Archive for the ‘nel MONDO’ Category

Ay, Celebris ’98 Gosset et sa fraicheur puissante!

12 settembre 2010

Quali sono le caratteristiche di uno champagne che ne fanno una Grande Cuvée? Ovvero, cosa ci affascina così tanto dal farcelo preferire tra le milionate di bottiglie di bollicine? 

Difficile un’unica risposta, ma tra le tante plausibili siamo certi di poter trovare quasi sempre quella che fa al caso nostro, da vestire per l’occasione: la storia, forse unica, per qualcuno invece il prestigio, o la costante qualità, la sua rarità; Come dimenticare la sottile eleganza di certe cuvée, o la loro eccezionalità, per il millesimo o per il blasone sfoderato da certi marchi, alcuni dei quali capaci di evocare epoche lontanissime nel tempo, ancora più semplicemente lo status symbol, il valore empirico di certe bevute, ma non di meno quello sostanziale, quasi pregnante di altre ancora.

Nel nostro piccolo, durante gli ultimi mesi abbiamo affrontato l’argomento champagne più volte, proponendo alcuni assaggi da non perdere, in qualche caso consigliando vini memorabili, esperienze uniche e piccole ma interessanti novità sul mercato italiano. Oggi invece è tempo di celebrazione, tra qualche ora infatti due nostri carissimi amici, Felice e Sabrina, convoleranno a giuste nozze: un momento, per me e Lilly che scriviamo queste pagine, di profonda commozione, perchè assieme a loro abbiamo camminato a lungo la stessa strada, e perchè per loro è il coronamento di un sogno, tutto meritato, che diventa finalmente realtà. A loro dedico questo bellissimo vino, bevuto tra l’altro più volte durante questo 2010 e finalmente proponibile per l’occasione giusta sulle pagine di questo blog.

Sturm und Drang, tempesta e impeto, è il motto, il vessillo, l’anima pulsante che ha alimentato il romaticismo, un periodo fondamentale per la nostra cultura occidentale, l’evoluzione del pensiero che lascia posto al sentimento, un momento epocale contraddistinto da un’esplosione di passionalità, di individualismo, di irrazionalità e di riaccostamento all’arte. Ecco in poche righe cos’è per me il Celebris Vintage Extra brut ’98, un vino che lascia alle spalle, quando insistono, tutti i preconcetti sullo champagne, che apre impetuosamente un varco significativo nella lettura gustolfattiva di questo straordinario figlio di una terra eccezionale, tanto unica e rara quanto imprevedibile e sfuggente, un vino che non esito definire a tratti, sovversivo!

Possiede un profilo organolettico affascinante questo Celebris Vintage Extra brut ’98, sin dal colore, sfoggiando una tinta a sfumature dorate brillanti, molto avvenenti; le bollicine, finissime, sembrano venire fuori dal fondo del calice impilate di giustezza. Il naso ha complessità da vendere e non tarda a manifestarlo: è subito ampio e fragrante, vira immediatamente dalle iniziali note agrumate alle più sgranate ma finissime nuances di mandorla tostata e paglia secca. In bocca è fresco, la vivacità dell’anidride carbonica pare defilata e composta, mai cuvée di Chardonnay e Pinot Nero fu animata da un simile equilibrio, sempre in grande evidenza: il gusto è assai avvolgente e lungamente persistente, il frutto sembra quasi masticarlo tanto ricco ed onesto appare. Insomma, il Celebris come il classico a cui fare appello quando si tratta di sottolineare l’eccezionalità di un avvenimento, le cosiddette occasioni speciali. Ops! M’è scappato un luogo comune!

Sauternes 1er cru 2004 Chateau d’Yquem

3 settembre 2010

Ci sono poche certezze nel mondo del vino, una di queste è sicuramente la grandeur che circonda Bordeaux ed il mito di Chateau d’Yquem, “il Sauternes” per antonomasia, il nettare divino, il piacere puro, in alcuni casi millesimi, a detta dei più, una vera e propria libidine palatale. Ma qual è il modo migliore per apprezzarne appieno il frutto, la piacevolezza, l’infinita profondità? Sappiamo come bere un Yquem? La prima risposta è certo che sì, che cavolo, siamo o no dei professionisti? Ma non è questa che conta, non in questo caso, in verità sarebbe più opportuno prendere tempo, perchè forse è no, e questa pare divenire, di assaggio in assaggio, più che una certezza: non vale una sega essere bravi sommelier, narcisi professionisti o travestiti tali per il fine settimana, ci saranno, prima o poi, due dita di di Premier Cru Superieur 2004 a sbattervi in faccia il vostro curriculum, il vostro superbo autoreferenzialismo del ca**o dicendovi: “riprova, sarai più fortunato!”

Ci hanno educato (o provato a farlo) a studiarne la storia, a riconoscerne il blasone, a carpirne i segreti e desiderare l’assaggio, a divulgarne poi il verbo come profeti di un comandamento preziosissimo e dalla sacralità unica. Ne abbiamo tratto, nel tempo, palese visibilio, sino alla frustrazione, costretti tra le altre cose ad adorarlo e al tempo stesso, a seconda dei casi, ad odiarne l’aura sacrale, alla continua ricerca di un degno compagno di merenda per un vino apparentemente inavvicinabile: un adone dai biondi capelli d’angelo, oro puro, cristallino come solo la luce che in esso si riflette. Il tempo rifugge il tempo, e nonostante i tanti tappi levati al cielo, con somma soddisfazione, mai piena consapevolezza dell’accostamento perfetto, mai abbinamento assoluto, mai. Nessun ingrediente all’altezza della soave fragranza di un ventaglio finissimo, verticale sino alle vertigini, del dolce insinuarsi tra le papille, della sfrontatezza che lo vuole, sul finale di bocca, l’unico protagonista della messinscena.

E Le ostriche? Si vabbè, a lume di candela e con la velina di turno; Ma come, e l’amatissimo fois gras? Ecco, allora mettiamoci pure l’Almas Beluga o magari il Roquefort ed abbiamo chiuso con i luoghi comuni!

Voglio allora pensare, ingenuamente, realista come sono, che abbiamo negli anni preferito rivolgere lo sguardo altrove pur di non darla vinta ai cugini francesi: i loro sono solo sentimentalismi puerili, non ci affascinano per niente, i vini invece certo che sì, ma rimangono vini, e come tali replicabili all’infinito e con molta probabilità ovunque, o quasi. Un luogo comune, anche questo, che ha fatto il suo tempo.

Ecco, ho finito le mie due dita di Premier Cru Superieur 2004 d’Yquem, indiscutibilmente il più autentico dei vini da meditazione in circolazione!

Condrieu, Les Terrasses de l’Empire 2007

28 agosto 2010

Pensi al Rodano e la mente va immediatamente ai grandi rossi della Cote Rotie o di Hermitage, o magari al popolarissimo Chateauneuf du Pape dalle mille sfaccettature, e comunque, quasi sempre a vini rossi possenti e ricchi di nerbo: il syrah su tutti, ma anche mourvedre, grenache, cinsault, artefici il più delle volte, da soli ma come spesso accade in uvaggio, di ottimi vini, ed in alcuni casi, come per le denominazioni sopra citate, veri e propri capolavori di frutto e rotondità, ispessiti qua e la e consegnati al tempo da una terra particolarmente generosa, ricca di minerali e da combinazioni microclimatiche piuttosto favorevoli.

In verità però non esiste regione viticola francese con una tale e particolare eterogeneità di terroirs, interpreti, vini, il più delle volte assolutamente misconosciuti al grande pubblico e forse proprio per questo capaci, una volta scoperti, di conquistare definitivamente quanto e più dei blasonati e famosi fratelli bordolesi e borgognoni; Ecco perchè se, sul versante rossista c’è una cronaca abbastanza consolidata, nel caso dei vini bianchi non è facile individuare nel Rodano tutto dei riferimenti assoluti, difficoltà questa dovuta soprattutto all’empasse di una produzione bianchista nel tempo votata quasi esclusivamente a prodotti generalisti, dal profilo mediocre ed il più delle volte atti al veloce consumo locale; E’ questa una tradizione abitudine superata solo da poco più di un decennio, con non poche difficoltà, e solo da quei pochi vignerons eletti che hannno creduto, più degli altri, nella valorizzazione di uno dei più affascinati vitigni bianchi d’oltralpe, il viognier, a discapito delle più remunerative uve bourboulenc, clairette, roussanne e marsanne.

Così Condrieu, appellation situata nell’enclave più a nord della regione rhodaniennes, 10 km poco più a sud della città di Vienne, è riuscita a ritagliarsi uno spazio di particolare eccellenza nell’affollatissima nomenclatura viticola francese. L’areale di produzione è circoscritto perlopiù ai comuni di Chavanay, Ampuis e per l’appunto Condrieu, oltre che in alcune frazioni circostanti ed è interamente votato alla piantagione di viognier, che con syrah, roussanne e marsanne rappresentano gli unici vitigni indigeni da sempre coltivati nella Vallée du Rhone, visto che gli altri, dal clairette al mourvedre, al grenache hanno tutti origini nelle confinanti regioni mediterranee, Spagna in primis; Il suolo qui è di origine sedimentaria con la presenza di spesse rocce granitiche ed una massiccia presenza, nelle vigne, di ciottoli, e nei vini quella spinta minerale che ne caratterizza ampiamente il profilo organolettico garantendogli oltretutto una discreta longevità.

Il Domaine Georges Vernay  possiede oggi circa 16 ettari tra i più vocati dell’areale ed è senza ombra di dubbio tra i più apprezzati e riconosciuti interpreti della denominazione. Christine Vernay, che assieme al fratello Luc ha rilevato il testimone dal papà fondatore dopo la sua dipartita, è riuscita imperterrita a seguire e consolidare la strada avviata qualche anno prima proprio dal padre Georges, sin dagli anni ’50 strenuo difensore della viticultura autoctona, tanto più che oggi i suoi viognier sono indiscutibilmente tra i più interessanti e voluttosi vini bianchi del Rodano settentrionale. Ho avuto modo di assaggiare il Condrieu Terrasses de l’Empire 2007 più volte negli ultimi due anni, confrontandolo in un paio di occasioni con altre interpretazioni dello stesso calibro, ma non c’è partita alcuna, stravince a mani basse: il colore giallo oro, vivace e concentrato lascia presagire un vino maturo e tendenzialmente ruffiano, mieloso come il più beffardo dei complimenti. Affatto! Questo vino ha stoffa da vendere, carattere quasi indomabile, il naso appena dopo un invitante sventagliata di pera e mandorla vira su note di lemongrass e poi grafite, rimanendo a lungo gradevolissmo, un infinito piacere. In bocca è ficcante, aggredisce le papille gustative con un incipit assai fresco, piacevolmente acido, a tratti pungente, balsamico, lasciando una scia di purissima nota aromatica e minerale. E’ il classico vino bianco da bere fresco, ad una temperatura intorno ai 10-12 gradi, in calici non troppo ampi per non lasciar disperdere il finissimo bouquet e perfetto per accompagnare parole al vento e sguardi indiscreti, oh pardon, da abbinare ad un bel piatto di gamberi e scampi crudi in bellavista accovacciati magari su una fresca salsa di pomodoro giallo. Poi mi fate sapere…

Quarts de Chaume 2006 Chateau Pierre Bise

22 agosto 2010

Il Sauternes è il vino dolce più buono al mondo, ma non è il solo, statene certi. C’è una bottiglia, dal nome quasi impronunciabile, che non di rado tira fuori dal suo mezzo cilindro espressioni inarrivabili, che possono conquistare molto e più del blasonato nettare bordolese.

