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Segnalazioni| Costa d’Amalfi Tramonti bianco 2019 Giuseppe Apicella

7 agosto 2020

Raccontiamo di una fresca interpretazione di Falanghina e Biancolella, il Tramonti bianco di Prisco Apicella, giovane e lanciatissimo enologo che dopo aver studiato a Torino è rientrato nell’azienda di famiglia fondata dal padre Giuseppe alla fine degli anni ’70.

L’estate ti porta inevitabilmente ad ”alleggerire” la portata delle bevute, così se in tavola arrivano generalmente meno piatti, se non portate uniche, o comunque più semplici, ecco che nel bicchiere si preferisce versare vini profumati e leggeri, anche con una discreta personalità e carattere, come questo Tramonti bianco duemiladiciannove ma che sappiano accompagnare il cibo senza affaticare il palato, senza appesantirne il pasto.

I primi passi dell’azienda risalgono a metà degli anni ’70 ma la svolta arriva nel 2000 quando Giuseppe Apicella comincia ad imbottigliare il vino (rosso) prodotto in zona che prima di allora veniva perlopiù venduto sfuso ai mediatori che ne facevano in larga parte Gragnano, tra i più diffusi e apprezzati vini campani non solo qui in Costiera e nel napoletano ma soprattutto dai numerosi ”compaesani” emigrati in giro per il mondo per le loro Pizzerie.

Poi c’è Tramonti, incastonato tra la montagna e il mare, immerso nei boschi, circondato dalla natura selvaggia a cui sottrarre pezzettini di terra per piantarvi Tintore, Sciascinoso e Piedirosso, se non Falanghina (qui detta Biancazita, ndr), Biancolella (sin. Biancatenera, ndr) Pepella e Ripoli. Chi c’è stato¤ non ha potuto far altro che constatare che luogo meraviglioso è questo per la vigna, quali emozioni straordinarie si provano nel camminare questi luoghi, queste terre, le vigne ultracentenarie immerse tra le montagne che sovrastano, imponenti, la Costiera Amalfitana.

Gli Apicella sono certamente in buona compagnia, qui ci sono ad esempio anche Gigino Reale e Alfonso Arpino¤, di cui trovate piena testimonianza dando uno sguardo alle storiche verticali del Borgo di Gete Qui e del Monte di Grazia rosso Qui, due tracce indelebili continuamente appetite dai “pasionari” del Tintore, ma c’è anche Tenuta San Francesco, quelli del Per Evaleggi Qui -, altra splendida realtà che produce uno dei vini bianchi più buoni prodotti qui a Tramonti.

Questo pezzo di Costa d’Amalfi rappresenta un territorio e una denominazione che vanno fermamente salvaguardati, oggi più che mai, per preservarne, con il successo commerciale, l’enorme valore culturale, sociale, identitario che qui rimane unico e irripetibile, grazie anche a vini bianchi come questi capaci di condensare in una manciata di sorsi tante suggestioni da godere con vero piacere, dei preziosi messaggi in bottiglia nel vero senso del termine.

Leggi anche Tramonti, Monte di Grazia rosso 2009 (e 2007) Qui.

Leggi anche Tramonti, il Tintore di Gigino Reale Qui.

Leggi anche Tramonti, Costa d’Amalfi Per Eva 2009 Qui.

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Cetara, il profumo del mare, le alici, la Colatura di Nettuno e Al Convento con Pasquale Torrente

30 luglio 2020

Cetara è sempre stato un piccolo paese di pescatori, non a caso tra le origini del suo nome vi è certamente il termine latino ”Cetaria”, ovvero tonnara, per gli abitanti ”Cetari”, venditori di pesci grossi. Anni di ricerche hanno ipotizzato anche che il suo nome derivi dal termine ”Caeditaria”, cioè “pertinenza della Caedita”, luogo disboscato. Ancora, lo si avvicina al termine ”Citrus”, ossia limone, da diversi secoli coltura importantissima qui come altrove in tutta la Costiera Amalfitana.

Cetara però è conosciuta nel mondo per le sue alici, vieppiù per la Colatura, come quella prodotta qui in questo piccolo laboratorio di C.so Umberto I. Nettuno è stata fondata nel 1950 da Raffaele Giordano, l’attività principale a quel tempo era la trasformazione dei prodotti ittici e ortofrutticoli, questi ultimi abbandonati agli inizi del 2000 per dedicarsi completamente ai prodotti offerti dal mare di Cetara, lavorati fin dagli anni ’50.

A metà degli anni ’90 infatti c’è stata una forte riscoperta dell’antico condimento principe delle tavole di Cetara, la Colatura di alici, che con il passare degli anni torna alla notorietà persino nazionale. Così buona parte degli sforzi dei Giordano si concentrano su questo prodotto, senza mettere in secondo piano, però, tutti gli altri prodotti ittici che ne caratterizzano la filiera interamente lavorata a mano e con materie prime esclusivamente del posto.

La Colatura, dicevamo. Un condimento dalle origini orientali che prende il nome dal misterioso pesce “Garos” (forse si trattava proprio delle comunissime alici), da qui, probabilmente, si è arrivata a quella che gli antichi greci chiamavano “Garon”, che i romani ribattezzarono “Garum”. Invero da qui alla “Colatura di alici di Cetara” come la intendiamo oggi c’è tanta strada fatta, sino a quando, intorno alla seconda metà del XIII secolo, furono i monaci Cistercensi della canonica di San Pietro a Tuczolo, colle nei pressi di Amalfi, ne cominciarono a fare un prodotto da commerciare¤.

I monaci si muovevano abitualmente in costiera con le loro barche che utilizzavano per il trasporto del frumento e che nei mesi estivi adattavano per la pesca del pesce azzurro, in particolare delle alici. Le abbondanti quantità del pescato andavano in qualche maniera stipate e conservate nel tempo, riponevano perciò le alici in botti private della testa e delle interiora, alternate a strati di sale. Sulla copertura della botte riponevano un pesante masso che permetteva al liquido in eccesso di depositarsi sul fondo del barile e attraverso le doghe scollate di versarsi sul pavimento. Il profumo e la limpidezza di questo liquido che colava sul pavimento indussero i monaci a raccoglierlo in recipienti e a portarlo all’attenzione del fratello che si occupava della cucina, il quale immediatamente ne provò l’utilizzo come condimento per le verdure, aggiungendovi all’occorrenza spezie, aromi e olio.

