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Torrecuso, aspettando La Rivolta

27 novembre 2009

Torrecuso, Fattoria La Rivolta. Il gioiello di Paolo Cotroneo e famiglia.

I colori più belli dell’anno, Torrecuso è il posto più suggestivo del Taburno.

Come dire, rifarsi gli occhi dopo aver ritemprato il palato.

La natura sa essere molto suggestiva, soprattutto dopo aver donato i suoi frutti.

 

Sorbo Serpico,Taurasi 1993 Feudi di San Gregorio

26 novembre 2009

Dinamicità, evoluzione, crescita. Termini affascinanti comuni a molti trattati di gestione e marketing aziendale, parole che divengono dogmi se ben supportati, argomentati e comunicati.

I professori universitari fanno a gara ad imporre il proprio modello, a definire una teoria vincente vestibile ad ogni realtà manageriale, che sia allocata in una delle grandi metropoli mondiali o nel cuore della campagna irpina, che si facciano zip o che si pestino uve, che si giochi nell’immobiliare o che si metta un’altra pietra sopra la porta o un’altra barrique della propria cantina. Ecco Feudi di San Gregorio, azienda nata nel 1986 e da allora in continua crescita, evoluzione inarrestabile, dinamicità incontrollabile. Osannata ed odiata, premiata ed interdetta, schivata e ricercata ma sempre e soltanto se stessa, una coscienza moderna apparentemente senza passato fortemente votata al futuro; una stella caduta nel cuore dell’Irpinia non per terminare il proprio viaggio, la propria vita scintillante ma per stravolgere, sconvolgere, soverchiare una viticoltura, appunto, statica e racchiusa su stessa, su quello che è stato e su quello che aveva difficoltà di esprimere e di essere: un valore aggiunto al patrimonio enologico italiano.

Feudi osannata, dicevamo, dai distributori, “vini che si vendono da soli” ed odiata dai facinorosi terroiristi del vino “quale identità territoriale?” , Feudi premiata da tutte le guide possibili ed immaginabili “…persino in Lapponia” ed interdetta su tutti i fronti per il primo Merlot 100% campano, schivata così dai  “grandi” talent scout cronisti del piccolo è bello ma sempre più ricercata – mah …stranezza tutta italiana – quando ci si rende conto che alla fine si hanno davvero pochi argomenti su cui trattare la materia in regione o elargire consensi e prestigiosi riconoscimenti. Feudi di San Gregorio a poco più di vent’anni dalla sua fondazione è già tutto questo, incredibile!

Il Taurasi 1993 può in qualche modo rappresentare tutto quanto scritto di questo percorso nella sua disarmante liquidità, al di là dell’essere la prima annata prodotta con la fascetta d.o.c.g. e di avere una veste quasi felliniana sacrificata al tempo in divenire; Un vino nato dalle mani sapienti di un’allora astro nascente dell’enologia campana, quel Luigi Moio giramondo ma fortemente attratto, già allora, dall’austerità dell’aglianico di queste terre ancora poco conosciuto ai più, un vino perfettamente integro, evoluto sì, risoluto pure ma espressivo di un Taurasi lontano nel tempo ma vicino nel gusto di chi vuole e vede nell’aglianico il Barolo del sud, il fratello, senza minore, dei grandi vini italiani e non l’imitazione spudorata e caricaturale dei cugini d’oltralpe.

Il colore è rosso rubino con tendenza al granata e con evanescenti venature aranciate sull’unghia, mediamente consistente e poco trasparente. Il naso è subito terziario, elegante, intenso e complesso, si riconoscono nitidamente cuoio, polvere di cacao, pepe, cannella; alla lunga è il frutto a ritornare deciso, piccoli frutti rossi disidratati, frutti secchi, noci. In bocca è secco, abbastanza caldo, il tannino è nobilmente assopito, ben legato ad una acidità sommessa ed in armonia con una intensa sapidità che accompagna tutta la beva.

Un vino certamente franco, espressione conclusiva di un percorso temporale giunto al suo apice, un vino frutto che è stato un piacere ritrovare, tanto caro alla mia memoria: proprio le bottiglie dei Feudi assieme a quelle di Mastroberardino sono state le prime a passare tra le mie mani di apprendista sommelier, erano tempi di duro lavoro, di mille coperti alla settimana e di tanta ma tanta carne alla brace, e di molte, tantissime bottiglie aperte ed assaggiate per accrescere il mio palato. Una esperienza, questa bevuta, che per qualcuno può fare o non fare notizia, per me ha solo confermato che la dinamicità, l’evoluzione, la crescita sono valori più che termini che se gestiti bene non possono che migliorare la storia, di un’azienda come di un vino e di un territorio!!

Barile, terra del vino

26 novembre 2009

Barile, veduta panoramica delle antiche cantine nel centro storico

la terra vulcanica, arsa nei vigneti di Paternoster a Barile, Vulture

La piccola barriccaia di Rino Botte a Barile, Cantine Macarico

Nuovi impianti di aglianico del vulture, razionali e votati alla qualità

Il Vulture secondo Elena Fucci, in verticale

26 novembre 2009

la Familgia Fucci al completo, Elena in primo piano con il suo aglianico tra le mani.

L’occasione era di quelle da non perdere, una delle prime e delle poche uscite di Elena Fucci qui nei Campi Flegrei, il luogo che le ha splancato la porta dandogli il benvenuto è l’accogliente Osteria di Nando Salemme, Abraxas; Sono convenuti molti amici, anche produttori per assistere a quella che si è poi rilevata una bella e piacevole serata in compagnia di buoni piatti e di questo interessante aglianico del vulture, bevuto in verticale, sgraziato ed avvincente da millesimo a millesimo. Ecco com’è andata la verticale:

Aglianico del Vulture Titolo 2005 L’aggettivo che meglio esprime questo vino è sicuramente “ammaliante”, con tutto quello che può rappresentare nella sua ampia interpretazione. “Delle tre ultime annate prodotte, 2006, 2005, 2004 – dice Elena – non abbiamo registrato variazioni climatiche particolarmente incidenti sulla definizione complessiva del nostro Aglianico”, io le credo senz’altro, ma nel bicchiere mi ritrovo comunque un vino da raccontare con un tono diverso. Il colore è rosso rubino, poco trasparente e manifesta nel calice buona concentrazione glicerica. Il primo naso è intenso e avvolgente su note di piccoli frutti rossi surmaturi, poi vengono fuori note speziate (pepe) e sensazioni terziarie molto interessanti, cuoio e smalto in primis. In bocca si pone intenso ed abbastanza persistente, il frutto diviene quasi masticabile, di buon corpo; Si può tranquillamente affermare di stare bevendo un vino con un’ impronta più godibile, immediata, ma senz’altro poco calzante alle aspettative di chi si aspetta un Aglianico più austero.

Aglianico del Vulture Titolo 2004 La prima annata condotta personalmente da Elena Fucci, con i consigli in vigna del nonno e con tutto il suo personale amore ed estro tra vasche e barriques, quest’ultime scelte dopo alcuni anni di ricerca e sperimentazione con l’azienda francese Boutes di Bordeaux. Il colore riprende note cromatiche molto affascinanti, rosso rubino con lievi sfumature granata, abbastanza trasparente e di buona consistenza nel bicchiere. Il primo naso è assai intenso su note evolute, con un approccio balsamico e con una evoluzione in spezie, cuoio, liquirizia. In bocca è asciutto, intenso e di buona persistenza, sorretto da una buona acidità, con un tannino levigato ma ancora presente e tangibile, mai invadente per tutta la beva. Un gran bel vino, da goderne adesso e certamente per chi ne avrà la possibilità da non perdere di vista nei prossimi anni.

Aglianico del Vulture Titolo 2003 Della vendemmia in questione si è parlato tanto e forse troppo, dei numerosi problemi che ha causato la calura estiva e dei trampolini che molti viticoltori hanno dovuto usare per rimanere attaccati al mercato. Adesso però che si iniziano ad aprire le bottiglie, dopo un lapalissiano tempo di attesa si hanno piacevoli scoperte. Nel Vulture la sensazione catastrofica dell’annata per la verità non la si è avuta sin dall’inizio e – come dice Elena Fucci – “prima ci hanno detto che correvamo il rischio di buttare tutto via, poi l’anno dopo si sono distribuiti alla 2003 premi a destra e a manca”. Si sono dimenticati però di premiare questo bellissimo vino, aggiungo io, curato sino all’estrema ratio da Sergio Paternoster: di colore rubino carico, poco trasparente, consistente. Un naso eccelso, pulito, con un approccio elegante e fine su note aromatiche che vanno dal floreale passito, al fruttato in confettura, allo speziato al sentore animale di pelliccia. In bocca è secco, austero alla vecchia maniera, sorretto da una acidità masticabile e da un tannino che proprio non ne vuole sapere di assopirsi. Carattere da vendere.

