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Brochon, di Philippe Charlopin-Parizot e non solo

24 giugno 2010


A pochi chilometri da Morey St Denis, appena lasciato Gevrey-Chambertin verso nord, sempre sulla “Route des Grands Crus”, c’è Brochon, un piccolo borgo di appena 691 anime ma che nasconde nei dintorni, circoscritto alla “zone artisanale” (sarebbe la nostrana zona industriale, ndr) uno scrigno di tesori imperdibili.

Il primo che ci capita a tiro, appena usciti dal centro storico del paese è Gaugry, una delle fromagerie più famose di Borgogna, custode dell’antico formaggio Epoisses ma senza ombra di dubbio il riferimento assoluto di tutti gli allevatori locali vista la capacità di lavorare durante l’anno almeno un milione e settecentomila litri di latte. Oltre al fornitissimo negozio dove è possibile assaggiare gran parte dei formaggi prodotti e distribuiti (700.000 circa!) vi è anche un’area di accesso ai laboratori di lavorazione per i visitatori che possono, due giorni alla settimana, di solito il mercoledì ed il venerdì, visitare il piccolo museo aziendale nonchè ammirare come si producono i famosi formaggi di casa Gaugry.

Proprio alle spalle della Fromagerie vi sono alcuni capannoni scuri, ognuno con un gradevole giardino in fiore all’ingresso ma nessuna insegna, citofono, indicazione. Il primo è il Negoce des Grands Bourgognes, in pratica uno dei più forti distributori del posto, con un catalogo prodotti non profondissimo ma decisamente appetibile. Molti, soprattutto i piccoli Domaine, si affidano a loro anche per la distribuzione locale, e quasi nessuno di questi, scopriremo poi, è propenso alla vendita diretta in azienda, preferisce di gran lunga delegare le cosiddette enoteche locali alla promozione e alla vendita dei loro vini: economia sociale, garanzia della filiera? Ci piace, e non poco, e se fosse replicata anche a casa nostra..?

Proprio di fronte al Negoce des Grands Bourgognes c’è il Domaine Charlopin-Parizot, nulla di trascendentale, suggestivo, emozionale: un capannone, nero, anonimo che Philippe Charlopin ha voluto come casa del suo genio, del suo estro, della sua più totale anarchia pur rimanendo fortemente legato al suo territorio. E’ vero, genio è una parola delle più abusate, spesso utilizzata più per spiegare l’inspiegabile che per altro, eppure in questo personaggio, nerboluto, tarchiato, anche un po’ goffo per come si è presentato dinanzi a noi, in pantofole e camicia “astratta”, con una pettinatura anch’essa quantomeno esotica si coglie una forza incredibile, precisa, non confondibile, e più che dalle sue (poche) parole è dalle idee messe in campo, incredibile “la tratta delle appellations”, (“ogni mio vino nasce come e con un debito, con il territorio e con le banche!”) dai suoi vini superlativi, dai quali si trae l’impressione, il punto di forza di un vero gioiello della viticultura borgognona.

Queste in sintesi le impressioni ricevute a caldo dall’assaggio in cantina dei vini del Domaine Charlopin-Parizot che vanta, oltre che diversi Negoce in quasi tutte le appellations della Cote de Beaune (e più a nord Chablis) anche eccellenti proprietà come nel caso di un bel appezzamento nei Grand Cru Clos di Vougeot e Charmes-Chambertin.

N.B.: per comodità viene replicata solo l’etichetta dello Gevrey-Chambertin Vieilles Vignes di cui abbiamo bevuto il ’08, a tutti gli effetti, nonostante la giovanissima età, il miglior vino assaggiato assieme al Grand Cru Charmes-Chambertin, sempre ’08 di cui però racconteremo in un prossimo post.

Pernand Vergelesses 2007 appellations village che offre vini, innanzitutto bianchi, piuttosto godibili, e rossi come questo più interessanti al palato che puliti al naso, comunque estremamente digeribili. Di colore rubino finissimo, abbastanza vivace, esprime un ventaglio olfattivo maturo e terziario, soprattutto su nuances di catrame e note tostate. In bocca è asciutto, sottile, corroborante, una bella beva fresca e di sostanza. Ideale sui formaggi vaccini, austeri, del luogo.

Morey St Denis 2007, ottimo, arcigno, dal naso complesso di una misticanza di frutti neri e rossi e note tostate e caramellate. Probabilmente tra qualche anno, due, tre minimo, concederà un ventaglio olfattivo più interessante ancora. Al momento si lascia scoprire ma non del tutto, è infatti in bocca che quasi allontana, asciutto, austero, tannico, profondamente minerale: “non dovrei nemmeno farvelo assaggiare, ma siete qui quindi sappiate valutarne il dono”. Impeccabile la schiettezza di Philippe, vera.