Claude Papin dello Chateau Pierre Bisé (foto tratta dal web)

Il suo nome è Quarts de Chaume (cuarz d’ sciom) e la sua anima lo Chenin blanc, vitigno misconosciuto dai più ma capace di prestazioni di altissimo profilo – e qui nella Vallée de Loire – nella sua patria indiscussa, di vini bianchi tradizionali e da “muffa nobile” dai tratti caratteriali indimenticabili.

Il vitigno offre generalmente un quadro organolettico piuttosto definito ma non si possono certo trascurare le ingerenze dovute alle diverse interpretazioni a cui è soggetto nei rispettivi contesti di produzione dove viene lavorato, dovute soprattutto alla diversa considerazione di cui gode presso i vari produttori alcuni molti dei quali continuano a vedere nello Chenin blanc una mediocre materia prima per banalissimi vini di massa e di modesto profilo qualitativo. Il vitigno infatti, per la sua innata vigoria e capacità di adattamento, è piuttosto diffuso, oltre che in Francia, anche in alcune regioni del mondo particolarmente vocate alla produzione intensiva tra cui la California, l’Australia e non ultimo il Sud Africa, dove in particolare è stato praticamente adottato è riconosciuto con il nome di Steen tra i vitigni autoctoni tanto dall’essere utilizzato come vino base per lo spumante nazionale prodotto con methode champenois, il Cap Classique.

In generale i vini prodotti in zone a clima più fresco e con uve non perfettamente mature esprimono un profilo organolettico generalmente basato su aromi varietali sottili e delicati, di mela verde, limone, agrumi, acacia ed un gusto piuttosto greve se non acido; Risultano invece più intriganti e suggestivi in vini prodotti in aree con un clima tendenzialmente più caldo o magari con uve surmature dove gli aromi primari di frutta tendono alla polpa matura, alla pesca ed alla mela cotogna e albicocca mentre sbocciano piacevoli sfumature mielate pur senza sovrastare le caratteristiche note minerali che soprattutto al palato fanno dello Chenin blanc uno dei più controversi vitigni a bacca bianca d’oltralpe, capace addirittura di offrire, come nel caso del vino in questione, botrytizzato, passito cioè naturalmente in pianta grazie alla cosiddetta muffa nobile, un ventaglio olfattivo davvero impressionante per integrità e complessità ed un gusto a dir poco unico e lungamente intenso, infinito, da meditazione.

La Loira, come detto, rimane la regione d’elezione per il vitigno, e vini bianchi tradizionali come il Vouvray e il Montlouis sono testimonianza dell’ottima verve espressiva di quello che qui, per amor di patria, viene chiamato Pineau de Loire, ma è nel cuore del Coteaux du Layon, a Bonnezeaux e Chaume in particolare, che le uve, attaccate dalla Botrytis Cinerea sono capaci di dare vita a piccoli gioielli della nomenclatura viticola Loirenne, in alcuni casi a vere e proprie rarità enologiche. Proprio a Chaume il terreno è di carattere argilloso e poggia su croste di scisto (quarzo) e silicio, una combinazione piuttosto ideale per una corretta e costante buona vigoria della vite associata ad un clima costante piuttosto favorevole che beneficia tra le altre cose dell’influenza del fiume Loira che taglia di netto l’intero areale della denominazione.

Qui e così nascono i vini di Claude Papin, vigneron di cui vorrei presto conoscerne di più per potervi dare conferma, raccontare, di come – così come mi dicono – riesce a “sentire” i suoi vini mentre evolvono e maturano nel tempo prima di decidere di consegnarli al mercato, di come, non sbagliando un appuntamento, riesce anno dopo anno a garantirsi un posto nella Hall of Fame della viticultura Loirenne, e perchè no, nel mio cuore. Questo Quarts de Chaume è un nettare prelibato da bere con le persone che amate, a parlare di cosa non conta, magari ascoltando le voci di dentro, quelle che arrivano dritto dal proprio cuore!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Puligny, Les Folatieres 2006 di Etienne Sauzet

6 agosto 2010

“Passata è la tempesta: odo augelli far festa, e la gallina, tornata in su la via, che ripete il suo verso. Ecco il sereno rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, e chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato risorge il romorio torna il lavoro usato”. La quiete dopo la tempesta, tratta da “I Canti” di Giacomo Leopardi.

E’ appena passato su Capri un temporale pazzesco, un scroscio d’acqua gelido come una stilettata inaspettata al bien vivre agostano; Ho tra le mani pura luce, davanti ai miei occhi, profondità sospese, nella mente solo meraviglia! E’ straordinario questo vino, un colpo al cuore, pane per i miei denti: almeno venti pagine del prossimo miglior libro giallo che leggerò, molto più di un sorriso smaliziato in cerca di un complimento. Che vino!

Grazie al recente viaggio in Borgogna ho potuto camminare vigne di una suggestione unica e potuto vivere realtà solo immaginabili sino a pochi minuti prima aver varcato il primo centimentro della Route des Grands Crus, ma la particolare sensibilità al tema Pinot Nero (da sempre “il mio vino”) ed i pochi giorni a disposizione hanno voluto che mi ci dedicassimo in particolar modo al grande rosso borgognone, vivendo solo di striscio la realtà bianchista di una terra dalla vocazione unica al mondo. Così, di Mersault, Chassagne e Puligny Montrachet, Corton Charlemagne continuo ad annaspare nel desìo e sono costretto ad accontentarmi degli assaggi collaterali del momento 🙂 !

Etienne Sauzet è stato, a detta di molti, tra i più brillanti vigneron di Puligny di metà novecento, e Gerard Boudot – marito della figlia di Sauzet, Jeannine, subentrato alla conduzione del domaine alla morte del fondatore nel 1975 – ha continuato come “proprietares et acheteur des raisins” a consolidare il mito di un vero e proprio piccolo gioiello della viticultura borgognona: pensate, appena meno di nove ettari suddivisi però tra i più preziosi Grand Cru dell’areale, Batard-Montrachet e Bienvenues-Batard-Montrachet e i Premier cru Les Combettes, La Perriere, Les Referts, Les Champs Canet e appunto Les Folatieres.
 
Il Puligny-Montrachet 1er Cru Les Folatieres 2006 di Etienne Sauzet è un grande vino, dicevo; Appena aperto si offre con una certa ritrosìa ma gli basta davvero poco tempo per esprimere tutto il suo candore. A tal proposito non appaia una forzatura, in generale, servire questi vini scaraffandoli qualche minuto prima, avendo cura tra l’altro di gestire una temperatura di servizio intorno ai 12-14 gradi, perfetta per cogliere tutte le sfumature che ne caratterizzano i tratti organolettici. Il colore è di un bel paglierino carico, fitto e piuttosto affascinante, scivola nel calice lasciando tracce di sinuosa materia glicerica che riflette sfumature cristalline. Il naso si apre su sensazioni molto piacevoli: saltano fuori, prorompenti, ficcanti note minerali, balsamiche espettoranti, e man mano la temperatura si assesta offre sfumature mielate e tostate certamente consegnate al vino dal lungo percorso di maturazione tra pièces bourgouignonne e bottiglia, di solito non meno di due anni, ma assai coinvolgenti. In bocca è voluttuoso, infonde al palato una grassezza unica, non di banale scioglievolezza burrosa – quella tanto in voga negli sciardonnè volgarmente detti fatti ogniddove – ma di purissima materia territoriale, composta di terra e di frutto, di sapienza e tecnica, e tanta, tantissima pazienza. Un vino, questo, capace con molta probabilità di sfidare un tempo lunghissimo ma in grado di offrirsi generoso e compatto già oggi: lungo, lunghissimo il sapore, irreprensibile, proteso ad ogni sorso verso un nuovo viaggio, perfettamente godibile, abile a mio parere a placare anche l’animo più irrequieto. Ecco il dolce nettare da non perdere per compiacersi, nella quiete, della passata tempesta!

Gevrey-Chambertin, Trapet Pere et Fils

4 luglio 2010

Un viaggio è incredibile quando riesce a svelare nuove scoperte, luoghi mai esplorati prima, una realtà immaginata sognata e finalmente lì, a portata di mano, praticamente sotto il tuo naso, finalmente.

Il paesaggio delle Hautes Cotes de Nuits è bellissimo, a mirare l’orizzonte si rischia davvero di perdere la testa! E che dire dei vini, di vigna in vigna un sospiro, di calice in calice una soddisfazione ma praticamente rimane impossibile scegliere il proprio riferimento assoluto, eppure forse, è solo qui che ognuno, contratto nel proprio intimo tentennamento può cogliere del Pinot Noir la sua anima più autentica, qui, proprio tra le vigne che dimorano lungo la “Route des Grands Crus”: vini splendenti, austeri, ricchissimi di nerbo e di grande prospettiva. Certo è che si rischia facilmente di perdere la bussola, e non tanto per la lunga strada da camminare, la quale pare accompagnarti attraverso il mito in maniera assolutamente disarmante, sinuosa come le linee di una perversione eccentrica ma al tempo stesso carezzevola come la più dolce delle mani tra i capelli; è, piuttosto, l’innumerevole concentrazione di luoghi, persone e vigne che sprizzano un fascino unico ed un carattere raro a renderti, per così dire, “vita difficile”. 

Chambertin è uno di questi luoghi, ed è senza ombra di dubbio il più celebre tra i crus di Gevrey, appena poco fuori Nuits St Georges e, verso nord, proprio ad un tiro di schioppo da Morey St. Denis¤, altro luogo d’elezione per il Pinot Noir; Qui giacciono in tutto appena 13 ettari di vigna, suddivisi tra 21 proprietaires (!), piantati tutti con una intensità che supera abbondantemente i 10/12.000 ceppi/h (!!) in un contesto microclimatico di parcella in parcella molto eterogeneo tanto da consegnare un ventaglio zonale davvero sorprendente, che tra l’altro si eleva, partendo proprio dalla strada, sino a circa 300 metri slm. La terra è rossastra, particolarmente calcarea e sassosa in superficie, come dire manna dal cielo per il Pinot Noir, qui come in pochissimi altri areali borgognoni capace di acquisire una particolare ricchezza e profondità di aromi.

A Gevrey-Chambertin sono riconosciuti almeno settantacinque “Climats” (appezzamenti) diversi, ripartiti tra le varie denominazioni comunali “Villages”, “Premiers Crus” e “Grands Crus”, tra questi ultimi in particolare sono annoverate nove parcelle: Chambertin propriamente detto, Clos-de-Bèze, il vigneto più vecchio di Borgogna, individuato già prima dell’anno mille e denominato Aoc sin dal 1934, Mazis-Chambertin, Ruchottes-Chambertin, Côte Morey-Chambertin, Latricières-Chambertin, Chappelle-Chambertin, Charmes-Chambertin, Mazoyères-Chambertin.

Il Domaine Trapet è proprio sulla “Route des Grands” appena entrati in Gevrey-Chambertin. La famiglia Trapet è consacrata al vino sin dal 1919, ma questa azienda in particolare, Trapet Pere et Fils¤, vede la nascita “solo” nel 1990 dopo la suddivisione (avvenuta per motivi di successione familiare) del patrimonio viticolo con i cugini Rossignol. Il Domaine ha conservato da allora una superficie di circa 13 ettari, divenuti poi 15 con le parcelle di proprietà acquisite nell’areale di Marsannay (dove si produce con l’omonima appellation lo Chardonnay) e senza dubbio rilanciato brillantemente le proprie sorti anche grazie al prezioso domaine in Alsazia con vigne e cantine a Riquewhir, dove sempre con il marchio Trapet, ma a Blebenheim¤, si producono interessantissimi Riesling e Gewurztraminer nonchè Tokay Pinot Gris. A capo dell’azienda, da sempre votata alla biodinamica, come stile di vita e non come moda, c’è sin dalla sua fondazione Jean Louis Trapet, vigneron giovane ma già stimatissimo da tutti soprattutto per la sua grande dinamicità e concretezza in vigna e cantina come nella vita.