Qui un bell’articolo di Monica Piscitelli che è stata a trovare Elena in azienda.

Sant’Agata de’Goti, Mustilli

24 novembre 2009

Vigneto di Falanghina dove nasce il Vigna Segreta di Mustilli

Vecchie bottiglie, memoria storica liquida della famiglia Mustilli

Femminella di Falanghina, la vendemmia ha già avuto il suo corso

Solo i grappoli più sani vengono portati in cantina, il buon vino nasce così

 

Quarto, dietro l’angolo c’è Sud

23 novembre 2009

E’ domenica mattina, ancora alle prese con i ringraziamenti per gli auguri per il mio compleanno appena trascorso quando mi imbatto sul promemoria di oggi che mi dice: Sud!

Oggi si va fuori, proprio dietro l’angolo di casa, più o meno, mi metto al telefono e chiamo per prenotare il tavolo nel ristorante di Marianna Vitale e Pino Esposito a Quarto. Arriviamo perfettamente in orario, sono circa le due, ci accoglie Stefania che ci accompagna al nostro tavolo; Pino ci saluta con calore, quel “vi aspettavamo” più che un accoglienza doverosa suona come un grande attestato di stima, potenza della rete.

Il menu nel complesso è esaustivo, cinque antipasti, altrettanti primi piatti e secondi, una deliziosa proposta di desserts; sono tentato dal “degustazione”, 6 piatti con due antipasti e due primi, un secondo ed un dessert a libera scelta dalla carta, davvero encomiabile per il prezzo (35 euro!), ma decidiamo con Lilly di scegliere à la carte.

Ci arrivano in sequenza il tortino di scarole, pane croccante e polpo su passatina di fagioli cannellini e ristretto di piedirosso (nella foto di M. Alaimo), un piatto dall’armonia disarmante, poi la lasagnetta di lingua di vitello con friarielli e tartufi di mare, che vuoi o non vuoi merita un applauso oltre che per la bontà, per l’intuizione e per il coraggio nel proporla e una cheesecake di baccalà profumato al finocchietto con ceci e pomodori confit, un gioco di tendenze dolci, acidità e sapidità ancora a favore delle prime ma di riuscita appetibilità.

I due primi sono due esecuzioni esemplari di innovazione e tradizione, le linguine con astice e cicerchie dei Campi Flegrei (quelle di Luigi Di Meo de La Sibilla) e gli ziti lardiati al sugo di coniglio, quest’ultimo più leggero (e digeribile) di quanto appaia citato in carta. Segue il trancio di lampuga in guazzetto di frutti di mare e broccoli e il Baccalà fritto in pastella, sapori nitidi di un mare vivo, non poi così distante da quella vista sul golfo di Pozzuoli dove Pino e Marianna avevano sognato di aprire il loro Sud prima di scegliere Quarto. Chiudiamo con un delizioso cremoso al caffè ed un morbido di “ricotta&pera” convincente, ci lasciamo poi persuadere dall’assaggio della crostatina al cioccolato fondente meringata, chiusura ad hoc per un pranzo della domenica da Diario enogastronomico.

Dalla carta, sinceramente esaustiva nella proposta, ho scelto di bere dapprima un tradizionale Greco di Tufo Novaserra 2007 di Mastroberardino, ma non convinto del tutto dalla bottiglia (lievissimo “tappo”) con la comprensione di Pino abbiamo optato per un solido e fresco Fiano Colli di Lapio di Clelia Romano. Intelligente l’offerta del benvenuto con l’Asprinio d’Aversa brut di Grotta del Sole (così si fa, territorio!) accompagnato da una interessante amouse bouche, pancetta arrostita su quenelle di ricotta e passatina di friarielli. L’ambiente è molto curato, caldo nonostante i colori apparentemente freddi, la tavola è apparecchiata in maniera elegante, moderna ma non eccentrica, a guardarsi intorno risulta molto interessante il sobrio passaggio fotografico che gira tutt’intorno la sala; il servizio è gestito molto bene dallo stesso Pino e dalla brava Stefania, attenta, puntuale (talvolta oltremodo), assolutamente professionale nei tempi e nei modi con i quali si propone agli avventori. Questo è Sud, quello che ci piace cercare e trovare nei piatti, condividere!!

Nota aggiuntiva del 28 Febbraio 2010: torniamo con piacere alla tavola di Pino e Marianna per un pranzo domenicale, con noi alcuni amici. Scopriamo l’inedito di nuovi piatti tra quelli già divenuti un classico della proposta di Sud, come la cheesecake di Baccalà o desserts come la crostatina meringata piuttosto che il cremoso alla liquirizia; aggiungiamo alla lista dei ricordi più saporiti, Polpo e Polpessa croccanti su insalatina di puntarelle, un modo elegante e composto di proporre “la frittura”, con materia prima freschissima, cottura biondissima ed insalata perfettamente condita. Da plauso le linguine con porri e salsiccia pezzente, connubio intenso ed armonico di aromaticità, tendenza dolce e succulenza, davvero un piatto intelligente, semplice nella sua essenza, ma perfettamente eseguito ed integrato in un menù degustazione che rimane, nella sua interezza, sempre su standards elevatissimi e a prezzi favorevolissimi.

La carta dei vini ha subìto qualche ritocco in positivo, la presenza di alcune verticali di vini campani sta a dimostrazione del fatto che si vuole crescere anche in cantina, opportuno però rivedere, di questi, alcuni ricarichi, un po’ troppo fuori mercato. Il servizio ricevuto, nonostante il locale fosse pieno, conferma, se ce ne fosse stato bisogno, le ottime attitudini di Pino e Stefania: garbati, presenti, disponibili. Da segnalare infine gli ottimi pani serviti, quello con le alghe veramente delizioso!

Nota aggiuntiva del 12 Marzo 2010. Ancora a Sud: la voglia di farlo scoprire ad alcuni amici a cui era ancora sfuggente era tanta. Ci sediamo di venerdì sera in un clima da sold out, le prime avvisaglie si hanno con la frenetica corsa di Pino e Stefania, che lo aiuta in sala, ad aprire la porta agli ospiti. Siamo raccomandati, o più semplicemente, avendo la carrozzina della bimba, ingombranti, otteniamo quindi lo stesso tavolo della volta precedente: comodo, a prima vista sulla cucina e però latente al vocìo che man mano si alza alle nostre spalle.

Tra le conferme, innanzitutto gli standards sempre costanti del servizio, si dispensano sorrisi, educazione, disponibilità. Proviamo oltre ai consolidati piatti citati nelle precendenti recensioni, ancora tre novità: Spaghettoni cacio e pepe con bianchetti, perfetto equilibrio tra l’aromaticità del condimento e la fragranza dei freschi bianchetti, grassezza e succulenza del cacio unita magistralmente alla sottile speziatura del pepe; ottime anche le fettucce con il coniglio ed olive nere sploverate di mandorle, anche qui esaltazione, quasi didattica, di tutti gli elementi componenti il piatto: cottura della pasta al bacio, coniglio saporito, condimento essenziale, avvolgente e non stucchevole.

Marianna sembra rincorrere nei suoi piatti oltre la perfetta coniugazione dei sapori che li compongono, anche i colori, ognuna delle sue preparazioni esprime una cromaticità che non passa inosservata, lampante ad esempio quando ci si ritrova davanti la sua cheesecake di baccalà, una girandola di colori prima che di profumi e sapori nitidi. Deliziose le costine di agnello, fuori carta e proposte scottate in padella con un semplice contorno di broccoli: anche la semplicità pare acquisire maggior fascino tra i fuochi di Sud. Questo è tutto, cronaca di una costante ascesa, a cui ogni buon appassionato della buona cucina vorrà partecipare!

Ristorante Sud
Via SS Pietro e Paolo n° 8
Quarto (Napoli)
tel. 081.0202708
www.sudristorante.it
Aperto la sera, domenica e festivi a pranzo
Chiuso il lunedì

Frasso Telesino, la première Fois

23 novembre 2009

Capita per caso da queste parti, sa che quattro chiacchiere non le facciamo mai mancare, in più lo turba la scelta della nuova etichetta dell’aglianico Donna Candida di prossima uscita, pertanto ci concede una ragione in più per alimentare argomentazioni.