Gevrey-Chambertin Vieilles Vigne 2008. Chambertin è certamente il più celebre tra i crus di Gevrey, tredici ettari circa ed un paesaggio mozzafiato che scompare sulle colline delle Hautes Cotes. Un vero e proprio fuoriclasse questo vino, purosangue, sembra parafrasare il suo stesso mentore, tal quale. Il primo naso è sgraziato, offre inizialmente di tutto un po, sovrappone note vinose a note di caffè tostato, cipria ad erbe officinali, poi ancora cassis maturo e polposo: “è il gioco delle parti, la terra bruna, la pietra calcarea, un vitigno autentico, legni dei più diversi, con il tempo, solo il tempo ne definirà l’eleganza”. In bocca è asciutto, secco, la bocca, una volta deglutito, quasi s’incolla, eppure rimane piacevolmente sedotta, avvinghiata ad un piacere sublime, lunghissimo. Un vino per i prossimi trent’anni.

Clos de Vougeot 2008,  altro cru di gran fascino, ovvero il fascino del Grand Cru!  La storia ci consegna uno dei vigneti più belli e suggestivi della Borgogna, che deve la sua destinazione d’uso ai monaci cirstercensi che qui decisero di piantare vigne piuttosto che patate e ovviamente alle generazione che di lì a qualche centinaio di anni pur modificandone drasticamente la mappatura ne hanno saputo valorizzare, enomermente, la vocazione . Inizialmente di proprietà di Julien-Jules Ouvrard, già proprietario di altri grand crus nella Côte de Nuits tra cui La Romanée Conti, il Clos de Vougeot divenne prima pane di sei commercianti-negotiants e successivamente continuamente frazionato sino agli attuali oltre centottanta parcelle in mano a ben oltre novanta proprietari, tra questi anche Philippe Charlopin-Parizot. Di colore rubino-granata, vestito di una bella vivacità; Naso intrigante, chiuso, sbuffi fruttati concentrici a note quasi animali, si sente per parecchio tempo cuoio, poi una netta sensazione di cipria. In bocca mi sento di definirlo ad oggi ingiudicabile, quantomeno è insostenibile delinearne un profilo gustativo esaustivo, forse tra 5-6 anni, ha tanta materia da lasciar maturare, succosa e nerboluta.

Ci è piaciuto, moltissimo, il paesaggio; Le vigne sono allevate come giardini, tutti i filari si estendono da ovest ad est seguendo il declivio collinare lungo la route des grands crus, quest’ultima mai noiosa nonostante la monotonia del paesaggio che attraversa.

Non ci è piaciuto, non poter assaggiare vini di annate più mature, ma a quanto pare così funziona, nel senso che nemmeno i produttori ne dispongono avendole il più delle volte già tutte vendute, ça va sans dire…

da segnare in agenda: 
– Grands Bourgognes
ZA Le Saule, 21220 Brochon
Tel +33 380792990
Fax +33 380792990
www.grandsbourgognes.com
– Fromagerie Gaugry
RN 74 – BP 40
ZA Le Saule,
21220 Brochon
Tel +33 380340000
www.fromageriegaugry.fr 
 – Au Clos Napoléon
Restaurant Bar à Vin
4 et 6 rue de La Perrière
21220 Fixin
Tel +33 380524563

Morey St Denis, Domaine Dujac

23 giugno 2010

“Noi non crediamo nella grandeur dei vini di Borgogna, di certo non l’abbiamo mai percepita come un alibi, e sinceramente ne faremmo davvero a meno..!”

E’ quanto meno inaspettata, per non dire disarmante, una rivelazione del genere, una frase così esplicita, per niente malcelata e costantemente presente nell’aria in ogni momento successivo all’aver varcato la soglia del Domaine Dujac a Morey St Denis. Ma come? Verrebbe da chiedersi, e noi che almeno tremila chilometri più in là ci lasciamo scaldare l’anima e sbattere il cuore non appena ne sentiamo parlare, di Pinot Noir, di Borgogna, di Clos e di “pippe” varie ed eventuali sulla loro unicità, storia, fascino per di più sostenute da una bio-dinamicità-naturale che tanto significato ha in un mondo del vino in profonda conversione; In realtà, scusatemi il gioco di parole, è la pura e nuda realtà, definiamola pure cruda e mal servita, (praticamente sbattuta in faccia) ma che ci piaccia o no, questo è!

Questa è l’impressione che ci portiamo a casa dall’incontro con il giovanissimo Alec Seysses, figliol prodigo in quel di Morey St Denis, cuore dell’Haute Cotes de Nuits, che con il fratello ed il papà-winemaker Jacques si occupa a tempo pieno dei 16 ettari del domaine dislocati in circa 18 appellations tra i vari villages, premier e grand cru dell’areale. Come sempre la smentita è dietro l’angolo, della quale in verità ne saremmo davvero felici, per questo (e non solo) ci siamo ripromessi un nuovo passaggio da quelle parti ( 🙂 ). Stando ai fatti però, non è stato un buon approccio con il territorio, quello desiderato, auspicato, nonostante i vini serviti, evidentemente mal volentieri, ci hanno impressionato non poco, aiutandoci a capire che l’anima controversa del terroir borgognone è più marcata di quanto si possa pensare e che alcuni dei suoi interpreti più autentici per essere tali hanno necessità di privilegiare il dato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente, da veri e propri “espressionisti” del vino piuttosto che commercianti delle proprie emozioni. Queste, in sintesi, le impressioni sui vini più interessanti degustati, tutti prodotti seguendo il più austero dei protocolli biodinamici, dettato cioè da uno stile di vita piuttosto che dalla moda o la richiesta del mercato.