Questo nuovo condimento cominciò a circolare nei dintorni della Costiera, come dono ai conventi e a molti cittadini della zona, vi fu chi tentò di replicare la preparazione per conto proprio in casa sino a quando qualcuno ebbe l’intuizione di usare il cappuccio comunemente adoperato per stillare il mosto d’uva, per filtrare anche i liquidi e le alici spappolate residuati nei fondi dei vasi di terracotta, dando così il via alla nascita della Colatura di alici, più o meno come quella prodotta attualmente.

Il processo si può dire sia rimasto invariato, assolutamente ancestrale: le alici fresche appena pescate vengono “scapezzate” cioè decapitate ed eviscerate e sistemate in un contenitore di legno detto “terzigno” (un terzo di una botte) a strati alterni con il sale. Sull’ultimo strato viene appoggiato un coperchio di legno detto “tompagno” sul quale viene posata una pietra massiccia, in genere di origine marina. L’odore acre, fortissimo, che si sprigiona dalle camere di maturazione sono un segno distintivo di una cultura radicata straordinaria, che ha segnato la storia di questa comunità e che promette di rimanerti dentro anziché addosso! 

Pasquale Torrente, l'uomo che sussurra alle alici - foto A. Di Costanzo

Si lasciano così maturare le alici per almeno 12-18 mesi, si può arrivare anche ben oltre, in qualche caso. Giunte a maturazione, il liquido affiora in superficie grazie alla pressione esercitata dalla pietra. Con un attrezzo appuntito detto “vriale” viene praticato un foro sotto il ”terzigno” dal quale comincia ad uscire, goccia dopo goccia, il nettare ambrato. Attraversando lentamente i vari strati, il liquido raccoglie il meglio delle caratteristiche organolettiche delle alici e fuoriesce, già filtrato dagli stessi strati di alici e sale, dal foro praticato. La colatura viene raccolta in un recipiente di vetro e quindi imbottigliata, generalmente in piccole ampolle di 100 e 200 ml, sino al litro.

Un un prodotto così prezioso, unico e straordinario non poteva che beneficiarsi di grandi ambasciatori che hanno fatto sì che la Colatura di alici di Cetara arrivasse ovunque in Italia e nel mondo grazie al suo corretto utilizzo in cucina. Tra questi, vi è senza dubbio lui, Pasquale Torrente, ”l’uomo che sussurra alle alici”, così definito per la sua completa devozione per la riscoperta e valorizzazione di quest’antica tradizione cetarese e questo prodotto così particolare, avviato finalmente al riconoscimento della Dop.

La famiglia di Pasquale occupa questo luogo, Al Convento a Cetara, sin dagli anni 60, quando i nonni Gilda e Gaetano lo hanno prima allestito come sala da gioco, per poi  farne un bar, gelateria e poi una Trattoria e Pizzeria, sin da subito apprezzatissima. Un percorso che ha seguito e segnato la storia famigliare fino a quando proprio Pasquale ne ha fatto un avamposto di cucina tradizionale e rampa di lancio per la Colatura, con i suoi piatti e i progetti che l’hanno portato, con la fortunata collaborazione di Eataly, a girare luoghi e paesi e raccontare di Cetara, del profumo del suo mare, le alici, la colatura e la sua idea di cucina in tutto il mondo, mantenendo però l’ombelico qui, a Piazza S. Francesco a Cetara, oggi con al fianco il figlio Gaetano.

Al Convento ci si viene per nutrire soprattutto l’anima, questo basti per raccontare l’atmosfera d’altri tempi che ne caratterizza l’accoglienza gioiosa di Pasquale e della sua famiglia, la buona cucina di mare che scorre in tavola, vivace, piatto dopo piatto. Le alici anzitutto, quelle locali, al massimo del Golfo di Salerno: marinate, sott’olio, impanate e fritte, imbottite, poi lo spaghetto alla Colatura, gli Ziti alla Genovese di Tonno, infine il pescato del giorno, tra Gallinelle, Triglie, Merluzzi serviti all’acqua pazza, fritti o lessati, al vassoio, con le verdure di stagione ripassate o alla griglia. Sono questi i sussurri che conducono alla piena felicità!

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Informazioni ed indirizzi utili:

Ditta Giordano Vincenzo, marca Nettuno

Corso Umberto I, 64 84010 Cetara (SA)

http://www.nettunocetara.it

Tel. +39 089 261147

Ristorante Al Convento

Piazza S. Francesco, 16, 84010 Cetara (SA)

http://www.alconvento.netinfo@alconvento.net

Tel. +39 089 261039

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Autoctono e originale, il Costa d’Amalfi Furore bianco 2018 di Marisa Cuomo

8 Maggio 2020

E’ un comprensorio vitivinicolo tanto particolare quello della Costa d’Amalfi, millemila terrazzamenti dove è molto complicato e disagevole spostarsi, figuriamoci lavorarci; talvolta anche dentro una stessa vigna, può capitare di passare da un’altitudine all’altra con salti finanche di 100 metri, dentro contesti micro-climatici davvero molto caratteristici.

Non a caso si parla di Vini Estremi¤. Poi ci sono i varietali, taluni assolutamente unici, altri rinvigoriti proprio da questo terroir così straordinario, basti pensare ad esempio ai bianchi Fenile, Ginestra e Pepella.

Il primo, allevato generalmente a pergola, è un vitigno abbastanza neutro che dona però struttura ai vini e che riesce a raggiungere, con un breve affinamento, vette di rara eleganza, pur avendo necessità di cure maniacali in vigna a causa della sua particolare sensibilità alle muffe. La Ginestra, spesso confusa ed associata alla più conosciuta Falanghina per la sua abbondanza colturale, è invece da considerare più vicina alla varietà Biancolella, molto diffusa anche da queste parti in Costa d’Amalfi, dove sembra acquisire una particolare integrità olfattiva dal profumo, appunto, di fiori di ginestra, contribuisce a dare vini freschi e agili nella beva. La Pepella, infine, rappresenta la memoria storica di questo territorio: sono poche vigne, si contano poco più di tre ettari in tutto, generalmente vecchi ceppi con una resa bassissima in uva anche per via della naturale propensione all’acinellatura dei grappoli; ne viene fuori però un nettare rarissimo ma di estrema funzionalità nell’assemblaggio finale dei vini, a cui dona particolare complessità.

Poi ci sono i rossi, c’è anzitutto il Piedirosso o Per’ e palummo, così chiamato dal rosso dei pedicelli degli acini che richiama il colore vivo delle zampette dei colombi. Sappiamo bene come va col vitigno (leggi qui), eppure certi vini qui in Costa d’Amalfi prendono caratteri davvero incredibili. Vale la pena poi ricordare lo Sciascinoso, o il Tintore di cui spesso abbiamo già raccontato su queste pagine (ad esempio qui) e del Tronto, altra varietà locale spesso però sovrapposta al più tradizionale Aglianico.