Gevrey-Chambertin 2007, in una parola, spiazzante. L’annata piuttosto recente ci indurrebbe ad una esplosione di frutto o quanto meno una certa indole nerboluta. Invece si pone su tutt’altra riga organolettica. Il naso è subito etereo, di frutto, del varietale, ben poco; In evidenza invece sensazioni particolarmente evolute, ventaglio olfattivo terziario, terroso, note se vogliamo anche poco fini ma sinceramente espressive, autentiche. E’ prodotto dalle vigne proprio a ridosso della Route des Grands Crus.

Gevrey-Chambertin Premier cru “Capita” 2007, è la cuvée di tre delle migliori parcelle classificate come Premiere Cru e situate proprio ai piedi della collina che anticipa l’area boschiva che sovrasta Gevrey-Chambertin. Dal colore rubino-granato è deliziosamente trasparente, il primo naso è ampio ed elegante, il ventaglio olfattivo qui è incentrato su sensazioni passite e speziate, note lampanti di fiori secchi, mallo di noce, polvere di caffè. In bocca è fresco, davvero in grande spolvero, l’ingresso è polposo, l’attacco al palato nerboluto, il tannino non è increscioso, appare piuttosto risoluto e concedendo al palato un finale degustativo particolarmente lungo.

Gevrey-Chambertin “Chappelle-Latricières” 2006, un vino espressione della maniacale ricerca dell’unicità dei vignerons borgognoni. Un Grand Cru prodotto dalle uve allevate nelle due parcelle Chappelle e Latricières; della prima è facile intuirne l’origine dell’etimo, quest’ultima invece deve il suo nome al termine latino “tricae” che indica questo appezzamento come  luogo “di poco valore, terra non fertile”. Invero il suolo è sì poco profondo e magro di elementi nutrienti, ma è proprio questa particolarità, certamente inidonea alla coltivazione di sementi, che conferisce a questo terreno particolare vocazione alla coltura della vigna. Si pensi che qui appena 7 ettari di vigna sono suddivisi tra 9 proprietari diversi, praticamente minuscoli fazzoletti di terra tra 1.5 e 0.16 ettari come diamanti grezzi dal valore inestimabile! Il vino ha un colore rubino-granato vivace, un naso particolarmente votato all’etereo, note di cipria furtivamente rubano la scena al varietale intriso di vinosa sostanza. Palato secco, solo apparentemente delicato, la beva risulta piuttosto corroborante, il tannino è irto e l’acidità quasi insolente, un continuo invito ad aspettare. Quanto? Più di quanto si possa pensare, ma intanto la prima bottiglia è già andata!

 Chambertin Grand Cru 2006, altro gran bel vino, ritorna il frutto, molto espressivo, in primissimo piano, in grande spolvero. Dal colore rubino con venature granato rivela una trasparenza molto invitante, il primo naso è freschissimo di petali di rosa rossa con un sottofondo di spiccata vinosità (una caratteristica che timbra tutti o quasi i vini di Trapet, anche andando piuttosto indietro con i millesimi). In bocca poi è finissimo, l’approccio è di una freschezza incredibile, l’attacco al palato è deciso, asciutto, ma basta appena un attimo e la piacevolezza del frutto, l’uva croccante, succosa ristabilisce la giusta armonia degustativa. Il finale è assai gradevole, chiude su lievi note tostate, il tannino per tutta la beva non è sovrastante, direi quasi bilanciato seppur non si possa ancora parlare di pieno equilibrio espressivo. L’altra bottiglia, gelosamente sepolta in cantina per un riassaggio tra qualche tempo!

Ci è piaciuto, basta!

Non ci è piaciuto, niente da rilevare.

Vougeot, Chateau de La Tour

27 giugno 2010

Vougeot, 17 Giugno 2010. Il tempo continua nell’essere inclemente, il cielo rifugge ancora i raggi del sole, che pure sorride, l’aria è frescolina a tal punto dal sembrare più un annuncio dell’autunno che uno spiraglio alle porte dell’estate. Ma è Borgogna e noi siamo qui, a camminare le vigne di una terra incredibile, tanto semplice quanto preziosa, tanto ricercata quanto famosa, letteralmente sulla bocca di tutti, eppure terra austera, assolutamente spoglia di quel glamour che tutto il mondo tenta di affibiargli, vestita di una ruralità incredibilmente unica, disarmante: fermo nel cuore del Clos de Vougeot mi giro intorno, il verde tutto mi appare immobile, eppure sento nell’aria una vivacità incredibile!

Vougeot è senza dubbio, dopo Vosne-Romanée, uno dei vigneti più belli del mondo, 50 ettari perlopiù a Pinot Noir (la piantagione a Chardonnay è davvero risicata) frazionati  in oltre centottanta parcelle in mano a ben oltre novanta proprietari, il che la dice lunga sull’enorme valore patrimoniale di anche uno solo dei filari, di ogni singola pianta, dei suoi preziosissimi frutti. Chi arriva qui, conoscendo l’alto numero dei “proprietaires” della vigna si aspetta una concentrazione massiccia di piccole cantine sul posto, ma in realtà l’unico indizio che si può avere nel riconoscere i vari appezzamenti sono le piccole pietre di confine o per chi ne ha fatto l’uso, di piccoli cancelli ornamentali, posizionati lungo il margine della Route des Grands Crus. 

Lasciando stare per un attimo la suggestione di trovarsi dinanzi ad un vero e proprio castello (Chateau non a caso, ndr), ci accoglie a Chateau de La Tour, Claire Naigeon, ma prima di lei il suo sorriso, aperto, smagliante, sincero, poi la sua vitalità, la sua voglia di coinvolgerci subito nella scoperta della splendida proprietà oggi condotta dalla vigna alla cantina da Pierre Labet e sua moglie Julie, tra l’altro titolare anche di un domaine a Beaune nonchè di vigne di proprietà a Mersault. Claire è responsabile alle vendite, ma non è solo questo che giustifica la sua discreta conoscenza dell’italiano, va maturando, ci racconta, una crescente passione per l’Italia, per alcuni dei suoi luoghi incantati, in particolare per l’Umbria e l’isoletta di Pantelleria (!), ma non per i vini qui prodotti bensì per gli scenari naturali che propongono; Ci fa accomodare nell’accogliente sala degustazione invitandoci a più riprese a non esitare nel fare domande nonostante tenterà di essere quanto più esaustiva possibile: ci guardiamo finalmente soddisfatti, non è forse questa la Borgogna che ci avevano raccontato? 

La storia del Clos de Vougeot risulta essere piuttosto travagliata, quasi una saga d’altri tempi, tra compravendite fittizie, spartizioni tra eredi e presunti tali, négotiants e “furbetti del quartierino” che tra una zampata e l’altra non hanno mancato di accasarsi nei dintorni al solo fine speculativo, “ogni mondo è paese” si direbbe, Claire nel sorridere ci conferma di aver ben inteso il senso di questa frase; A noi in realtà ci basta registrare che vige un controllo ferreo su tutto quello che si muove in vigna e soprattutto in cantina, del resto siamo qui per una esperienza emozional-sensoriale, non certo per riscrivere la storia! Chateau de La Tour sorge ad un tiro di schioppo dall’omonimo Clos de Vougeot propriamente detto, dal quale lo separa proprio la torre di guardia a cui deve il nome, circondata dalle verdissime vigne di Pinot Noir (il germogliamento risulta in ritardo di almeno tre settimane rispetto all’Italia, ndr), nelle sue fondamenta la cantina ed alcune stanze-caveaux dove conserva oltre che la memoria storica liquida dello Chateau anche dell’intero Clos, si scorgono qua e là almeno un centinaio di vendemmie, alcune delle quali assolutamente rare e perciò preziosissime, sin dalla fine dell’800!

Il vino che più ci ha impresssionato è stato senz’altro il Clos Vougeot, soprattutto in propettiva, ma non sono risultati scontati i due ottimi Beaune Village bevuti, il bianco ed il rosso a marchio Pierre Labet molto freschi e di gran lunga sapidi. Il bianco in particolar modo, che si giova oltretutto dell’augusta veneranda età delle vigne, sui trent’anni, ha mostrato una spalla acida ben espressa, davvero gradevole per non dire ottimo. Altro che Chardonnay… 

Clos Vougeot 2007, l’annata in molte regioni della Francia e del mondo è stata recepita come una annata particolarmente calda, per alcuni, vedi i produttori di Rodano e Provenza in primis addirittura siccitosa; “E pensare che a Vougeot, ci racconta Claire, è capitato non di rado, anche a metà agosto di avere a mezzogiorno 8°”! Il colore è di un rubino granata cristallino, il primo naso è subito ampio e finissimo su note floreali e fruttate mature, addirittura dolcissime sensazioni di caramella al lampone,  e poi spezie, note eteree appena percettibili di cipria e smalto. In bocca è asciutto, è concentrico, con il frutto in primo piano, tutt’intorno il tannino, la glicerina, l’acidità, la mineralità. Bella bevuta, avanscoperta di ben altre grandi bevute future; In effetti di questi vini, in questo stadio di “immaturità” non si può che percepirne il grande potenziale ed accontentarsi dell’impressione positiva di estratto e concentrazione.

Clos Vougeot 2004, ovvero di Pinot Noir straordinario come pochi bevuti prima. Eppure figlio di una annata non felicissima, a fine luglio infatti una fortissima grandinata, praticamente caricata a pallettoni ha distrutto il 30% almeno del raccolto, complicando e non di poco anche il lavoro in cantina. Comunque stupendo il colore rubino, scarico, trasparente, dal primo naso subito affascinante, davvero interessante, ampio, complesso, di quel varietale in grande spolvero e così difficile da replicare. Le note olfattive sono aromatiche, intense e lunghissime, il ventaglio olfattivo fruttato è divenuto succoso, l’etereo sottile profumo di terra asciutta e pietra bianca, la nota di cipria adesso è più evidente, il cassis esplicito, la succulente mineralità una goduria immensa.

Ci è piaciuto, la precisione della tempestica con la quale è stata gestita la visita, e moltissimo l’accoglienza riservataci, a dir poco calorosa.

Particolare curioso: in cantina, da queste parti, gli enotecnici preferiscono il vecchio attempato tastevin al comune calice per la degustazione dei vini in affinamento. 

nei dintorni, da segnare in agenda:

Le Clos de La Vouge. Appena fuori Vougeot, sulla strada per Vosne-Romanée, praticamente all’incrocio con Flagey-Echezeaux c’è questo delizioso Hotel Restaurant; L’ambiente è informale, un po Brasserie, un po Bistrot, il servizio non è dei migliori, lento e a dire il vero anche un tantino impacciato, ma la cucina, tipicamente borgognone, è assolutamente da provare almeno una volta giunti in questa terra. Materie prime eccelse e preparazioni molto sostanziose e saporite, ottimo in particolare l’uovo in camicia in fondue d’Epoisses  (ne parliamo qui) come eccellente il Boef Bourguignonne soprattutto se mangiato come piatto unico.

Hotel – Restaurant – Séminaire
Le Clos de La Vouge
1, rue du moulin
21640 Vougeot
Tel. 0380628965
Fax 0380628314
www.vougeot-hotel.com
closdelavouge@wanadoo.fr

Brochon, di Philippe Charlopin-Parizot e non solo

24 giugno 2010


A pochi chilometri da Morey St Denis, appena lasciato Gevrey-Chambertin verso nord, sempre sulla “Route des Grands Crus”, c’è Brochon, un piccolo borgo di appena 691 anime ma che nasconde nei dintorni, circoscritto alla “zone artisanale” (sarebbe la nostrana zona industriale, ndr) uno scrigno di tesori imperdibili.