Entra nel bel mezzo di Diario di una Bevuta, il Terra di Lavoro di Galardi è di scena ma non ha, sino ad ora imbroccato il piano sequenza giusto per impalarci davanti al bicchiere, per cui in attesa di segnali più convincenti  l’happening vira più che sul vino versato su fatti di altri vini, persone, luoghi. Fulvio Cautiero è un giovane dalla faccia pulita, è sveglio, educato, attento; è entrato nel mondo del vino in punta di piedi, era il 2002, con l’intelligenza e con l’entusiasmo di chi a 26 anni anziché sognare Belen o il Grande Fratello ha voglia di sporcarsi le mani con la terra: 2002, pessima annata, per molti anche l’inizio della lunga crisi economica che ancora oggi ci attanaglia.

Nulla però negli anni ha fatto vacillare il suo progetto alle pendici del Taburno, in località Frasso Telesino, comune sconosciuto (quasi) persino alle mappe di google ma non alle strade del vino: “qui il vino c’è l’hanno nel sangue, ma tengono la capa tosta”, diceva suo nonno Giovanni Di Mezza, contadino per vocazione e viticoltore per passione riferendosi alle enormi potenzialità dell’area e all’assoluta incapacità di fare sistema puntando sulla qualità. Dopo aver rilevato la Masseria Donna Candida, 4 ettari nel cuore del Sannio, Fulvio ha sviluppato un percorso conoscitivo del terroir molto profondo, per circa due anni si è dedicato in maniera costante allo studio dei terreni, qui generalmente ricchi di scheletro e di natura argilloso-calcarei pur non senza differenziazioni da sud a sud-ovest della tenuta, ed ha nel tempo, reimpiantato tutte le vigne vecchie, molte delle quali allevate male o con sistemi obsoleti. Oggi l’azienda arriva a produrre circa 9.000 bottiglie tra falanghina, greco ed aglianico, tra un paio di anni si supereranno le 10.000 con il cru Donna Candida che esordisce quest’anno con poche bottiglie di una possente vendemmia 2007 (di cui parlerò in seguito) ma che entrerà a pieno regime nel 2011.

Il Fois 2007 invece è il vino per così dire base, rientra nella doc Sannio (preferita alla doc Solopaca) e lasciando stare le prime, personali, riserve sull’etichetta lo mettiamo subito alla prova, anche perché nel frattempo il pur buono Terra di Lavoro 2006 ci fa mancare il suo apporto emozionale, soprattutto al palato dove una spiccata acidità, assolutamente inaspettata e quasi fastidiosa, ci tiene lontano da ammiccamenti e standing ovations. Colore rubino con netti riflessi porpora, concentrato nel bicchiere, poco trasparente, invitante.

Il primo naso è spiccatamente floreale e fruttato, si sentono nitidamente viola, amarena, mirtillo. Lo lasciamo respirare un poco, ha una nota terziaria che tarda a svelarsi; Fulvio ci spiega che il Fois viene lasciato per circa un anno in barriques di terzo passaggio, ecco quindi la nota tostata che addiviene lievemente amara in bocca, qualcuno l’aveva percepita come sentore di tabacco, caratteristica per certi versi dell’aglianico amaro di queste parti, ma non di questo vino che nasce da cloni “vulture” e “taurasi”. Il giusto tempo di attesa ci concede altre riflessioni sul Terra di Lavoro e l’ossigenazione al vino una beva davvero piacevole, intrisa di frutto, fresca e scorrevole nonostante i 14 gradi abbondanti (14.28): in cinque la bottiglia è sparita prima di fargli i complimenti, poco prima dell’ultimo boccone di pizza nel ruoto con origano ed olive nere di mia suocera.

Terra di Lavoro 2006, appuntamento mancato

21 novembre 2009

Premessa: ho scoperto personalmente Galardi poco più di una decina di anni fa, ne avevo sentito parlare durante una bella serata di degustazione presso l’enoteca La Botte di Casagiove, dove, aspirante sommelier mi ero recato con alcuni amici di bevute. Poco dopo, incuriosito e convinto che ne valesse la pena organizzai con gli stessi amici una giornata fuoriporta a Roccamonfina, ufficialmente per raccogliere castagne e mangiare il casatiello ma in realtà avevo già fissato un appuntamento con la signora Maria Luisa Murena con la speranza di fare un giro in cantina a San Carlo di Sessa Aurunca alla scoperta di questo nuovo gioiello di cui si parlava un gran bene e si diceva lanciata alla conquista di un posto al sole nella enologia campana.

L’azienda era un cantiere aperto, si stava lavorando alacremente alla nuova piccola area di vinificazione dove c’erano già i primi macchinari tecnologicamente avanzati consigliati da Cotarella per salvaguardare la grande qualità della materia prima raccolta in vigna; ascoltare il racconto del progetto Galardi da Maria Luisa e poi le parole di Arturo Celentano che ci raggiunse più tardi giù nella barriccaia (scarna ma molto suggestiva) bastò a darmi la sensazione che di questo vino se ne sarebbe parlato a lungo e difficilmente con sufficienza: e così è stato.

Da allora sono passati diversi anni, tutti i Novanta dei “vini bianchi burrosi e vanigliati” e dei rossi merlotizzati e cabernetizzati, sta passando lentamente anche questo primo decennio del duemila che tra le tante ha visto passarci tra le mani vini di molti produttori improvvisati e di tanti affaristi sprovveduti che speravano in un’onda lunga infinita e che invece si sono ritrovati svuotati e decisamente “alla canna”: ecco, queste sono alcune deficienze di cui per fortuna non avremo certamente rimpianti. Ci rimangono però diverse certezze, soprattutto in Campania, seppur qualcuno ancora fatichi a comprenderlo, una delle quali è che il futuro del nostro vino è racchiuso in due aggettivi semplici e complementari, a volte talmente naturali da apparire banali, eppure mai scontati: autenticità ed originalità. Una originalità – sia chiaro – non dettata da chiusure antiche e vetuste ma bensì dall’intuito e dal pensiero moderno che si deve avere oggi della “tradizione”, ed una autenticità che solo chi ama la terra ed i suoi frutti sa esprimere a livelli altissimi.

 

Dell’annata 2006 me ne sono occupato già agli inizi di quest’anno (vedi qui) e in linea di massima non c’è granchè da aggiungere tranne che per una (mancata) evoluzione soprattutto gustativa che mi ha lasciato non poco perplesso. Il vino è spesso sinonimo di moto continuo, si spera in continua evoluzione e nonostante l’annata duemilasei sia stata definita da qualcuno minore, pare e mi aveva certamente convinto già al primo assaggio di aprile che ne fosse venuto fuori comunque un piccolo capolavoro di equilibrio e godibilità tra le componenti austere ed eleganti dell’aglianico e del piedirosso di cui è composto, nonostante il ricordo dell’eccellente 2004 rischi ogni volta di sopraffare le mie aspettative.

Il colore è rimasto di un bel rosso rubino integro e poco trasparente, mediamente consistente. Il primo naso è caratterizzato da sentori floreali secchi e fruttati in confettura, col tempo, nel bicchiere si distinguono nitidamente sentori rosa passita, amarena, poi mora e mirtillo sino a note di pepe nero, carruba ed una lieve sensazione balsamica. In bocca è secco, abbastanza caldo e di buon corpo, il tannino già evidente e pronunciato all’esordio qui è amplificato da una nota acida slegata che ne esalta in maniera inopportuna una durezza tanto inaspettata quanto pressante e per niente supportata dalla sapidità. Ne risente innanzitutto l’equilibrio gustativo oltre che l’armonia complessiva, un frutto così nitido e così avvincente al naso non può rivelarsi così risoluto ed in così poco tempo: è vero sono note di durezza che tendenzialmente dovrebbero assopirsi, ma appena pochi mesi fà questa durezza era più contenuta, meno evidente, non così invadente.

Insomma rimane quell’anima draconiana che affascina e che lascia davvero poco spazio all’ovvietà ma di certo mi conduce a rivedere, al momento, quell’apertura alle molte aspettative che in questo caso appaiono sfuggite ad una complessità non proprio esemplare ed avvincente come da manuale. A volte certi vini manifestano staticità, ma non per questo hanno finito il loro percorso evolutivo, così mi strappo una promessa, di riassaggiarlo almeno tra sei mesi, e vediamo cosa accade.