Sono tutti vini parecchio evocativi quelli di Marisa Cuomo e Andrea Ferraioli, vini che si fanno apprezzare ancora di più proprio per il forte magnetismo di questi territori straordinari, con queste vigne patrimonio inestimabile, in certi luoghi letteralmente arrampicate sulle rocce a picco sul mare di Furore e Ravello. Non mancano certo appassionati al Fiorduva, il loro bianco di punta pluripremiato ad ogni uscita, ma nemmeno chi, talvolta, in certe annate in particolare, gli preferisce il Furore bianco ”base” da Falanghina e Biancolella. E’ un duemiladiciotto riuscitissimo questo, dal grazioso colore paglia e un naso delicato e verticale, profuma di ginestra e biancospino, di agrumi e macchia mediterranea mentre il sorso è piacevole ed equilibrato, stuzzicante e persistente, non senza acuti di freschezza sul finale di bocca ben sapido.  

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Il rifiuto del legno, la lezione che non abbiamo ancora imparato

8 aprile 2019

Senza voler riaprire una disquisizione tecnica sul mezzo¤, ne ritornare sull’opportunità o meno del suo utilizzo, ci sembra però che in molti, anche tra i degustatori più attenti, in buona fede s’intende, continuano a preferire di schierarsi a favore o contrari a prescindere, senza considerare un elemento sempre troppo poco discusso quando si parla dell’utilizzo del legno: l’inesperienza.

Con buona pace di molti è bene ricordare che chi si è lanciato nel fare vino quindici/vent’anni fa qui in Campania non sapeva affatto bene da dove cominciare, dove mettere le mani: “talvolta ahimè non conosce nemmeno dove sta il pulsantino per accendere la luce in cantina”, ci confidò una volta un caro amico enologo consulente. Solo quando il ‘dopolavoro’ si era fatto necessariamente primaria attività, la faccenda cominciava ad assumere via via connotazioni un po’ più verosimili, con maggiori buoni auspici all’orizzonte ed un impegno, sul lungo termine, quasi a tempo pieno. E’ forse un’amara constatazione, ma val bene tenerne conto perché in molti casi così è stato.

Va da se che una tale complessa esperienza è molto difficile trovarla in un panorama produttivo come quello campano che, da un certo punto di vista, fatte le dovute eccezioni, rimane estremamente giovane. Una mancanza talvolta compensata solo in parte con consulenze di valore ma che pure hanno avuto per un certo tempo il grande limite di proporre spesso protocolli standard per tutte le salse, incapaci di tenere conto talvolta di realtà in alcuni casi difformi tra loro in uno stesso comprensorio vitivinicolo, se non nell’azienda stessa.

Ecco perché lo spauracchio del burro e marmellata degli anni novanta e duemila non può, non deve essere dimenticato, men che meno ripercorso. Ci permettiamo però di aggiungere che non va nemmeno demonizzato chi ne ha saputo trarre la giusta esperienza ed oggi sa bene il fatto suo. L’utilizzo dei legni in cantina necessita di una certa abilità, conoscenze specifiche, studio, sperimentazioni, verifiche, attenzioni almeno decennali. Da questa parte quindi non si può essere tutti a favore e poi tutti contro, per partito preso. Troppo facile, fuorviante, inconcludente nell’uno e nell’altro caso.

Terre del Volturno Casavecchia Centomoggia 2015 Terre del Principe - foto A. Di Costanzo

Gli assaggi degli ultimi mesi ci vengono in soccorso consegnandoci due grandi esempi, il primo è il Furore bianco Fiorduva di Marisa Cuomo, uno tra i più apprezzati bianchi campani a livello internazionale, capace ogni anno di spostare in alto l’asticella pur mantenendo una certa integrità espressiva dove i tre varietali Fenile, Ripoli e Ginestra, l’ambiente pedoclimatico, l’uso misurato del legno contribuiscono alla produzione di un bianco profodamente coinvolgente. Il duemiladiciassette è un vino dal colore giallo paglierino intenso e luminoso, che profuma di fiori di ginestra ed erbe mediterranee, con un intenso rimando ad albicocca matura e frutta esotica. Il sorso è ben definito, pieno e caratterizzato da persistente sapidità.

Il secondo è il Casavecchia Centomoggia di Terre del Principe, Peppe Mancini e Manuela Piancastelli con il duemilaquindici ne hanno tirato fuori forse uno tra i migliori di sempre, capace di lasciare a bocca aperta tanto fragoroso è il frutto esaltato in maniera ineccepibile (anche) dal legno, dalla misura del suo impiego, capace di esaltare e affinare una grande materia viva. Ha un colore rubino-porpora e al naso è intenso, avvolgente, profuma anzitutto di more e mirtilli cui s’aggiungo per distacco spezie e balsami. Il sorso è pronunciato, fitto e saporito, tredici gradi di assoluto piacere per le papille gustative.

Semmai ve ne fosse ancora bisogno, lo ribadiamo ancora una volta: non è la barrique il problema, ma chi e come la usa.

Leggi anche Ravello Rosso Riserva 2007 di Marisa Cuomo Qui.

Leggi anche Centomoggia, il Casavecchia di Terre del principe Qui.

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Gran Furor Divina Costiera!

2 Maggio 2013

Il successo del succoso Fiorduva di Andrea e Marisa ha pochi eguali in Campania, tra l’altro ormai universalmente riconosciuto tra i grandi bianchi italiani ogni anno sempre più applaudito.

Costa d'Amalfi Furore bianco 2012 Marisa Cuomo - foto A. Di Costanzo

Un riconoscimento che si fa ancor più grande se si pensa a quei luoghi, a quelle vigne strappate letteralmente alla montagna che ricadono a strapiombo sul mare, visione questa di una suggestione unica e rara che ha pochi equivalenti. Sono gli stessi luoghi dove nasce pure quest’altro piccolo capolavoro di falanghina e biancolella che, opinione del tutto personale, sempre più spesso mi viene addirittura naturale mettere davanti al Fiorduva stesso.

Possiede una straordinaria franchezza espressiva il Furore bianco 2012, lo cogli sin dal primo approccio, appena ci metti il naso nel bicchiere, non appena ti bagni le labbra. Passeremmo ore a discutere davanti ad una vecchia bottiglia di fiano di Avellino di Vadiaperti o di Lacryma Christi bianco di Villa Dora, magari dello stesso Fiorduva se ne trovassimo qualcuna in giro ben conservata.