Il primo che ci capita a tiro, appena usciti dal centro storico del paese è Gaugry, una delle fromagerie più famose di Borgogna, custode dell’antico formaggio Epoisses ma senza ombra di dubbio il riferimento assoluto di tutti gli allevatori locali vista la capacità di lavorare durante l’anno almeno un milione e settecentomila litri di latte. Oltre al fornitissimo negozio dove è possibile assaggiare gran parte dei formaggi prodotti e distribuiti (700.000 circa!) vi è anche un’area di accesso ai laboratori di lavorazione per i visitatori che possono, due giorni alla settimana, di solito il mercoledì ed il venerdì, visitare il piccolo museo aziendale nonchè ammirare come si producono i famosi formaggi di casa Gaugry.

Proprio alle spalle della Fromagerie vi sono alcuni capannoni scuri, ognuno con un gradevole giardino in fiore all’ingresso ma nessuna insegna, citofono, indicazione. Il primo è il Negoce des Grands Bourgognes, in pratica uno dei più forti distributori del posto, con un catalogo prodotti non profondissimo ma decisamente appetibile. Molti, soprattutto i piccoli Domaine, si affidano a loro anche per la distribuzione locale, e quasi nessuno di questi, scopriremo poi, è propenso alla vendita diretta in azienda, preferisce di gran lunga delegare le cosiddette enoteche locali alla promozione e alla vendita dei loro vini: economia sociale, garanzia della filiera? Ci piace, e non poco, e se fosse replicata anche a casa nostra..?

Proprio di fronte al Negoce des Grands Bourgognes c’è il Domaine Charlopin-Parizot, nulla di trascendentale, suggestivo, emozionale: un capannone, nero, anonimo che Philippe Charlopin ha voluto come casa del suo genio, del suo estro, della sua più totale anarchia pur rimanendo fortemente legato al suo territorio. E’ vero, genio è una parola delle più abusate, spesso utilizzata più per spiegare l’inspiegabile che per altro, eppure in questo personaggio, nerboluto, tarchiato, anche un po’ goffo per come si è presentato dinanzi a noi, in pantofole e camicia “astratta”, con una pettinatura anch’essa quantomeno esotica si coglie una forza incredibile, precisa, non confondibile, e più che dalle sue (poche) parole è dalle idee messe in campo, incredibile “la tratta delle appellations”, (“ogni mio vino nasce come e con un debito, con il territorio e con le banche!”) dai suoi vini superlativi, dai quali si trae l’impressione, il punto di forza di un vero gioiello della viticultura borgognona.

Queste in sintesi le impressioni ricevute a caldo dall’assaggio in cantina dei vini del Domaine Charlopin-Parizot che vanta, oltre che diversi Negoce in quasi tutte le appellations della Cote de Beaune (e più a nord Chablis) anche eccellenti proprietà come nel caso di un bel appezzamento nei Grand Cru Clos di Vougeot e Charmes-Chambertin.

N.B.: per comodità viene replicata solo l’etichetta dello Gevrey-Chambertin Vieilles Vignes di cui abbiamo bevuto il ’08, a tutti gli effetti, nonostante la giovanissima età, il miglior vino assaggiato assieme al Grand Cru Charmes-Chambertin, sempre ’08 di cui però racconteremo in un prossimo post.

Pernand Vergelesses 2007 appellations village che offre vini, innanzitutto bianchi, piuttosto godibili, e rossi come questo più interessanti al palato che puliti al naso, comunque estremamente digeribili. Di colore rubino finissimo, abbastanza vivace, esprime un ventaglio olfattivo maturo e terziario, soprattutto su nuances di catrame e note tostate. In bocca è asciutto, sottile, corroborante, una bella beva fresca e di sostanza. Ideale sui formaggi vaccini, austeri, del luogo.

Morey St Denis 2007, ottimo, arcigno, dal naso complesso di una misticanza di frutti neri e rossi e note tostate e caramellate. Probabilmente tra qualche anno, due, tre minimo, concederà un ventaglio olfattivo più interessante ancora. Al momento si lascia scoprire ma non del tutto, è infatti in bocca che quasi allontana, asciutto, austero, tannico, profondamente minerale: “non dovrei nemmeno farvelo assaggiare, ma siete qui quindi sappiate valutarne il dono”. Impeccabile la schiettezza di Philippe, vera.

Gevrey-Chambertin Vieilles Vigne 2008. Chambertin è certamente il più celebre tra i crus di Gevrey, tredici ettari circa ed un paesaggio mozzafiato che scompare sulle colline delle Hautes Cotes. Un vero e proprio fuoriclasse questo vino, purosangue, sembra parafrasare il suo stesso mentore, tal quale. Il primo naso è sgraziato, offre inizialmente di tutto un po, sovrappone note vinose a note di caffè tostato, cipria ad erbe officinali, poi ancora cassis maturo e polposo: “è il gioco delle parti, la terra bruna, la pietra calcarea, un vitigno autentico, legni dei più diversi, con il tempo, solo il tempo ne definirà l’eleganza”. In bocca è asciutto, secco, la bocca, una volta deglutito, quasi s’incolla, eppure rimane piacevolmente sedotta, avvinghiata ad un piacere sublime, lunghissimo. Un vino per i prossimi trent’anni.

Clos de Vougeot 2008,  altro cru di gran fascino, ovvero il fascino del Grand Cru!  La storia ci consegna uno dei vigneti più belli e suggestivi della Borgogna, che deve la sua destinazione d’uso ai monaci cirstercensi che qui decisero di piantare vigne piuttosto che patate e ovviamente alle generazione che di lì a qualche centinaio di anni pur modificandone drasticamente la mappatura ne hanno saputo valorizzare, enomermente, la vocazione . Inizialmente di proprietà di Julien-Jules Ouvrard, già proprietario di altri grand crus nella Côte de Nuits tra cui La Romanée Conti, il Clos de Vougeot divenne prima pane di sei commercianti-negotiants e successivamente continuamente frazionato sino agli attuali oltre centottanta parcelle in mano a ben oltre novanta proprietari, tra questi anche Philippe Charlopin-Parizot. Di colore rubino-granata, vestito di una bella vivacità; Naso intrigante, chiuso, sbuffi fruttati concentrici a note quasi animali, si sente per parecchio tempo cuoio, poi una netta sensazione di cipria. In bocca mi sento di definirlo ad oggi ingiudicabile, quantomeno è insostenibile delinearne un profilo gustativo esaustivo, forse tra 5-6 anni, ha tanta materia da lasciar maturare, succosa e nerboluta.

Ci è piaciuto, moltissimo, il paesaggio; Le vigne sono allevate come giardini, tutti i filari si estendono da ovest ad est seguendo il declivio collinare lungo la route des grands crus, quest’ultima mai noiosa nonostante la monotonia del paesaggio che attraversa.

Non ci è piaciuto, non poter assaggiare vini di annate più mature, ma a quanto pare così funziona, nel senso che nemmeno i produttori ne dispongono avendole il più delle volte già tutte vendute, ça va sans dire…

da segnare in agenda: 
– Grands Bourgognes
ZA Le Saule, 21220 Brochon
Tel +33 380792990
Fax +33 380792990
www.grandsbourgognes.com
– Fromagerie Gaugry
RN 74 – BP 40
ZA Le Saule,
21220 Brochon
Tel +33 380340000
www.fromageriegaugry.fr 
 – Au Clos Napoléon
Restaurant Bar à Vin
4 et 6 rue de La Perrière
21220 Fixin
Tel +33 380524563

Morey St Denis, Domaine Dujac

23 giugno 2010

“Noi non crediamo nella grandeur dei vini di Borgogna, di certo non l’abbiamo mai percepita come un alibi, e sinceramente ne faremmo davvero a meno..!”

E’ quanto meno inaspettata, per non dire disarmante, una rivelazione del genere, una frase così esplicita, per niente malcelata e costantemente presente nell’aria in ogni momento successivo all’aver varcato la soglia del Domaine Dujac a Morey St Denis. Ma come? Verrebbe da chiedersi, e noi che almeno tremila chilometri più in là ci lasciamo scaldare l’anima e sbattere il cuore non appena ne sentiamo parlare, di Pinot Noir, di Borgogna, di Clos e di “pippe” varie ed eventuali sulla loro unicità, storia, fascino per di più sostenute da una bio-dinamicità-naturale che tanto significato ha in un mondo del vino in profonda conversione; In realtà, scusatemi il gioco di parole, è la pura e nuda realtà, definiamola pure cruda e mal servita, (praticamente sbattuta in faccia) ma che ci piaccia o no, questo è!

Questa è l’impressione che ci portiamo a casa dall’incontro con il giovanissimo Alec Seysses, figliol prodigo in quel di Morey St Denis, cuore dell’Haute Cotes de Nuits, che con il fratello ed il papà-winemaker Jacques si occupa a tempo pieno dei 16 ettari del domaine dislocati in circa 18 appellations tra i vari villages, premier e grand cru dell’areale. Come sempre la smentita è dietro l’angolo, della quale in verità ne saremmo davvero felici, per questo (e non solo) ci siamo ripromessi un nuovo passaggio da quelle parti ( 🙂 ). Stando ai fatti però, non è stato un buon approccio con il territorio, quello desiderato, auspicato, nonostante i vini serviti, evidentemente mal volentieri, ci hanno impressionato non poco, aiutandoci a capire che l’anima controversa del terroir borgognone è più marcata di quanto si possa pensare e che alcuni dei suoi interpreti più autentici per essere tali hanno necessità di privilegiare il dato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente, da veri e propri “espressionisti” del vino piuttosto che commercianti delle proprie emozioni. Queste, in sintesi, le impressioni sui vini più interessanti degustati, tutti prodotti seguendo il più austero dei protocolli biodinamici, dettato cioè da uno stile di vita piuttosto che dalla moda o la richiesta del mercato.

Marsannay 2008, appellation communale disposta a nord di Morey St Denis, sulla strada di Digione, dove dimorano i due ettari e mezzo di proprietà del Domaine votati perlopiù a chardonnay. Un vino bianco molto fresco, cioè asciutto e minerale, dal colore paglierino tenue e di media consistenza. Il naso è incentrato su note erbacee e floreali, fine ed elegante seppur non lunghissimo, in bocca è, come detto, secco e piuttosto sapido, molto gradevole la chiusura quasi citrina che riporta alla mente agrumi ed al palato una picevolissima sensazione di pulizia. Alla stessa stregua, per intenderci, di un ottimo Fiano del Cilento in tenera età.

Morey St Denis 2008, dalle vigne più o meno prospicenti il Domaine più altri conferimenti del circondario; naturalmente da uve Pinot Nero in purezza, viene vinificato, fermentato ed affinato esclusivamente in “pieces” di secondo e terzo passaggio. Il Colore è piuttosto scarico, rubino/granata con accennatiflessi aranciati, un naso decisamente empireumatico, che offre cioè un ven ritaglio olfattivo organico piuttosto accentuato: note tostate, secche, pungenti, per certi versi affumicate. In bocca è poco carezzevole, in effetti sappiamo benissimo che vini del genere hanno bisogno di almeno un lustro per venire fuori al palato, per rivelare cioè quella voluttà al palato tanto frequentemente espressa in certi Pinot Nero nostrani, ma non dunque di queste terre, di questi interpreti. Bel nerbo, acidità da vendere, finale di bocca lunghissimo, waiting for the glory.

