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La sobrietà travolgente del Montepulciano d’Abruzzo 2017 di Emidio Pepe

15 giugno 2020

Il Montepulciano d’Abruzzo rimane una delle varietà rosse più versatili dello straordinario patrimonio ampelografico italiano, protagonista assoluto in alcuni territori in particolar modo, senza dubbio tra le più bistrattate in alcuni altri.

Certo non qui a Torano Nuovo, nelle mani di Emidio Pepe che ci regala ancora una volta una grande bevuta con questo suo duemiladiciassette, forse non tra le migliori bottiglie di sempre uscite dalla storica cantina abruzzese ma senz’altro un rosso di assoluto valore emozionale.

Annata assai difficile da queste parti, dove non sono mancati disastri qua e là in regione, non qui, dove si fa un grande lavoro in vigna prima che in cantina, riuscendo a tirare fuori, evidentemente, ancora un Montepulciano d’Abruzzo di spessore e larghezza, già per sua natura proiettato a lunga vita. Un territorio unico questo, dove la natura incontaminata gode di un microclima particolare, con la terra argillosa e calcarea che si avvantaggia dell’influenza del mare e delle fredde correnti del vicino Gran Sasso; il resto lo fanno le vecchie vigne coltivate in larga parte ancora a pergola, in regime biologico e biodinamico, i primi 50 anni di vendemmie alle spalle, la manualità e la sapienza dell’uomo, unite al rispetto dei tempi lunghi.

Il colore è splendido, di quel rubino con appena degli accenni granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso chiede e merita un po’ di tempo, non tradisce una certa matrice fruttata e speziata, intrisa di un sottofondo balsamico dolce e sottile, ma è il frutto al centro del disegno olfattivo: franco, polposo il giusto, saporito. Il sorso è quasi prepotente, come solo un grande vino sa regalare, è generoso, con stoffa e misurata sostanza, la giusta tensione gustativa e quella avvolgenza gustosa che ti invita a riportare subito il bicchiere alle labbra, a ripetere quel gesto di sottile seduzione, necessario e piacevolissimo da condurre con certe bottiglie prive di sovrastrutture inutili e pregne di una sobrietà quasi travolgente.

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Sancerre La Moussiere 2018 Alphonse Mellot

8 giugno 2020

Un grande Sancerre questo di Alphonse Mellot, di quelli che ti rimangono dentro come una grande esperienza, guai a lasciarla andare via senza dedicargli almeno due righe, soprattutto quando si tratta di raccontare di una terra dove, si racconta, si nasconde ancora l’anima più arcaica e selvaggia del Blanc fumé Loirenne.

La Moussière duemiladiciotto prende vita da un assemblaggio delle uve raccolte tra i filari più o meno giovani degli oltre 30 ettari piantati a Sauvignon del Domaine, perlopiù su terreni caratterizzati da calcare e marne e vigne condotte in ossequio dei più rigidi protocolli di agricoltura biologica e biodinamica; rappresenta forse l’anima più autentica dei fratelli Alphonse Jr ed Emmanuelle Mellot e continua ad essere uno dei miei bianchi preferiti in assoluto di questo territorio, nonostante sia solo il terzo vino dopo “Génération XIX” e la “Cuvée Edmond¤” prodotto qui.

E’ un vino luminoso, con un bel colore paglia intenso, con un naso subito verticale, dal sorso tremendamente asciutto eppure tanto invitante quanto complesso e ricco. Ha spessore, agilità, pienezza; per un cinquanta per cento della massa che fa fermentazione in legno grande vi è l’altro cinquanta che passa solo in acciaio. Poi, una volta deciso il blend, finisce una manciata di mesi in bottiglia, il tempo necessario per ritrovare equilibrio, ricomporsi e consolidare quella verve che ne caratterizza in maniera incisiva, dal primo all’ultimo sorso l’esperienza gustativa.

Ci trovi dentro un corredo aromatico dei più classici (agrumi, litchi, frutto della passione, timo) ma anche note più intense, vibranti e quasi pungenti, di polvere di gesso e pietra bagnata. A piccoli sorsi ci ritrovi anche tanta sapidità, con quel sapore deciso, forse un po’ concentrico sul varietale ma con quelle increspature agrumate e minerali che man mano ne alleggeriscono la profonda tipicità del frutto senza però sovrastarlo, come solo certe grandi bottiglie sono in grado di fare!

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Il Terra di Rosso 2017 di Galardi e l’apologia del Piedirosso in Campania

19 Maggio 2020

Ci avviciniamo a questo delizioso rosso a distanza di qualche mese dalla sua primissima uscita sul mercato, Terra di Rosso è un vino prodotto con solo uve Piedirosso provenienti da una delle splendide vigne di San Carlo di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, di proprietà dell’azienda, nel pieno della sua maturità espressiva.

”I Galardi” – se così possiamo permetterci di sintetizzare il fortunato incrocio di passioni e devozione per questo meraviglioso pezzo di Terra di Lavoro dei cugini Roberto Selvaggi, la moglie Maria Luisa Murena, Arturo e Dora Celentano e Francesco Catello -, con questa nuova etichetta inaugurano un nuovo corso produttivo, non più appannaggio del solo Terra di Lavoro¤, peraltro conosciuto e già molto apprezzato in tutto il mondo per la sua costanza qualitativa, sdoganando l’idea di un secondo vino che non sia però una seconda scelta, bensì un progetto del tutto dedicato specificatamente al Piedirosso.

Una varietà a cui siamo notoriamente molto affezionati, per lungo tempo lasciata al suo destino di figlio di un Bacco minore ma che, come abbiamo avuto modo di cogliere più volte negli ultimi anni su queste pagine, resta capace, in certi luoghi, nelle mani giuste, di venire fuori con vini di grande personalità, finanche di raffinata eleganza, non più banalizzato a causa di alcuni difetti cronici di interpretazione ma esaltato per delle sue peculiarità specifiche.

Il Piedirosso ama le sabbie e i terreni vulcanici, non disdegna temperature fresche, non a caso due caratteristiche specifiche del territorio di San Carlo di Sessa Aurunca, alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina. A queste vi si aggiungano l’età delle piante, in media sopra i 20 anni e quindi nel pieno della loro maturità produttiva e, ancora, l’esperienza dell’azienda lanciatissima verso il suo primo trentennio di vita, capace quindi di leggere ed interpretare perfettamente il territorio e il vigneto, l’umore dei frutti che ne vengono fuori, la giusta misura del legno e del manico in cantina.

La discesa in campo dell’azienda di Roccamonfina sul tema Piedirosso trova non pochi consensi nella storia vitivinicola regionale e ne avalla peraltro l’apologia manifesta degli ultimi anni. Alla base di questo momento fortunato ci sono però radici storiche forti, troppe volte negate, si pensi solo al suo impiego già previsto nel primo disciplinare del Taurasi¤ doc, anno 1970, dove vi entrava in uvaggio con l’Aglianico, come pure in diversi altri disciplinari regionali che ne fanno da sempre, in certi territori, il varietale in larga parte più diffuso, se non il protagonista assoluto, come ad esempio accade nei Campi Flegrei o a Ischia e in certe zone del Beneventano.

Assistiamo tra l’altro negli ultimi anni ad un lento ma inesorabile cambiamento di fronte sul piano gustativo; un tempo si ricercavano prevalentemente vini opulenti e comunque di grande struttura, ora la situazione si va praticamente ribaltando, almeno in certi contesti. E’ in atto una costante inversione di tendenza laddove alla potenza, la concentrazione e le alte gradazioni alcoliche di pesi massimi vengono preferiti la finezza, l’eleganza e la bevibilità di pesi medi-leggeri, anche quando tratteggiati da gradazioni alcoliche non necessariamente contenute. Non più, quindi, vini centometristi ma maratoneti, vini ossuti più che muscolosi, vieppiù quando identitari e di spiccata personalità varietale e territoriale.

Terra di Rosso duemiladiciassette si va collocando a nostro parere proprio nel mezzo di questa storia, se da un lato dà il via ad una nuova stimolante sfida per Galardi, valorizzandone un pezzo di vigna di proprietà, un nuovo percorso stimolante, dall’altro saprà contribuire grazie al suo successo, la sua affermazione internazionale, di cui siamo certi, nel dare maggiore lustro al territorio di Roccamonfina e a questo vitigno che qui ci ha trovato senz’altro un ambiente favorevole e particolarmente vocato.

I presupposti, già con questa ”Prima”, sembrano esserci tutti: nel bicchiere ci arriva un vino dallo splendido colore rubino con vivaci riflessi violacei, di media concentrazione; il naso è subito fruttato e floreale, elegante e raffinato, profuma di rosa e violetta, di melograno e ciliegia, presto ne siamo certi svestirà anche quelle ultime nuances tostate regalate dal passaggio in legno nuovo, lasciando così spazio alla franchezza e alla bontà del frutto che ritroviamo scrocchiante e polposo, persistente sin dal primo sorso, è un rosso di buon corpo e tratteggiato da tannino lieve e morbido. Decisamente un buon esordio per un debuttante!

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Segnalazioni| Vette di San Leonardo 2018, quel bianco insolito

17 Maggio 2020

Non c’è che dire, abbiamo trovato davvero imperdibili le ”stories” che il Marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga¤ ci ha regalato in queste ultime settimane dal suo profilo Social Facebook per accompagnare gli appassionati del mondo del vino alla scoperta dei suoi vini e del territorio dentro e fuori Tenuta San Leonardo.

Una narrazione periodica precisa, particolareggiata e condotta brillantemente con un linguaggio immediato, contornata da tante piccole pillole di storia antica e contemporanea che hanno reso ogni racconto un nuovo tassello prezioso di cui appropriarsi come tessere di un puzzle da conservare con cura in attesa di metterle assieme nel prossimo bicchiere da condividere.

Tenuta San Leonardo è certamente una delle aziende del vino italiano più conosciute e apprezzate in tutto il mondo, il suo San Leonardo, un rosso composto da Cabernet Sauvignon, Carmenère e Merlot, è un vino di raffinata eleganza ed è senza dubbio, da oltre trent’anni, tra i migliori vini italiani a taglio bordolese in circolazione, capace di giocarsela ad armi pari con diversi dei grandi vini di Bordeaux senza alcuna riserva.

E’ questo il risultato di un lungo cammino imprenditoriale con radici solide che Carlo Guerrieri Gonzaga ha saputo condurre con passione e determinazione per quasi cinquant’anni sino ai giorni nostri, un solco che il figlio Anselmo sembra tratteggiare con passo altrettanto deciso e in piena sintonia con la storia famigliare e quella di un territorio straordinario particolarmente suggestivo. Oggi sono oltre 40 gli ettari di proprietà a vigneto, tutti a regime biologico, mentre la produzione conta circa 270.000 bottiglie di vino l’anno.

Del Vette di San Leonardo ne raccontammo, tra i primi, già nel Giugno 2013 proprio Qui, alla sua prima uscita con l’annata duemiladodici. Deve il suo nome alle imponenti cime che circondano le vigne da cui proviene il Sauvignon blanc di cui è composto al 100%, un vino nuovo per questo territorio ma che rivela tutta la grande freschezza e mineralità di cui è capace questo terroir davvero unico.