Sono bianchi questi ultimi capaci di sovvertire luoghi comuni e convinzioni vetuste: profondità, larghezza, spessore sarebbero le parole più gettonate, ne sono convinto, come infinite ritornerebbero le disquisizioni emozionali dinanzi a bottiglie sorprendenti finalmente proiettate nel tempo con la stessa apertura di credito riconosciuta sino a pochi anni fa solo a certune d’oltralpe (Borgogna, Alsazia ecc…).

Talvolta, certe volte, c’è però bisogno di altro: di un sospiro, un piacere, una voluttà immediatamente leggibile, non necessariamente ancestrale, bensì immediata, da stappare al volo e da godere adesso, subito. E’ pure di questo che si ha bisogno, no? Cogliere l’attimo, quel glicine appena in fiore, la mela appena matura, un respiro a ‘pieni polmoni’ affacciati su una terrazza qualsiasi di Furore, ‘il paese dipinto’; la macchia mediterranea, il sale appena accennato, il sole là appena al tramonto. Una goccia in mezzo al mare sì, ma sempre più unica!

Maiori, Costa d’Amalfi bianco Puntacroce 2011

25 febbraio 2013

La mia Campania si conferma una terra straordinaria per il vino, con sorprese che sembrano dietro ogni angolo di posto, ancor più golose ed imperdibili quando lanciate a conquistarsi spazio e memoria nel tempo.

Costa d'Amalfi bianco Punta Croce 2011 Raffaele Palma - foto A. Di Costanzo

Una piacevole sorpresa sembra arrivare da quel cilindro magico di paradiso dei bianchi che è divenuta in così pochi anni la Costa d’Amalfi; Puntacroce pare iscrivere¤ il suo nome a chiare lettere tra quei vini nuovi da non perdere assolutamente di vista nei prossimi anni. Vien fuori da un assemblaggio di falanghina con biancolella, ginestra ed altre varietà locali fenileripolo e pepella, che qualcuno forse già ricorderà grazie ai successi dei ben più noti vini di Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo¤ da Furore se non per quelle piccole gemme di Alfonso Arpino¤ e Gaetano Bove¤ da Tramonti.

Azienda Biologica Raffaele Palma, le vigne sul mare

Tra l’altro, il progetto di Raffaele Palma qui a due passi da Maiori, vicino Capo d’orso, sembra essere di quelli solidi e di grande prospettiva vista la serietà degli intenti e l’enorme sforzo economico sostenuto per rifare, praticamente daccapo e in perfetta armonia col paesaggio rurale circostante, tutti quei bellissimi terrazzamenti a secco che stringono, ferrei, a strapiombo sul mare, le splendide vigne e i rigogliosi limoneti condotti secondo agricoltura biologica.

Tant’è che nel bicchiere sorprende e come questo Puntacroce 2011, soprattutto per l’imponente verticalità che lenta si fa poi dolce e mansueta. Bianco davvero particolare, colorito e vivace, disincantato e invitante: al naso richiama immediatamente sentori agrumati di mandarino ed albicocca confettati, ma anche note più alte e fitte come balsami, resine e tarassaco. Il sorso è asciutto e ben indirizzato, stuzzicante, minerale e giustamente sapido con, in ultimo, un piacevolissimo ritorno mandorlato sul finire di bocca. Da bersi potenzialmente a secchiate.

Furore, Ravello rosso Riserva ’07 Marisa Cuomo

17 aprile 2012

Leggi Marisa Cuomo e pensi subito all’ennesima recensione del suo Fiorduva. Ed invece no. Tra l’altro, almeno per quanto mi riguarda, sono almeno quattro/cinque anni che gli preferisco – di gran lunga – il Furore “base”: si mostra, anche quando con un paio d’anni alle spalle, decisamente più fresco, dinamico, imprevedibile, in particolar modo al palato.


E’ bene però fare un paio di precisazioni. Oggi l’azienda è senza dubbio tra le più conosciute e riconosciute della regione, ormai le bottiglie di Marisa e Andrea Ferraioli svettano meritatamente nell’olimpo dell’enologia italiana. E gran merito è senz’altro del loro Furore bianco Fiorduva che ha contribuito senza dubbio alcuno a spostare definitivamente l’attenzione ai vini bianchi italiani quaggiù alle nostre latitudini: altro che Collio e chardonnay langaroli. A questo va aggiunto poi il contesto che ne alimenta il mito: appare quasi incredibile che su queste rocce si facciano vini di tale suggestione, si è cioè talmente pazzi da coltivare vigna strappandola letteralmente alla montagna e ai dirupi e gli strapiombi sul mare della Costiera. Sì perché le vigne da queste parti vivono praticamente sdraiate sulle rocce a picco sul mare. Bene quindi l’azienda, ma decisamente straordinario il territorio!

Il circondario se vogliamo è anche abbastanza circoscritto, rimane però molto complicato e disagevole spostarsi anche da una sola vigna all’altra proprio per le particolari condizioni ambientali in cui si fa viticoltura. Ecco perché si parla di Vini Estremi. Poi ci sono i varietali, taluni assolutamente unici, altri praticamente rinvigoriti proprio da questo terroir così straordinario. Pensate ad esempio ai bianchi fenile, ginestra e pepella; il primo è un vitigno che dona vini di rara eleganza, ma necessità di cure maniacali a causa della sua particolare sensibilità alle muffe. La ginestra, spesso confusa ed associata alla più conosciuta falanghina per la sua abbondanza colturale trova qui, in Costa d’Amalfi, una particolare integrità olfattiva che sa, appunto, di ginestra. La pepella invece rappresenta la memoria storica del territorio: poche vigne, piuttosto vecchie ma di estrema funzionalità all’assemblaggio finale dei vini.

Poi ci sono i rossi, c’è anzitutto il piedirosso o per’ e palummo, così chiamato dal rosso dei pedicelli degli acini che richiama il colore vivo delle zampette dei colombi. Sappiamo bene come va col vitigno (leggi qui), eppure certi vini qui in costiera montano caratteristiche davvero incredibili. Vale la pena poi ricordare lo sciascinoso, o il tintore di cui spesso ho già raccontato su queste pagine (ad esempio qui) e del tronto, altra varietà locale spesso però sovrapposta al più tradizionale aglianico.