Clos St Denis 1966, il cuore batte ancora mi verrebe da dire. Probabilmente, ripensandoci, il freddo Alec avrebbe voluto riservarci una accoglienza migliore, magari condensata da una manciata di sorrisi in più, non di circostanza, e offerto un panorama delle proprie attività nel Domaine un tantino più esaustivo. Eravamo lì per ascoltare, imparare, non certo per rubare, tempo e spazio. Si salva in “zona Cesarini”, tirando fuori dal caveau, assolutamente non visitabile questo Grand Cru che al tempo, ci dice, Grand Cru non era: “era il vino che circolava in casa, per gli amici, per i parenti”. Sfogliando gli annali scopriremo poi (mannaggia li sommelier!) che non si tratta della migliore delle annate in casa Dujac, e nemmeno della migliore tra le peggiori, un vino insomma del quale certamente non si va fieri. Invece il bicchiere svela una bella esperienza visiva e degustativa, non segnata da clamore e sospiri ma certamente degna di nota. Il colore è praticamente integro, le sfumature aranciate sono appena più marcate del precedente, e la trasparenza pure. Il naso offre un ventaglio olfattivo molto interessante, addirittura ancora spiritoso di frutta, ma balsamico, caramellato, speziato innanzitutto. In bocca è asciutto, austero, lineare sul finale di bocca, equilibrato e minerale.

Ci è piaciuto Morey St Denis, davvero un bel borgo, a misura d’uomo, come del resto tutti quelli visitati durante questo viaggio; La pioggia ed il grigiore del tempo non hanno intaccato più di tanto i colori e il fascino di una terra bellissima.

Non ci è piaciuto, unanimamente, la freddezza con la quale siamo stati accolti, soprattutto contando sul fatto che dai numerosi precedenti contatti non fosse assolutamente trasparita, decisamente una giornata no!

Non ci è piaciuta, l’abitudine del padrone di casa, dichiarata con estrema nonchalance, di recuperare il vino lasciato nei calici dai convenuti, utilizzato a suo dire, successivamente, per colmare le botti in affinamento: “è nettare prezioso, perchè sprecarlo!”

Vila Nova de Gaja, Feitoria Burmester

13 giugno 2010

Qualche settimana fa ci siamo occupati del più prezioso ed antico vino portoghese raccontandovi brevemente dove e come nasce il vino di Oporto.

Appena ieri poi abbiamo assunto “l’obbligo” di raccontarvi di “vini mondiali” prendendo spunto da un gioco di assonanze, emozioni e colori dettati dalle nazionali partecipanti all’edizione sudafricana 2010 della più bella tra le manifestazioni calcistiche di sempre. Insomma, vini che meritano di essere scoperti, segnati in agenda e bere alla prima occasione, magari proprio tifando per la propria squadra del cuore.

La storia della “Feitoria*Burmester è simile a tantissime altre del panorama produttivo dei Porto ma la qualità dei suoi vini, alla luce degli assaggi dell’ultimo anno, è comparabile a pochissime altre etichette in circolazione; Henry Burmester, originario della Germania, si era stabilito con la sua famiglia a Londra agli inizi del settecento dove aveva avviato in poco tempo una compagnia di commercio di cereali da e per il Regno Unito.  Arrivato a Vila Nova de Gaja, in Portogallo, per tutt’altri affari, si accorse immediatamente del grande potenziale di questo delizioso vino che tanto lo aveva inebriato ma che tanto sembrava soffrire delle difficoltà di distribuzione commerciale sul mercato mondiale: è il 1750, nasce così la Burmester Port wine Company che ancora oggi sfoggia vini dall’ eccezionale valore degustativo e tipicità.

Porto Ruby, può essere questa l’arma vincente per avvicinare palati novizi ai vini di Porto. Se il Ruby nasce da una attenta selezione in vigna e da una grande passione per questa tipologia da parte del produttore non esiste rivale che tenga! Ha un colore rubino bellissimo, vivace, un naso accattivante e invitante. Questa tipologia di Porto si sa viene imbottigliato giovane per preservare la sua forza e la sua freschezza,  al naso si apre infatti con una gradevolissima vinosità e la fragranza di questo Ruby sorprenderà soprattutto per la continua eleganza con la quale manifesta i suoi dolcissimi e spiritati sentori fruttati e speziati. In bocca è riccamente dolce, per niente scontato, gioca di rimbalzo con una decisa acidità che gli conferisce un ottimo equilibrio degustativo; Da bere su dolci al cioccolato non troppo ricchi, o come consiglio di fare, ad una temperatura intorno ai 14 gradi, come aperitivo per papille poco inclini alle durezze.

Porto 20 Years Old Tawny, decisamente straordinario! Questo vino mi ha impressionato soprattutto per la grande qualità che esprime in tutte le fasi di degustazione, segno tangibile di un processo produttivo, dalla vigna alla cantina, senza mai tralasciare un solo particolare. Prodotto con l’assemblaggio delle migliori selezioni vendemmiali viene lungamente lasciato affinare in piccoli carati di rovere prima dell’assemblaggio finale. Ha un colore di gran fascino, ramato, cristallino, trasparente. Il naso è molto intenso e complesso, si fanno avanti note di frutta secca e vaniglia , la nocciola è nitidissima, quasi spalmabile, poi sensazioni mandorlate e di frutta candita. Un Porto di rara franchezza, finezza ed eleganza. In bocca entra con dolcezza prima di distendersi su note agrumate, addirittura quasi citrine, asciutto ed aromatico, dalla beva molto appagante, indimenticabile.

Porto 40 Years Old Tawny, come il vent’anni viene ottenuto dai migliori vini lasciati affinare in piccole botti di rovere con la differenza che il blend viene successivamente posto a maturare in grandi botti di legno datate 1864, praticamente antecedenti anche alla nascita della stessa Burmester Company. Il colore ricorda la buccia di cipolla ramata, con una  intensità di poco superiore a quello precedente. Al naso offre un ventaglio olfattivo molto complesso, particolarmente variegato, fiori secchi, miele, caramello, frutta secca, spezie e legno. In bocca è dolce, vellutato, la spiccata acidità è inizialmente coperta da una decisa dolcezza che pervade tutto il palato confondendo le papille gustative, nel finale di bocca ritornano le noti asciutte ed un finale di mandorla pestata molto piacevole. Da meditazione, cru di fondenti sudamericani alla mano.

Porto Colheita 1985, è una tipologia alla quale sono molto affezionato, decisamente poco conosciuta ai più sa esprimere invece Porto di grandissimo lignaggio. I Colheita possono essere vini della stessa singola annata di vendemmia ma provenienti da diverse vigne, spesso invecchiati in botte per almeno 7 anni prima dell’imbottigliamento e non di meno millesimati. Come detto godono di minore appeal rispetto ai Tawny ma solo perchè hanno un timbro, soprattutto gustativo, più ruffiano rispetto a questi ultimi. Di colore aranciato mediamente concentrato, ha un naso abbastanza ampio, note caramellate, tostate innanzitutto ed un gusto dolce, molto bilanciato e profondo, ogni sorso è accompagnato da piacere sublime, degno compagno per affogare rabbia e malumore, mai dolce più abbinabile di un soufflè meringato al caffè!

*Feitoria, è l’equivalente di azienda agricola.

Champagne, la bella stagione delle bollicine

31 Maggio 2010

Il vino più affascinante? Certamente lo Champagne! L’area viticola più famosa tra le più famose al mondo? E’ indubbio che si tratta della Champagne!

Per qualcuno icona del “bien vivre”, per qualcun altro sinonimo di ricchezza, per altri mera ostentazione di finezza ed eleganza mai appartenuta. Comunque vada non v’è nulla nel mondo del vino che abbia tanto valore simbolico come una bottiglia di Champagne, quella precisa etichetta o più semplicemente una flûte. Questo da sempre, e pare si perpetuerà per molti anni ancora nonostante in numeri diano in calo un consumo arrivato ormai a cifre esorbitanti che solo la fortissima crisi economica su certi mercati (soprattutto oltre oceano) ha accennato a frenare.

Appena qualche accenno su quella che è un area viticola di splendore unico, situata a circa 150 chilometri a nord-est di Parigi. Attualmente operano nella Champagne più o meno 15.000 viticoltori che coltivano e forniscono le uve a circa 110 maison che si occupano poi della loro lavorazione ed “elevazione” sino a dare vita al nettare tanto ambito dai ricchi e potenti quando amato dale persone più comuni.

Gli attuali “confini” regionali della Champagne sono ancora oggi delimitati dalla classificazione voluta dall’INAO nel 1927. Questa classificazione in senso generale avvenne innanzitutto per dare un proficuo valore commerciale alle migliori aree interessate e negli anni a seguire si è lavorato alacremente per far sì che proprio in queste aree, naturalmente particolarmente vocate, si concentrassero le migliori parcelle di vigne che oggi danno vita a vini di straordinaria opulenza e soprattutto eccezionale longevità. Questi vigneti corrispondono sempre ai comuni o parte di essi e sono oggi classificati in tre categorie, Grand Cru, Premier Cru e Cru. Ad oggi sono solo 17 i comuni che si possono fregiare della definizione Grand Cru, 41 i Premier Cru e i restanti 255 del distretto come Cru. Tra i 17 Grand Cru della Champagne vi sono nomi spesso ricorrenti nelle degustazioni che vengono fuori in giro per il mondo, non si può non ricordare Bouzy, Ambonnay, Verzy, Verzenay, Montagne de Reims; Aÿ, Chouilly, Cramant, Avize, Oger e senza ombra di dubbio Mesnil-sur-Oger, probabilmente il più ambito, avete presente Krug¤ o Salon?

Ecco quindi di seguito le prime note sparse di assaggi “rubati” in questa prima parte di stagione, una passione smodata, nutrita senza freni!

Taittinger Cuvée Prestige Rosé, il più buono degli Champagne rosé sino ad oggi bevuti, è il vino del cuore, dallo straordinario rapporto prezzo-qualità, lo Champagne da non far mai mancare nella propria cantina. Da uve Chardonnay e Pinot Nero, ha un colore che ricorda i petali di rosa, splendenti, bollicine sottili e finissime, un naso avvincente, floreale e fruttato di lamponi, in bocca è secco e lungamente minerale, da inebriarsi infinitamente.

Mandois Blanc de Blancs 2004. Una piccola etichetta, uno di quei vini che ha ancora bisogno di tempo per raggiungere una propria espressione autentica, piacerà sicuramente a chi cerca nelle bollicine acidità spinte, rustiche ed è alla spasmodica ricerca abbinamenti soprattutto per stemperare le note iodate dei crudi di mare. Possiede un discreto ventaglio olfattivo, non lunghissimo ma offre senz’altro un’ottima piacevolezza al palato, da riassaggiare tra qualche mese.

Bollinger Special Cuvée, un classico di sempre. Blend di Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier rappresenta una continuità ineffabile, ottimo vino da sbicchierare come aperitivo ma anche ideale per poter pasteggiare. Non offre spunti olfattivi particolarmente complessi, soprattutto a chi ama di Bollinger la Grande Année, ma state certi che se avete bisogno di uno Champagne per non sbagliare di questa etichetta vi potete fidare! Bel colore paglierino carico, tendente al dorato, bollicine piuttosto intense seppur non proprio finissime. Palato gradevolissimo.

Bruno Paillard Réserve Privée Blanc de Blancs. Champagne d’autore, di prim’ordine. Fragrante, avvenente, impulsivo e sinuoso nella beva. Chardonnay in purezza delle migliori parcelle confluito in quello che è nato come un gioco di piacere personale ed oggi condiviso dai migliori palati dei clienti più esigenti. Un grande Champagne per dare un valore aggiunto ad un appuntamento importante o più semplicemente per dare lustro al proprio piacere: “ma sì, ce le siamo meritate!”