Ci siamo tornati su con il duemiladiciotto e ci è nuovamente piaciuto tanto: è un vino insolito ma davvero originale, viene lasciato affinare in acciaio sulle fecce fini per circa 5 mesi prima di finire in bottiglia, uno di quei bianchi da bersi giovane, magari servito ben fresco, capace di regalare tante piacevoli sensazioni varietali ma senza quegli eccessi di personalità del vitigno di origine francese che talvolta possono risultare stucchevoli. Un modo leggero, nuovo e diverso di raccontare in un bicchiere un pezzo di storia e di territorio del Trentino.

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Un vino fuori dal tempo e dentro la storia, la Vernaccia di San Gimignano 2018 di Panizzi

14 Maggio 2020

A volerci capire qualcosa in più sulla Vernaccia di San Gimignano è necessario armarsi di sana pazienza, di una bella dose di curiosità e notevole passione; non è detto che ci si riesca sino in fondo, la strada da percorrere nelle maglie della storia è tanta, ma almeno potremmo dire di aver imparato qualcosa di nuovo di cui fare senz’altro tesoro.

Senza spingerci troppo in là nel tempo, poiché ci sarebbe da arrivare indietro sino alla fine del 1200, quasi 1300, facciamoci bastare di ripartire dalla prima metà del ‘900, da quelle radici sulle quali poggia la rivincita contemporanea di questo straordinario vino bianco italiano, a Denominazione di Origine Controllata e Garantita dal 1993 e tra i pochi a potersi addirittura fregiare anche della menzione Riserva in etichetta.

Tutto rinasce negli anni ’30 quanto si riprende a piantare, inizialmente a macchia di leopardo, l’antico vitigno Vernaccia su tutto il territorio di S. Gimignano, attività che riprenderà in maniera più massiva nel dopoguerra. E’ infatti negli anni ’60 del secolo scorso che il vitigno qui sembra prendere il sopravvento su tutte le altre varietà tradizionali toscane, così da fare di San Gimignano un compound bianchista dove l’uva a bacca bianca ne caratterizza così profondamente la produzione di vino tanto che nel 1966 diviene addirittura il primo vino italiano ad ottenere la Denominazione di Origine Controllata, poi sopravanzata dalla Docg nel 1993.

Il disciplinare prevede che le uve provengano esclusivamente dal territorio comunale di San Gimignano e che il vino sia prodotto con uve provenienti da vigne dove siano presenti per l’85% Vernaccia di San Gimignano e una presenza massima del restante 15% di altri vitigni a bacca bianca non aromatici, autorizzati in Toscana; non sono però consentiti l’impiego dei vitigni Traminer, Muller Thurgau, Moscato Bianco, Malvasia di Candia, Malvasia Istriana, Incrocio Bruni 54 mentre è possibile piantarvi Sauvignon e Riesling, che possono concorrere alla produzione da soli o congiuntamente sino al 10%. La tipologia Riserva prevede una sosta in affinamento di almeno 11 mesi in cantina, più 3 in bottiglia, prima dell’immissione al consumo. Tutti i processi di vinificazione delle uve ed affinamento del vino devono avvenire all’interno dell’area di produzione.

E’ a cavallo degli anni ’80 e ’90 che nasce Panizzi, proprio con questa etichetta qui, tra le prime ad appassionarci a questa tipologia di vino bianco italiano e che, ancora oggi, a distanza di 30 anni, viene prodotta con le uve Vernaccia di San Gimignano e un piccolo saldo del 5-7% di Incrocio Manzoni e Trebbiano, provenienti da tutti i vigneti aziendali di Larniano, Montagnana, Santa Margherita e Lazzeretto. L’azienda conta oggi ben 60 ettari coltivati prevalentemente con Vernaccia, altre varietà bianche da sempre coltivate sul territorio e ancora altri vitigni a bacca rossa, con vecchi e nuovi impianti, come Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon destinati ai vini San Gimignano rosso e Chianti Colli Senesi, denominazioni che qui si incrociano su più punti dello stesso territorio.

L’azienda, fondata da Giovanni Panizzi, dal 2004 è passata nelle mani della famiglia Niccolai, può farsi vanto di essere ormai un grande classico di questa denominazione e anzi, rimane forse tra le poche a conservare una certa continuità qualitativa ad ogni vendemmia, capace di mantenere equilibrio e difendere una precisa identità espressiva, proprio come nel caso di questa Vernaccia duemiladiciotto che ne rappresenta al meglio ogni suggestione di merito, un vino fuori dal tempo e dalle mode ma pienamente dentro la storia di questo territorio.

Possiede un bel colore giallo paglia, ben luminoso. Il naso è fine, il profumo è delicato con sentori subito floreali e fruttati in primo piano, vi si colgono gelsomino, tiglio e mela golden, cui s’aggiungono un refolo balsamico e un sentore di polvere di pomice. Il sorso è decisamente asciutto, armonico, sapido, con un finale di bocca che sa lievemente di mandorla amara. Non è difficile immaginarne progressione e capacità di affinamento, possiede struttura, ampiezza e buona persistenza gustativa, l’abbiamo senz’altro colto in piena gioventù ma siamo certi che a dimenticarne qualche bottiglia in cantina, fosse anche per una decina di anni, non mancherebbe mai il suo appuntamento con la storia, presto o tardi che arrivi. 

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Un vino da bere che verrebbe voglia di incorniciare, il Tresinus 2018 di San Giovanni

10 Maggio 2020

E’ certamente una storia piena di romanticismo quella di Mario Corrado e Ida Budetta con la loro splendida azienda agricola San Giovanni a Punta Tresino, a Castellabate, in Cilento, ma anche carica di forza e determinazione, di passione pura.

Per rendere chiara l’idea da cui muove tutto, non poteva esservi rappresentazione migliore dell’etichetta di questo vino, il loro Tresinus, un Fiano di cui proviamo a lasciare traccia su queste pagine con colpevole ritardo, nonostante sia di diritto uno dei vini cilentani del cuore da almeno un decennio.

Sono evidentemente confini del tutto immaginari, agli occhi più attenti quelle linee sono solo apparenti, frontiere di uno spazio enorme inquadrato tra la madre terra, il mare e il cielo dentro al quale Mario e Ida si muovono con energia sin dai loro primi passi qui a Punta Tresino, risalenti ai primi anni ’90. E dire che più delle difficoltà di avviare l’impresa eccezionale di mettere su un’azienda agricola, praticamente dal niente, poté scuoterli l’enorme diffidenza, le difficoltà a portare avanti il riscatto di un luogo che passasse dai principi e dai valori della salvaguardia dell’ambiente, del territorio, la sua piena rivalutazione, anzitutto agli occhi di una comunità quasi arrendevole per via dell’isolamento atavico di questi luoghi e, peggio, arroccata dietro una chiusura mentale addirittura autolesionista in certi casi, che poco lasciava intravedere il futuro.

Eppure, proprio da queste parti, non mancavano esempi da seguire: Luigi Maffini muoveva i suoi passi a Castellabate in maniera sempre più decisa, con lui Alfonso Rotolo a Rutino, i De Conciliis a Prignano, per citarne solo alcuni tra i pionieri più apprezzati già in quegli anni. Così il desiderio di Mario Corrado e Ida Budetta poteva prendere il largo con ancora maggiore determinazione, in effetti così è stato.

Quella vigna così suggestiva e ben rappresentata in etichetta esiste per davvero, non è solo una raffigurazione artistica, è forse la vigna di Fiano più prossima al mare del Cilento, in cui sembra letteralmente tuffarsi, incosciente, dopo aver fatto un salto di  almeno trenta metri lanciandosi nel cielo di Punta Tresino. Questa è una terra straordinaria, va camminata a lungo e vissuta profondamente, alcuni luoghi per certi versi conservano atmosfere  finanche troppo austere, ostinatamente ancestrali, altri invece sembrano anticipare slanci incredibili verso l’infinito.

Vi sono poi vini che riescono a coniugare entrambe queste visioni, sono questi vini autentici, più unici che rari, non solo per questo territorio, questo ci pare il Tresinus duemiladiciotto di San Giovanni; ci arriva nel bicchiere un vino dal bellissimo colore paglia oro, luminoso, con un corredo aromatico merlettato: vi si colgono note di agrumi, fiori gialli, erbette aromatiche, odore di salsedine, balsami. Il sorso mostra subito consistenza e stoffa, finissima tessitura, persistenza gustativa, misurata sapidità, è certamente uno di quei bianchi da bere con piacere già oggi ma che anticipa una certa capacità di maturare ed evolvere in bottiglia, di quelli che verrebbe voglia addirittura di incorniciare.

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Autoctono e originale, il Costa d’Amalfi Furore bianco 2018 di Marisa Cuomo

8 Maggio 2020

E’ un comprensorio vitivinicolo tanto particolare quello della Costa d’Amalfi, millemila terrazzamenti dove è molto complicato e disagevole spostarsi, figuriamoci lavorarci; talvolta anche dentro una stessa vigna, può capitare di passare da un’altitudine all’altra con salti finanche di 100 metri, dentro contesti micro-climatici davvero molto caratteristici.

Non a caso si parla di Vini Estremi¤. Poi ci sono i varietali, taluni assolutamente unici, altri rinvigoriti proprio da questo terroir così straordinario, basti pensare ad esempio ai bianchi Fenile, Ginestra e Pepella.

Il primo, allevato generalmente a pergola, è un vitigno abbastanza neutro che dona però struttura ai vini e che riesce a raggiungere, con un breve affinamento, vette di rara eleganza, pur avendo necessità di cure maniacali in vigna a causa della sua particolare sensibilità alle muffe. La Ginestra, spesso confusa ed associata alla più conosciuta Falanghina per la sua abbondanza colturale, è invece da considerare più vicina alla varietà Biancolella, molto diffusa anche da queste parti in Costa d’Amalfi, dove sembra acquisire una particolare integrità olfattiva dal profumo, appunto, di fiori di ginestra, contribuisce a dare vini freschi e agili nella beva. La Pepella, infine, rappresenta la memoria storica di questo territorio: sono poche vigne, si contano poco più di tre ettari in tutto, generalmente vecchi ceppi con una resa bassissima in uva anche per via della naturale propensione all’acinellatura dei grappoli; ne viene fuori però un nettare rarissimo ma di estrema funzionalità nell’assemblaggio finale dei vini, a cui dona particolare complessità.

Poi ci sono i rossi, c’è anzitutto il Piedirosso o Per’ e palummo, così chiamato dal rosso dei pedicelli degli acini che richiama il colore vivo delle zampette dei colombi. Sappiamo bene come va col vitigno (leggi qui), eppure certi vini qui in Costa d’Amalfi prendono caratteri davvero incredibili. Vale la pena poi ricordare lo Sciascinoso, o il Tintore di cui spesso abbiamo già raccontato su queste pagine (ad esempio qui) e del Tronto, altra varietà locale spesso però sovrapposta al più tradizionale Aglianico.