Un Taurasi…totale, Contrade di Taurasi 1999

18 novembre 2009

Ci sono persone nel mondo del vino che non vivono di prime pagine, di riviste patinate e di rincorsa a concorsi e premi speciali, semplicemente hanno deciso di seguire la propria strada, in questo caso tracciata dalle proprie origini e dalla propria capacità di intendere la vita ed il proprio lavoro.

Così capita che persone del genere s’incontrino, e che bastano poche parole per ritrovarsi univocamente coinvolti in un progetto molto affascinante e di grande espressione territoriale, Contrade di Taurasi. Progetto che vede a più livelli ed in varie fasi aziendali l’intervento di uno staff scientifico talmente specializzato ed altisonante da far rabbrividire anche il più meticoloso degli appassionati per una produzione di appena 20.000 bottiglie e questo perchè solo attraverso la sperimentazione e la ricerca scientifica il vino può migliorare ed elevarsi a livelli di eccellenza; alla testa di tutti c’è Sandro Lonardo, una persona deliziosa, sincera, coinvolgente, trasparente mi verrebbe da dire, coadiuvato dalle figlie Enza ed Antonella, ma chi mi affascina di più per il suo sapere è Giancarlo Moschetti, professore universitario a Palermo che si occupa tra le altre cose di ricerca microbiologica e responsabile scientifico per l’azienda: un pozzo di saperi, di grande disponibilità umana, così come Maurizio De Simone, l’enologo che segue l’azienda con grande professionalità e perizia.

Parlare con Giancarlo e Maurizio vuol dire scoperchiare un mondo molto affascinante, fatto di  grande conoscenza del territorio, della vigna e dei trattamenti naturali capaci di preservarla nel tempo come la micorrizzazione della pianta, utile soprattutto a non stressarne nel tempo le radici; la conoscenza come detto, che parte dallo studio scientifico dei cloni, dei lieviti indigeni, quel “fingerprint” necessario per isolare ed esaltare l’aglianico di Taurasi a vitigno con la V maiuscola; una conoscenza che porta a non aver paura di lunghe fermentazioni e che soprattutto non conduce l’enologo a scegliere legni nerboruti, invasivi, spesso utili solo a sovrastare il frutto, qui di grande impatto e riconoscibilità taurasina dall’aglianico base alle Riserve nonostante i suoi quasi 50 mesi di invecchiamento prima della commercializzazione.

Ecco perché questo Taurasi ’99 mi ha sorpreso ed incantato, un vino fisso nella mia memoria pur motivata da una buona esperienza sul vitigno: un colore avvincente, rubino netto senza nessuna tendenza a mostrare i suoi dieci lunghi anni alle spalle, addirittura vivace nella sua trama cromatica. Il naso è di estrema finezza, il primo naso conduce ancora a sensazioni “verdi”, varietali, sempre difficili da scindere nell’esame olfattivo di un vino di tale elevazione, ma qui facilmente percettibili come la viola, la marasca, poi le note speziate caratteristiche del vitigno veramente eleganti e fini. Un susseguirsi di sensazioni molto gradevoli che si ritrovano in un gusto deciso, austero, rinfrancante, ancora lontano da una morbidezza plausibile, spesso esigibile se non scontata in un vino di dieci anni, ma non in un aglianico di questa portata, non nei vini di Contrade di Taurasi, con questo millesimo davvero in grande spolvero.

Ho avuto la fortuna di condividere questa bevuta con diversi amici tra i quali l’amico Nando Salemme, patròn dell’Osteria Abraxas di Pozzuoli che ha scelto di abbinarci una locena di maiale cotta a bassa temperatura (60° per 12 ore) con il suo fondo con contorno di scarola alla carrettiera: beh, che dire, qual miglior abbinamento!

Cantine Lonardo è l’Azienda/Produttore dell’anno.

Vallesaccarda, l’Oasis dei sapori antichi

17 novembre 2009

La crescita qualitativa di indirizzi di qualità in Campania è pari a poche altre regioni in Italia, e questa non è un’affermazione buttata lì poiché accertata e giustificata da tutte le guide specializzate del settore che indicano proprio nella nostra regione un vero e proprio exploit.

La materia prima rimane eccellente, i luoghi da sempre suggestivi, cambiano però gli attori, nemmeno i copioni, ma gli interpreti; sono infatti davvero pochi, pochissimi i modelli e le interpretazioni moderne e post-moderne di una cucina internazionale in piena saturazione che hanno fatto breccia nei cuori degli chef campani. Qui da noi quello che conta è l’origine, è più si è radicati in essa più si ha capacità di sfondare. Vallesaccarda è un paesino particolarmente ameno, per così dire, l’uscita autostradale si scorge appena sulla Napoli-Canosa, da qui Avellino dista oltre 60 Km, sono almeno 130 i kilometri da Pozzuoli. La curiosità però era tanta, gli ultimi anni hanno segnato una crescita costante, quasi esponenziale della bella realtà della famiglia Fischetti di cui non si fa altro che parlar un gran bene, e allora, pazienza e partenza per la missione Oasis, alla riscoperta degli antichi sapori!

Il Ristorante è nel centro di Vallesaccarda, nel cuore della “Terra della Baronìa” ad un paio di chilometri dall’uscita, appunto dell’autostrada Napoli-Canosa, un tempo meta di professionisti in cerca di pausa pranzo, poi luogo di ricevimenti per le feste di famiglia locali, oggi ristorante gourmet a tutti gli effetti fuori dagli itinerari classici. Il locale è caldo, ben arredato, i tavoli sono ben distanziati e circondati da fiori rigogliosi. Ci accolgono con garbo, non è ancora ora di pranzo ma non ci fanno mancare attenzione e cordialità né di accompagnarci al nostro tavolo. I piatti che si susseguono sono assolutamente territoriali, tra i più riusciti la zuppa di farro, i ravioli di burrata e mantèca, i trilli ai carciofi, l’agnello in crosta di peperoni, il filetto di vitello all’olio extravergine di oliva ravece.

Diversi i dessert proposti alla carta (spesso abbinati ai vini passiti in mescita del giorno) tra i quali la millefoglie alla crema ed il frollino di gianduia. La carta è molto ampia e ben strutturata, un po’ alti, se vogliamo essere fiscali, i ricarichi, ma d’altronde quaggiù non è facile gestire questo elevato numero di etichette pertanto vengono ampiamente giustificati. Vale la pena almeno una volta sedersi a questa tavola, e ritornarci.

Oasis – Sapori Antichi
Vallesaccarda (Av)
Tel +39 0827 97021 / 97444
Fax +39 0827 97541
Chiuso il Giovedì e le sere dei Festivi
 

Le Viniadi 2009, Rosaria Fiorillo in finale

17 novembre 2009

Si terrano in provincia di Padova, a Montegrotto terme le finali nazionali delle Viniadi 2009, il primo campionato nazionale per degustatori di vino non professionisti organizzato dallEnoteca Italiana di Siena e patrocinato dal ministero delle Politiche agricole e forestali. Un evento che L’Arcante Enoteca promuove ed ospita a Pozzuoli sin dalla sua prima edizione, quest’anno con la collaborazione degli amici Nunzia e Gennaro Di Razza che ci hanno ospitato presso il loro Ristorante. In finale a Montegrotto, tra i 18 concorrenti che hanno superato le selezioni di tutta Italia ci sarà anche Rosaria Fiorillo, napoletana ed Amica di tante Bevute, vincitrice proprio della selezione flegrea dello scorso 6 luglio.

A causa di imminenti impegni di lavoro, noi non potremo essere lì con lei, ma oltre ad un sincero in bocca al lupo per questa bella esperienza di confronto che non potrà che farla crescere profondamente, ci teniamo a farle sapere che faremo il tifo solo per lei. Forza Rosaria!

Montevetrano, Silvia c’è!

14 novembre 2009

silviaimparato[1]

Tutto nasce per gioco ma non per caso; la storia dell’azienda agricola Montevetrano ha origine nell’entusiasmo di poter sperimentare con un gruppo di amici la passione condivisa per il vino, laddove i riferimenti mitici del momento erano i vini bordolesi. Era il 1985 quando nei dintorni del Castello di Montevetrano, nelle Colline Salernitane in una vigna di appena due ettari di proprietà della famiglia Imparato sin dal 1940, dove si produceva frutta, nocciole, vino ed olio per uso familiare si reinnestano marze di aglianico di Taurasi, cabernet sauvignon e merlot su barbera, per’è palummo (piedirosso) e uva di Troia. Il 1991 è l’anno delle primissime  bottiglie di Montevetrano, davvero pochissime e solo per gli amici più stretti con il cabernet al 70% e l’ aglianico al 30%.