Ma veniamo a questo bel rosso, insolito da trovare sulle carte ma senza dubbio fortunato e raccomandato con gran piacere. L’idea è quella di valorizzare l’intero territorio delle sottozone della Costa d’Amalfi, così dalle uve raccolte nei comuni di Ravello e Scala, dai migliori grappoli e quando l’annata lo consente, nasce questa questa Riserva. Da un punto di vista strettamente colturale cambia ben poco, le uve rimangono il piedirosso e l’aglianico per il 70% e 30%, la differenza sostanziale con il Furore rosso Riserva sta nell’affinamento, laddove per questo Ravello rosso Riserva infatti vengono, per scelta, utilizzate solo barrique nuove di media tostatura. Pur pagandone sull’immediato una qualche insistenza boisé di troppo, debbo dire che alla lunga – l’ho riassaggio oggi dopo un anno e mezzo dalla sua commercializzazione, ndr – viene fuori un varietale abbastanza ben definito e di gran piacere degustativo.

Il colore conserva una splendida veste rubino-granata con ancora qualche sfumatura porpora. Il naso è intenso, piuttosto ampio ed intriso di note floreali e confettura di prugna e piccoli frutti neri; l’accompagnano poi note di caffé appena macinato e brevi sussulti un po’ salmastri e un po’ terragni. In bocca è asciutto, forse brevilineo ma decisamente appagante. Non punta certo a scolpire il palato, è evidente, ma la beva, al secondo e poi al terzo passaggio regala ogni volta un sorso invitante e ben risoluto, di finissima fattura e lauta piacevolezza gustativa. Io lo riberrei, anche subito.

Tramonti, Monte di Grazia rosso 2009 (e 2007)

7 febbraio 2012

Un breve refrain mi riporta agli appunti di più o meno un paio d’anni fa. Avevamo fatto un salto a Tramonti per avere contezza di quanto di buono si stesse facendo da quelle parti.

Di Monte di Grazia ne scrissi qui, e a più riprese pure in altre occasioni. Per quanto riguarda questo rosso, sul quale torno molto volentieri, ci eravamo lasciati con l’assaggio di un campione preso direttamente dalla vasca, suggestivo ma pur sempre prematuro; ci ritroviamo così intorno a un tavolo, riprovandolo, ancora en primeur, dopo un po’ di tempo in bottiglia. Alfonso Arpino, con Gerardo Vernazzaro che lo segue in questa avventura, stanno ancora pensandoci su per quando metterlo finalmente in circolo, ma frattanto che ci rimuginano, io ne approfitto per registrare ancora uno scatto in avanti di questo bel vino.

La franchezza è quella solita, il tintore si conferma vino di grande spessore e di estrema complessità, trasversale verrebbe da dire: il naso è un crocevia di piacevoli note olfattive, conserva ancora una certa vinosità ma soprattutto l’insistenza di sentori di piccoli frutti neri polposi, aromi di liquirizia, sensazioni appena accennate di sottobosco. Il sorso ne ha guadagnato parecchio, ricomponendosi in maniera efficace e sostenibile. La veemenza acido tannica va lentamente risolvendosi a favore di una tessitura nerboruta, fitta e di sostanza, imperniata però su una materia di primissimo pelo e molto succosa. Comincia ora a farsi bere.

E in attesa di un duemilaundici da leccarsi i baffi, ritorno invece volentieri anche sul 2007, annotando quanto in questo preciso momento mostri un profilo organolettico compiuto e affascinante. Conserva nerbo e fittezza ma il tempo gli ha dato modo di smussare per bene ogni spigolatura. La sontuosità del frutto rimane in primo piano e questi tanti mesi trascorsi dall’ultimo assaggio non fanno altro che confermare quanto ci abbiano visto lungo coloro i quali fanno di questa etichetta il “loro” tintore di Tramonti preferito: espressione talvolta molto schietta, a tratti sfuggente, austera, ma senza dubbio delle più autentiche in circolazione. Sarebbe ora di berlo, a trovarne ancora.

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Tramonti, Costa d’Amalfi bianco Per Eva 2009

26 agosto 2011

Ne abbiamo già raccontato qui¤; Tramonti è un luogo unico al mondo, suggestivo come pochi, da godere con occhi ben aperti e respirando a forza per portarsi via quanta più aria possibile. E’ vero, ti riempie il cuore!

Chi c’è stato¤ non ha potuto far altro che constatare che quanto dicevamo rappresentava solo in minima parte l’emozione, fortissima, che si prova nel camminare le vigne ultracentenarie immerse tra le montagne che sovrastano, imponenti, la costiera Amalfitana; quanto a noi, quello che abbiamo raccontato di Gigino Reale e Alfonso Arpino¤ per esempio, è già una testimonianza che ha fatto storia su questo blog: le verticali del Borgo di Gete¤ e del Monte di Grazia rosso¤ permangono due tracce indelebili continuamente appetite dai “pasionari” del tintore, mentre la recensione del primo Per Eva 2008¤ passatomi tra le mani, una delle più lette e assiduamente ricercate.

Luciano Pignataro¤, in questo¤ suo interessante post, parla addirittura di “miracolo del vino a Tramonti”; il fatto è che siamo indiscutibilemente di fronte ad un vero e proprio fenomeno enologico, tra i pochi così eclatanti registrati in regione nell’ultimo ventennio; e qui bisogna guardare, con sempre maggiore attenzione per godere del pieno successo del vino made in Campania senza scannarsi con l’annosa, dilaniante questione dei numeri. Certo, il territorio, la denominazione, vanno fermamente salvaguardati, oggi più che mai, per preservarne, unitamente al successo commerciale, l’enorme valore culturale, sociale, identitario, economico, che, come detto, qui rimane più unico che irripetibile.

Ciò che fa dei bianchi di qui veri “pezzi d’artiglieria” per la tavola sono anzitutto le vigne, alcune delle quali piuttosto vecchie e quindi caratterizzate da bassa produttività; starseti centenari allignati per lo più su terreni calcarei, di origine anzitutto vulcanica; poi vi è l’ambiente pedoclimatico che le circonda, particolarmente caratterizzante. In primis le forti escursioni termiche dovute all’altitudine, che in alcuni punti raggiunge i 500 metri sul livello del mare, e il triventum, i tre venti che rinfrescano costantemente tutto l’areale di Tramonti.

Se ne giovano in particolar modo anche le vigne di Gaetano Bove, non a caso i suoi vini bianchi risultano tra i più interessanti del circondario, giocati di sovente, come questo Per Eva, sull’uvaggio di falanghina, il vitigno bianco a maggiore diffusione in regione, ginestra e pepella (vedi foto), autoctoni a diffusione perlopiù locale; combinazioni tra l’altro interpretate in maniera impeccabile da Carmine Valentino. 