Marsannay 2008, appellation communale disposta a nord di Morey St Denis, sulla strada di Digione, dove dimorano i due ettari e mezzo di proprietà del Domaine votati perlopiù a chardonnay. Un vino bianco molto fresco, cioè asciutto e minerale, dal colore paglierino tenue e di media consistenza. Il naso è incentrato su note erbacee e floreali, fine ed elegante seppur non lunghissimo, in bocca è, come detto, secco e piuttosto sapido, molto gradevole la chiusura quasi citrina che riporta alla mente agrumi ed al palato una picevolissima sensazione di pulizia. Alla stessa stregua, per intenderci, di un ottimo Fiano del Cilento in tenera età.

Morey St Denis 2008, dalle vigne più o meno prospicenti il Domaine più altri conferimenti del circondario; naturalmente da uve Pinot Nero in purezza, viene vinificato, fermentato ed affinato esclusivamente in “pieces” di secondo e terzo passaggio. Il Colore è piuttosto scarico, rubino/granata con accennatiflessi aranciati, un naso decisamente empireumatico, che offre cioè un ven ritaglio olfattivo organico piuttosto accentuato: note tostate, secche, pungenti, per certi versi affumicate. In bocca è poco carezzevole, in effetti sappiamo benissimo che vini del genere hanno bisogno di almeno un lustro per venire fuori al palato, per rivelare cioè quella voluttà al palato tanto frequentemente espressa in certi Pinot Nero nostrani, ma non dunque di queste terre, di questi interpreti. Bel nerbo, acidità da vendere, finale di bocca lunghissimo, waiting for the glory.

Clos St Denis 1966, il cuore batte ancora mi verrebe da dire. Probabilmente, ripensandoci, il freddo Alec avrebbe voluto riservarci una accoglienza migliore, magari condensata da una manciata di sorrisi in più, non di circostanza, e offerto un panorama delle proprie attività nel Domaine un tantino più esaustivo. Eravamo lì per ascoltare, imparare, non certo per rubare, tempo e spazio. Si salva in “zona Cesarini”, tirando fuori dal caveau, assolutamente non visitabile questo Grand Cru che al tempo, ci dice, Grand Cru non era: “era il vino che circolava in casa, per gli amici, per i parenti”. Sfogliando gli annali scopriremo poi (mannaggia li sommelier!) che non si tratta della migliore delle annate in casa Dujac, e nemmeno della migliore tra le peggiori, un vino insomma del quale certamente non si va fieri. Invece il bicchiere svela una bella esperienza visiva e degustativa, non segnata da clamore e sospiri ma certamente degna di nota. Il colore è praticamente integro, le sfumature aranciate sono appena più marcate del precedente, e la trasparenza pure. Il naso offre un ventaglio olfattivo molto interessante, addirittura ancora spiritoso di frutta, ma balsamico, caramellato, speziato innanzitutto. In bocca è asciutto, austero, lineare sul finale di bocca, equilibrato e minerale.

Ci è piaciuto Morey St Denis, davvero un bel borgo, a misura d’uomo, come del resto tutti quelli visitati durante questo viaggio; La pioggia ed il grigiore del tempo non hanno intaccato più di tanto i colori e il fascino di una terra bellissima.

Non ci è piaciuto, unanimamente, la freddezza con la quale siamo stati accolti, soprattutto contando sul fatto che dai numerosi precedenti contatti non fosse assolutamente trasparita, decisamente una giornata no!

Non ci è piaciuta, l’abitudine del padrone di casa, dichiarata con estrema nonchalance, di recuperare il vino lasciato nei calici dai convenuti, utilizzato a suo dire, successivamente, per colmare le botti in affinamento: “è nettare prezioso, perchè sprecarlo!”

Champagne, la bella stagione delle bollicine

31 Maggio 2010

Il vino più affascinante? Certamente lo Champagne! L’area viticola più famosa tra le più famose al mondo? E’ indubbio che si tratta della Champagne!

Per qualcuno icona del “bien vivre”, per qualcun altro sinonimo di ricchezza, per altri mera ostentazione di finezza ed eleganza mai appartenuta. Comunque vada non v’è nulla nel mondo del vino che abbia tanto valore simbolico come una bottiglia di Champagne, quella precisa etichetta o più semplicemente una flûte. Questo da sempre, e pare si perpetuerà per molti anni ancora nonostante in numeri diano in calo un consumo arrivato ormai a cifre esorbitanti che solo la fortissima crisi economica su certi mercati (soprattutto oltre oceano) ha accennato a frenare.