E’ una festa, un gioco per l’appunto che Silvia ha voluto innescare, ma sorprendentemente entusiasmante perché il Montevetrano è molto superiore alle aspettative cosicchè bando alle ciance e s’iniziò a fare sul serio. L’incontro con Riccardo Cotarella fa il resto della storia che ormai è patrimonio della vitienologia campana e se vogliamo dell’Italia intera. Si perfeziona il taglio con una percentuale più bassa di aglianico e l’introduzione del merlot ed infatti il vino risulta acquisire immediatamente grande godibilità seppur senza mancare in personalità e carattere da smussare con attenta evoluzione in bottiglia. 

Nasce un vino che in pochi anni, appena un quinquennio, divenne una icona di come un terroir assolutamente sconosciuto potesse assurgere a fasti illustri grazie ad iniziative coraggiose ed indirizzate a produrre solo e sempre qualità. Montevetrano oggi non è un semplice vino, è un simbolo, per alcuni è stato “la moda del momento” un po’ come accadde un decennio prima al Sassicaia, questi ben presto hanno dovuto ricredersi e guardare a questo piccolo gioiello proprio come hanno dovuto rivedere la loro posizione nei confronti dell’antesignano dei SuperTuscan in quel di Bolgheri. Forse il paragone è azzardato ma le vicende sembrano somigliarsi abbastanza, vedi Bolgheri oggi ed ammiri un’area vocatissima ed una denominazione prestigiosissima, ma in quanti avrebbero scommesso ciecamente sull’opera degli Incisa della Rocchetta? Montevetrano ha percorso vicende avverse e tanti pregiudizi proprio come il Sassicaia, facendo suo un terroir che prima non esisteva ed esaltandolo al suo massimo splendore; additato dai più per la mancanza di originalità, di una tipicità che in realtà in questa zona non è mai seriamente sopravvissuta ai vini modesti e venduti alla buona sul mercato locale è oggi forse la massima espressione territoriale che un vino possa rappresentare.

Pensare alla Campania fuori dagli schemi comuni dell’areale Irpino sempiterno apprezzato e dei vini della provincia di Napoli venduti in tutto il mondo ma sempre recepiti come vini di basso profilo poteva essere un grande affanno alla ricerca di una o due realtà capaci di esprimersi a livelli qualitativi eccelsi, oggi tutto questo fortunatamente è ampiamente superato, dire Campania è dire tanto ma non è più difficile pensare a questa terra come espressione di grandi cru e Montevetrano è a tutti gli effetti uno di questi. Per avere una idea chiara di cosa possa esprimere nel tempo questo vino, segue una breve verticale di quattro annate.

139b[1]Montevetrano 2006. Il Montevetrano è prodotto esclusivamente con uve di proprietà, cabernet sauvignon, merlot ed Aglianico nella selezione clonale vicino all’aglianico di Taurasi. Viene vinificato ed imbottigliato nella tenuta, a garanzia del controllo totale di tutto il ciclo produttivo. Il 2006 si presenta con un colore rosso rubino, di bella vivacità caratterizzato da poca trasparenza, segnale questo di grande estrazione che si evince anche dalla consistenza nel bicchiere che  manifesta lungo le sue pareti una certa presenza glicerica con “lacrime” ricche e lente nello scivolare. Il primo naso è intenso su note vegetali, immediatamente un riconoscimento peperone, poi si apre su note di piccoli frutti surmaturi, ribes e mirtillo, accentua la sua complessità su lievi sensazioni balsamiche che ne esaltano la vinostà. In bocca è secco, la spalla acida ne accentua la giovine età ma non nasconde una struttura ampia e complessa. La profondità di questo vino solo il tempo potrà esaltarla, dona già segni tangibili di buona longevità; da servire alla temperatura di 16 gradi in calici ampi ma non eccessivamente, risulterebbero accentuare la sua attuale esuberanza olfattiva sulle note vegetali. Lo abbiamo abbinato ad un gattò di patate con provola e mortadella e salsa di funghi porcini, tendenza dolce, succulenza ed aromaticità da contraltare a sensazioni olfattive intense, acidità e lunga persistenza del vino.

139b[1]Montevetrano 2005. Il colore è di un rosso rubino, carico e caratterizzato da una impenetrabile veste cromatica. Di buona consistenza nel bicchiere. Il naso manifesta note olfattive molto interessanti ed eterogenee, iniziano su sensazioni fruttate dolci accompagnate da eleganti esalazioni balsamiche; poi confettura di susina, mirtilli e ribes neri, note di spezie sottili ed eleganti, pepe nero in primis. In bocca manifesta la sua giovane tannicità, senza esagerare, sorretta da un frutto estremamente ricco e voluttuoso che gli conferisce un gusto eccezionalmente persuasivo. E’ intenso, persistente e molto lungo anche nel finale di bocca. Da servire in calici mediamente ampi dopo aver lasciato per tempo debito ossigenare la bottiglia aperta magari qualche ora prima di servirla, noi l’abbiamo accostato, giocando con un abbinamento del cuore alla zuppetta di fagioli e scarola riccia con Mozzariello, un piatto povero che trova la sua nobiltà in abbinamento a cotanto vino.

139b[1]Montevetrano 2004. L’annata è stata essenzialmente regolare dal punto di vista climatico, l’areale di San Cipriano Picentino sempra baciato dagli dei in questo, la vendemmia ha avuto il suo inizio a metà settembre.Il colore è rosso rubino, appena meno accentuato rispetto all’annata precedente, comunque vivace ed invitante. Di buona consistenza nel bicchiere. Qui il naso, il primo naso è di floreale passito, poi un fruttato intenso, maturo quasi marmellatoso di grande finezza e persistenza; vengono fuori note balsamiche, tabacco e note di cacao in polvere. In bocca quasi a sorprendere ritorna una spalla acida sincera ed efficace da non confondere con il tannino che risulta attenuato e ridimensionato dall’evoluzione in bottiglia di questo blend sempre più affascinante quanto esaltante. Da servire, soprattutto per la sua verve in calici mediamente ampi ad una temperatura di 16/18 gradi, noi l’abbiamo accostato per l’occasione con un primo piatto tradizionale rielaborato alla nostra maniera, Vesuvio di Paccheri ripieni con passata di pomodori San Marzano di Colle Spadaro.

139b[1]Montevetrano 2001. L’annata è stata caratterizzata da un inverno molto freddo e da un germogliamento tardivo che ha concesso una minore quantità di uva. Le piogge ben dosate però hanno consentito un ciclo vegetativo costante e senza stress particolari sino alla raccolta avvenuta in pieno settembre. Innanzitutto alcuni dati tecnici a sostegno della grande impressione che ho ricevuto da questo vino in questa annata: le uve vengono lasciate a macerare con la buccia per circa 20 giorni in acciaio inox previo salasso del 15%, vengono effettuate durante questo processo numerose follature per rendere omogenea tutta la massa. Successivamente il vino rimane per 8/12 mesi in barriques nuove da 225 lt. di rovere di Nevers, Allier e Tronçais. L’ alcool è di 13% vol. sorretto da un pH di 3,65 e da un’acidità totale pari a  5,10 gr/lt. L’estratto secco è di 33. Si presenta nel bicchiere con un colore rosso rubino con appena delle sfumature sull’unghia del vino tendenti al granato, rimane vivace e poco trasparente. Il primo naso è evoluto ed etereo su note balsamiche e di spezie, avvolgente nelle sue senzazioni di frutti in confettura. In bocca è secco e caldo, avvolgente nella sua trama gustativa che non lascia spazio ad asperità o sensazioni di durezza. Impressionante a parer mio l’armonia che caratterizza questo vino in questo millesimo bevuto oggi, prova tangibile che il Montevetrano può tranquillamente essere aspettato negli anni, senza indugi. Da servire ad una temperatura intorno ai 16/17 gradi in calici panciuti, noi lo abbiamo abbinato al filetto di maiale con spezie, erbe ed aceto balsamico e servito con salsa ridotta di Montevetrano.

E non chiamatelo più “prosecchino”…

14 novembre 2009

Nell’immaginario collettivo popolare “il prosecchino” rappresenta il vinello da servire senza pretese come aperitivo, spesso da anonima bottiglia e quanto più di rado nell’appropriata flute.

