rosato di quelli per niente banali da trattare oltretutto con i guanti: una scelta arguta, una giocata d’astuzia; un rosato color buccia di cipolla, delicato, esile a prima vista, ma fino e verticale nei profumi quanto nella vivace e ficcante beva. Quando bello fresco. No, non è affatto magro come si può pensare, qui il sangiovese è di quelli di primissimo piano, minuto ma di grandissima levatura, tanto da avere bisogno di stare a lungo in bottiglia, dice Franco Biondi Santi. Per contro rimane per poco, molto poco, nel vostro bicchiere. Si pensa al Rosato di Toscana Tenuta Greppo 2007 di Biondi Santi.

Invece certe sere a cena ti toccano piatti solidi, compositi, verrebbe da definirli variegati oltre che variopinti; vengono in mente linee orizzontali attraverso le quali si distendono moltitudini di profumi e sapori importanti ma non decisivi gli uni sugli altri; uno spartito complesso ma non di difficile esecuzione. Piatti ruvidi, talvolta salsati, che offrono spigolature accentuate pur senza eccessi sofisticati.

Si ha bisogno quindi di un vino florido, grasso, magnifico nel suo ego ma non raccapricciante per personalità; un rosso ricco, abbondante, copioso di frutta macerata e spezie fini, ferace di sensazioni uniche e votato a conquistare la pienezza gustativa, non necessariamente la profondità. Un sorso quasi principesco, snob per qualcuno, maledettamente efficace per altri; un bere disincantato prosperoso, robusto, quasi ammiccante. Si parla di casavecchia e pallagrello nero, in parte surmaturi, del Terre del Volturno Vigna Piancastelli 2008 di Terre del Principe.

Centomoggia, il Casavecchia del Principe

28 novembre 2009

Peppe Mancini sta al Casavecchia (e al Pallagrello) come Mastroberardino al Taurasi. Fatte le dovute proporzioni, il risultato minimo comune denominatore è la storia.

Tutto nasce alla fine degli anni ’80, l’avvocato che in questa storia poi diverrà Principe come consuetudine ama recarsi nella sua casa di campagna nel fine settimana per riprendersi dalle fatiche e le angherie del foro e rifarsi gli occhi ed il palato con i colori, i profumi e i sapori della terra dell’alto casertano che qui a Castel Campagnano sembrano acquisire tonalità uniche avvicinabili solo alle più famose colline del cosiddetto “Chianti shire” nella lontana Toscana. In quegli anni l’avvocato si diletta con la vigna e la vinificazione tanto che lasciandosi aiutare dai contadini della zona riesce pian piano a mettere su un piccolo vigneto di circa 2 ettari allevato con il sistema tradizionale della pergola casertana recuperando alcune marze di barbatelle di uve che qui tutti conoscono (vinificandole da tempo per consumo proprio) come casavecchia e pallarella nera e bianca ma che in realtà nemmeno risultano negli annali ufficiali degli albi poiché spesso confuse con altre varietà autoctone campane già esistenti come la coda di volpe nera e bianca.

Nel 1991 la prima vendemmia, conservata gelosamente in damigiane da 54 litri della quale però non si riuscirà a goderne del frutto poiché andate letteralmente a ruba, nel senso che vennero trafugate dalla cantinola di Peppe Mancini mentre lui era a Napoli per lavoro. Convinto però di stare seguendo la via giusta, nel 1992 durante una cena di piacere ebbe modo di conoscere l’enologo Angelo Pizzi, allora mentore della Cantina del Taburno che non fece mancare i suoi consigli per dare maggiore spinta, semmai vi fosse bisogno, al desiderio dell’avvocato di realizzare il sogno di tirare fuori da quei vitigni tanto sconosciuti vini che potessero conquistarsi un posto significativo nel panorama vinicolo campano al fianco dei già conosciuti Aglianico, Fiano, Falanghina e Greco di Tufo allora in piena evoluzione di gradimento sul mercato.