Sono tutti vini parecchio evocativi quelli di Marisa Cuomo e Andrea Ferraioli, vini che si fanno apprezzare ancora di più proprio per il forte magnetismo di questi territori straordinari, con queste vigne patrimonio inestimabile, in certi luoghi letteralmente arrampicate sulle rocce a picco sul mare di Furore e Ravello. Non mancano certo appassionati al Fiorduva, il loro bianco di punta pluripremiato ad ogni uscita, ma nemmeno chi, talvolta, in certe annate in particolare, gli preferisce il Furore bianco ”base” da Falanghina e Biancolella. E’ un duemiladiciotto riuscitissimo questo, dal grazioso colore paglia e un naso delicato e verticale, profuma di ginestra e biancospino, di agrumi e macchia mediterranea mentre il sorso è piacevole ed equilibrato, stuzzicante e persistente, non senza acuti di freschezza sul finale di bocca ben sapido.  

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Del Blauburgunder 2015 di Martin e Marlies Abraham

23 aprile 2020

Abbiamo in Italia, da nord a sud, un patrimonio vitivinicolo straordinario e vignaioli capaci di rendere eccezionale ogni singolo sorso di vino, proprio come in questo caso, davanti al Pinot Nero duemilaquindici di Martin e Marlies Abraham¤.

Non è difficile capire perché proprio il Pinot Nero sia la varietà che più affascina certi produttori e sommelier di tutto il mondo, quella che più di ogni altra costituisce motivo di sfida e che in certi luoghi riesce ad esprimere vini capaci di sensazioni davvero uniche, vini talvolta superlativi e immortali.

Non deve essere stato diverso per Martin e Marlies Abraham, giovani viticoltori altoatesini che sin dai loro primi passi nel 2011, hanno subito raccolto il significato più profondo della tradizione famigliare sapendoci costruire sopra il proprio futuro, spingendosi ben oltre il compitino da manuale che pur avrebbero potuto permettersi nella loro Appiano, terra vocatissima per il vino, dove il Pinot Nero viene coltivato da ben oltre 150 anni, su terreni calcareo-argillosi, con cloni molto vicini alle varietà borgognoni con grappoli particolarmente compatti ed acini di piccole dimensioni.

Gli Abraham fanno una viticoltura pienamente sostenibile, impiegando esclusivamente metodi biologici e concimazioni naturali, a cui s’aggiunge tanto lavoro a mano in vigna ed un manico ”purista” in cantina, lasciando ai vini fermentazioni spontanee su propri lieviti ed un lungo tempo di maturazione in legno e in bottiglia prima di presentarsi sul mercato. Questo per i vini bianchi come per i vini rossi.

Il Blauburgunder duemilaquindici ha uno splendido colore rosso rubino trasparente, più ”leggero” sull’unghia del vino nel bicchiere. Al naso è inizialmente scontroso, chiuso, ha necessità del suo tempo per aprirsi, rivelarsi, un po’ come entrare in una stanza lasciata chiusa per qualche periodo che richiede un po’ di tempo per riconsegnarci la sua memoria; ne viene poi fuori, infatti, un quadro olfattivo molto interessante, arrivano sentori di lamponi, amarene ma anche note di sottobosco, spezie fini e pietra focaia. Il sorso è avvincente e pieno, vigoroso e ben tessuto, fresco e appena tannico, di raro equilibrio gustativo nonostante il 14% di alcol in volume in etichetta. E’ senz’altro uno dei migliori assaggi dell’anno!

Leggi anche Pinot Bianco in der lämm 2015 Weingut Abraham Qui.

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C’è il profumo invitante della primavera nello Champagne Blanc de Blancs s.a. di Alain Thiénot

15 aprile 2020

Si assiste negli ultimi anni ad un sempre crescente successo dello Champagne in tutto il mondo, i grandi marchi sono stati affiancati nel frattempo da innumerevoli piccole etichette di varia connotazione che in molti casi hanno saputo ben ritagliarsi il proprio spazio sul mercato e in particolar modo tra gli appassionati più attenti.

Abbiamo quindi imparato a ”leggere” e apprezzare etichette di cuvée delle più differenti, i grandi numeri sono certamente rimasti appannaggio delle grandi Maisons che per la verità continuano a fare il bello e cattivo tempo nel mondo ma anche nella stessa regione dove, giusto nel mezzo, cioè tra questi mostri sacri e i tanti cosiddetti ”piccoli” Negociant e/o Manipulànt della new wave, hanno saputo consacrarsi, con grande slancio, anche alcuni nomi non nuovi ma di sicuro affidamento proprio come Alain Thiénot, già stimato e apprezzato commerciante di vini nonché profondo conoscitore dell’area, che nel 1985 ha avviato la sua straordinaria cavalcata tirando su un’azienda tutta sua, affidata poi nelle mani dei figli Stanislas e Garance, oggi tra le più apprezzate della Champagne.

Il suo Blanc de blancs s.a. è l’asso di cuori da giocare nel momento più opportuno, non solo durante i momenti di festa. Si tratta di un vino composto per l’80% di vini Riserva ai quali viene aggiunto un 20% di vini d’annata. Stiamo parlando di Chardonnay provenienti dagli areali maggiormente vocati di Avize e Vertus sul versante sud della Cote des blancs e più a nord da Villers-Marmery, verso la Montagna di Reims, qui dove la famiglia Thiénot, da oltre 30 anni tira fuori grandi vini per le sue cuvée più prestigiose tra le quali il millesimato Vigne aux Gamins e l’assemblaggio di millesimati Cuvée Stanislas.

Uno Champagne sans année davvero notevole, e questo nuovo assaggio lo conferma a pieno: di colore paglierino carico e brillante, una volta nel bicchiere è subito invitante e coinvolgente, con una spuma delicatissima, e bolle fini e regolari, intense, persistenti. Il naso rivela immediatamente tutta la sua anima verticale e aristocratica, è intrigante, vi si colgono sentori finissimi e vibranti di agrumi di limone e pompelmo, emerge nel bicchiere il profumo invitante della primavera, certe caratteristiche note floreali e di fragrante pasticceria. Il sorso è un tripudio di freschezza minerale, asciutto e generoso, teso il giusto, accompagnato nella beva da una carbonica misurata e un finale di bocca citrino e sapido.

Leggi anche Reims, Champagne Cuvée Brut Rosé Alain Thiénot Qui.

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Prêt à boire, Les Grands Charrons 2017 Michel Bouzereau

14 aprile 2020

Collocato nel cuore della Borgogna, proprio al centro della Côte de Beaune, tra Volnay a nord e Puligny Montrachet a sud, l’areale di Meursault rappresenta un territorio di grande suggestione dove nascono vini bianchi di spessore e di notevole profilo organolettico, espressi a più livelli qualitativi.

Qui dove lo Chardonnay si prende rapidamente la scena, pur senza Grands Crus da annoverare, non mancano Premiers Crus che hanno saputo segnare la storia territoriale di questi luoghi straordinari, si pensi ad esempio a Climat come Les Perrières, Les Porusots (Poruzots), giusto per citarne alcuni tra i più celebri con Les Genevrières, forse il più rappresentativo tra tutti i vini di Meursault, capace di dare vini superiori per complessità e finezza, in grado di sfidare tranquillamente il tempo, non a caso, in certe annate, paragonati ai grandi vini di Montrachet.

Tutto intorno dei ”lieux-dits” in carico all’appellation communale sempre molto interessanti tra cui senz’altro questo Les Grands Charrons, una vigna appena fuori il centro di Meursault di cui i Bouzereau detengono circa 1 ettaro e mezzo; è un nome abbastanza nuovo quello di Jean-Baptiste Bouzereau sulla scena borgognona, ma che sembra abbia saputo farsi largo a suon di uscite di tutto rispetto, con una produzione medio-piccola, che non supera mai le 60-70.000 bottiglie complessive, ma con uno stile preciso, sempre intrigante e convincente, con il frutto in primo piano e senza sovrastrutture inutili.

L’azienda conta nel complesso circa 12 ettari di cui ben 9 a Chardonnay e Aligoté divisi tra Meursault e Puligny-Montrachet e la restante parte in terra di Pinot Noir tra Volnay e Beaune; quelli di Jean-Baptiste sono vini precisi, fieri e pieni di tensione gustativa, che in qualche caso possono aver bisogno del loro tempo per rivelarsi del tutto, i rossi in particolare, ma non in questo caso: Les Grands Charrons duemiladiciassette è uno Chardonnay in purezza, fermentato con lieviti indigeni, lasciato in barrique per circa un anno e poi finito in acciaio per almeno 4 mesi prima dell’imbottigliamento.

Ne viene fuori un bianco dal colore paglia luminoso, subito invitante al naso con un bel corollario di frutta a polpa gialla e agrumi, sa di pesca, nespola e buccia di limone, ma anche rosa e ginestra e un sentore piacevolmente balsamico. Il sorso è pieno di frutto, asciutto e morbido, sostenuto da una piacevole freschezza gustativa e sul finale di bocca da spiccata sapidità. E’ senza dubbio un bianco di grande piacevolezza, prêt à boire verrebbe da dire, anche se non c’è assolutamente da preoccuparsi laddove capiti, malauguratamente, di dimenticarselo per qualche tempo in cantina.

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Riprenderci il passato per conquistare il futuro

12 aprile 2020

Non sono mancate nelle ultime settimane innumerevoli analisi e teorie alla base di questa tremenda emergenza sanitaria mondiale dentro la quale sembrano essersi smarrite tutte le certezze e le sicurezze che ognuno, ovunque nel mondo, sembrava certo di poter mantenere indipendentemente da cosa accadesse in giro nel mondo.

Sino a che non mi tocca, non mi riguarda, si pensava. Così non è, così non è mai stato. Si è fatto quindi largo sin dalle prime battute un grande spirito di ottimismo, #andràtuttobene è diventato velocemente lo slogan dietro al quale tutti, ovunque in Italia e negli altri paesi colpiti dal Covid-19, ci siamo velocemente ritrovati, uno slogan dal suono matrigno, quasi ancestrale: un hashtag, tre parole tre, unite da un grande arcobaleno e piene di significato.

Ma andrà-tutto-bene? Ecco, restando a quel che più ci compete e ci appassiona, parliamo di vino e cibo da queste parti, senza entrare nel merito economico e politico, men che meno in quello sanitario visto il numero di analisti, statisti e scienziati che sin dalle prime battute di questa emergenza hanno visto bruciare i loro studi, le loro proiezioni, le loro certezze in men che non si dica, mi piacerebbe, più semplicemente, riportare su queste pagine una personale breve riflessione, ma non su quello che ci aspetta domani – davvero si pensa che ci sia qualcuno capace realmente di farlo? – bensì su come ci siamo potuti ritrovare a questo punto, a questo preciso momento storico, evidentemente nudi davanti alla realtà.

In principio l’obiettivo era proporsi al mercato, conquistare spazio, con qualità e professionalità. Un vino con una storia da raccontare, quel vitigno unico, un territorio preciso, le persone giuste, le storie famigliari. Un prodotto o un cibo da preservare, promuovere a nuova vita, rilanciare la sua storia, il valore della sua tipicità, delle persone capaci di tramandarne la tradizione. Così un posto, un’Azienda, un Negozio, una Trattoria, un Ristorante, un’Osteria, una Pizzeria con delle idee chiare nel costruire una storia, un piano di sviluppo, un progetto da seguire per affermare dei valori concreti e non, soltanto, dei numeri, avevano tutti, ognuno, il proprio spazio dove proporsi sul mercato, dove costruire relazioni, legami, il proprio futuro.