La Collina del cartizze

Ebbene, molto è stato fatto in questi anni per sensibilizzare anche i palati più effimeri alla buona conoscenza di certi vini che rappresentano indiscutibilmente un gran bel pezzo della produzione vinicola italiana e non soltanto per i volumi spaventosi che muovono in giro per il mondo ma anche per le eccelse qualità che sempre più si affermano come forte sostegno alle bollicine di qualità made in Italy e come validissima alternativa “economicamente sostenibile” alle più famose transalpine dello Champagne.

Confidando altresì in una opportuna e proverbiale competenza professionale di ogni buon sommelier mutuiamo e benediciamo la definitiva caduta del diminutivo “ino” (che tanto stà al Prosecco come ogni pittore tentasse di qualificarsi come Van Goghino) alla luce di ciò che abbiamo potuto vedere di quanto si stà facendo in questa meravigliosa terra per migliorare e qualificare questo straordinario vino. Si può pensare alla terra del Prosecco come una vasta e pianeggiante area viticola, con distese a perdita d’occhio di vigne anonime e scomposte ma appena si ha l’opportunità di giungere in queste terre ci si rende conto di quanto fascino e cultura enologica sprizzi dai suoi pori, generosa con i suoi nobili e generosi interpreti.

Il viaggio inizia a Rolle, piccola frazione di Cison Valmarino abbarbicato sù per le colline trevigiane in uno scenario verdeggiante e ventilato caratterizzato da giornate estive luminose e miti e da notti con forti escursioni termiche dove domina il paesaggio il Relais Duca di Dolle della famiglia Bisol, tutt’intorno le vigne di questa azienda che si stà rivelando soprattutto negli ultimi anni assai dinamica che produce una serie di Prosecco doc di grande eleganza e finezza caratterizzati da profonda freschezza che solo grazie a queste particolari condizioni pedoclimatiche si possono comprimere in un vino.

Qui giacciono le bottilgie della Riserva Amalia Moretti

Lungo la Strada del Prosecco che scende giù verso Valdobbiadene si incontrano i piccoli comuni che contornano l’areale maggiormente votato a questo eclettico vitigno, da Miane a Guia incastonati in un bellissimo bosco di castagni sino alla zona per elezione del Prosecco denominata “Cartizze“, nei comuni di Saccol, S. Stefano e S. Pietro di Barbozza, piccolo Grand Cru trevigiano con i suoi 100 ettari suddivisi per circa 140 viticoltori.

Qui il vigneto diviene giardino, le vigne si arrampicano lungo i terrazzamenti delle colline, con pendenze a tratti impensabili e l’ordine e la compostezza di come si inerpicano sui pendii sono gli unici elementi di discussione che ti viene da affrontare. Niente diradamenti, le uve hanno bisogno di protezione, per non cadere in surmaturazioni inattese e per difendersi dalle improvvise grandinate che qui, soprattutto in epoca di vendemmia sono il rischio numero uno. Queste vigne donano vini di una fragranza e piacevolezza sublimi, sentori floreali e fruttati intensi e persistenti con riconoscimenti nitidi di rosa, albicocca e mela ed un gusto asciutto, persistente su linee minerali ed un finale gradevole ed ammaliante, consigliamo a tal proposito di non perdere le versioni di Foss Marai, Còl de Salici, Val d’Oca, Bisol, Solìgo e Villa Sandi ed una raccomandazione generale: attenzione agli strafalcioni, il Prosecco Superiore di Cartizze può essere prodotto solo nella denominazione Prosecco di Valdobbiadene (comune di cui fanno parte i crù sopra citati) e non come qualcuno potrebbe desumere anche nella denominazione Prosecco di Conegliano.

Scendendo verso Valdobbiadene incontriamo per strada diversi contadini nel trasportare le prime uve raccolte nelle aziende di vinificazione, la grandezza di questi luoghi stà anche nella enorme capacità di partecipazione che i vignaioli sono stati in grado di portare avanti con i progetti di cooperazione, Cantine Cooperative che riuniscono nelle loro fila tutti i minuscoli viticoltori che da soli mai avrebbero potuto affrontare progetti di vinificazione e commercializzazione mirati all’alta qualità come il mercato oggi richiede.

Il nostro viaggio termina a Crocetta del Montello, presso l’azienda Villa Sandi di proprietà della famiglia Moretti Polegato, già imprenditori di successo nel campo dell’industria manufatturiera trevigiana (a qualcuno dirà qualcosa il marchio GEOX, nda) e da circa un trentennio sugli scudi per il gran lavoro di promozione che stanno portando avanti per il loro territorio. Qui si aprirebbe un’altro lungo ed articolato racconto da fare che preferiamo però conservare nella nostra memoria e raccontare attraverso le immagini postate, che parlano da sole e chiaramente di una realtà eccelsa della quale senza dubbio non si può tenere conto.

A guidarci Roberto, gran cerimoniere di cantina e nelle degustazioni tecniche l’enologo Luciano Vettori assieme a Cinzia Zocca ed il direttore commerciale dott. Campesan (quattro persone a nostra disposizione!) a cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti per l’ampia disponibilità manifestata. Se pensate di aver visto tutto è il momento di ricredersi, se pensate che certi luoghi non hanno poi molto da raccontare statene certi che qui vi smentiranno a mani basse, se ancora esitate per raggiungere queste terre, rompete gli indugi e non perdetevi questo passaggio a nordest e per favore, non chiamatelo mai più “prosecchino”!

Brunello di Montalcino, assaggi a tutto tondo

11 novembre 2009

Una recentissima degustazione trasversale di Brunello di Montalcino fatta lo scorso fine Ottobre, ha decisamente rafforzato secondo me il grande coraggio con il quale alcuni marchi storici ilcinesi stanno portando avanti ormai da tempo una progressiva modernizzazione del blasone toscano.

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Allo stesso tempo però ci duole sottolineare quanto alcune altre aziende per modernizzazione hanno ben inteso esclusivamente la sua “internazionalizzazione”; è noto ormai la storica appartenenza al mercato mondiale di questo stupendo vino italiano, il Brunello ha sempre (quasi) avuto un anima ed un corpo inconfondibile e le recenti (più o meno)  modifiche al disciplinare hanno consentito oltremodo di consolidare il mito nonostante un lungo e chiacchierato dibattito, adottando tra le altre anche misure concrete a difesa del marchio, sempre al centro di possibili contraffazioni in un mercato a volte non proprio sotto controllo. Alcune riflessioni però me le sono (ce le siamo) concesse lo stesso, al di là dei prezzi, in alcuni casi davvero discutibili e sempre meno accessibili ad un pubblico ampio, legati spesso soprattutto a costi più suscettibili di problematiche crude che l’economia ilcinese non riesce a metabolizzare piuttosto che alla ricercatezza del prodotto; ma veniamo ai vini degustati: il mito è sempre all’altezza? E quale etichetta per non sbagliare? E’ giusto aspettare tanto tempo prima di berlo? Ecco cosa ne è venuto fuori.

La premessa è che per trasversale abbiamo inteso l’assaggio in contemporanea di diversi Brunello di Montalcino di aziende differenti ed annate diverse ma vicine come qualità.

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Brunello di Montalcino riserva Poggio al Vento ’98 Tenuta Col d’Orcia, Loc S. Angelo in Colle, Montalcino (SI). Qui alla fine la standing ovation era d’obbligo, e qui che tutte le nostre domande e/o riflessioni hanno avuto le risposte più esaustive. Poggio al Vento è un gioiello dell’enologia toscana, uno di quelli da esibire con orgoglio, non facile da trovare in giro anche perchè non proprio papabilissimo con i suoi 55 euro a bottiglia, ma di certo di gran lunga superiore a diversi altri Brunello di costo al di sopra della media qui trattata. Il colore è segnato dal lungo invecchiamento, ma di una bellissima veste tendente all’aranciato, nel bicchiere la sua scorrevolezza lascia passare inosservata la sua consistenza sia alcolica che estrattiva, segnale di una riuscitissima fase evolutiva. Al naso è complesso, ricco e persistente naturalmente su profumi e sentori di gran lunga fini ed eleganti, scorza d’arancia candita, acacia, cuoio, cardamomo, in sequenza ordinata e ben definita. In bocca desta preoccupazione per l’impatto deciso e calorosamente avvolgente ma poi il tannino fa il suo dovere, dà spalla e non da protagonista, e ritornano piacevolmente note speziate sul finale di bocca. Un gran bel Brunello, prodotto con una lunga sosta in botte di rovere d’Alliers, in più o meno 18.000 unità e solo nelle annate maggiormente favorevoli.