Il 1998 è l’anno dell’incontro con il prof. Luigi Moio che teneva a Caserta, presso la camera di commercio un convegno sui vitigni autoctoni campani e l’intuizione di Vincenzo Ricciardi di invitare Peppe Mancini a presentare i suoi vini si rivelò un coupe de teatre fenomenale che diede il via, di lì a poco alla realizzazione del sogno del neo vigneron, che si vide capitare tutto in un colpo sulla sua strada dapprima l’enologo giusto per la sua causa e dopo poco tempo anche la spalla giusta per dare lo slancio necessario al suo progetto: Manuela Piancastelli.

Giornalista de Il Mattino, tra le prime specializzate a caccia delle novità enogastronomiche campane, punto di riferimento in regione del buon Gino Veronelli che mai mancava di manifestare la sua stima per questa elegante, professionale e caparbia dama del buon gusto, Manuela cercò nel tempo di saperne di più su questo famigerato nuovo produttore campano che veniva fuori dal nulla con la storia di vitigni centenari recuperati dall’estinzione certa, che peraltro alimentava il mistero negandosi ad ogni richiesta di intervista sino a divenire coscritto dalla sua educata quanto spudorata insistenza: è un colpo di fulmine, è amore a prima vista.

Arrivano così i primi anni del duemila: l’avventura Vestini Campagnano, la prima azienda ad incarnare il progetto di Peppe Mancini è al suo capolinea; diversi i riconoscimenti già arrivati per il Casavecchia tra i quali alcuni di grande lignaggio ma la voglia di ripartire è tanta che subito con Manuela nel 2003 inizia l’avventura Terre del Principe, con Luigi Moio sempre al loro fianco ed una nuova storia da consegnare agli annali della viticoltura campana che annovera tra i suoi esponenti un’altra azienda a cinque stelle.

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2008 L’assaggiamo direttamente dalle barriques, Peppe Mancini ci tiene a farci dare uno sguardo alla bottaia dove riposano i vini scrupolosamente stipati di carato in carato distinti per filare ed epoca vendemmiale nonché per caratteristiche post fermentative. Un lavoro maniacale che appartiene più al vigneron che all’enologo che vuole i suoi vini massima espressione distintiva di ogni singolo cru aziendale. Il colore è stupendo, viola melanzana che lascia sulla parete del bicchiere tracce cromatiche cristalline con sfumature inchiostro. Il naso è una esplosione di vinosità e succo di piccoli frutti neri, mirtillo, ribes e mora. In bocca è secco, caldo, l’assaggio dalle barrique ci consegna come prima sensazione una nota tostata leggera e ben miscelata con il tannino, comunque di latente imprinting a favore di una gradevole acidità, chiudendo ancora su di un frutto delizioso e persistente. Ne verrà un bellissimo vino.

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2006 Il vitigno ha una origine ancora poco certa ma una cosa è acclarata e cioè che è presente qui nell’areale di Castel Campagnano da tempo immemore, forse il rinomato Trebulanum dell’epoca romana era composto proprio da questa uva che proprio per la sua alta resistenza alle malattie della vite è sopravvissuta al tempo ed all’uomo. Il colore è molto invitante, rosso rubino con netti riflessi violacei, poco trasparente, un biglietto da visita assai ammaliante per un vino di tre anni. Il primo naso è caratterizzato da note olfattive fruttate molto gradevoli e persistenti. Lasciandolo “aprire” mostra pian piano di avere anche note lievemente balsamiche e di burro di cacao; di buona beva, corpo e di buona profondità gustativa. Ideale se abbinato a primi piatti con ragout di carni, penso ad una bolognese o a carni bianche ricche di nerbo ai ferri. Indomabile la polposità del frutto che accompagna ogni fase della degustazione. 