Poi è arrivata la globalizzazione, non una parola qualsiasi ma quel fenomeno basato sull’intensificazione degli scambi e degli investimenti internazionali su scala mondiale che, a partire dalla fine del XX secolo è diventato un mantra tanto inarrestabile dal creare sempre maggiore interdipendenza tra le economie nazionali ma anche e soprattutto sociali, culturali, politiche e tecnologiche con i suoi innumerevoli effetti positivi ma anche, inevitabilmente, con enormi strascichi negativi sul breve e lungo termine.

Abbiamo così inseguito la velocità delle comunicazioni e della circolazione delle informazioni, una nuova grande opportunità di crescita per chiunque avesse carte da giocarsi, e da un punto di vista strettamente economico un trampolino di lancio incredibile per alcuni paesi a lungo rimasti ai margini dello sviluppo economico mondiale, vedi ad esempio proprio paesi come la Cina o l’India, con benefici sostanziali di cui poi tutti abbiamo potuto godere direttamente o indirettamente, vedi la riduzione dei costi di tantissimi prodotti grazie all’incremento della concorrenza commerciale da questo momento da considerare su scala planetaria.

Abbiamo però continuato a trascurare gli aspetti negativi, sottovalutandoli, e probabilmente continueremo a farlo: lo sfruttamento, il degrado ambientale, l’aumento delle disparità sociali, la perdita delle identità locali, in qualche caso la riduzione delle sovranità nazionali e le autonomie delle economie locali. La sovrabbondanza di conquiste ci ha talmente abbagliati che non ci ha fatto cogliere a pieno il reale costo della cessione di tutte queste libertà, un eccesso di fiducia in questa straordinaria onda economica che più che renderci sazi ci ha resi obesi e ciechi.

Sul tema strettamente enogastronomico le influenze e le deficienze sono sotto gli occhi di tutti. Il vino ha vissuto momenti di grande slancio economico rilanciando interi territori, creandone dei nuovi e affermando nuove tendenze, qui l’eccesso è stato però puntare a stravolgere ben oltre quanto sia stato valorizzato, con molti protagonisti votati più a fare e imbottigliare di tutto, anziché specializzarsi, pur di levare spazio e quote di mercato ad altri, ed anche tante piccole realtà non sono certo passate indenni dal vino Rosato o lo Spumante pur di avere una referenza in più in catalogo, disperdendo il più delle volte valori e capitali.

Un crack ancora più evidente nella ristorazione, in un paese di grande storia e tradizione culinaria, con un patrimonio incredibile di materie prime e produzioni alimentari che nessun altro paese al mondo può vantare. Abbiamo ceduto con incredibile velocità alla globalizzazione, disperdendo altrettanto velocemente un patrimonio enorme, quello delle Osterie, delle Trattorie, finanche delle Pizzerie sino a pochi anni fa e dei Ristoranti che hanno fatto scuola per decenni nel nostro paese, ognuno con la propria storia identitaria, una vocazione precisa, imitati e replicati – anche in maniera grottesca se vogliamo, ma genuina – ovunque nel mondo, formando cuochi e camerieri che hanno segnato profondamente la storia dell’ospitalità e dell’accoglienza italiana. Un crack che abbiamo accettato scientemente, certificandolo ridimensionando un po’ alla volta le storie dietro questi straordinari luoghi della memoria.

Sbaglia chi pensa che lo abbiamo fatto cedendo ai ristoranti cinesi, alla cucina giapponese, ai locali etnici. Sbaglia chi è certo che andava fermato lo straniero, il Kebab o il Ceviche. O almeno in parte. Il reale declino si è acuito quando abbiamo cominciato a pensare che le Osterie potessero fare bene anche a proporre Kebab o Sushi, che le Trattorie diventassero, come poi anche le Pizzerie, avamposti Gourmet a basso costo purché forniti di una cantina di tutto rispetto, mentre i Ristoranti, in quanto balocchi ed elevati nel nome dello chef, non necessariamente con una storia, potessero ambire legittimamente non più, non solo, al sogno Stellato da costruire anno dopo anno ma puntare, a suon di fragorosi gingilli e senza limiti temporali, al firmamento planetario.

Ecco, non è forse questo rincorrere modelli drogati e volti prevalentemente a levare agli altri spazio e sostanza che ci ha di fatto disorientati e privati di riferimenti? Nel nome della domanda l’offerta enogastronomica si è talmente globalizzata sino a smarrire identità. Più che domandarsi quindi se #andràtuttobene sarebbe forse il caso di ripartire da qui: riprenderci il passato per conquistare il futuro.

Questo articolo è stato pubblicato su Luciano Pignataro Wineblog.

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Ancora una piacevole conferma il Sireo bianco 2017 di Abbazia di Crapolla

13 marzo 2020

Il fiordo di Crapolla è un’antichissimo approdo di pescatori poco distante da S. Agata sui due golfi, nei pressi di Torca. Dell’Abbazia di San Pietro non resta che una vecchia cappella votiva intitolata allo stesso Santo, costruita con le stesse pietre dell’antico edificio.

Questa breve introduzione ci serve per riprendere le fila dell’affascinante e suggestivo progetto agricolo di Fulvio Alifano e Giuseppe Puttini, l’azienda Abbazia di Crapolla di Vico Equense, in Penisola Sorrentina, partito nel 2007.

Ne parlammo, tra i primi, già nel febbraio 2013, raccontando della primissima uscita dei vini qui prodotti, il Sireo bianco e il Nero (poi rinominato Nireo, ndr); il primo, un bianco prodotto con Falanghina e Fiano, il secondo, in maniera a dir poco insolita in Campania, con Pinot Nero in purezza. Una scelta, quella del Pinot, dettata perlopiù dalla necessità di puntare su una varietà precoce, che non ponesse a queste latitudini particolari problemi di maturità tannica. Allora ne rimanemmo abbastanza suggestionati, dal bianco in maniera particolare, ne trovate a piè pagina i rimandi alle recensioni di allora.

Nel frattempo sono diventati cinque gli ettari di proprietà, poco meno di due destinati ai vigneti di Falanghina, Fiano, Merlot, Pinot Nero e alcune altre varietà minori locali già presenti qua e là nella vecchia proprietà, mentre la restante parte sono stati lasciati alla coltivazione dell’ulivo e dell’orto.

Una Grancia, così venivano chiamate le dipendenze agricole dell’Abbazia di Crapolla di Massa Lubrense, risalente al lontano 1100, la cui salvaguardia testimonia il valore assoluto di ogni singolo pezzetto di terra di questo prezioso lembo di Costiera che si leva al cielo sino ai 300 mt s.l.m.. Qui la terra è assai fertile, caratterizzata da depositi sabbiosi e ghiaiosi di diversa natura e poggia su un substrato calcareo spesso affiorante, con copiosi sedimenti vulcanici, anzitutto lapilli e tufo verde, provenienti dalle attività eruttive del complesso dei Campi Flegrei e del Monte Somma-Vesuvio.

Qui prende vita il progetto ambizioso delle famiglie Alifano e Puttini, intessuto con grande slancio e che nel tempo si è consolidato grazie anche al prezioso contributo iniziale di Luigi Moio¤ e il lungimirante lavoro in vigna e in cantina di Arturo Erbaggio, l’enologo che li segue sin dal principio e che ne supervisiona tutte le fasi produttive aziendali. Un lavoro in vigna maniacale e dispendioso, con impianti fitti con circa 8.000 ceppi per ettaro, dove si fa lotta integrata e si lavora in regime biologico, una scelta che avvalora ancora di più il senso di resilienza che si respira da queste parti.

L’annata 2017, dopo le nevicate e le temperature rigide di inizio anno, ha fatto poi registrare costantemente valori ben al di sopra la media tanto da farla entrare di diritto tra i millesimi più caldi e siccitosi di sempre. Ci ha così consegnato un bianco equilibrato e pronto da bere, una spanna sopra le precedenti uscite per struttura (il volume alcolico è del 13,5%), tant’è pienamente appagante e ben definito.

Ed eccolo nuovamente nel bicchiere il Sireo, con l’uscita duemiladiciassette: vino bianco sorprendente, caratterizzato da un bel colore paglierino carico e da estrema finezza al naso. Il primo naso è concentrico su note fruttate e floreali, sa di fiori bianchi, frutta a polpa bianca, buccia di agrumi, a cui s’aggiungono sentori di macchia mediterranea e note appena salmastre. Il sorso è preciso, fresco, s’allunga piacevole e coinvolgente in bocca chiudendo con un finale gustoso e sapido. Insomma, una piacevole conferma!

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Comfort Wines, Il Frappato 2017 di Arianna Occhipinti

11 marzo 2020

Si ritorna sempre ben volentieri su certe bottiglie, vale la pena farlo quando etichette come questa di Arianna Occhipinti, dimostrano progressivamente crescita e slancio, offrendo ogni volta, ad ogni nuovo millesimo, delle belle rappresentazioni varietali e territoriali.

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Il Frappato di Arianna Occhipinti entra così, in maniera prepotente, tra i nostri Comfort Wines. E’ un vino subito invitante quello della giovane e talentuosa vignaiola siciliana, sin dal bel colore rubino granato, luminoso e bello a vedersi; stuzzicante l’olfatto, intriso di tante piccole deliziose note e sfumature che vanno rincorrendosi chiare e coinvolgenti.

E’ un carnet lieve, floreale, fruttato e terragno, ci riconosci subito sentori di rosa e violetta, ”cerase” e prugna, ma ciò che convince maggiormente di questo vino è la sua capacità di farti ritornare, sorso dopo sorso, nuovamente al bicchiere per coglierne ancora i profumi che nel frattempo virano, risaltano, spaziano in lungo e in largo nel calice. Appena tannico, sui 12,5% in volume alcolico, ha sapore coinvolgente e appagante, punta dritto al cuore e alla pancia.

E’ insomma uno di quei vini che ci piace inserire dentro ”la lista del cuore”, dove ci vanno a finire piccole e grandi bottiglie che rappresentano un vero e proprio elogio della bevibilità¤, che non smettono di raccontarsi consegnandoci ogni volta qualcosa di nuovo, imperdibile, irripetibile.

Leggi anche Vittoria, il Frappato 2010 di Arianna Occhipinti Qui.

Leggi anche Vittoria, il Cerasuolo Grotte Alte 2006 di Arianna Occhipinti Qui.

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L’Es di Gianfranco Fino e il principio del piacere come passione pura

21 febbraio 2020

Correva l’anno 2006, durante una delle mie prime partecipazioni alle degustazioni di Vitigno Italia a Napoli, allora si teneva alla Mostra d’Oltremare di Fuorigrotta, mi venne raccomandato, tra gli altri, di non perdermi un assaggio, uno straripante Primitivo pugliese; successivamente, la stima e l’affetto di Salvatore Martusciello mi concesse addirittura di poter godere di una intera bottiglia di quel vino, l’Es di Gianfranco Fino, credo fosse annata 2004.

Quel vino, assolutamente sconosciuto, devo essere sincero, mi trovò oltremodo impreparato; non tanto da un punto di vista professionale, in quanto nonostante fossi ai miei primi anni da Sommelier un po’ di bottiglie di un certo spessore le avevo già aperte e con un po’ di fortuna mi ero avviato a camminare diverse vigne qua e là in Italia e incontrare tanti ottimi produttori che mi avevano aiutato con il loro sapere. Questo vino di Gianfranco Fino, allora mi pare fosse un collaboratore di Luigi Veronelli in Puglia, segnava chiaramente uno spartiacque, almeno tra i rossi pugliesi conosciuti dal grande pubblico di appassionati sino ad allora e per quel territorio in particolare. Mai approcciato qualcosa di simile prima di allora, ne rimasi folgorato.