Brunello di Montalcino ’99 Fattoria Poggio di Sotto, Loc. Castelnuovo dell’Abate, Montalcino (SI). Qui il rosso ha acquisito una tonalità aranciata con una bellissima trasparenza, segno del tempo che ha svolto per bene il suo lavoro anche in relazione alla consistenza nel bicchiere che non ha perso corpo. Al naso il vino è soprattutto terziario, ricco cioè di profumi dovuti proprio all’invecchiamento, con sentori di spezie, tabacco, pelliccia su tutti; dopotutto l’azienda è restìa a mettere in commercio questo vino prima dei 36-40 mesi di affinamento in botte, alla vecchia maniera. In bocca è deciso, persistente con un tannino ancora di nerbo ma ben equilibrato. Si è riconquistato fiducia dopo un assaggio precedente non proprio esaltante.

vpsbrunelloannata1999b[1]Brunello di Montalcino Villa Poggio Salvi ’99 Villa Poggio Salvi, Montalcino (Si). Biondi Santi è sicuramente un riferimento importante per tutta l’enologia italiana ed altrettanto lo è oggi, e la continua ricerca di confronto col presente è un valore aggiunto per una azienda che non si è mai posata sugli allori. Villa Poggio Salvi è un marchio che si è fatto strada sulle orme leggendarie del grande Franco Biondi Santi, di proprietà della nuora, moglie del figlio Jacopo. Questo Brunello può risultare (è risultato) abbastanza semplice nella sua totalità ma di certo non gli si può certo dire di domandare un prezzo impossibile. Di colore rubino netto, concentrato e poco trasparente nel bicchiere, al naso ripercorre una linearità rassicurante con profumi di frutti maturi, confettura di marasca, caffè. In bocca è secco, asciutto con un tannino presente ma non incalzante, decisamente “rotondo”.

Brunello di Montalcino ’99 Mastrojanni, Loc. Castelnuovo dell’Abate, Montalcino (SI). Ecco un taglio decisamente più moderno del Brunello di Montalcino, proposta da una azienda che seppur non proprio giovanissima ha virato decisamente verso uno stile più “morbido” rispetto alla tradizione montalcinese. Di colore rubino, si percepisce subito che la qualità della materia prima è altissima, concentrato con lievi nuances tendenti al granato. I profumi ricordano inizialmente il passaggio in legno, botti di media capacità di rovere francese che esaltano la sua freschezza gustativa nonostante la lunga sosta tra legno e bottiglia; poi anche qui saltano fuori sentori di frutta matura, quasi cotta, liquerizia e fini spezie. In bocca è caldo con un tannino ben domato, mi lascia perplesso solo nell’equilibrio, per il bellissimo colore, i concitati profumi ma una complessità non avallata da una lunga persistenza.

Brunello di Montalcino ’00 Mastrojanni, Loc. Castelnuovo dell’Abate, Montalcino (SI). A gran fatica alla fine è venuto fuori un gran bel vino. Quando si dice che per godere di un vino si ha la necessità di aspettarlo per certi versi sembra essere un eccesso di sacralità, ma necessaria. Il vino è rimasto aperto per almeno tre ore e mezza prima di manifestare “vagiti” squillanti. Il colore è apparso subito bello, concentrato, al naso dopo “l’attesa” si è concesso generoso su frutti maturi come prugna e ciliegia in confettura e sottospirito accompagnati da una nota fine ed elegante di erbe aromatiche, infine di tabacco. In bocca asciutto, di buona concentrazione, anche di tannino, ben presente ma non devastante come spesso accade in vini di questo estratto. Una nota a margine: l’azienda Mastrojanni propone una vinificazione estremamente tradizionale per i suoi Brunello, in vasche di cemento prima del lungo affinamento in botti di rovere d’Alliers.

A378CDBCAXLOX1XCANC4W5TCAA74Q4BCARHLARKCAGGXZFPCAIL3GKGCA897ECFCAKXBNBZCACDD1DVCA5HDC61CAY3B380CA6DOGODCAAIIHL4CAZVI5Q2CAWNEFMVCA7IRRW0CAN3HKUXCA863PASBrunello di Montalcino Castelgiocondo ’00 Marchesi Frescobaldi, Firenze (FI). Un marchio con oltre settecento anni di esperienza è difficile che smentisca le attese, ma quando si inizia a legare la qualità alla quantità qualche passo falso può accadere (o no?) . Produrre 250,000 bottiglie di Brunello non è da molti, soprattutto se è il Brunello di punta dell’azienda che solo nelle migliori annate viene affiancato dalla riserva. La forgia non è male, il colore è di buona concentrazione, il naso offre una franchezza immediata su note di ciliegia, di prugna in confettura e cassis ed in bocca il vino rivela un buon corpo ed un tannino non invadente. E’ un vino però che manca di personalità, manca di quella mascolinità che al Brunello serve per non disperdersi negli anni, in una parola un vino certamente corretto anche nel prezzo ma senza armonia e, credo, in una fase già discendente della sua parabola evolutiva.

GrepponeBrunello di Montalcino Greppone Mazzi ’00 Tenimenti Ruffino, Pontassieve (FI). Se il diavolo veste Prada, il Greppone Mazzi potrebbe tranquillamente vestire Missoni. Questo passaggio per raccontarvi di un vino che davvero riconcilia col terroir di Montalcino. E’ pur vero che l’azienda è malinconicamente orbitante nella sfera anglo-australiana dopo la cessione a Constelletions brand (multinazionale del drink e non) ma se i risultati sono questi, tanto di cappello. Il vino è concentrato, polposo ed invitante già all’esame visivo, i profumi sono dapprima austeri, l’alcol inizialmente è sovrastante ma dopo un po’ questo Brunello sembra scoprire una verve eccezionale: sentori di confettura di frutta, di mirtillo, cassis, penetranti ed avvolgenti, poi ancora note di cardamomo e tabacco. In bocca è potente, 14 gradi a tutto tondo per un vino caldo, di corpo ma asciutto e perfettamente bilanciato nelle sue componenti di durezza e morbidezza. Sicuramente con un paio d’anni ancora alle spalle ci darà nuovamente soddisfazioni.

Brunello di Montalcino ’01 Castello Banfi, Loc. Poggio alle Mura, Montalcino (SI). Un paio di numeri per capirci. Castello Banfi è un colosso da 11.000.000 di bottiglie, circa 900 ettari di proprietà e tra le 22 referenze presenti in carta di questo Brunello se ne producono qualcosa come 660.000 bottiglie. La dimensione non proprio artigianale non vuole essere un pretesto per sparare a zero su questo vino, ma certamente dopo la degustazione non rimane nella memoria come per esempio Il Poggio Alloro riserva ’99 di recente assaggio o per esempio il cru Poggio alle Mura ’99 altrettanto eccezionale. Colore profondo, profumi molto evoluti, quasi pompati da una polposità che promette al naso ma in bocca rimane evanescente lasciandosi una scia di alcol che seppur non eccessivo non è supportato da un corredo acido-tannico all’altezza. Rimandato, alla prossima annata.

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Tortino al cioccolato con cuore caldo, 2004

10 novembre 2009

Ingredienti per 6-8 porzioni

  • 175 g Cioccolato Blend al 75% Venchi
  • 125 g Burro
  • 110 g Zucchero semolato
  • 30 g Farina di grano 00
  • 3 Uova intere

Preparazione: montare le uova con lo zucchero e la farina setacciata fino ad ottenere un composto omogeneo. A parte sciogliere a bagnomaria, lentamente, il burro ed il cioccolato in un apposito contenitore. Una volta fuso il cioccolato unirlo al composto di uova montate in maniera uniforme. Imburrare nel frattempo degli stampi fino a 3/4 dal bordo. Versare il composto negli stampi fino a metà (cuocendo il volume aumenterà). Cuocere in forno preriscaldato a 190° per circa 7 minuti. A cottura ultimata lasciateli intiepidire per circa due minuti prima di sformarli.

Per il servizio: toglierli dallo stampo ponendoli sottosopra in un piatto piano bianco, spolverarli con zucchero a velo appena macinato. Si possono servire i tortini al cioccolato con cuore caldo anche con alcune salse di accompagnamento, una salsa di semifreddo di gianduja per esempio o magari all’arancio.

Ricetta di Lilly Avallone, dedicata al nostro grande amico Steven G. Mally.

Brusciano, Taverna Estia

10 novembre 2009

Basta poco, che ce vo’. Così il grande Giobbe Covatta avviò una grande campagna di sensibilizazzione qualche anno fa, potrebbe tranquillamente essere copiato e fatto proprio come slogan per lanciare i nuovi giovani chef campani alla conquista dall’alta ristorazione italiana: suvvia, un po’ di coraggio!