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2005 Vendemmia particolare questa, la piovosità che ha accompagnato il ciclo di maturazione dell’uva ha creato non pochi problemi in cantina ed onde evitare vini con poco carattere si è dovuto intervenire (previo salasso, nda) cercando di concentrare maggiormente il frutto evitando di diluire oltremodo la materia estrattiva che è alla base della qualità di questo vino, prodotto già con bassissime rese per ettaro e con il giusto dosaggio di legni, questi ultimi sempre di secondo passaggio per non sovrastare oltremodo il frutto con i suoi tannini ellagici ceduti durante la fase di affinamento. Il colore permane su di un timbro rubino con piccole sfumature violacee, qui la trasparenza manifesta una sua minore concentrazione cromatica che trova conferma in una media consistenza nel bicchiere. Il primo naso è abbastanza persistente, caratterizzato sempre da note olfattive di piccoli frutti rossi che sembrano essere caratteristica distintiva del vitigno, il cosiddetto marker, quello dei mirtilli, mora e ribes che caratterizza il casavecchia in tutta la sua fase evolutiva. In bocca forse il suo punto debole, estremamente morbido, avvinghiato su una beva scorrevole ma senza particolare profondità. In questa fase non sarebbe male berlo su alcuni piatti di pesce salsati o in tempura (penso al Baccalà, ad esempio).

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2004 Ritorna un naso leggermente più complesso del millesimo precedente, certamente il fruttato, sicuramente più intenso e persistente ma non di meno note terziarie in piena evoluzione. Già il colore tende di nuovo ad una maggiore concentrazione, è più vivace, poco trasparente ed a retto bene i cinque anni alle spalle. Le sensazioni olfattive si fanno via via maggiormente intriganti, prima vengono fuori note balsamiche, poi erba aromatica, una nota soave di rosmarino che ritorna soprattutto dopo la beva. E’ secco, caldo, abbastanza morbido con una discreta acidità a sorreggere un vino abbastanza equilibrato. Lasciare ampiamente respirare questo vino, da accostare per esempio a formaggi pecorini freschi.

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2003 Mi ha colpito molto questo vino, abbastanza lontano dai precedenti assaggiati e con una storia tutta sua: il 2003 è l’anno di nascita dell’azienda, quando ancora era in via di finitura la cantina con tutte le problematiche relative alla gestione della vinificazione e dello stoccaggio delle masse; peraltro in un millesimo non certo facile: l’annata la ricordiamo tutti per il caldo torrido che ha imperversato in lungo ed in largo, creando in molti casi i presupposti più per succhi di frutta che per vini degni di attenzione. Eppure questo Centomoggia sembra avere una marcia in più, il colore ha retto bene, conserva sempre quel timbro rubino netto e manifesta una certa consistenza. Il primo naso è subito su note terziarie, molto elegante e profondo, nuances balsamiche, liquerizia, erbe aromatiche, cuoio, terra bagnata che non smette mai di porre all’attenzione durante la beva. In bocca è secco, decisamente più austero dei precedenti, ha lasciato alle spalle brillantemente le note tostate cedute dal legno (all’epoca nuovi) e conserva un anima propria molto affascinate, altro segno che ci sono margini evolutivi possibili e tutti da scoprire anche per questo “nuovo” autoctono campano e soprattutto che probabilmente nulla gli vieta di superare il decennio di vita con la giusta brillantezza e profondità: benvenuto Casavecchia, tra i grandi vini italiani.

Terre del Principe, la favola del Pallagrello

10 novembre 2009

L’inverno quest’anno è stato assai rigido e ci ha consegnato tanta di quella pioggia che in certe giornate ci siamo sentiti quasi presi “a secchiate”; noi al sud, non siamo proprio abituati e nonostante tutti ci bombardano con il cambiamento climatico ormai in atto da anni proprio non riusciamo a farne a meno di lamentarci quando il sole non è lì, bello alto e caldo tanto da scaldarci dentro ed aprirci ai meravigliosi scenari fatti di mare e di terra che si stagliano lì all’orizzonte.

A. d. B. da TERRE DEL PRINCIPE 019

Oggi siamo stati fortunati, abbiamo beccato una giornata meravigliosa, non certo di solleone ma tanto bella e solatìa da consegnarci una decina di ore in aperta campagna in terra di lavoro come non capitavano da settimane, contornate dalla deliziosa ospitalità di Peppe Mancini e dalla straordinaria passione di Manuela Piancastelli profuse in quel di Terre del Principe .