Il Costa d’Amalfi bianco Per Eva 2009 splende di un colore giallo paglierino netto con accennati riflessi dorati, vivo e cristallino. Il naso non è così ampio come il precedente duemilaotto, ma è solo questione di tempo; l’annata ha consegnato vini lievemente più austeri ed ermetici, ma di cui non si può non avere ottime aspettative; qui si colgono anzitutto note erbacee, seguite da sentori di frutta a polpa gialla come la pesca nonché continui ritorni agrumati, lievi ma decisivi. In bocca è fulgido, asciutto, fresco, balsamico, ci ritorni volentieri su a berne un secondo, poi un terzo bicchiere, ancor più saporito, minerale. Una bottiglia compagna ideale di certe sere di fine estate, affacciati al balcone a pensare, a contare le stelle e aspettare qualcuno che “…Angelo, è ora di andare”. E l’indomani partire. Ancora una volta.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Tramonti, Monte di Grazia Rosato 2009

11 marzo 2010

Diciamoci la verità, non abbiamo scelto la giornata perfetta per venire a scoprire Tramonti! La suggestione però era tanta, la voglia di venire a camminare queste vigne ultracentenarie incommensurabile; Le continue telefonate con Gerardo Vernazzaro per tastare il polso della situazione potevano far tranquillamente presagire un appuntamento mancato, ed invece no, ne è venuta fuori una giornata memorabile, e non solo per le “quintalate” di vento, freddo e pioggia che ci siamo beccati, ma per lo scenario fantastico in cui ci siamo immersi, per le persone che abbiamo incrociato, per i luoghi che abbiamo camminato e non di meno per i vini, alcuni superlativi, che abbiamo assaggiato.

Monte di Grazia è il piccolo eremo di Alfonso Arpino, medico condotto di Tramonti che ha trovato in questo piccolo casale la chiave di volta della sua vita futura, la profusione dell’amore per la sua terra ripagata dai frutti che essa genera e gli offre di anno in anno, con le stesse viti centenarie che ha avuto il coraggio di preservare invece che estirpare, come i primi enotecnici a cui chiese consulenza nel 2000, gli consigliarono. E’ persona dotta, nei suoi occhi la semplicità disarmante di chi sa ascoltare, nelle sue parole il linguaggio breve di chi ha conoscenza e la sa confrontare, Alfonso Arpino sa aspettare. E’ stato così che ha incontrato Gerardo Vernazzaro e l’ha convinto a seguirlo a Tramonti. Gerardo, per chi lo conosce, non ha freni, è un giovane metropolitano, dinamico, è tecnico preparato e curioso, quando non è assorbito totalmente dal lavoro tra vigne e vasche in Cantina Astroni – suo il grande merito per la crescita qualitativa dei vini negli ultimi anni, assolutamente indiscutibile, anche dai soloni dal curriculum lungo dalla testa ai piedi – è in viaggio tra le pergole in Trentino o immerso nei filari a Guyot del Collio (“i migliori bianchi d’Italia si fanno qui, ed io aggia capì”, mi ripete continuamente).

Così un giorno Alfonso si presenta da lui in cantina, gli porta un paio di bottiglie di tintore e gli chiede un giudizio. Dopo qualche settimana si risentono, l’enologo è rimasto incuriosito dai vini bevuti ma ammette di non essere preparato sul varietale per potergli indicare la retta via; Il dottore non fa una grinza, lo ringrazia, ma lo invita, prima di rinunciare del tutto, ad andarlo a trovare a Tramonti, a camminare con lui la vigna di Madonna del Carmine: “Non esistono parole per descrivere quel momento, è come se avessero offerto ad un bambino la possibilità di giocare all’infinito con il suo giocattolo preferito, mi lacrimavano gli occhi dalla gioia di ciò che vedevo”. Così pare quadrare il cerchio, la musicalità melodica, soave, solo a tratti ondeggiante, del progetto del dottore Arpino si arricchisce di quel carattere necessario, di quel jingle fondamentale per raggiungere una orecchiabilità maggiore, che tradotto in vino è vivacità espressiva, in costante crescita, che soprattutto nel Monte di Grazia rosso (di cui racconterò a breve) è quasi danzante negli ultimi millesimi, 2008 e 2009 in particolare.

Il Rosato 2009 invece è l’arma dolcemente letale per rimanere poi rapiti dalla profonda mineralità del bianco e dalla croccantezza del rosso di cui sopra. Nasce da uve tintore e solo in piccola parte con aggiunta di piedirosso e o’muscio; Quest’ultima è una varietà tipica locale a bacca rossa, di profilo molto tenue, dalla buccia praticamente inconsistente e capace di gradazioni alcoliche molto limitate, viene utilizzata, storicamente, soprattutto per stemperare la veemenza acido-tannica del tintore, e nel caso di questo rosato, ci riesce davvero alla grande. Il primo naso è fragrante di fiori e piccoli frutti, quando si racconta dei sentori di rosa canina e lampone si potrebbe pensare, in futuro, a questo vino per insegnarne gli archetipi. Non lascia scampo anche in questa versione molto light la sottile nota pepata caratterizzante l’uva rossa di Tramonti, viene fuori però in maniera molto elegante, a latere di un bouquet affascinantissimo, solo dopo un’attenta ossigenazione; I bocca è secco, piacevolmente caldo, i 13 gradi (e venti) sono perfettamente in equilibrio con la trama acida, palato finemente minerale, corroborante e rinfrancante, per tutta la beva, sulla fine della quale ritorna una nota di frutto estremamente gradevole e persistente.

Ecco cosa cerco quando, lo ammetto, solo di rado, ho voglia di bere un rosato, ecco però cosa consiglierei di non far mancare mai in cantina per conquistare l’avventore di turno voglioso di semplicità ma con fascino, per colpirlo magari nell’immaginario raccontandogli di una terra, un uva e persone straordinarie proponendogli un vino delizioso del quale, statene certi, non potrà che conservare un ottimo ricordo. Provate ad immaginarlo anche sul più semplice dei piatti di Alfonso Caputo della Taverna del Capitano seduti in veranda sul mare di Marina del Cantone, siamo forse troppo campanilisti?

Questo vino è il nostro vino rosato dell’anno.