In quegli anni spirava un vento ”buono” e diverso in quella regione, Manduria e più in generale quelle terre sembravano acquisire un ruolo sempre più decisivo nelle sorti produttive pugliesi, areale non più relegato alla mercé dei numerosi imbottigliatori del nord che qui venivano a fare mercato ma finalmente protagonista di un processo di sviluppo concreto che vedeva di anno in anno grandi gruppi investire e sbarcare direttamente sul territorio, riuscendo al contempo lasciar emergere nuove piccole realtà che avrebbero saputo affiancare i nomi ”storici” e lasciare, a loro modo,8 un segno indelebile.

Così è stato se vogliamo per Gianfranco Fino e Simona Natale, partiti con una manciata di piante in Agro di Manduria e un grande sogno nel cassetto sino ad arrivare a mettere su, a suon di sacrifici e di successi, una splendida realtà che conta oggi tra Sava e Manduria 22 ettari di vigna di cui almeno la metà di vigne vecchie, recuperando inoltre, con un lungo lavoro certosino, le preziose viti ad alberello sposando appieno una filosofia di coltivazione della terra sostenibile e di grande autenticità.

Per quanto bizzarro come nome, Es viene scelto perché rappresenta il principio freudiano del piacere della passione pura che fugge completamente alla ragione, l’istinto di ciò che è primordiale, e così ci si avvicina a questo duemilasedici, un piccolo capolavoro di concentrazione estrema, un rosso di grande pulizia olfattiva e di enorme fascino sensoriale: il colore è rubino vivace, fitto ed elegante, il naso è un trionfo di marasca sotto spirito, prugne in confettura, spezie dolci, polvere di cacao, il sorso è pieno, potente ma vellutato, di finissima tessitura acido tannica che ben riesce ad armonizzare il 16,5% di alcol in etichetta, non certo trascurabile.

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Una grande storia enologica italiana, il Gattinara Riserva 2013 di Travaglini ad esempio

8 febbraio 2020

Prende il via da un’intuizione di Giancarlo Travaglini, nel 1958, che decide di dare una forma inconfondibile alla bottiglia che ancora oggi contiene i suoi vini Gattinara. Una bottiglia diventata poi iconica e che oggi viene addirittura esposta al MoMa¤ di New York.

Per molti, inizialmente, poteva sembrare una trovata per i turisti americani ed europei in gita per le langhe, buona per un ultimo souvenir a corredo delle tante prestigiose bottiglie di Barolo e Barbaresco che recavano con loro rientrando nel loro paese. E invece no, ”un grande vino non poteva certo finire in una normale bottiglia” amava ripetere Giancarlo Travaglini che nel ’58 pensò ad una vera e propria opera d’arte per contenere i suoi vini; una bottiglia studiata con attenzione e tecnicamente perfetta anche se dalla forma insolita: una bottiglia particolare, ergonomica, che agevola il lavoro durante la decantazione perchè capace di trattenere gli eventuali sedimenti naturali che i vini dal lungo invecchiamento possono contenere. La storia e la straordinaria complessità dei suoi Gattinara hanno saputo poi fare il resto!

E’ un territorio unico quello del Gattinara d.o.c.g., qui la terra ha la stessa composizione mineralogica delle Alpi, composta di graniti, porfidi, particolarmente ricca di ferro. Sono suoli leggeri, ricchi di scheletro e a forte reazione acida per l’assenza di calcare dovuta alla scarsa concentrazione di carbonato di calcio e magnesio.

I Travaglini qui detengono circa 59 ettari di proprietà di cui ben 44 votati esclusivamente alla coltivazione della vite, viene coltivato perlopiù Nebbiolo, cui si affiancano alcuni impianti di Vespolina e Uva Rara che confluiscono nella produzione dell’unico vino rosso senza Nebbiolo dell’azienda. Stiamo parlando di vigne che hanno un età compresa tra i 6 e 45 anni, tutti esposti a sud, sud-ovest curate con maniacale attenzione durante tutto il ciclo produttivo così da condurre in cantina uve sanissime e di primissima qualità. 

Non solo in vigna però, c’è poi lo scrupoloso lavoro in cantina prima di affidare questi vini alle ”mani del tempo”, alla loro permanenza in legno e in bottiglia; il Gattinara Riserva ad esempio ha un affinamento minimo di 5 anni, di cui 4 in botti rovere di Slavonia e una piccola percentuale con affinamento in legni più piccoli, per un anno, mentre poi può rimanere in bottiglia ancora per almeno 8 mesi.

Questo Gattinara Riserva duemilatredici ha uno splendido colore granato intenso, il naso è subito ampio e imponente nella sua finezza, si capisce subito di trovarsi dinanzi a un vino di classe cristallina: è un rosso che da grande respiro al Nebbiolo piemontese, ha sentori floreali e fruttati di rosa e viola, tamarindo, un lieve tono di tabacco, con spezie fini in sottofondo ed una forte componente minerale che ha la meglio soprattutto al palato. Il sorso è piacevolmente tannico, fresco e persistente, con un gran finale di bocca rinfrancante. E’ proprio il caso di dire di trovarci dinanzi ad una grande bottiglia della storia enologica italiana!

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L’Ager Falernus, oltre duemila anni di storia sulla bocca di tutti, le degustazioni della Masterclass!

5 febbraio 2020

E’ stata una bellissima esperienza umana nonché di crescita professionale guidare la Masterclass¤ di Aspi Campania tenuta a Pozzuoli in collaborazione con il Consorzio ViTiCa, ente che Tutela i Vini D.O.C. Falerno del Massico¤, Asprinio di Aversa, Galluccio e le I.G.T. Terre del Volturno e Roccamonfina.

La storia ci ha sempre raccontato che il Falernum già in epoca romana veniva considerato vera e propria rarità enologica tanto dall’essere addirittura riconosciuto con ben tre sottodenominazioni a seconda della sua provenienza geografica. Era chiamato comunemente vinum Falernum tutto quello prodotto nell’Ager ma generalmente da vigne allocate in pianura; il Faustianum invece era quello tralciato nell’area appena pedecollinare mentre veniva riconosciuto Caucinum solo quello più prezioso, proveniente dall’alta collina.

A seconda poi delle caratteristiche organolettiche che tali vini esprimevano, vi era anche una distinzione per tipologia del tipo Austerum per i vini austeri e/o astringenti, Dulce se appunto dolci o Tenue quando leggiadri e beverini. Parliamo certamente di vini che avevano ben poco a che vedere con l’odierna qualità espressa in terra di Falerno, ma la particolare attenzione riservata a questo vino ci suggerisce quanto queste terre fossero già allora vocate alla viticultura e, per i palati di allora, apprezzati i vini qui prodotti.

Oggi, pur avendone ben chiari i confini della doc Falerno del Massico non è affatto semplice riassumerne per intero una zonazione efficace di tale territorio che, oltretutto, gravita attorno al massiccio del Monte Massico facendo sì che si passi da terreni pedemontani a collinari – con tutte le implicazioni pedoclimatiche, ndr -, sino ad arrivare letteralmente al mare. Alcuni riferimenti che possono però aiutarci a comprendere meglio ciò che provano a raccontare certe bottiglie che vanno in giro ci teniamo comunque a precisarli.

Nell’areale di Sessa Aurunca insistono circa 78 ettari denunciati alla doc, coltivati prevalentemente con Aglianico, Piedirosso, Falanghina e Primitivo; qui i terreni sono generalmente caratterizzati da tufo nell’interno, verso il vulcano spento di Roccamonfina e sabbia e limo verso la costa sino al mare.

Cellole conta 25 ettari coltivati con Aglianico, Piedirosso, Falanghina, Primitivo, qui i terreni sono sostanzialmente caratterizzati da sabbia e limo con alcuni tratti di origine alluvionale.

A Carinola e nei suoi dintorni insistono 26 ettari piantati con Aglianico, Piedirosso, Falanghina, qui il vigneto sembra essere più omogeneo su tufo e argille.

Falciano del Massico il vigneto doc conta circa 13,5 ettari votati a Primitivo, Barbera, Piedirosso, Falanghina, Moscato con terreni frammisti di argille, crete e limo, sabbie.

Infine Mondragone, con i suoi 8,5 ettari di Primitivo e Falanghina e le sue vigne che diradano sino a due passi dal mare, qui i terreni sono composti perlopiù da limo, sabbie con misto argille.

Una terra straordinaria quindi l’Ager Falernus che oggi potremmo così definire: di qua, a partire da sud-ovest, Mondragone, Falciano e, verso nord-est, Carinola. Di là, a nord, Cellole e poi Sessa Aurunca con le sue frazioni di Carano e Cascano verso est che si spingono fin su il vulcano spento di Roccamonfina. Ad ogni modo un territorio tutto da scoprire, da bere, ricordare a cominciare da questi sette nomi…

Falerno del Massico bianco Aurunco 2018 La Masseria di Sessa. Una piacevole scoperta questa splendida realtà del comune di Sessa Aurunca. In linea con i principi di produzione naturale qui il vino biologico viene prodotto in maniera rigorosa a partire da frutti sani e ricchi di materia viva, una coltivazione senza ammendanti chimici, utilizzando per i terreni solo compost aziendale, fino ad un processo di trasformazione che abbina gli antichi metodi con una modernissima tecnica di pressatura che utilizza gas naturale per l’estrazione del mosto tale da consentire la riduzione, e in alcuni vini, la totale assenza dell’utilizzo dell’anidride solforosa. E’ un Falerno nuovo, affianca alla Falanghina un piccolo saldo di Fiano, è luminoso, ampio al naso, caratterizzato dal candore del debuttante ma con tanta buona materia dentro. Farà la sua strada.

Falerno del Massico bianco Vigna Caracci 2016 Villa Matilde Avallone¤. La storia di Villa Matilde comincia negli anni Sessanta con Francesco Paolo Avallone, avvocato e appassionato cultore di vini antichi, che, incuriosito dai racconti di Plinio e dai versi di Virgilio, Marziale ed Orazio sul vinum Falernum, decise di riportare in vita il leggendario vino scomparso al principio del secolo scorso. Dopo anni di studio, individuò le viti che avevano dato vita al Falerno in epoca romana: pochi ceppi sopravvissuti miracolosamente alla devastazione della fillossera di fine Ottocento vennero così ripiantati, con l’aiuto di pochi contadini locali, proprio nel territorio del Massico, dove un tempo erano prosperati e fondò Villa Matilde.

Oggi l’azienda è guidata dai figli di Francesco Paolo, Maria Ida e Salvatore Avallone che con dedizione esclusiva proseguono il sogno e il progetto del padre raccogliendone l’importante eredità guardando ancora oltre. Vigna Caracci duemilasedici è il Falerno bianco, espressione di questo territorio che trova nella sostenibilità e nella ricerca la sua forza e la sua proiezione. Ha un colore oro luminoso, il naso è intriso di tante piacevole sensazioni balsamiche, fruttate, floreali, melliflue, con quel sorso sferzante e caparbio, sapido e lunghissimo.