Castel Campagnano è un luogo ameno, un angolo della provincia di Caserta che sembra lontano anni luce dalla calca senza freni del circondario della maestosa Reggia, chiuso come a proteggerlo dal Taburno da un lato, dal Matese dall’altro fatto di campi d’olivo e di vite e qua e là residenze di campagna che solo negli ultimi anni sembrano riprender vita. A camminar per queste stradine si respira subito la ruralità di questi luoghi, dai contadini quasi tutti ultrasessantenni che bazzicano sui trattori d’antan sù per i terreni ripidi e non manca di incontrare nel poco traffico tra un incrocio e l’altro vecchi carretti trainati da cavalli con carichi di verdure ed ortaggi diretti chissà dove.

Ci accoglie Manuela che assieme ai suoi due deliziosi cani Ortole e Pallagrella ci conduce all’atrio della bellissima cantina, contornato da vecchi tralci di viti interrotti qua e là dai vari riconoscimenti ricevuti dai vini aziendali in questo primo scorcio di vita e da una piccola teca dove troneggiano alcune bottiglie di “Vino Pallarello” e “Vino Spumante di Pallagrello” dei primi del Novecento: un segno tangibile del grande valore storico dell’ostinato lavoro di Peppe Mancini avviato nei primi anni novanta nella riscoperta e valorizzazione di questo vitigno ma anche del casavecchia, oggi espressioni altisonanti di un’altra viticoltura campana non più appannaggio, tra gli altri, solo di vitigni quali l’aglianico, il piedirosso, il fiano ed il greco.

Ci avviamo con Peppe in campagna a camminare le vigne, visitiamo dapprima vigna Piancastelli, appena 3 ettari rilevati da Manuela quasi come pegno d’amore appena dopo il loro incontro, impiantato a casavecchia e pallagrello nero con sistema guyot che confluiscono poi nel cru omonimo aziendale che esce solo nelle annate straordinarie e del quale ad oggi si annoverano solo le annate 2004 e 2005, quest’ultimo davvero di grande slancio interpretativo di una vendemmia non certo facile. Proprio di fronte vi è il vigneto Sèrole, un ettaro di pallagrello bianco destinato alla produzione del cru omonimo dove la polposità del frutto incontra il pregiato legno di rovere per un vino dal taglio ammaliante e coinvolgente.

Ci spostiamo in località Monticello dove vi è la parte più grande dei vigneti di proprietà, circa 7 ettari di filari questa volta impiantati con il sistema tradizionale della “pergola casertana” che contrariamente alle comuni convinzioni, ci dice Peppe Mancini, “se curato perbene in vigna e non sovraccaricato di frutti riesce a dare risultati addirittura superiori al guyot, almeno questi sono i riscontri che anno dopo anno cogliamo dalle vendemmie”. A guardare il panorama che si staglia dinanzi si apre uno scenario davvero suggestivo, siamo posti proprio di fronte dove sorge fisicamente, di là della vallata, la cantina maestosamente sovrastata in lontananza dal Matese con le cime innevate e con alle nostre spalle l’altrettanto maestoso monte Taburno, a poche centinaia di metri in linea d’aria dal fiume Volturno oltre il quale la provincia inizia ad essere Benevento. Che magnifica terra!

Ritorniamo in azienda dove ci attende “il pranzo di Carnevale” magistralmente preparato da Maurizio, fratello di Manuela, a suo tempo chef e patròn, siamo nella seconda metà degli anni novanta, de “La Vineria del Mare” a Pozzuoli, locale antesignano dei moderni winebar lasciato poi per approdare alla “Tavola del Principe” per deliziare gli ospiti dell’azienda con le sue preparazioni; qui ci lasciamo rapire dal racconto di questa favola d’amore, nata per caso mentre Peppe Mancini cercava suffragio alla sua riscoperta del Casavecchia e del Pallagrello e Manuela – forse la prima giornalista (Il Mattino) dedicatasi alla cronaca enogastronomica – era alla ricerca di nuovi slanci dell’agricoltura campana. Una storia moderna che racconta di come la terra ed i suoi frutti possano decidere l’avvenire di due persone che ad un certo punto della loro vita si impongono di lasciarsi tutto alle spalle per rinvigorire una storia antica e proiettarla nel futuro, ad oggi grazie ai loro vini, straordinariamente affascinante e che invito a non perdere mai di vista. Grazie di esistere!


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