Appena qualche accenno su quella che è un area viticola di splendore unico, situata a circa 150 chilometri a nord-est di Parigi. Attualmente operano nella Champagne più o meno 15.000 viticoltori che coltivano e forniscono le uve a circa 110 maison che si occupano poi della loro lavorazione ed “elevazione” sino a dare vita al nettare tanto ambito dai ricchi e potenti quando amato dale persone più comuni.

Gli attuali “confini” regionali della Champagne sono ancora oggi delimitati dalla classificazione voluta dall’INAO nel 1927. Questa classificazione in senso generale avvenne innanzitutto per dare un proficuo valore commerciale alle migliori aree interessate e negli anni a seguire si è lavorato alacremente per far sì che proprio in queste aree, naturalmente particolarmente vocate, si concentrassero le migliori parcelle di vigne che oggi danno vita a vini di straordinaria opulenza e soprattutto eccezionale longevità. Questi vigneti corrispondono sempre ai comuni o parte di essi e sono oggi classificati in tre categorie, Grand Cru, Premier Cru e Cru. Ad oggi sono solo 17 i comuni che si possono fregiare della definizione Grand Cru, 41 i Premier Cru e i restanti 255 del distretto come Cru. Tra i 17 Grand Cru della Champagne vi sono nomi spesso ricorrenti nelle degustazioni che vengono fuori in giro per il mondo, non si può non ricordare Bouzy, Ambonnay, Verzy, Verzenay, Montagne de Reims; Aÿ, Chouilly, Cramant, Avize, Oger e senza ombra di dubbio Mesnil-sur-Oger, probabilmente il più ambito, avete presente Krug¤ o Salon?

Ecco quindi di seguito le prime note sparse di assaggi “rubati” in questa prima parte di stagione, una passione smodata, nutrita senza freni!

Taittinger Cuvée Prestige Rosé, il più buono degli Champagne rosé sino ad oggi bevuti, è il vino del cuore, dallo straordinario rapporto prezzo-qualità, lo Champagne da non far mai mancare nella propria cantina. Da uve Chardonnay e Pinot Nero, ha un colore che ricorda i petali di rosa, splendenti, bollicine sottili e finissime, un naso avvincente, floreale e fruttato di lamponi, in bocca è secco e lungamente minerale, da inebriarsi infinitamente.

Mandois Blanc de Blancs 2004. Una piccola etichetta, uno di quei vini che ha ancora bisogno di tempo per raggiungere una propria espressione autentica, piacerà sicuramente a chi cerca nelle bollicine acidità spinte, rustiche ed è alla spasmodica ricerca abbinamenti soprattutto per stemperare le note iodate dei crudi di mare. Possiede un discreto ventaglio olfattivo, non lunghissimo ma offre senz’altro un’ottima piacevolezza al palato, da riassaggiare tra qualche mese.

Bollinger Special Cuvée, un classico di sempre. Blend di Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier rappresenta una continuità ineffabile, ottimo vino da sbicchierare come aperitivo ma anche ideale per poter pasteggiare. Non offre spunti olfattivi particolarmente complessi, soprattutto a chi ama di Bollinger la Grande Année, ma state certi che se avete bisogno di uno Champagne per non sbagliare di questa etichetta vi potete fidare! Bel colore paglierino carico, tendente al dorato, bollicine piuttosto intense seppur non proprio finissime. Palato gradevolissimo.

Bruno Paillard Réserve Privée Blanc de Blancs. Champagne d’autore, di prim’ordine. Fragrante, avvenente, impulsivo e sinuoso nella beva. Chardonnay in purezza delle migliori parcelle confluito in quello che è nato come un gioco di piacere personale ed oggi condiviso dai migliori palati dei clienti più esigenti. Un grande Champagne per dare un valore aggiunto ad un appuntamento importante o più semplicemente per dare lustro al proprio piacere: “ma sì, ce le siamo meritate!”

Gosset Grand Réserve Rosé. Arriverà il Celbris ’98¤, conservo la recensione nel “cassetto” delle bozze del blog, aspetto però un riassaggio per avere conferme della non comune intensità e complessità olfattiva riscontrata in questo vino. Per il momento accontentiamoci di questo rosè dal bellissimo colore rosa tenue, profumato di caramella al lampone e saporito ed arcigno solo come il Pinot Noir sa esprimere. Buono a tutto pasto, specialmente su carni bianche e formaggi! 

Pommery Noir. Il marchio soffre di una distribuzione poco felice, quindi viene percepito – secondo me – in malo modo. Poi, sarò sincero, non posso nasconderlo, di recente nemmeno l’Apanage, uno dei loro must, mi ha fatto impazzire quando l’ho bevuto; però gli concedo volentieri comunque un passaggio tra queste mie note di degustazione. Mettiamola così, uno Champagne alla stessa stregua di una media bollicina franciacortina, sia chiaro, il prezzo (sui 33-35 euro in enoteca) non si discosta poi tanto da quest’ultima, però non è certamente quello che ci si aspetta da un vino elaborato con uve provenienti da aree delle più vocate della regione. Rimandato ad un nuovo assaggio.