Falerno del Massico rosso 1880 2016 Bianchini Rossetti¤. La famiglia Rossetti è qui da oltre tre generazioni, l’azienda produce oggi Falerno del Massico con le uve di proprietà provenienti perlopiù dalla collina di San Paolo, nel cuore di Casale di Carinola. In prima linea da circa un ventennio ci sono Tony Rossetti e l’instancabile Zio Francesco, artefici dell’ultimo rinnovamento aziendale. La filosofia è semplice e chiara: produrre vini di qualità nel rispetto del territorio. Non ricordiamo di questo vino una sola sbavatura, giunti alla decima annata assaggiata con il duemilasedici ci appare sempre in grande forma, dal colore rubino vivace e con un naso fierissimo, pieno di sottili sfumature che fanno dei due varietali Aglianico e Piedirosso espressione unica di questa terra!

Falerno del Massico Primitivo Conclave 2017 Gennaro Papa¤. Produttori storici a Falciano del Massico, nel versante che guarda a sud del Monte Massico, fin dal 1900 promuovono la coltivazione del vitigno Primitivo oltre al moscato e ad altri vitigni minori poi ammessi nel disciplinare doc nel 1988. Dal 1999 iniziano gli imbottigliamenti e la commercializzazione del Falerno del Massico doc Primitivo e la valorizzazione dei vitigni storici coltivati sulle colline a 300 mt s.l.m. e contestualmente iniziano un lavoro di ricerca assiduo che da nuova linfa al territorio e alla viticultura dell’areale. E’ un gran bel bere il vino di Antonio Papa, profondo e suggestivo, nel colore, nei profumi straordinariamente originali e nel sapore secco, morbido, caldo, avvolgente, sapido. Ne torneremo a raccontare più dettagliatamente.

Falerno del Massico Primitivo Primo Antico 2017 Cantina Trabucco. L’azienda di Nicola e Danilo Trabucco nasce nel 2003 nel piccolo comune di Carinola, alle pendici del Monte Massico con l’obbiettivo di produrre vini territoriali di pregio che possono esprimere in tutta la loro pienezza, la forza e l’eleganza del territorio d’origine. Primo Antico duemiladiciassette nasce con una idea precisa, quella di avvicinare al Falerno massicano bevitori seriali e a guardare il risultato nel bicchiere ci appare un messaggio chiaro ed inequivocabile, oltre che vincente!

Falerno del Massico rosso Etichetta Bronzo 2013 Masseria Felicia¤ – Sessa Aurunca. Camminare a passi lenti e brevi tra i filari e lasciarsi cogliere da un sorriso, quasi una smorfia della bocca che si trasforma in mezzaluna, e illuminare l’aria. Questa semplice azione che poi si è trasformata in abitudine, è quella che ha spinto Maria Felicia a viverci tra queste vigne e questi uliveti. Collocata alle falde del Monte Massico, eccoci dinanzi ad un Falerno del Massico di antica tradizione e nuova identità. Etichetta Bronzo duemilatredici è un rosso meravigliosamente squadrato, dal colore rubino profondo con delicate sfumature di alleggerimento sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ricco, subito verticale, parte sfrontato, accigliato, speziato, poi viene fuori l’amarena, la prugna, sentori di tabacco. Il sorso è slanciato, perentorio il tannino, tanto è caparbio che ti sembra quasi di masticarlo, ma lo perdi tra un morso e l’altro del frutto polposo e gaudente.

Falerno del Massico rosso E’ 2015 Torelle. L’azienda della famiglia Guardascione nasce nel 2009 con l’acquisto dei terreni, in località Torelle nel comune di Sessa Aurunca per intuizione di Emanuele. Era un agronomo e la sua più grande passione era la viticoltura. Dopo la laurea in agraria iniziò il suo percorso, prima con Pierpaolo Sirch presso Feudi San Gregorio, poi per qualche anno presso l’azienda cilentana De Conciliis. Nel 2010 piantò i primi 2,5 ettari di Aglianico e nel 2014 rilevó una piccola cantina nella frazione di Cascano, sempre nel comune di Sessa Aurunca, dove portò a termine la sua prima vendemmia allorché venne a mancare prematuramente all’età di soli 29 anni.

Giuliana, la sorella, a cui Emanuele ha provato a consegnare il testimone nonostante il troppo poco tempo a disposizione, ha subito raccolto con grande slancio l’eredità del fratello e continua a metterci l’anima nel portare avanti il loro sogno, rinverdire i fasti del Falerno. L’azienda produce oggi circa 12.000 bottiglie di vino con uve provenienti da vigneti coltivati in biologico proprio a ridosso del vulcano spento di Roccamonfina. Falé duemilaquindici non è ancora in commercio, è un Falerno dal sapore ancestrale, vivace e sfrontato al naso, vinoso, floreale, fruttato, quanto sottile e saporito al palato. Ci ha aperto gli occhi su un’altra splendida realtà dell’Ager da tenere d’occhio nei prossimi anni. Ci torneremo su.

Leggi anche Piccola guida ai vini Falerno del Massico Qui.

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Mai più ”nemo propheta in patria”!

1 febbraio 2020

E’ stato necessario qualche giorno di decantazione, per dirla con parole enoiche, era necessaria un’attenta analisi del vortice di sensazioni ed emozioni raccolte durante la lezione¤ di approfondimento sui Campi Flegrei tenuta al Corso Propedeutico per Sommelier ASPI¤ che ha visto riunirsi eccezionalmente gli aspiranti Sommelier di I° e II° livello.

Sono poi pervenuti tantissimi attestati di stima e messaggi da amici e semplici appassionati, produttori e colleghi professionisti a conferma di quanto sia fondamentale mantenere alta l’attenzione e la collaborazione tra tutti del mondo del vino per guardare al futuro con maggiore entusiasmo e per fare sempre meglio.

Ho a lungo studiato questo territorio, continuo a farlo ogni giorno provando a coglierne le peculiarità, un approfondimento costante, maturato in oltre 20 anni di esperienza e nato dall’esigenza di raccontare la memoria di questi luoghi meravigliosi che a forza di vederceli sempre sotto al naso quasi si rischia di non coglierne il reale valore storico e culturale che serbano in sé.

Una memoria straordinaria tratteggiata di tufo e cenere, piena di testimonianze, di presenza, di resilienza, valori unici ma che ogni giorno rischiano di dissolversi nel mare magnum della distrazione di massa a cui siamo costretti, un rischio che portato all’eccesso può provocare la scomparsa di principi fondanti. Non è così che deve andare.

Ecco perché questa memoria va preservata, conosciuta a fondo e trasferita al prossimo in maniera che a sua volta questi possa averne cura a trasferirla nuovamente al futuro.

Chi ha vissuto, lavorato, faticato prima di noi queste terre merita rispetto, vieppiù chi continua a farlo nel rispetto della memoria preservandone tradizioni e luoghi che altrimenti sarebbero in balìa dell’urbanizzazione massiva e la più becera speculazione edilizia. La vocazione naturale di certi luoghi deve rimanere tale e chi può contribuire alla loro valorizzazione deve farlo, deve essere sostenuto, senza remora alcuna.

Custodire questi luoghi, aver cura di queste terre, di certe vigne storiche ad esempio, raccontare i vini qui prodotti, è un atto d’amore indispensabile a cui non è possibile sottrarsi.

Un atto d’amore che vede in prima linea produttori e vignaioli, professionisti e appassionati, donne e uomini che continuano a muoversi tra mille difficoltà su un terreno non sempre facile, talvolta a dir poco complesso ma che, forse, anche per questo, diviene ancor più significativo e unico nel suo genere e che merita di essere raccontato al mondo e soprattutto conosciuto di più dalle stesse popolazioni locali che spesso nemmeno hanno percezione di questo patrimonio. Mai più ”nemo propheta in patria”!

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Non è una storia qualunque quella del Gratena Nero

24 gennaio 2020

C’era una volta una piccola vigna di 700/800 piante semi nascosta in una parte alta e poco battuta di una Fattoria toscana in zona Chianti, un fazzoletto di terra dedicato poi a Beppone, l’ultimo contadino a mezzadria della fattoria che, tra gli altri, aveva preso particolarmente a cuore proprio questi pochi filari sino alla soglia dei novantanni, quando nel 1980 dovette cedere il passo ad altri.

In tempo di vendemmia proprio qui Beppone ci trascorreva infatti gran parte della giornata già dal mattino presto; da qui, per quanto pochi, provenivano grappoli d’uva dolcissimi che maturavano per prima e spesso con un anticipo di almeno 3 settimane rispetto alle altre varietà presenti nella Fattoria.

Siamo a Gratena, nel comune di Pieve a Maiano, in provincia di Arezzo, in area Chianti docg. L’azienda è biologica dal 1994, stiamo parlando di 180 ettari di cui 17 a vigneto e 1600 olivi tutti gestiti in maniera sostenibile e quanto più naturale possibile, con concimazioni con letame, trattamenti con solo rame e zolfo, vendemmia esclusivamente manuale. Di questa splendida realtà ne abbiamo scritto, tra i primi, già qualche anno fa proprio Qui, rimanemmo particolarmente colpiti dal loro Chianti Gratena duemilatredici, un rosso tanto sincero quanto disarmante, con tanta frutta già al primo naso (arancia sanguinella, melograno, mora, ribes, ndr) e un sorso pieno di soddisfazione, secco e ben bilanciato, morbido e sapido, snello e avvolgente, piacevolissimo da bere.

Tornando un po’ indietro con gli anni, era il 1997 quando, al tempo di programmare l’estirpo di alcuni appezzamenti per procedere al graduale rinnovo dei vigneti, ci si accorse quasi per caso di un particolare della vigna del Beppone: era tempo di vendemmia e in pianta come sempre c’era poca uva, un centinaio di chili, ma ciò che attirò l’attenzione furono le foglie, a guardarle con attenzione erano molto strane per una varietà Sangiovese e più simili a quella di un Cabernet o di un Merlot. L’uva era sempre dolcissima e coloratissima, quasi inchiostro, ma saggiandola non aveva per nulla l’erbaceo del Cabernet. Non era Sangiovese, né Colorino, e nemmeno una varietà internazionale.

La curiosità condusse a vinificare separatamente quei pochi grappoli per qualche vendemmia e gli assaggi a venire del vino, che era scurissimo, denso, violaceo, assai empireumatico e molto tannico, faceva presagire ben poco di quanto invece era capace di esprimere dopo qualche mese di sosta in legno e in bottiglia: conservava un colore vivacissimo e sprigionava infatti profumi molto particolari, oltre che un sapore straordinario, quasi unico per quel territorio. Proprio come questo duemilaquindici prova a raccontarci nelle sue intenzioni: è un rosso di carattere e struttura, intenso nel colore e ampio e suggestivo al naso, il sorso è pieno e vigoroso ma si allunga piacevole e persistente sino ad un finale di bocca caldo e avvolgente; è uno di quei rossi pregni di stoffa da seguire con attenzione nella loro evoluzione nel tempo.