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Taverna Estia è a Brusciano, periferia napoletana all’ombra della più grande periferia vesuviana che compren©de tra gli altri l’areale di Pomigliano d’Arco, ma è senza ombra di dubbio uno degli indirizzi più centrati per chi desidera una gradevole esperienza gastronomica (a)tipicamente locale.

Il Ristorante ha una storia recente, è nato appena dieci anni fa, dalla passione e dalla caparbietà di papà Armando Sposito, ex insegnante di educazione fisica con il pallino dei fornelli e della condivisione, casa sua era letteralmente presa d’assalto da amici e parenti appena si spargeva in giro la voce che “Armando teneva genie e’cucinà” così l’idea di mettersi in gioco, di avviare quello che in appena dieci anni è divenuto un piccolo laboratorio d’avanguardia culinaria napoletana. Dal 2005, dopo una formazione attenta e mirata sul campo, in cucina il protagonista assoluto è Francesco, figlio di Armando e per tempo pupillo di Igles Corelli alla Locanda della Tamerice, coadiuvato in sala dal fratello Mario, sommelier professionista ed anfitrione garbato e presente. L’ambiente è curato, pochi tavoli ben distanziati, mis en place elegante ed essenziale (ma quanto pesano però le posate!), la cucina in vista lascia trasparire la voglia di spazio ma anche una accurata tempistica e coordinamento del servizio.

Scegliamo il menù degustazione di terra, 8 portate (compreso aperitivo e predessert) che sicuramente non passano inosservate: simpatico l’aperitivo “mangiamo con le mani”, verdure ed ortaggi disidratati e fritti, polpettina di broccoli e piccoli assaggi di conetti di sfoglia e palamita, come buono il bon bon di latte cagliato con acciuga cruda su passatina cruda (che preferisco al termine gazpacho, nda) di San Marzano; semplicemente strepitosa invece la creme brulèe di baccalà con divertenti consistenze e forme di fagioli cannellini e peperoni cruschi.

Non mi ha entusiasmato invece il primo piatto, ovvero “Il grano duro: quattro modi per rivisitare la pasta e le tradizioni”; piatto sicuramente concettuale, come lo definisce Mario, difficilissimo da gestire nel servizio aggiungo io, data la presenza di quattro paste fresche e quattro differenti condimenti, molto bello a vedersi ma poco “palatable”, che si dissolve cioè senza lasciare picchi di piacevolezze particolari. Decisamente eccelso, per concettualità e più ancora per sapore, il secondo, “coniglio al profumo di ginepro, cotto a bassa temperatura, con spiedino di finocchi gratinati e polpettina di coniglio”. Molto gradevole il mio predessert di “gelato vanigliato su confettura di arance”, meno “il parfait di liquirizia alla crema di zucca confit alla vaniglia e croccante di mandorle”, forse un po’ pesantino (anche per la porzione abbondante) prima del delizioso ed originale “Giòcolato”, variazione sul tema cioccolato. Bonus invece, per la buonissima millefoglie con crema alla vaniglia, una proposta must, mi dice Mario che in dieci anni difficilmente sbaglia di colpire dritto al cuore.

Buona la carta dei vini, ben articolata e scorrevole, molto buono il servizio, puntuale ed attento soprattutto da parte della garbata compagna di Mario che lo aiuta in sala, di cui pardòn, mi sfugge il nome nonostante si fosse presentata per tempo, ma della quale certamente non scorderemo le buone maniere con le quali ci ha condotto sino al caffè senza sbavatura alcuna. Conto sui 170 euro, in due, comprensivo delle bevande. Ho bevuto un buonissimo Lagrein 2006 (22 Eur) di Hofstatter, praticamente impossibile da trovare anche nelle carte più attente, perchè molti lo snobbano accecati dalla grandezza dei bianchi e del Pinot Nero di questo nobile produttore alto atesino, ecco perchè in ogni buon ristorante a fare gli acquisti dovrebbe essere il sommelier, e non come spesso capita il rappresentante, bravo Mario!

TAVERNA ESTIA
Via G. De Ruggiero, 108
80031 Brusciano (Napoli) Italy
Tel. +39  081.519.96.33
info@tavernaestia.it
chef@tavernaestia.it
Orari di apertura:
Martedì, aperto solo a cena.
Dal mercoledì al sabato, pranzo e cena Domenica aperto solo a pranzo.
Chiuso il lunedì e la domenica sera.
 

Il grano, il caffè e le lobbies dell’oro colato

9 novembre 2009

Proprio negli ultimi mesi si sta tanto discutendo delle problematiche degli aumenti dei prezzi di materie prime essenziali e vitali per le economie di alcuni paesi in via di sviluppo o di ampie aree geografiche legate economicamente a tali risorse. Perchè? Molte riflessioni sono riferite alle nuove destinazioni d’uso di molte risorse (carburanti biologici ecc…), altre su palesi speculazioni in atto sui mercati di tutto il mondo; basta digitare un paio di parole sui più importanti motori di ricerca per avere ben chiaro cosa stia accadendo sotto i nostri occhi. E’ tutto molto semplice, o quasi.

Il grano, il caffè come molte altre materie prime non possono “fallire”. Le aziende possono andare male e fallire, le materie prime come il grano ed il caffè non possono farlo. Avranno sempre un valore intrinseco proporzionale al loro utilizzo su scala mondiale. Le materie prime sono sensibili alla legge della domanda e dell’offerta perché di esse c’è il bisogno. Indispensabile. Nessuno ha invece veramente bisogno di possedere azioni di borsa, se non quello di effettuare una speculazione.

Nel campo delle merci, oltre alla speculazione, esiste in tutto il mondo un effettivo scambio di merci e denaro allo scopo di risolvere effettivi bisogni della popolazione. Questo crea un mercato molto più affidabile, spesso rapportato alle stagioni dell’anno, e molto più legato al mondo reale della produzione, commercio e consumo. Le semine e le raccolte si ripetono ogni anno senza interrompersi mai. Ci sarà sempre grano da vendere e da comprare e questo crea quello che gli operatori specializzati chiamano “il mercato delle commodities”.

Commodity (commodities al plurale) è un termine inglese entrato oramai nel gergo commerciale ed economico per la mancanza di un sinonimo equivalente italiano; deriva infatti dal francese commodité, che in italiano si può tradurre col significato di “ottenibile comodamente”, quindi “pratico”. Indica cioè materie prime o altri beni assolutamente standardizzati, tali da potere essere prodotti ovunque con standard qualitativi equivalenti e commercializzati senza che sia necessario l’apporto di ulteriore valore aggiunto. Una commodity deve essere facilmente stoccabile e conservabile nel tempo, cioè non perdere le caratteristiche originarie. 

L’elevata standardizzazione che caratterizza una commodity ne consente l’agevole negoziazione sui mercati internazionali. Le commodities possono costituire un’attività sottostante per vari tipi di strumenti derivati, in particolare per i future. Nonostante vengono commercialmente chiamate commodities quelle merci che il mercato richiede in ogni caso, poiché sono legate alla sopravvivenza di una popolazione, come i fertilizzanti ed i prodotti agricoli, o permettono il funzionamento dell’economia di una nazione, come l’energia o più spesso le fonti energetiche, il legname ed i metalli in genere, possono considerarsi tali anche gli acciai e i microprocessori.

Il prezzo di una commodity viene fissato in apposite borse merci o da ristretti club o gruppi di aziende o stati, denominati “lobbies”, che in qualche modo ne detengono il controllo sulla produzione (anche se questa pratica non è legale e verrà sempre e comunque smentita).

E sapete quali sono le principali commodities? Prodotti agricoli come avena, farina di soia, frumento, mais, olio di soia, soia; e ancora coloniali e tropicali come cacao, caffè, cotone, legname, succo d’arancia, tabacco, zucchero, metalli  come alluminio, argento, nickel, oro, palladio, platino, rame, zinco. Anche i prodotti energetici come benzina, etanolo, gas, naturale, nafta e petrolio in genere rientrano nel carnet, come anche carni tipo bovini, bovini da latte, maiali e pancetta di maiale.

Insomma la nostra vita è nelle loro mani, il nostro futuro rappresenta la commodity più garantita sulla quale investire e guadagnare. Almeno indigniamoci!

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Questo articolo è certamente tra i primi contenuti messi on line da questo blog; è stato pubblicato però la prima volta l’8 maggio 2008 su www.lucianopignataro.it.