Mumm de Cramant. Davvero ottimo questo Chardonnay in purezza proveniente dalle vecchie vigne di Cramant, uno dei Gran Cru della Champagne. Colore integro, paglierino tenue, bollicine finissime seppur non intensissime. In bocca è secco, piuttosto fresco ed abbastanza lungo, chiude su di un finale nocciolato e burroso davvero gradevole. Costa più o meno quanto uno dei più commerciali Champagne che si possano trovare in enoteca, da segnare in agenda!

Taittinger Grand Crus Prelude. E’ la maison che vanta il vigneto “in corpo unico” più esteso della Champagne e questo già la dice lunga sulla vocazione e la tradizione di casa Taittinger. E’ tra le pochissime, se non l’unica tra le grandi griffe ad aver conservato una propria autonomia rispetto ai grandi gruppi finanziari che di tanto in tanto razzolano marchi e proprietà sulla regione champenois, ed anche questo è un particolare che non va trascurato visto che si traduce costantemente in una conservazione di un rapporto prezzo-qualità di indiscusso surplus rispetto ai diretti concorrenti. E’ prodotto con le migliori uve provenienti dai Grand Cru di proprieà, Pinot Nero e Chardonnay di spessore per un vino invitante, dal naso orientaleggiante e dal sapore tanto austero quanto piacevolmente bilanciato. Da non dimenticare!

Mesnil-sur-Oger, Il Clos ’98 di Krug

17 marzo 2010

Il marchio Krug è sinonimo di prestigio, rara eleganza, inarrivabile succulente piacere della gola; può più una flute di champagne Clos du Mesnil che mille letture di esperti, masters of wine o millantati tali per comprendere l’essenza del messaggio che un vino del genere vuol lanciare, insidiare, lasciar comprendere, anche dal più comune dei mortali in cerca di brividi di gola: è la leggerezza.

Leggerezza necessaria per godere al meglio e sino in fondo di un vino, per coglierne il piacere di beva più alto, per rimanere conquistati da tutti gli aspetti di una analisi gusto-olfattiva ed analitico-descrittiva. Ci sono Champagne che brillano per colore e perlage, per la finezza, persistenza delle bollicine, altri per complessità di profumi, verticalità, e per consistenza di palato, ci sono taluni a volte che esaltano una grassezza di gusto imponente, quasi spiazzante. Ebbene, il Clos ne riassume, concentrando, esaltando, imponendo, ognuna di tutte queste caratteristiche traducendole però, consegnandole all’avventore anche meno educato, con uno stile inconfondibile, leggiadro, ficcante, deliziosamente sorprendente. Insomma, un grandissimo vino!

Clos du Mesnil nasce da una meticolosa selezione di chardonnay 100% di appena 2 ettari di proprietà nella Cote des Blancs tutti intorno al comune di Mesnil sur Oger, negli anni divenuto il Grand Cru più ricercato e prezioso di tutta la Champagne, e grande merito di questa affermazione è certamente legato indissolubilmente alla maison Krug. L’areale è suddiviso in 15 parcelle che vengono seguite passo passo sino alla vendemmia distintamente in maniera da rappresentare ognuna di esse una espressione propria dell’eterogeneità dei vari microclimi presenti sul territorio.

Lo stile è quello fortemente imposto dal terroir, le circa 250 degustazioni che supera questo vino prima dell’assemblaggio finale non sono altro che l’espressione della sua grandezza, della sua grande capacità di evoluzione nel tempo, il Clos du Mesnil infatti, sin dalla sua acquisizione era destinato a “fortificare” le cuvèe degli altri champagne di casa Krug, la Grande Cuvèe in particolare, ma già dai primi approcci Henry e Remy Krug con il loro papà si resero conto di una straordinaria materia prima tale da stravolgere gli equilibri prestabiliti. Nasce così uno dei vini più ricercati e desiderati di sempre, per molti il mito fatto bollicine!

Il ’98 è stata una annata piuttosto calda in Champagne tale da lasciar pensare di non assemblare il Clos ma di destinarlo alle altre cuvèe; Krug è forse la maison meno avvezza a millesimare i suoi vini a meno che non si paventino risultati di eccellenza straordinari, solo quattro infatti le vendemmie da cui sono nati vini millesimati negli anni novanta, il ’90, il ’95, il ’96 ed appunto il ’98. Il colore è scintillante, paglierino compatto con bollicine tutte in fila finemente, persistenti. Il primo naso è dolcissimo, di quelli da rimanerci le narici natural durante, sottili sentori di crema pasticcera, burro di cacao, cioccolato bianco cremosissimo, vaniglia, intensissimo e finissimo. In bocca è secco, piacevolissimo, l’acidità è palpabile ma ben distribuita, a tratti masticabile, la godibilità di questo champagne è da manuale, una bevibilità straordinaria nonostante una spina dorsale importante.