E’ dal gennaio del 1999 che quella vigna è stata così lentamente rinnovata grazie ad un costante reimpianto durato sino al 2010 con circa 20.000 barbatelle di quello stesso varietale tanto strano e particolare; contemporaneamente venne affidato alle ricerche del Prof. Attilio Scienza dell’università di Milano che ne ha eseguito uno primo studio approfondito di tre anni e poi, dopo quasi 10 anni, ne ha potuto delineare il profilo di un vero e proprio nuovo vitigno a bacca rossa, omologato con Decreto Ministeriale del 28/05/2010 con il nome di Gratena Nero. E l’Istituto CREA di Arezzo, con il Prof. Storchi, ha poi terminato gli studi consentendo alla Regione Toscana di poterne decretare l’ammissione agli albi regionali nel settembre del 2017. Il vitigno Gratena Nero è ora ufficialmente un nuovo vitigno Toscano.

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Segnalazioni| Sancerre Chêne Marchand 2017 Dominique Roger

15 gennaio 2020

E’ il bianco ideale per chi volesse avvicinarsi al Sauvignon Blanc di Sancerre e le sue particolari velleità varietali, quelle connotazioni caratteristiche, anzitutto olfattive, che tanto appassionano ma che, in qualche caso, possono anche allontanare.

Non vi sono infatti eccessi in questo ottimo bianco di Dominique Roger, vestito di un bellissimo colore paglierino, dal naso intenso e finissimo, tipico, fruttato e balsamico, in bocca si fa spazio deciso, è pieno di sana tensione gustativa, fresco e minerale. Un sorso tira l’altro.

Lo Chêne Marchand duemiladiciassette di Roger nasce da vigne di 30 anni di Sauvignon Blanc provenienti da una piccola parcella di 0,37h degli 11 di proprietà a Bué, uno dei 14 comuni dell’Aoc. Un prezioso fazzoletto di terra calcarea-ghiaiosa e gessosa, con meno contenuto di argilla rispetto al terreno calcareo trovato generalmente nell’areale, una sorta di continuazione della terra calcarea di Kimmeridgian di Chablis. Si tratta a tutti gli effetti di un vero e proprio Grand Cru, anche se da queste parti non è in uso la medesima classificazione ricorrente, ad esempio, in Borgogna.

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Sono a Épernay dal 1687 e noi solo oggi scopriamo gli Champagne di Mélanie e Benoît Tarlant

29 dicembre 2019

Siamo decisamente in ritardo, potremmo dire ben oltre ogni ragionevole dubbio, tant’è con quasi 335 anni di ritardo scopriamo gli Champagne di Mélanie e Benoît Tarlant.

Scherzi a parte, puntando il dito sulla regione viticola a nord-est della Francia, più o meno a 150 km a est di Parigi, e precisamente sulla Vallée de la Marne, il nome Tarlant non è proprio il primo che ti viene in mente ma forse proprio per questo il successo di queste bottiglie, oggi, vale molto più di quanto si possa pensare. Eppure, Mélanie e Benoît Tarlant rappresentano la dodicesima generazione di una famiglia presente nell’area sin dal 1687 e che ha iniziato a produrre Champagne già dal 1929, proprio a cavallo degli anni delle prime leggi sulla regolamentazione e costituzione dell’attuale AOC (1927-1935).

Rispetto alle aree maggiormente conosciute della Vallée, a nord est di Epernay – dove insistono i Grand Cru di Ay e Tours sur Marne, ndr -, qui siamo a Oeully, un po’ più a ovest sulla cosiddetta Rive gauche della Vallée de la Marne, un comprensorio di quasi 140 ettari dei quali oltre il 50% coltivato a Pinot Meunier, 14 dei quali gestiti dai Tarlant. Stiamo parlando di oltre 50 parcelle di vigne con terreni dalle caratteristiche geologiche molto differenti tra loro, certi di natura argillosa-calcarea, altri ricchi di sabbia e gesso, altri ancora con massiva presenza di ciottoli e fossili, tutte coltivate in maniera biologica e biodinamica anche se prive di certificazioni ufficiali. Le bulles provenienti da questo areale possiedono generalmente uno spettro aromatico particolarmente fruttato ed un sorso pronto e morbido.

Le cuvée di Benoît sorprendono anche per questo, vanno ben oltre questo cliché e sanno essere avvenenti e piacenti al naso ma freschissime e taglienti al palato e questo grazie ad un lavoro selettivo maniacale in vigna ed una vinificazione scrupolosa che non prevede fermentazione malolattica né di filtrare i vini. Vengono fuori così, ogni anno, poco più di 130.000 bottiglie che si possono considerare a tutti gli effetti dei pezzi unici, Champagne ricchi di complessità, luminosi e maturi al naso ma finanche asciutti e sapidi, sin da giovani, soprattutto nel caso dei sans année come il Brut Zero che tanto ci è piaciuto, non a caso a dosaggio zero, con ben sette anni sui lieviti prima della sboccatura.

Champagne Brut Cuvée Louis Tarlant - Foto L'Arcante

Buona anche la Cuvée Louis, da Pinot Noir e Chardonnay in pari quantità, il fiore all’occhiello dei Tarlant,  intenso e vigoroso, ricco di materia ma equilibrato e avvenente, dal naso complesso dove spiccano, tra le altre, sensazioni boisé e frutta secca e dove il sorso si avvantaggia anzitutto per struttura e complessità più che della mineralità e della freschezza.

Il Brut Zero, da Chardonnay, Pinot Noir e Meunier fermentati in legno, sembra invece possedere a nostro avviso un carnet di spontaneità e ”pulizia” più ampio, c’è anche in questo Champagne tanta materia, anticipata da un naso fine agrumato che sa di mandarino e pompelmo, di erbe aromatiche e mela limoncella, e sensazioni che rimandano all’odore di gesso, materia sostenuta da un sorso pieno di freschezza, vivace, che si fa largo minerale e sapido e che conduce la bocca, assaggio dopo assaggio, in un vortice di puro piacere per il palato. E’ proprio il caso dire: ”Tarlant? Eh sì, meglio tardi che mai!”.

Leggi anche I Migliori Champagne dell’anno secondo la Revue du Vin de France Qui.

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Champagne Terre de Vertus 1er Cru 2013 di Larmandier-Bernier, un manifesto di spiccata mineralità

20 dicembre 2019

C’è un grande lavoro dietro le bottiglie di Sophie e Pierre Larmandier, un lavoro che muove da principi e valori molto solidi e dalla volontà di produrre Champagne di grande personalità senza sovrastrutture o forzature inutili, orpelli che il più delle volte conducono ad emulare più che creare, seguire una scia anziché tracciare una strada.

L’azienda, per tutti gli appassionati non ha certo bisogno di particolari presentazioni, ha una storia antica che risale gli annali sino al lontano 1765, poi, come tante famiglie del vino champenoises ha vissuto alcuni alti e bassi di generazione in generazione sino ad arrivare ai giorni nostri con grande considerazione da parte della critica e degli appassionati di Champagne, nonché lanciatissima sul futuro prossimo a venire.

Le sue vigne si trovano nei migliori cru della Côte de Blancs, anzitutto a Vertus (Premier Cru) e Cramant, ma anche a Chouilly, Oger e Avize, tutti Grand Crus dell’areale più ambito della Côte; sostenitori a piè mani della Biodinamica, dal 1999 nelle terre di famiglia si fa viticoltura esclusivamente in maniera naturale e si usano per le vinificazioni solo lieviti indigeni. Tutti i processi produttivi rispettano un rigido protocollo aziendale votato alla salubrità, nessun collaggio, né filtraggio e i dosaggi, quando necessari, sono ridotti al minimo indispensabile. Il sale e la consistenza della materia, unita a tanta freschezza e ”cremosità” sono i tratti distintivi del Terre de Vertus duemilatredici.

Il colore è splendido, paglierino con riflessi appena dorati, le bolle sono fitte e persistenti, il naso è subito ricco di sfumature e piacevoli rimandi: sa di agrumi, pesca gialla, nocciola, ma anche di zenzero e crosta di pane. Il sorso appare tagliente, si fa spazio al palato dritto e insistente ma poi la bocca si fa setosa e delicata, sul finale sapida e gustosissima; così è proprio un gran bel bere, un manifesto di spiccata mineralità.

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C’è nebbiolo e nebbiolo, la terza via è a Gattinara

10 novembre 2019

La storica cantina di Gattinara è passata di mano ancora una volta, l’anno scorso, dopo circa 8 anni, si dice per 6/7 milioni di euro. A subentrare alla cordata guidata da Erling Astrup che l’acquistò nel 2011 è stata la storica famiglia di Langa di Roberto Conterno, che ben conosce quest’area produttiva e l’azienda guidata con mani sicure dall’enologo Enrico Fileppo, formatosi alla scuola enologica di Alba e qui in azienda a Gattinara sin dal 1984.

Una proprietà preziosa, circa 27 gli ettari vitati, adagiati tra colline che separano l’Italia dalla Svizzera, dove il Nebbiolo, qui chiamato storicamente Spanna, trova condizioni pedoclimatiche di straordinaria centralità che gli consente di regalare generalmente vini eleganti e assai longevi. Fondata nel 1906 da Luigi Nervi, la Cantina Nervi rimane la più antica del Gattinara docg, con vigne storiche e di particolare fascino tra cui i famosi cru Molsino, Valferana e Garavoglie.

Rimane un caposaldo aziendale questo delizioso Gattinara ”base”, senza nulla togliere ai ben più blasonati cru Molsino e Valferana; un rosso duemilaquindici dal colore rubino granato trasparente, dal naso speziato e balsamico, cui s’aggiungono sensazioni fruttate invitanti e piacevoli, sa anzitutto di arancia rossa e piccoli frutti rossi. Il sorso è asciutto, intenso, gradevolmente tannico, ben sapido. Non possiede certo la profondità dei grandi rossi di Barolo e Barbaresco, ma se al Nebbiolo piemontese è possibile riconoscere (almeno) una terza via, qui la strada da percorrere è ricca di sfumature interessanti e di grandi suggestioni.

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Pozzuoli, La Fattoria del Campiglione, qui dove resiste la tradizione (e non solo)

8 novembre 2019

Queste poche righe arrivano con molti anni di ritardo su queste pagine, non a caso però; in effetti non è mai semplice raccontare di un luogo dove ci si va con grande piacere – anche se di rado – ma dove hai speso diversi anni di lavoro praticamente ovunque tra la braceria, i tavoli sino a gestirne la sala e la cantina. Tant’è non è più il caso di rimandare di tessere un piccolo elogio alla resistenza che va loro ampiamente riconosciuto.

Verdure cotte dell'Orto del lago d'Averno - Foto L'Arcante

E’ la primavera del 1995 quando due amici di vecchia data, Michele Sgamato e Gerardo Buono (detto Nicola) decisero di rilevare un casolare semi-abbandonato e fatiscente per farne un ristorante di carni alla brace. Il primo è macellaio da almeno un paio di generazioni, Nicola faceva il cuoco già da una ventina d’anni, molti dei quali passati nelle migliori cucine di mare flegree. Intuizione o mero azzardo? Proporre un menu di sole carni, in una zona di mare e quindi con una vocazione per la cucina marinara di forte tradizione, appariva quantomeno una scommessa ardua, se non di difficile riuscita. In effetti nulla è risultato facile, soprattutto nei primi anni, ma a distanza di tempo, a guardarsi intorno, dopo di loro nonostante i tanti velleitari tentativi di imitazione, appare ovvio che la scommessa è stata più che vinta!