Gosset Grand Réserve Rosé. Arriverà il Celbris ’98¤, conservo la recensione nel “cassetto” delle bozze del blog, aspetto però un riassaggio per avere conferme della non comune intensità e complessità olfattiva riscontrata in questo vino. Per il momento accontentiamoci di questo rosè dal bellissimo colore rosa tenue, profumato di caramella al lampone e saporito ed arcigno solo come il Pinot Noir sa esprimere. Buono a tutto pasto, specialmente su carni bianche e formaggi! 

Pommery Noir. Il marchio soffre di una distribuzione poco felice, quindi viene percepito – secondo me – in malo modo. Poi, sarò sincero, non posso nasconderlo, di recente nemmeno l’Apanage, uno dei loro must, mi ha fatto impazzire quando l’ho bevuto; però gli concedo volentieri comunque un passaggio tra queste mie note di degustazione. Mettiamola così, uno Champagne alla stessa stregua di una media bollicina franciacortina, sia chiaro, il prezzo (sui 33-35 euro in enoteca) non si discosta poi tanto da quest’ultima, però non è certamente quello che ci si aspetta da un vino elaborato con uve provenienti da aree delle più vocate della regione. Rimandato ad un nuovo assaggio.

Mumm de Cramant. Davvero ottimo questo Chardonnay in purezza proveniente dalle vecchie vigne di Cramant, uno dei Gran Cru della Champagne. Colore integro, paglierino tenue, bollicine finissime seppur non intensissime. In bocca è secco, piuttosto fresco ed abbastanza lungo, chiude su di un finale nocciolato e burroso davvero gradevole. Costa più o meno quanto uno dei più commerciali Champagne che si possano trovare in enoteca, da segnare in agenda!

Taittinger Grand Crus Prelude. E’ la maison che vanta il vigneto “in corpo unico” più esteso della Champagne e questo già la dice lunga sulla vocazione e la tradizione di casa Taittinger. E’ tra le pochissime, se non l’unica tra le grandi griffe ad aver conservato una propria autonomia rispetto ai grandi gruppi finanziari che di tanto in tanto razzolano marchi e proprietà sulla regione champenois, ed anche questo è un particolare che non va trascurato visto che si traduce costantemente in una conservazione di un rapporto prezzo-qualità di indiscusso surplus rispetto ai diretti concorrenti. E’ prodotto con le migliori uve provenienti dai Grand Cru di proprieà, Pinot Nero e Chardonnay di spessore per un vino invitante, dal naso orientaleggiante e dal sapore tanto austero quanto piacevolmente bilanciato. Da non dimenticare!

Healdsburg, Alexander Valley Pinot Noir 2006

18 marzo 2010

Quando hai un “modello” piuttosto che assuefarti alle sue facili reiterazioni devi ricercare la sua massima espressione, o le tante che si possono cogliere in giro, anche fosse nel mondo. Così quando ho deciso che “il mio vino” sarebbe stato il Pinot Noir è iniziata la mia rincorsa, non verso la ricerca della perfezione, semmai ne esista una al di fuori della Borgogna e in quello stretto lembo di terra chiamato La Tache, ma alla scoperta della sua più alta considerazione ed interpretazione, identità possibilmente precise, certamente diverse, ma reali espressioni di un luogo, di una vigna, di un vigneron, e quando sono stato fortunato, di una singola bottiglia!

Ecco che entrano in corsa gli amici, quelli veri, quelli che sanno che più dell’orologio o del borsellino Louis Vuitton (chissenefrega!) può una buona bottiglia del beneamato noir, fortuna mia li vuole, questi cari, superbi Amici di Bevute, sparsi qua e là nel mondo, o quantomeno capaci di girare (tanto e più di me) luoghi da vigne fantastiche o città dalle enoteche da sogno.

Alexander Valley Vineyards nasce nel 1962, quando vengono piantate nel vigneto le prime marze,  come consuetudine, di Cabernet Sauvignon, poi qualche anno più tardi, nel 1975 viene costruita la cantina e via via diversificato il vigneto. La storia ci consegna l’epopea di Cyrus Alexander che sarà in tutto e per tutto “deus es machina” di un successo rinnovato ogni anno ad ogni vendemmia nonché artefice promotore della denominazione che oggi porta in giro per il mondo con i vini dell’omonima azienda, passata nel frattempo nelle mani della famiglia Wetzel. Siamo in California, nella omonima AVA interna alla Sonoma County, per intenderci, ad una ventina di chilometri dalla vicina Napa Valley, senza dubbio una delle regioni viticole più famose al mondo.

Il vino è di un colore bellissimo, rubino con accenni tendenti al granato sull’unghia, trasparente ma non troppo. Il primo naso è intenso e particolarmente complesso, finissimo, franco, pare infinito. Si succedono profumi floreali e fruttati, poi speziati, balsamici, minerali: rosa e viola, lamponi e mora, cannella e liquirizia, grafite, un susseguirsi di sensazioni prima lievi, poi fragranti, ma per tutto il tempo costantemente presenti, non una semplice ascesa ma una persistenza nitida, un timbro olfattivo preciso, lineare, perfettamente integrato. In bocca è secco, certamente caldo e non fa niente per nascondere i suoi 14 gradi, acidità, tannino e glicerina fuse all’unisono, ma non si può dire certo ovattato, in poche parole, non è per niente “americanizzato”, il legno, rovere francese nuovo e di primo e secondo passaggio, è ben dosato, quasi impercettibile nella sua percezione gustativa, onestamente, un gran bel vino. Bevuto con altri Amici di Bevute alla tavola di Sud, un venerdì di passione, gourmet, con un piatto di Fettucce con coniglio alle olive nere e spolverati di mandorle: da applauso, entrambi ovviamente!

Nota a margine: negli Stati Uniti, sugli scaffali intorno ai 25 $, se non è questo un affare!

Mesnil-sur-Oger, Il Clos ’98 di Krug

17 marzo 2010

Il marchio Krug è sinonimo di prestigio, rara eleganza, inarrivabile succulente piacere della gola; può più una flute di champagne Clos du Mesnil che mille letture di esperti, masters of wine o millantati tali per comprendere l’essenza del messaggio che un vino del genere vuol lanciare, insidiare, lasciar comprendere, anche dal più comune dei mortali in cerca di brividi di gola: è la leggerezza.

Leggerezza necessaria per godere al meglio e sino in fondo di un vino, per coglierne il piacere di beva più alto, per rimanere conquistati da tutti gli aspetti di una analisi gusto-olfattiva ed analitico-descrittiva. Ci sono Champagne che brillano per colore e perlage, per la finezza, persistenza delle bollicine, altri per complessità di profumi, verticalità, e per consistenza di palato, ci sono taluni a volte che esaltano una grassezza di gusto imponente, quasi spiazzante. Ebbene, il Clos ne riassume, concentrando, esaltando, imponendo, ognuna di tutte queste caratteristiche traducendole però, consegnandole all’avventore anche meno educato, con uno stile inconfondibile, leggiadro, ficcante, deliziosamente sorprendente. Insomma, un grandissimo vino!

Clos du Mesnil nasce da una meticolosa selezione di chardonnay 100% di appena 2 ettari di proprietà nella Cote des Blancs tutti intorno al comune di Mesnil sur Oger, negli anni divenuto il Grand Cru più ricercato e prezioso di tutta la Champagne, e grande merito di questa affermazione è certamente legato indissolubilmente alla maison Krug. L’areale è suddiviso in 15 parcelle che vengono seguite passo passo sino alla vendemmia distintamente in maniera da rappresentare ognuna di esse una espressione propria dell’eterogeneità dei vari microclimi presenti sul territorio.

Lo stile è quello fortemente imposto dal terroir, le circa 250 degustazioni che supera questo vino prima dell’assemblaggio finale non sono altro che l’espressione della sua grandezza, della sua grande capacità di evoluzione nel tempo, il Clos du Mesnil infatti, sin dalla sua acquisizione era destinato a “fortificare” le cuvèe degli altri champagne di casa Krug, la Grande Cuvèe in particolare, ma già dai primi approcci Henry e Remy Krug con il loro papà si resero conto di una straordinaria materia prima tale da stravolgere gli equilibri prestabiliti. Nasce così uno dei vini più ricercati e desiderati di sempre, per molti il mito fatto bollicine!

Il ’98 è stata una annata piuttosto calda in Champagne tale da lasciar pensare di non assemblare il Clos ma di destinarlo alle altre cuvèe; Krug è forse la maison meno avvezza a millesimare i suoi vini a meno che non si paventino risultati di eccellenza straordinari, solo quattro infatti le vendemmie da cui sono nati vini millesimati negli anni novanta, il ’90, il ’95, il ’96 ed appunto il ’98. Il colore è scintillante, paglierino compatto con bollicine tutte in fila finemente, persistenti. Il primo naso è dolcissimo, di quelli da rimanerci le narici natural durante, sottili sentori di crema pasticcera, burro di cacao, cioccolato bianco cremosissimo, vaniglia, intensissimo e finissimo. In bocca è secco, piacevolissimo, l’acidità è palpabile ma ben distribuita, a tratti masticabile, la godibilità di questo champagne è da manuale, una bevibilità straordinaria nonostante una spina dorsale importante.

Un vino di cui innamorarsi, purtroppo non sempre alla portata, anzi tutt’altro, ma certamente indelebile nella memoria degustativa tale da sconvolgere i precedenti, creandone dei nuovi! Da bere fresco, non freddo, in calici da vino tradizionali, su tutto quello che merita la vostra attenzione!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Bar-sur-Seine, Champagne cuvée “D” Devaux

5 marzo 2010

Da buon napoletano, a sentir parlar di vedove non può che farmi rabbrividire. Da discreto sommelier (così dicono) però, mi sono abituato al tema, non fosse altro che per certe straordinarie bottiglie della più famosa delle vedove del vino, la prestigiosa Grande Dame Cliquot-Ponsardin, che negli anni mi sono passate tra le mani. A quanto pare però le veuves nel mondo del vino, dello champagne in questo caso, sembrano continuare a mietere successi, allegramente, ottenendo spesso, come appare, anche risultati eccezionali.

Nel 2006, quando ho incontrato per la prima volta questa etichetta sulla mia strada ero molto scettico, è già difficile scardinare le mie convinzioni in materia di bollicine d’autore, figuriamoci poi con uno champagne, misconosciuto com’era, e mai sentito prima di allora; Ma il fascino della scoperta e del confronto hanno sempre un certo peso nel convincermi all’approccio con un vino, così dopo un giusto tempo di meditazione mi sono avvinghiato alla flute, piuttosto assetato, scoprendo, devo ammetterlo, una piacevole sorpresa. L’occasione in verità era delle più propizie, un pranzo (in)formale domenicale alla tavola di Sud dove “les patronnes” Marianna Vitale e Pino Esposito mi hanno concesso l’opportunità di portarmene un paio di boccie da condividere con i miei ospiti. Ebbene, la Cuvée “D” si è rivelato un gran bel vino, uno Champagne davvero degno di nota e senz’altro meritevole di essere annoverato tra le più piacevoli delle esperienze “brillanti” di questo inizio anno.  