Un vino di cui innamorarsi, purtroppo non sempre alla portata, anzi tutt’altro, ma certamente indelebile nella memoria degustativa tale da sconvolgere i precedenti, creandone dei nuovi! Da bere fresco, non freddo, in calici da vino tradizionali, su tutto quello che merita la vostra attenzione!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Bar-sur-Seine, Champagne cuvée “D” Devaux

5 marzo 2010

Da buon napoletano, a sentir parlar di vedove non può che farmi rabbrividire. Da discreto sommelier (così dicono) però, mi sono abituato al tema, non fosse altro che per certe straordinarie bottiglie della più famosa delle vedove del vino, la prestigiosa Grande Dame Cliquot-Ponsardin, che negli anni mi sono passate tra le mani. A quanto pare però le veuves nel mondo del vino, dello champagne in questo caso, sembrano continuare a mietere successi, allegramente, ottenendo spesso, come appare, anche risultati eccezionali.

Nel 2006, quando ho incontrato per la prima volta questa etichetta sulla mia strada ero molto scettico, è già difficile scardinare le mie convinzioni in materia di bollicine d’autore, figuriamoci poi con uno champagne, misconosciuto com’era, e mai sentito prima di allora; Ma il fascino della scoperta e del confronto hanno sempre un certo peso nel convincermi all’approccio con un vino, così dopo un giusto tempo di meditazione mi sono avvinghiato alla flute, piuttosto assetato, scoprendo, devo ammetterlo, una piacevole sorpresa. L’occasione in verità era delle più propizie, un pranzo (in)formale domenicale alla tavola di Sud dove “les patronnes” Marianna Vitale e Pino Esposito mi hanno concesso l’opportunità di portarmene un paio di boccie da condividere con i miei ospiti. Ebbene, la Cuvée “D” si è rivelato un gran bel vino, uno Champagne davvero degno di nota e senz’altro meritevole di essere annoverato tra le più piacevoli delle esperienze “brillanti” di questo inizio anno.  

Un colore splendente, giallo oro vivace, dalle bollicine fini ed intensamente persitenti; All’olfatto, il primo naso si è dapprima offerto su note di lievito e di crosta di pane, poi aprendosi ci ha regalato sensazioni estrememente eleganti e gradevoli di agrumi, frutta secca, nocciola, polvere di caffè. Un ventaglio olfattivo eccitante e costantemente persistente, sublime, di qualità decisamente superiore.
In bocca un soffio di freschezza, si apre secco, abbastanza caldo, a tratti citrino prima di congedarsi con una vena decisamente cremosa, avvolgente, finissima, quasi vellutata, chiudendo con una piacevolissima sapidità. E’ uno champagne importante, esaltato da piatti altrettanto importanti, giocati su ingredienti di sostanza ma proposti con grande equilibrio e leggerezza: l’abbiamo sorseggiato, in sequenza, con Polpo e Polpessa croccanti su insalata di puntarelle (!), poi sulla cheese cake di baccalà (già divenuto un classico) ed infine sulle succulenti linguine con porri e salsiccia pezzente (da non perdere!). Marianna non poteva che deliziarci, proponendoci, tra gli altri, alcuni dei suoi ultimi piatti, ma la signora vedova Devaux non poteva rallegrarci con meglio!

Note: la Cuvée “D” di Devaux è uno Champagne prodotto con Uve Pinot Noir al 65% e Chardonnay per il restante 35% e mai “sboccato” prima dei 5 anni prima della commercializzazione. E’ Distribuito in Italia da MG-Villa Sandi, costa, in enoteca, sui 60 euro.

Villars Fontaine, Le Haute Cote 2005

14 gennaio 2010

Croix et délice, croce e delizia, così mi appare questo rosso sanguigno borgognone di Bernard Hudelot. Abbiamo bevuto, qualche settimana fa con l’amica Cathy Stockermans un 2002 davvero giù di corda, dal colore gradevolmente brillante ma poco espressivo al naso, sottilissimo, fermo, e al palato aggressivo sino all’imbarazzo. Un frutto troppo amaro per continuare a sperare nel divenire. Ci ho riprovato l’altra sera, con il 2005, servito alla cieca ad un gruppo di Amici di Bevute. Il risultato? Niente a che vedere con l’esperienza precedente ma ciononostante lontano dagli standards manifesti della piccola azienda di Villars Fontaine e dalle aspettative trasferitemi dalla stessa amica blogger ed aspirante sommelier Cathy. 