Tramonti, Monte di Grazia rosso 2006

11 febbraio 2010

Ho conosciuto Alfonso Arpino un paio di anni fa, lo accompagnava la moglie Anna, eravamo tutti ospiti della famiglia Varchetta di Cantina Astroni nella loro deliziosa taverna, lì in azienda proprio ad un tiro di schioppo dal cratere dell’oasi naturale degli Astroni, a Napoli. Complici, il giornalista amico comune Luciano Pignataro, l’enologo di casa Gerardo Vernazzaro e tra gli altri, alcuni altri amici, non senza ciccio formaggio e svariate bottiglie di vino, più o meno all’altezza della situazione conviviale.

Parlammo francamente, la semplicità disarmante delle sue parole nel raccontarmi della sua azienda era pari solo alla sfrontatezza con la quale Gerardo aveva deciso di seguirlo, nonostante, così mi disse, fosse comletamente all’oscuro di conoscenze specifiche sul varietale. Il tintore di Tramonti, sino ad allora era praticamente sconosciuta ai più, e sino a pochissimo tempo prima, praticamente sconsiderata anche da enologi ed enotecnici, tanto che i vignaioli locali più acerrimi rischiavano di passare per matti a non volerla espiantare per far posto a varietà bianche o rosse più malleabili o certamente più redditizie. Per il Tintore (come per l’ aglianicone, la catalanesca bianca, sanginella bianca, castagnara, suppezza, e sabato) sono ancora in corso gli studi ampeolografici di rito da parte della regione campania per accertarne definitivamente le caratteristiche qualitative, ma la storia di questo pezzo di Costiera ci consegna tra le viti coltivate a raggiera di Monte di Grazia alcuni ceppi addirittura ultracentenari, di cui Alfonso va fiero e ne è strenuo difensore.

L’azienda nasce nel 1993, praticamente per non lasciare abbandonati a se stessi i vigneti di famiglia, Alfonso è medico condotto del paese di Tramonti, pertanto le origini sono forti ed inattaccabili, come la passione che lo lancia in questa avventura. Dal 1997  l’intera filiera è votata al biologico, una scelta resasi necessaria, per salvaguardare il patrimonio vitivinicolo e dare, semmai ce ne fosse stato bisogno, ancora più risalto al grande lavoro di valorizzazione messo in campo: solo alcuni gli accorgimenti utilizzati per la coltivazione tra i quali l’antica pratica del sovescio e l’utilizzo di letame della stalla come concime, il rame e lo zolfo a difesa della vite dalla peronospora e dall’oidio. Nel 2003 avviene l’incontro con Gerardo che si vede praticamente piombare in Cantina proprio Alfonso Arpino, con due bottiglie in mano: “questo è il vino della mia terra, dimmi cosa ne pensi, ma prima devi venire con me a Tramonti, devi vedere dove nascono”. Lui, Gerardo, prima di allora, come detto, era praticamente a digiuno di questo pezzo della Costa d’Amalfi, in maniera assoluta di tintore, eppure accetta da subito la sfida: “è una varietà incredibile, tira fuori vini incredibili, con un estratto in zuccheri sui 20-22 gr (!), quindi con un potenziale alcolico conseguente superiore almeno ai 14 gradi conservando però acidità elevatissima, nonostante l’alta percentuale di zuccheri; Era qualcosa che meritava di essere studiata, capita, valorizzata”.

Di qui il percorso intrapreso non ha avuto passi falsi, certo gli inizi non sono stati semplici, e presto ne racconterò la verticale storica, che di questo piacevolissimo rosso riesce a tracciarne, inesorabilmente, il profilo eccelso della crescita qualitativa ed interpretativa sino ad oggi espresso, non prima però di lasciare il giusto spazio a questo delizioso rosso bevuto, dal bellissimo colore vivace, limpido ed invitante. L’imprinting olfattivo è superbo, intenso e complesso come pochissimi rossi campani sanno essere così in “giovane” età, reso estremamente elegante dal tempo trascorso in bottiglia ma assolutamente in divenire:  pare un tratto distintivo varietale l’incipit di pepe nero ed erbe aromatiche, poi vengono fuori sottili e pregiati sbuffi floreali e fruttati maturi, viola, ciliegia nera, piccoli frutti di sottobosco. In bocca entra come un vinone, acidità in primo piano, tannino a confermare la regola che non c’è, a fargli da spalla, più sottile, ma c’è. Un sorso dopo il palato si tranquillizza, non troppo, ma si distende in una beva ricca e vivace, carica di frutto, di mineralità e piacevolezza da strappare baci ed abbracci. Forse un vino da portarsi dietro per tanti anni ancora, da sfoggiare magari su quelle belle salsicce al ragù di una volta, o magari sulla lasagna del martedì grasso; Oggi è un vino senza compromessi, ma con poco meno di duemila bottiglie l’anno c’è ben poco da accondiscendere: o lo ami, oppure?

Costa d’Amalfi, a Tramonti con Furore

30 novembre 2009

Vecchie vigne lungo i pendii di Tramonti, sistema a raggiera, ottimizzazione degli spazi 

In cantina nella piccola bottaia dell’azienda Agricola San Francesco a Tramonti

                         Aglianico-Tintore in piena maturazione in Costa d’Amalfi, di là solo il mare…

La Cantina di Marisa Cuomo ed Andrea ferraioli a Furore, altro cru amalfitano

Tramonti, solo Per Eva

20 novembre 2009
Un gioco di parole quasi scontato, eppure il riassaggio di questo vino conferma sempre di più una evoluzione stilistica eccezionale per questo bianco della costa d’Amalfi prodotto a Tramonti.
Un vino, anno dopo anno, di assaggio in assaggio sempre più convinvente. L’ azienda agricola San Francesco nasce nel 2004 figlia della scommessa di Gaetano Bove, “veterinario in vigna” come ama definirsi, ma anche “cuor di leone”, come lo identificano i compaesani (per la sua verve), era stanco di dover ogni anno sottostare alle problematiche relative alla vendita dell’uva agli imbottigliatori dell’areale amalfitano. Qui del resto già da qualche anno si è spostata l’attenzione dei media grazie al fragore dei successi di Marisa Cuomo e Andrea Ferraioli che con i loro vini stanno sbancando mezzo mondo, e la qualità delle viti centenarie della tenuta San Francesco non poteva essere certo da meno, così con tutti i mille sacrifici di chi inizia dal niente è partito questo progetto.
Le uve su cui si è puntato sono quelle autoctone, da sempre allignate nell’areale di Tramonti, terza sottozona della Costa d’Amalfi dopo Ravello e Furore: tra i bianchi la falanghina, ma anche la biancolella ed alcune piccole varietà locali a bacca bianca come la pepella e la ginestra e a bacca rossa come il tintore – qui chiamato per ovvie ragioni legali aglianico-tintore -, che con il piedirosso dà vita alla denominazione Tramonti rosso.