Un colore splendente, giallo oro vivace, dalle bollicine fini ed intensamente persitenti; All’olfatto, il primo naso si è dapprima offerto su note di lievito e di crosta di pane, poi aprendosi ci ha regalato sensazioni estrememente eleganti e gradevoli di agrumi, frutta secca, nocciola, polvere di caffè. Un ventaglio olfattivo eccitante e costantemente persistente, sublime, di qualità decisamente superiore.
In bocca un soffio di freschezza, si apre secco, abbastanza caldo, a tratti citrino prima di congedarsi con una vena decisamente cremosa, avvolgente, finissima, quasi vellutata, chiudendo con una piacevolissima sapidità. E’ uno champagne importante, esaltato da piatti altrettanto importanti, giocati su ingredienti di sostanza ma proposti con grande equilibrio e leggerezza: l’abbiamo sorseggiato, in sequenza, con Polpo e Polpessa croccanti su insalata di puntarelle (!), poi sulla cheese cake di baccalà (già divenuto un classico) ed infine sulle succulenti linguine con porri e salsiccia pezzente (da non perdere!). Marianna non poteva che deliziarci, proponendoci, tra gli altri, alcuni dei suoi ultimi piatti, ma la signora vedova Devaux non poteva rallegrarci con meglio!

Note: la Cuvée “D” di Devaux è uno Champagne prodotto con Uve Pinot Noir al 65% e Chardonnay per il restante 35% e mai “sboccato” prima dei 5 anni prima della commercializzazione. E’ Distribuito in Italia da MG-Villa Sandi, costa, in enoteca, sui 60 euro.

Leiwein, M.S.R.* Bockstein Riesling auslese 1990

8 febbraio 2010

Ladies and gentlemen heres to you… the Riesling! meriterebbe una presentazione da standing ovation questo Auslese di St. Urbanhof. Provo a riportarne la descrizione post emozionale , anche per la curiosa differenza notata nelle tre bottiglie assaggiate; Per la verità, la seconda era evidentemente di tappo, pertanto non rendicontata seppur al di là dell’evidente difetto olfattivo ha mostrato comunque un notevole spessore gustativo.

St Urbans-Hof Oekonomierat Nic. Weis (nome completo dell’azienda) è una cantina che si trova nel comune di Leiwen (siamo quindi nel Bereich Bernkastel) in Mosella, regione viticola in Germania, fondata nel 1957 da Nicolaus Oekonomierat Weis (1905-1971) che volle intitolare la tenuta al santo patrono dei produttori di vino, S. Urbano (Papa Urbano I). Ad oggi, l’azienda St. Urban-Hof conta un vigneto di circa 35 ettari in siti diversi dell’areale tra i quali lagen Bockstein (ad Ockfen), Goldtröpfchen (a Piesport, area vocatissima), Laurentiuslay (Leiwen), Saarfeilser Marienberg (Schoden) e Schlangengraben (Wiltingen, anche questo è un vigneto prestigioso). E’ inutile dire che il vigneto è perlopiù a Riesling con alcune eccezioni per il muller thurgau ed il pinot bianco.

Dopo diversi anni di attente sperimentazioni su alcuni cru aziendali dal 1999 qui vengono effettuate esclusivamente fermentazioni con lieviti naturali indigeni utilizzando regolarmente tini di acciaio o legno secondo le esigenze. Le bottiglie tutte dell’annata 1990 hanno in calce in etichetta una numerazione che riprende un pò l’idea del lotto di produzione; Ecco quelle da me assaggiate e delle quali riporto le degustazioni.

Bottiglia 2401219: Il primo approccio, la prima bottiglia di tre comprate per me da Vanni a Lucca da alcuni miei amici americani che conoscendo la mia passione, tra gli altri, anche per i riesling non hanno resistito a questa bellissima etichetta del 1990. Colore giallo oro cristallino, nessun cedimento al tempo, vivo, abbastanza consistente. Primo naso coinvolgente ma non troppo, per sentire tutto il suo “dire” l’abbiamo atteso per tempo, a temperatura moderatamente bassa. Menta piperita, fiori secchi, frutti esotici, stecca di vaniglia, miele, zucchero caramellato di assoluta finezza e con una persistenza abbastanza lunga. In bocca è dapprima abboccato, nessuna cedimento nemmeno in questa fase, poi si apre su di una una mineralità profonda ed elegantissima ricordandomi che il vino quando vuole ( e quando lo sanno interpretare) ha davvero un’anima inarrivabile. Bellissimo vino, bellissimo davvero. Da meditazione, da servire intorno ai 14 gradi in calici mediamente ampi, se proprio si vuole accostarlo a qualcosa da mangiare, beh, io c’ho provato con una caponatina estiva, tutto un dire, ma degustibus…

Bottiglia 2401342: ahimè è di tappo, per altro inizialmente mascherato dalla forte mineralità dei profumi di questo vino che hanno indotto Steve e Tammy a pensare non al difetto tanto odiato quanto ad una diversa evoluzione del vino. Ma era tappo, e la temperatura di servizio appena un pò più alta ha manifestato tutto il suo male. In bocca c’è da dire che era difficile scorgere difetti, è sembrato quasi più potente del precedente, più caldo con una sovraestrazione minerale ancora più incisiva e persistente.

Bottiglia 2401137: Colore ancora una volta inappellabile, bellissimo, oro splendente senza nessun segno di cedimento, abbastanza consistente nel bicchiere. Il naso, come e più di prima è ampio, finissimo, elegante, complesso e persistente. Qui la mineralità marcata ha sovrastato a lungo le sensazioni fruttate, eteree e speziate prima di lasciare il posto ad una sottile e piacevole rotondità mentolata. In bocca è fresco, profondamente godibile, pare masticare dolce acidità, è lungamente persistente.

*Mosel Saar Ruwer – nella foto una delle anse del fiume Mosella

Villars Fontaine, Le Haute Cote 2005

14 gennaio 2010

Croix et délice, croce e delizia, così mi appare questo rosso sanguigno borgognone di Bernard Hudelot. Abbiamo bevuto, qualche settimana fa con l’amica Cathy Stockermans un 2002 davvero giù di corda, dal colore gradevolmente brillante ma poco espressivo al naso, sottilissimo, fermo, e al palato aggressivo sino all’imbarazzo. Un frutto troppo amaro per continuare a sperare nel divenire. Ci ho riprovato l’altra sera, con il 2005, servito alla cieca ad un gruppo di Amici di Bevute. Il risultato? Niente a che vedere con l’esperienza precedente ma ciononostante lontano dagli standards manifesti della piccola azienda di Villars Fontaine e dalle aspettative trasferitemi dalla stessa amica blogger ed aspirante sommelier Cathy. 

L’azienda è stata creata da Bernard Hudelot che l’ha ereditata dal padre Ferdinand e riportata in vita dopo la parziale devastazione subita durante la seconda guerra mondiale. E’ il 1971 quando, dopo diversi anni di duro lavoro di consolidamento si iniziano ad innestare le prime nuove vigne di Pinot Noir e Chardonnay tra i vari climat della tenuta a seconda della specifica vocazione, nel Domaine di Montmain, a Les Jiromée ed intorno allo Chateau Villars Fontaine propriamente detto. Siamo nell’haute cote de Nuits, appena ad un palmo dal cuore della Borgogna più nobile, qui intorno infatti si levano al mondo i sospiri di alcuni dei migliori Pinot Noir in circolazione distesi sui terreni di Gevrey Chambertin, Aloxe Corton, Nuits Saint Georges e chi più ne ha più ne metta; il terreno ha una conformazione scheletrica profonda, a tratti rocciosa e spesso scosceso ed il clima è certamente più rigido rispetto ai paesi limitrofi, elementi che non hanno certamente reso vita facile, negli anni, al lavoro della famiglia Hudelot. Condizioni pedoclimatiche particolari, dicevamo, comunque buone per i bianchi a base Chardonnay, sempre ricchi di note aromatiche intense e complesse e con un gusto deciso e profondo, in certi millesimi avvicinabili ai migliori Mersault, la faccenda diviene un po più complicata per il Pinot Nero, quantomeno riflettendo sui tratti dipinti nel calice proprio qui nella mia mano, con un naso abbastanza pronunciato ma un palato sempre troppo duro da digerire con nonchalance. L’haute cote 2005 si presenta con un colore rosso rubino vivace, abbastanza trasparente e di media consistenza. Il primo naso è molto piacevole, invitante, note fruttate dolci ed ampio respiro ai sentori di origine secondaria e terziaria: ai primi riconoscimenti di mora di rovo e mirtillo si aggiungono subito dopo una netta sensazione di gomma e di leggero goudron, sottili ma abbastanza intense e persistenti, nel complesso abbastanza fini. In bocca l’inversione di tendenza, le note olfattive “ammiccanti” e comunque avvolgenti si trasformano in un gusto arcigno, duro, per niente levigato dal tempo, più che tannino appare acidità elevata alla massima espressione, insistente, permanente, oltemodo invadente. Sia ben chiaro, un vino certamente integro e a tratti, dopo una lunga ossigenazione, interessante, ma sempre troppo scostante, distante da un equilibrio gustativo pur necessario per poterne godere al meglio del frutto. Da rivedere tra qualche tempo, indagandone nel frattempo, il dna produttivo.

Denver, Colorado Cabernet Franc 2001

30 dicembre 2009

Spero Winery nasce nel 1996 quando June, moglie di Clyde Spero eredita un piccolo appezzamento di terra proprio a ridosso di Denver. Si decide, piuttosto che costruire immobili, di piantare un vigneto con la prospettiva di mettere su, nel tempo, una vera e propria azienda vitivinicola, ripercorrendo in qualche modo le tracce storiche della tradizione familiare paterna. La prima vendemmia arriva nel 2000, ed ai primi assaggi, tutto fa pensare a che si sia fatto un gran bel lavoro. I vini base risultano di particolare pregio, le uve selezionate, perlopiù vitigni internazionali mostrano di avere fittezza di aromi e carattere da vendere, pertanto la via maestra è imboccata.

La storia della famiglia Spero è per certi versi la stessa di tante famiglie italiane che agli inizi del secolo scorso hanno lasciato il nostro paese in cerca di fortuna negli Stati Uniti; Tutto nasce da Gaetano Spero, originario di Potenza, che ha appena 13 anni quando assieme a due amici, anch’essi poco più che adolescenti sbarca a Nuova York, con appena 5 dollari in tasca. Inizia qui il lungo viaggio che lo porterà ad attraversare praticamente tutti gli stati confederati dall’east coast sino in Colorado, dove grazie all’aiuto di alcuni lontani parenti che l’avevano preceduto, riuscirà a trovare lavoro in una miniera di carbone. Come da manuale, con il passare degli anni sono tante le ricorrenze e le tradizioni attraverso le quali si cerca di conservare un forte legame con le proprie origini, e Gaetano, le sue origini vulturine le vuole conservare seriamente tanto che lo portano di anno in anno, tra le altre cose, a produrre, in proprio, discrete quantità di vino (da uve internazionali) per il consumo familiare. Fare vino è un’arte che sa bene come interpretare: scegliere le uve, valutarle, vinificarle nella giusta maniera vengono affrontati con una tale perizia e maestria tanto da dover in più di una occasione rifiutare interessanti proposte di avviare una seria commercializzazione avanzategli da diversi amici-rivenditori locali. Clyde Spero, non ha fatto altro, qualche anno più tardi, che riprendere le fila di questa tradizione e la bontà dei suoi vini ne sono oggi tangibile testimonianza.

Il Cabernet Franc (conosciuto in giro per il mondo anche con i nomi Bouchet, Breton, Carmenet, Grosse-Vidure) predilige ambienti pedoclimtici freddi, è una varietà apprezzatissima se vinificata in uvaggio, soprattutto con il cugino Cabernet Sauvignon, che tende generalmente a stemperarne molto le sue note varietali soprattutto erbacee e vegetali, che ne fanno per questo un vitigno poco ambìto alla lavorazione più o meno al 100% (fatte le dovute eccezioni, una su tutte il mitico Chateau Cheval Blanc di Saint Emilion che è, per gran parte, proprio Cabernet Franc).