L’azienda è stata creata da Bernard Hudelot che l’ha ereditata dal padre Ferdinand e riportata in vita dopo la parziale devastazione subita durante la seconda guerra mondiale. E’ il 1971 quando, dopo diversi anni di duro lavoro di consolidamento si iniziano ad innestare le prime nuove vigne di Pinot Noir e Chardonnay tra i vari climat della tenuta a seconda della specifica vocazione, nel Domaine di Montmain, a Les Jiromée ed intorno allo Chateau Villars Fontaine propriamente detto. Siamo nell’haute cote de Nuits, appena ad un palmo dal cuore della Borgogna più nobile, qui intorno infatti si levano al mondo i sospiri di alcuni dei migliori Pinot Noir in circolazione distesi sui terreni di Gevrey Chambertin, Aloxe Corton, Nuits Saint Georges e chi più ne ha più ne metta; il terreno ha una conformazione scheletrica profonda, a tratti rocciosa e spesso scosceso ed il clima è certamente più rigido rispetto ai paesi limitrofi, elementi che non hanno certamente reso vita facile, negli anni, al lavoro della famiglia Hudelot. Condizioni pedoclimatiche particolari, dicevamo, comunque buone per i bianchi a base Chardonnay, sempre ricchi di note aromatiche intense e complesse e con un gusto deciso e profondo, in certi millesimi avvicinabili ai migliori Mersault, la faccenda diviene un po più complicata per il Pinot Nero, quantomeno riflettendo sui tratti dipinti nel calice proprio qui nella mia mano, con un naso abbastanza pronunciato ma un palato sempre troppo duro da digerire con nonchalance. L’haute cote 2005 si presenta con un colore rosso rubino vivace, abbastanza trasparente e di media consistenza. Il primo naso è molto piacevole, invitante, note fruttate dolci ed ampio respiro ai sentori di origine secondaria e terziaria: ai primi riconoscimenti di mora di rovo e mirtillo si aggiungono subito dopo una netta sensazione di gomma e di leggero goudron, sottili ma abbastanza intense e persistenti, nel complesso abbastanza fini. In bocca l’inversione di tendenza, le note olfattive “ammiccanti” e comunque avvolgenti si trasformano in un gusto arcigno, duro, per niente levigato dal tempo, più che tannino appare acidità elevata alla massima espressione, insistente, permanente, oltemodo invadente. Sia ben chiaro, un vino certamente integro e a tratti, dopo una lunga ossigenazione, interessante, ma sempre troppo scostante, distante da un equilibrio gustativo pur necessario per poterne godere al meglio del frutto. Da rivedere tra qualche tempo, indagandone nel frattempo, il dna produttivo.

Sancerre, Cuvée Edmond 2002 Alphonse Mellot

11 dicembre 2009

Difficile pensare ai grandi vini bianchi e non menzionare Sancerre, difficile pensare di aver bevuto grandi sauvignon senza prima aver “passato per le armi” i vini di questa denominazione, difficile, quasi impossibile non amare i vini di Alphonse Mellot ed in particolare questo straordinario Cuvée Edmond 2002, ricco, di carattere, ancora impulsivo nella sua profonda mineralità gustativa.

Siamo in Francia, naturalmente. Nella Loira più caratteristica per alcuni, meno conosciuta per altri, siamo nella città di Sancerre che ancora divide la sua origine etimologica tra Giulio Cesare ed i Sassoni che proprio sulla collina dove oggi si erge il centrocittà si insediarono durante in regno di Carlo Magno. Ci troviamo di fronte ad un bellissimo vino che ha tanto da raccontare di se e della sua terra, un vino austero e brillante, fragrante ed invitante, complesso e sorprendente. Duemiladue, dicevamo, ma potrebbe essere un vino di uno o due anni al massimo, l’equilibrio e la continua profusione di aromi varietali ed eterei tengono attaccati il naso al bicchiere e costantemente il palato assetato.

L’aspetto nel bicchiere è limpido, cristallino, luminoso, giallo oro netto, di buona consistenza. Il primo naso è un effluvio di sentori erbacei secchi, fiori e frutti dolci, note balsamiche. Camomilla e menta piperita, poi miele,  mango ed albicocca, ancora sentori di grafite e pietra focaia. In bocca è secco, caldo, decisamente fresco, vira continuamente la sensazione calorica di un struttura importante verso una spiccata mineralità che apporta freschezza di beva e continua sapidità.

Un vino perfettamente armonico, di estrema piacevolezza ed equilibrio gustativo. Nasce da sole vecchie vigne di oltre cinquant’anni del Domaine de La Moussière, nel cuore dell’appellation Sancerre; alcuni dati ricevuti dall’azienda indicano che le masse di sauvignon blanc delle varie parcelle della vigna percorrono strade diverse prima di incrociarsi per l’affinamento in barriques. Circa un 60% del mosto viene lasciato fermentare in legni nuovi, il restante in legni di primo e secondo passaggio, succede un percorso di affinamento che di millesimo in millesimo può variare tra i 10 ed i 14 mesi. Stupendo se abbinato a pesci salsati, ma non vedo come non potrei cedere di fronte ad un più tradizionale Baccalà fritto.

Clos des Goisses 1996, applause!!

24 novembre 2009

La ricerca dello champagne preferito non ha fine, ci sono esempi storici, camei indimenticabili di imperatori e re follemente innamorati di questo o di quello champagne; governatori,  papi e starlettes capricciosi sino all’inverosimile tanto da meritarsi dediche di intere cuvèe.