Nello specifico il Costa d’Amalfi Tramonti bianco Per Eva 2008, etichetta dedicata alla moglie di Gaetano per tutto il tempo che questi ha dovuto rubare alla famiglia per curare questa nuova avventura, sembra essere in perfetta sintonia con il suo alter ego di Furore, il Fiorduva; Selezione in vendemmia tardiva di falanghina, pepella e ginestra, dal bellissimo colore giallo paglierino con riflessi maturi, è un vino dal primo naso complesso ed elegante. Dapprima erbaceo, poi floreale, minerale, addirittura su note leggermente mentolate. Ricordiamo che qui siamo sul mare, in costiera amalfitana, ma in alta montagna, con vigne racchiuse in una conca molto suggestiva, con vigne secolari e vini che sono espressione diretta della grandezza di un terroir davvero unico nel suo genere, con la frescura del clima che soprattutto di notte concede escursioni termiche notevoli. In bocca si mostra di ottima spalla acida, ritornano le note erbacee e fruttate con un finale lungo e persitente su note minerali. Da servire ad una temperatura di circa 12 gradi in calici di media grandezza, magari su una Pezzogna al Sale di Mothya, magari seduti alla tavola della Caravella di Amalfi. L’arte ha sempre bisogno di un palcoscenico d’autore.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Marina del Cantone, la Taverna del Capitano #1

9 novembre 2009

marinadelcantone[1]

“Ci sono scrigni in Campania che aspettano solo di essere rivelati, tesori celati dal clamore del tam tam voyeristico dei molti per rimanere appannaggio dei pochi in cerca di rifarsi con la propria anima.” Un tempo era certamente più facile fare di queste parole un messaggio intimo, una istigazione alla scoperta, una esortazione ad andare laddove difficilmente si sceglie di andare. Oggi tutto appare più scontato, la globalizzazione ha varcato, anche in tal senso, la sempre più sottile linea di demarcazione tra ciò che fa la storia e ciò che ne fa parte. Così questo fine settimana, in attesa di un aggiornamento più completo della nostra recente visita alla famiglia Caputo a Nerano, godetevi un pezzo di Costiera, di quella con la “C” maiuscola, così raccontato qualche tempo fa.

In gennaio i colori dei paesaggi sono tendenzialmente pastello con sfumature quasi mai lontane dal grigio e gli umori sembrano spesso seguire questi standard quasi a rimarcare stati d’animo alla ricerca della quiete e della solitudine dopo le caotiche seppur festose giornate natalizie. I virtuosismi però a cui ci stà troppo abituando questo clima impazzito ci ha consegnato, giovedì 4 gennaio, una giornata splendida, assolata e temperata al punto di tapezzare interi paesaggi con fiori di ogni colore. Così comincia la nostra giornata verso la penisola Sorrentina, seguendo un sole alto e splendente, alla ricerca di una tranquillità e di un’aria pulita che in queste giornate qui hanno un appeal unico e raro. In questi giorni una breve sosta presso La Tradizione a Vico Equense è quasi di norma per chi voglia conoscere anticipatamente cosa il Salvatore Di Gennaro stia programmando di far capitare sulle tavole dei risotranti gourmet della penisola per la prossima stagione, oltre ai formaggi e salumi selezionatissimi è stato molto istruttivo carpire riferimenti utili su particolari produzioni di zucchero di canna provenienti dai paesi più impensabili, alcune delizione confetture e marmellate di aristocratica provenienza provenzale, miscele pregiate di caffè centramericani e thè di particolare bontà rinfrancante, oltre che cioccolati dell’artigiano piemontese Gobino ed alcune chicche come il buonissimo torrone di mandorle brustolite del CaffèSicilia di Noto.

Positano non è poi così lontano ed in programma c’è una capatina giù in spiaggia per rinfrancare lo spirito di ricordi di una estate grandiosa quanto infinita di qualche tempo fà trascorsa in questo posto magico ed unico nel suo genere tra i vicoli coloratissimi, pieni di vita e talvolta affollatissimi da personaggi ed interpreti quasi tutti uguali. In piazzetta quasi nessuno è rimasto aperto, poche le persone in giro così senza pensarci due volte tiriamo dritto verso la nostra meta di giornata, Marina del Cantone a Nerano dove ci aspetta (crediamo) una bellissima esperienza gastronomica a La Taverna del Capitano della famiglia Caputo. Il sole qui è alto ed illumina uno scenario bellissimo all’orizzonte sul mare, il nostro tavolo è in terrazza proprio a ridosso del mare, la sala è semplice, un pò retrò, ma curata, luminosa, i tavoli arricchiti di preziose miniature scolpite in legno; Veniamo accolti con garbo cordialità e con Mariella decidiamo il da farsi: scegliamo il menù degustazione (€ 75,00) per avere un saggio della cucina di Alfonso Caputo fresco di seconda stella Michelin, dalla carta dei vini, abbastanza fornita, ben costruita, di facile lettura e con ricarichi onesti scegliamo il Fiano di Avellino di Marsella ’03 segnalato a €  30,00 (rivelatosi poi strepitoso!!, ndr) che ci accompagnerà per tutto il pasto.

Dopo lo stuzzichino, il primo antipasto è una variazione sul tema calamaro, è una bella preparazione, da vedere e da mangiare, assolutamente ineccepibile la zuppa di gamberi con uovo di gallina, per equilibrio, consistenza e piacevolezza. Sapori forti e tipicamenti mediterranei negli spaghetti con alici, capperi ed olive e foglia di fico. Più interessanti invece il filetto di cernia in porchetta con i funghi porcini e il manzo impanato con salsa alla pizzaiola e friarielli (eccellente!!) anche quest’ultimo bello da vedere e da mangiare. I dessert sono stati una giusta chiusura ad un menù del genere: Chupa chups alle noci su salsa allo strega per la signora ed un (a)tipico babà al rhum agricole per me, buoni entrambi. Un grande valore aggiunto un servizio impeccabile, per tempi e modi di esecuzione e la cantina visitata assieme a Mariella, bella, ricca di prestigiose etichette ma che guarda al sud ed alla campania con un buon occhio di riguardo conservando anche annate passate di vini bianchi, spesso fuori carta ma presenti.

Taverna del Capitano
Ristorante con camere
Piazza delle Sirene 10/11
Località Marina del Cantone
80061 Massalubrense (Na)
Telefono 081 808 10 28
Fax 081 80818 92

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