Nel bicchiere un vino rosso rubino con unghia granata appena accennata, è vivace e per niente trasparente. Il primo naso è molto invitante, appare subito intenso e complesso, fine; subito note di frutti rossi e fiori secchi, si riconoscono su tutti, sentori caramellati di lampone e amarena, poi lavanda, noce di cocco, poi ancora note balsamiche di liquerizia, cuoio. In bocca è importante, materico, profondo: è secco, molto caldo, possiede discreta acidità e poco tannino, scorre via in una beva di corpo, quasi robusta, con un finale di buona sapidità ed armonia. Un vino quasi masticabile, dal finale dolcemente equlibrato e lungamente piacevole. Da servire, dopo un’attenta ossigenazione, in ampi calici di cristallo per esaltarne tutte le sfumature organolettiche, su piatti importanti, bolliti come “dio comanda” o maialino cotto a bassa temperatura, piatti insomma di buona grassezza e succulenza da vendere, anche con intense aromaticità.

Sancerre, Cuvée Edmond 2002 Alphonse Mellot

11 dicembre 2009

Difficile pensare ai grandi vini bianchi e non menzionare Sancerre, difficile pensare di aver bevuto grandi sauvignon senza prima aver “passato per le armi” i vini di questa denominazione, difficile, quasi impossibile non amare i vini di Alphonse Mellot ed in particolare questo straordinario Cuvée Edmond 2002, ricco, di carattere, ancora impulsivo nella sua profonda mineralità gustativa.

Siamo in Francia, naturalmente. Nella Loira più caratteristica per alcuni, meno conosciuta per altri, siamo nella città di Sancerre che ancora divide la sua origine etimologica tra Giulio Cesare ed i Sassoni che proprio sulla collina dove oggi si erge il centrocittà si insediarono durante in regno di Carlo Magno. Ci troviamo di fronte ad un bellissimo vino che ha tanto da raccontare di se e della sua terra, un vino austero e brillante, fragrante ed invitante, complesso e sorprendente. Duemiladue, dicevamo, ma potrebbe essere un vino di uno o due anni al massimo, l’equilibrio e la continua profusione di aromi varietali ed eterei tengono attaccati il naso al bicchiere e costantemente il palato assetato.

L’aspetto nel bicchiere è limpido, cristallino, luminoso, giallo oro netto, di buona consistenza. Il primo naso è un effluvio di sentori erbacei secchi, fiori e frutti dolci, note balsamiche. Camomilla e menta piperita, poi miele,  mango ed albicocca, ancora sentori di grafite e pietra focaia. In bocca è secco, caldo, decisamente fresco, vira continuamente la sensazione calorica di un struttura importante verso una spiccata mineralità che apporta freschezza di beva e continua sapidità.

Un vino perfettamente armonico, di estrema piacevolezza ed equilibrio gustativo. Nasce da sole vecchie vigne di oltre cinquant’anni del Domaine de La Moussière, nel cuore dell’appellation Sancerre; alcuni dati ricevuti dall’azienda indicano che le masse di sauvignon blanc delle varie parcelle della vigna percorrono strade diverse prima di incrociarsi per l’affinamento in barriques. Circa un 60% del mosto viene lasciato fermentare in legni nuovi, il restante in legni di primo e secondo passaggio, succede un percorso di affinamento che di millesimo in millesimo può variare tra i 10 ed i 14 mesi. Stupendo se abbinato a pesci salsati, ma non vedo come non potrei cedere di fronte ad un più tradizionale Baccalà fritto.

Clos des Goisses 1996, applause!!

24 novembre 2009

La ricerca dello champagne preferito non ha fine, ci sono esempi storici, camei indimenticabili di imperatori e re follemente innamorati di questo o di quello champagne; governatori,  papi e starlettes capricciosi sino all’inverosimile tanto da meritarsi dediche di intere cuvèe.

Perché stupirsi allora quando a marcare il visibilio più totale è l’annata del cuore, quella da non far mai mancare nella propria cantina, quel vezzo tanto prezioso che caratterizzava tanto la molto beneamata Madame Pompadour, fiera devota al suo Moet del 1746 quanto l’ineffabile James Bond, vinto solo dal fascino del suo Bollinger RD. Il Clos des Goisses è il gioiello di casa Philipponat, uno champagne molto particolare, non per tutti o almeno per coloro che pensano e credono che le bollicine d’oltralpe siano solo un vezzo per viziati e sedicenti imbonitori. Questo cru Nasce a Mareuil sur Ay, in un vigneto-giardino bellissimo che costeggia gli argini del fiume Marna, un climat da cartolina, una veduta da perderci il fiato. Il ’96 come molte delle precedenti annate è stato prodotto con un blend di pinot noir e chardonnay, con il principe dei vitigni a baca rossa prevalere per il 70%  e solo in minima parte affinato il legno.

Il 1996 è uno champagne di rara personalità, ha un colore paglierino brillante, scintillante, possiede una trama di bollicine fitte ed eleganti, persistenti, infinite, cloni a se stesse. Il primo naso è una spruzzata di agrumi, di spezie orientali: buccia limone, pompelmo, poi ginger, foglia di thè e cannella. Un ventaglio assai fine e fitto, complesso e persuasivo, avvincente, inebriante; il gusto è secco, intenso, abbastanza caldo, per niente morbido, spiccatamente citrino: taglia il palato in profondità, una volta mandato giù il primo sorso, per 3,4,5 secondi hai solo il piacere di chiudere gli occhi ed immaginare bevute simili, un confronto decente, una prospettiva futura, così ti convinci di berne ancora, di ricercare altre sensazioni. Ti accorgi così di navigare a vista, speri in un punto di riferimento che non c’è, torni a metterci il naso dentro, lo riassaggi, esprimi una doverosa contropinione sulla sua fittezza di acidità, gli concedi più o meno un ventennio per smussarla e per goderne ancora: cavolo ma è il Clos des Goisses di Philipponnat, punto e basta!

A questo punto sarebbe opportuno buttare giù un paio di piatti adatti ad avvicinare cotanta ricchezza organolettica, ecco allora che mi vengono a mente un paio di esperienze, una recentissima che è la lasagnetta di lingua di vitello in guazzetto di Tartufi di mare di Marianna Vitale del ristorante Sud di Quarto, l’altra mi appartiene per convenzione: la scacchiera di mare di Oliver Glowig (qui), forse il piatto più emozionante (qui conta poco essere di parte) mangiato nel 2009 assieme alla creme brulée di baccalà di Francesco Sposito di Taverna Estia.

Rochioli 2001, Pinot Noir californication

21 novembre 2009

California patria di chardonnay e terra eletta del cabernet sauvignon, ma anche terroir eccezionale, nella Russian River valley per il pinot noir. Siamo nel cuore della Sonoma County, lungo le sponde del fiume Russian che da il nome all’Ava (american viticultural area) che denomina questo superbo vino. Difficile pensare ad un Pinot Noir con questa materia estrattiva, e pensare che anche in Italia ci hanno provato in molti, aldilà dell’areale che molti vedono come maggiormente vocato nel nostro paese come l’altipiano di Mazzon, in Alto Adige: da Antinori a Castello della Sala al Gruppo Italiano Vini nella tenuta di Machiavelli nel cuore del Chianti Classico, Fontodi nella stessa Toscana piuttosto che Maurizio Zanella in Lombardia ma i risultati sono sempre stati poco entusiasmanti.

Il ragionamento di base è quasi sempre lo stesso, terreni più o meno avvicinabili per caratteristiche di natura e composizione simili, la scelta delle migliori marze spesso di origine borgognone, condizioni climatiche con non poche similitudini, esperienza da vendere dei vignerons ma ahimè il risultato non è mai stato così scontato come appare. Il Pinot Noir ha forse bisogno di qualcos’altro, forse di quell’alchimia che non è possibile prevedere, che non è assolutamente possibile creare artificialmente, replicare schiacciando magari un bottone: ecco, forse come nascono i grandi Pinot Noir!

Questo vino è sinceramente buonissimo, nasce come detto in una delle aree più vocate al mondo fuori dal vecchio mondo; Quando, nel 1938 la California è stata inondata di tagli bordolesi solo qui si è pensato di dare respiro al sogno di una eleganza senza la grassezza del Cabernet o la vivacità del Merlot puntando alla subliminazione del vitigno principe, quel Pinot Noir così complicato da decifrare ma tanto affascinate, così austero quanto generoso nel tempo, magari tanto da concedersi alla stessa maniera dei grandi Volnay, Musigny, Richebourg ecc…

Il vino si presenta con un bel colore rubino tendente al granato, soavemente trasparente e di media consistenza. Il primo naso è davvero affascinante, le note olfattive sono in piena elevazione, la bottiglia è aperta da parecchio e le sensazioni dapprima fruttate mature virano costantemente su note tostate, caramellate, speziate, animali sino a sfumature di terra e lievemente ferrose. In bocca è secco, caldo e di buona profondità gustativa. Un vino costantemente appagante. Chi ama non può che lasciarsi amare da questo vino, hai voglia di pensare agli abbinamenti, non vi è nulla che non possa subliminare il piacere di girare questo nettare nel bicchiere. Utile come accennato aprire la bottiglia un paio d’ore prima, da servire in ampi balloon ad una temperatura intorno ai 16 gradi.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Haut-Brion 1996, vive la souplesse!

17 novembre 2009

Haut Brion

Chi non ha mai pensato a questo grande vino come “il” grande vino per antonomasia? Molti, statene certi. Quasi sempre in compagnia di tanti altri mostri sacri d’oltralpe, da Mouton-Rothschild a Chateau Margaux, da Cheval Blanc a Petrus ha sempre goduto di ottima fama, spesso catalizzato l’attenzione degli eno-appassionati sino al punto di divenire agli occhi dei meno esperti un diamante per sempre luccicante sotto al sole, icona di una esperienza elettiva forse irrepetibile.

Poi negli anni la cultura del “grande vino” ha spostato qua e là qualche macigno di vetusta sapienza, il web ha fatto il resto rivoluzionando la conoscenza e consentendo a molti di sapere e ai tanti che credevano di sapere solo loro di doversi confrontare e finalmente (a volte) di ficcare meglio il naso nei bicchieri (e mano al portafogli) e meno tra le pagine strappate qua e là sulle riviste patinate francesi. Sì è proprio così, di questi vini spesso si è più parlato per sentito dire che per esperienza vissuta, raccontati anche quando forse nemmeno mai bevuti.


Il millesimo è stato il risultato comunque ottimo di un andamento stagionale davvero tribolato, come pochi negli anni novanta così sofferti, con una estate abbastanza siccitosa sino a metà luglio e giornate piovose ed umide sino a poco prima dell’epoca vendemmiale di fine settembre.

Di fronte a me un nettare limpido di colore rubino con piccole nuances aranciate, ancora pieno nella sua consistenza. Il naso è un effluvio di sentori e profumi che vanno da piacevoli sensazioni vegetali (mai così palese la nota di peperone rosso) ad espressioni candite, da dolci note caramellate a fini percezioni speziate, un corpo deciso, morbido sino alla persuasione ed avvinghiato ad una freschezza ancora vivida, equilibrata, costante, insomma un gran vino didattico per definizione, in materia di taglio bordolese e delle Graves in particolare.

Per me, semmai ve ne fosse stato ancora bisogno, una indispensabile guida liquida per capire quanto i vini francesi sono davvero grandi e quanto siano sinteticamente disarmanti nelle loro raffigurazioni olfattive e gustative. Servito in ampi calici, preventivamente decantato, abbinato al Piccione in salsa di noci nere e purè di prezzemolo e carote di Oliver Glowig.

© L’Arcante – riproduzione riservata