Perché stupirsi allora quando a marcare il visibilio più totale è l’annata del cuore, quella da non far mai mancare nella propria cantina, quel vezzo tanto prezioso che caratterizzava tanto la molto beneamata Madame Pompadour, fiera devota al suo Moet del 1746 quanto l’ineffabile James Bond, vinto solo dal fascino del suo Bollinger RD. Il Clos des Goisses è il gioiello di casa Philipponat, uno champagne molto particolare, non per tutti o almeno per coloro che pensano e credono che le bollicine d’oltralpe siano solo un vezzo per viziati e sedicenti imbonitori. Questo cru Nasce a Mareuil sur Ay, in un vigneto-giardino bellissimo che costeggia gli argini del fiume Marna, un climat da cartolina, una veduta da perderci il fiato. Il ’96 come molte delle precedenti annate è stato prodotto con un blend di pinot noir e chardonnay, con il principe dei vitigni a baca rossa prevalere per il 70%  e solo in minima parte affinato il legno.

Il 1996 è uno champagne di rara personalità, ha un colore paglierino brillante, scintillante, possiede una trama di bollicine fitte ed eleganti, persistenti, infinite, cloni a se stesse. Il primo naso è una spruzzata di agrumi, di spezie orientali: buccia limone, pompelmo, poi ginger, foglia di thè e cannella. Un ventaglio assai fine e fitto, complesso e persuasivo, avvincente, inebriante; il gusto è secco, intenso, abbastanza caldo, per niente morbido, spiccatamente citrino: taglia il palato in profondità, una volta mandato giù il primo sorso, per 3,4,5 secondi hai solo il piacere di chiudere gli occhi ed immaginare bevute simili, un confronto decente, una prospettiva futura, così ti convinci di berne ancora, di ricercare altre sensazioni. Ti accorgi così di navigare a vista, speri in un punto di riferimento che non c’è, torni a metterci il naso dentro, lo riassaggi, esprimi una doverosa contropinione sulla sua fittezza di acidità, gli concedi più o meno un ventennio per smussarla e per goderne ancora: cavolo ma è il Clos des Goisses di Philipponnat, punto e basta!

A questo punto sarebbe opportuno buttare giù un paio di piatti adatti ad avvicinare cotanta ricchezza organolettica, ecco allora che mi vengono a mente un paio di esperienze, una recentissima che è la lasagnetta di lingua di vitello in guazzetto di Tartufi di mare di Marianna Vitale del ristorante Sud di Quarto, l’altra mi appartiene per convenzione: la scacchiera di mare di Oliver Glowig (qui), forse il piatto più emozionante (qui conta poco essere di parte) mangiato nel 2009 assieme alla creme brulée di baccalà di Francesco Sposito di Taverna Estia.

Haut-Brion 1996, vive la souplesse!

17 novembre 2009

Haut Brion

Chi non ha mai pensato a questo grande vino come “il” grande vino per antonomasia? Molti, statene certi. Quasi sempre in compagnia di tanti altri mostri sacri d’oltralpe, da Mouton-Rothschild a Chateau Margaux, da Cheval Blanc a Petrus ha sempre goduto di ottima fama, spesso catalizzato l’attenzione degli eno-appassionati sino al punto di divenire agli occhi dei meno esperti un diamante per sempre luccicante sotto al sole, icona di una esperienza elettiva forse irrepetibile.

Poi negli anni la cultura del “grande vino” ha spostato qua e là qualche macigno di vetusta sapienza, il web ha fatto il resto rivoluzionando la conoscenza e consentendo a molti di sapere e ai tanti che credevano di sapere solo loro di doversi confrontare e finalmente (a volte) di ficcare meglio il naso nei bicchieri (e mano al portafogli) e meno tra le pagine strappate qua e là sulle riviste patinate francesi. Sì è proprio così, di questi vini spesso si è più parlato per sentito dire che per esperienza vissuta, raccontati anche quando forse nemmeno mai bevuti.


Il millesimo è stato il risultato comunque ottimo di un andamento stagionale davvero tribolato, come pochi negli anni novanta così sofferti, con una estate abbastanza siccitosa sino a metà luglio e giornate piovose ed umide sino a poco prima dell’epoca vendemmiale di fine settembre.

Di fronte a me un nettare limpido di colore rubino con piccole nuances aranciate, ancora pieno nella sua consistenza. Il naso è un effluvio di sentori e profumi che vanno da piacevoli sensazioni vegetali (mai così palese la nota di peperone rosso) ad espressioni candite, da dolci note caramellate a fini percezioni speziate, un corpo deciso, morbido sino alla persuasione ed avvinghiato ad una freschezza ancora vivida, equilibrata, costante, insomma un gran vino didattico per definizione, in materia di taglio bordolese e delle Graves in particolare.

Per me, semmai ve ne fosse stato ancora bisogno, una indispensabile guida liquida per capire quanto i vini francesi sono davvero grandi e quanto siano sinteticamente disarmanti nelle loro raffigurazioni olfattive e gustative. Servito in ampi calici, preventivamente decantato, abbinato al Piccione in salsa di noci nere e purè di prezzemolo e carote di Oliver Glowig.

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