Oggi La Fattoria del Campiglione non è un semplice ristorante di carni, è un luogo di culto in cui comunque resiste forte la tradizione: qui si concentrano profumi e sapori identitari straordinari che riprendono per mano la cucina tradizionale regionale e locale e l’accompagnano senza forzature o sovrapposizioni inutili ad accostamenti con materie prime e carni che provengono in certi casi da luoghi misconosciuti oppure da tutto il mondo, sempre con pieno successo.

Maiale calabrese marinato e cotto a bassa temperatura, salsa barbecue di produzione propria - La Fattoria del Campiglione, Foto L'Arcante

Vi si trovano grandi salumi e formaggi che qui arrivano dopo una maniacale ricerca e selezione, primizie di stagione, ma anche paste con sughi di ricette storiche napoletane (Ragù, Genovese, Coniglio all’Ischitana, ndr) servite in tegami di rame, robe che anticipano o si accodano a pregiatissime carni fresche oppure frollate sino a centinaia di giorni, saggiate crude, marinate, cotte alla brace o al forno, servite con verdure e salse sapientemente accostate. Con un servizio sempre accorto e premuroso, affidato ai ragazzi di sala che qui ci lavorano, chi più chi meno, praticamente sin dall’apertura.

Qui ha un ruolo cruciale anche la suggestiva cantina, messa su a cominciare dal 1997, con quattro piani scavati a mano – di cui personalmente conservo un ricordo indelebile, avendone partecipato con fierezza alla sua realizzazione nonché alla costruzione della carta nei suoi primi anni, sino al 2001, quando poi lasciai, ndr -. Oggi la proposta viaggia su oltre un migliaio di etichette e circa 20.000 bottiglie tra le quali diverse verticali del meglio delle produzioni italiane e dal mondo. A cui s’aggiungono una selezione di oltre 300 etichette di distillati tra Grappa, Cognac, Armagnac, Rum e Distillati di frutta.

La Fattoria del Campiglione

Via vicinale Campana 2, Pozzuoli (Na)

Tel. 081 5263733 – http://www.lafattoriadelcampiglione.it

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Rioja Viña Tondonia Reserva 2006 Lopez de Heredia e il sapore contemporaneo della storia

18 ottobre 2019

Stappare una bottiglia di Viña Tondonia può rappresentare un’esperienza da ricordare e fermare nel tempo, e in effetti lo è stato. Si ha, infatti, l’impressione di affrontarlo e attraversarlo il tempo, con lentezza e serenità d’animo, in buona compagnia, in un viaggio nel passato per godere del presente.

Siamo in Rioja, regione che prende il nome dal fiume Oja, ”rio Oja”, che attraversa la regione della Spagna settentrionale, poco più a Sud di Bilbao. Una collocazione geografica che ha molto influito sulla storia vitivinicola della regione caratterizzata da forti influenze francesi, sin dalla metà del XIX secolo, quando qui arrivarono in centinaia tra viticoltori e commercianti bordolesi alla ricerca di fortuna dopo che la fillossera aveva distrutto i loro vigneti e azzerato quasi il loro commercio di vini.

Anche Don Rafael López de Heredia y Landeta ne è rimasto irrimediabilmente affascinato dai francesi, si è infatti formato a Bayonne e ha continuamente provato a ”rubare” ai francesi arrivati in regione i loro segreti, la tecnica, prima di avviare la sua bodega, aiutato nel successo fulminante anche per un cambio repentino nelle tasse e nelle politiche doganali locali che pian piano rendeva sempre più costoso esportare vino in Francia dalla Rioja, tanto che i négociants francesi ripresero via via a rientrare in Francia.

E’ il 1877 quando ad Haro, capitale della Rioja Alta, nasce la Bodega R. López de Heredia Viña Tondonia, ancora oggi uno dei nomi che ispira maggior rispetto e ammirazione tra le aziende produttrici di “vino fino”.

L’azienda ha saputo costruire una storia straordinaria e unica, conta oggi su un vigneto di proprietà di 170 ettari, coltivati perlopiù con Tempranillo, Vernaccia, Graciano e Mazuelo – leggi Qui -; sono oggi nomi ridondanti quelli di Viña Tondonia, Viña Cubillo, Viña Bosconia e Viña Gravonia che danno il nome alle etichette storiche divenute negli anni immortali. Contribuiscono certamente al mito anche alcuni aspetti di una rarità se vogliamo sorprendente ai giorni nostri: l’azienda conserva tutt’oggi un carattere fortemente familiare, ne detiene infatti le redini Mercedes López de Heredia; altro significativo segno distintivo è che Viña Tondonia sia tutt’ora un’azienda davvero unica anche perchè utilizza solo botti costruite artigianalmente nella sua proprietà, con legni provenienti dai Monti Apalaches, negli USA.

E’ una bellissima bevuta quella che regala questo vino, annata duemilasei, non solo per la freschezza e la vibrante animosità gustativa nonostante i tredici anni alle spalle, un nonnulla per la longevità dei vini di Lopez de Heredia, ma soprattutto perchè il millesimo viene definito dagli annali aziendali ”atipico” e ”tremendamente moderno”, come se il sapore contemporaneo della storia fosse venuto fuori quasi inaspettatamente, in questa bottiglia più che mai.

Di colore rosso rubino ancora intenso e con vivi riflessi granato sull’unghia del vino nel bicchiere, il naso si rivela lentamente, fine, seducente, elegante; sa di frutta matura, richiama alla mente erbe officinali, sottili spezie fini, liquirizia. Il sorso è pacato, raffinato, ha buona tessitura e freschezza, è morbido ed equilibrato, regala in fondo una beva di rara eleganza, un sorso di personalità, suggestioni, gratitudine.

Bodegas R. López de Heredia Viña Tondonia
Av. de Vizcaya, 3 Barrio de la Estación
26200 Haro – España
Telefono: +34 941 310 244E
mail: bodega@lopezdeheredia.com
Sito web: http://www.lopezdeheredia.com/
 

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Varrains, Saumur Champigny Les Bonneveaux 2015 Le P’tit Domaine

8 ottobre 2019

Una delle primissime recensioni dei suoi vini, sicuramente tra le più preziose per Richard Desouche, gliel’aveva regalata La Revue du Vin de France che, sibillina, scriveva: ”in settimana è a lavorare in cantina a Clos Rougeard, nel week end a fare vino per conto proprio”, e che vini aggiungeremmo noi!.

Non male come inizio per Desouche che dopo aver speso tanti anni dai fratelli Charly e Nady Focault presso uno dei più apprezzati Domaine di Francia, Clos Rougeard, si è messo in proprio comprando 2 ettari e mezzo di vigna a Bonneveaux; da qui, sin da subito, sono venuti fuori vini davvero interessanti. Per meglio orientarci, siamo proprio nel mezzo di quella straordinaria terra che passa tra Saumur e Nantes, lungo la Valle della Loira, verso l’Atlantico. Da queste parti si coltiva perlopiù Chenin Blanc e Cabernet Franc, vitigno quest’ultimo di provenienza bordolese che qui viene chiamato anche Breton, perché pare sia arrivato qui via mare, proprio da Nantes, a quel tempo provincia bretone.

A queste latitudini i terreni e i microclimi sono assai diversi tra loro e consentono a quest’areale, siamo per l’appunto in Anjou Saumur, di coltivare varietà e produrre vini di ampio respiro e con caratteristiche spesso molto differenti tra loro: si pensi infatti ai cosiddetti Moelleux (vini bianchi soffici, morbidi) oppure alla personalità di alcuni vini fermi, secchi o speciali, e ancora ai rossi particolarmente fruttati, rotondi e pronti da bere come questo Les Bonneveaux, per finire con certi grandi vini risoluti, serbevoli, da lungo invecchiamento. E’ questa infatti la terra di straordinari Chenin Blanc come il Quarts de Chaume¤, o di Savennières del calibro de La Coulée de Serrant¤ di Nicolas Joly, come pure di Cabernet Franc come il Les Poyeaux di Clos Rougeard¤.

Carte Vignoble Anjou Saumur - foto tratta dal web

Venendo a noi invece, ci sono poi i primi vagiti di piccoli gioielli come questo del Le P’tit Domaine. Viene fuori da terreni di origine calcareo argillosa, da vigne che hanno mediamente un’età tra i 35 e i 55 anni, coltivate secondo i più stretti dettami dell’agricoltura biologica; danno così uve di grande qualità e i vini che ne vengono fuori hanno generalmente una forte impronta minerale, i bianchi sono ossuti e sapidi, i rossi ricchi e fruttati, e in alcune annate caratterizzati finanche da speziatura di pregevole finezza.

A parlare di certi vini, è abbastanza facile lasciarsi andare davanti a una bottiglia di Clos Rougeard, più difficile viene di restare attenti a non far passare inosservato il lavoro di chi come Richard Desouche ha scelto di fare vini in maniera diversa, puntando di più sul frutto, ma non per questo sono da ritenersi banali, anzi, hanno carattere da vendere e sono invece piacevolissimi da bere tanto che richiamano immediatamente a versarsi un altro calice.

Ci ha molto colpito questo vino, avvenente e fresco, seducente, magari non ampissimo nel suo carnet aromatico ma risulta delizioso e soddisfacente, di quei Cabernet Franc di cui fare incetta. E’ un rosso dal bellissimo colore violaceo, con anche toni più scuri sull’unghia del vino nel bicchiere, che sa come conquistare l’appassionato, per le sensazioni attraenti e dolci del naso e per l’autenticità del sorso, minerale e profondo, sensazioni che si aggrappano alle papille gustative con misura e delizia. Cercatelo e godetene tutti!

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Bourgogne blanc 2016 Marc Morey: la playa, l’estate, la notte, la festa!

21 agosto 2019

Siamo costantemente portati a celebrare a mani basse i Grandi Vini di Borgogna (così riportato sempre in etichetta) presi dall’entusiasmo, talvolta quasi per inerzia, come fossimo inesorabilmente per nulla sorpresi davanti a certe bevute che riescono a regalare soddisfazioni dal primo all’ultimo sorso, certo non a caso.

Bourgogne blanc 2016 Domaine Marc Morey - foto A. Di Costanzo

Potremmo stare a discutere ore sul prezzo, sul perché anche ”vini semplici” come questo Bourgogne Blanc di Marc Morey possa/debba costare non meno di 45/50 euri, e in effetti siamo qui a farlo poiché non a torto, senza nemmeno allontanarci troppo dai confini regionali campani, si pensa che certi Fiano, certi Greco ne avrebbero di molto di più per prevalergli; ebbene, niente di più sbagliato senza passare prima dalla storia, coglierne il blasone, studiare gli annali, ma soprattutto dinanzi alla bottiglia vuota finita in men che non si dica.

Fernand Morey dà il via alla sua esperienza di vigneron nel 1919 – 100 anni fa! – iniziando a gestire i due ettari di terreno che aveva appena ricevuto in eredità dal padre. Oggi, tra cambiamenti, innovazioni e gli inevitabili passaggi generazionali il Domaine Marc Morey et Fils¤ conta circa 9 ettari di proprietà a Chassagne-Montrachet, piantati perlopiù con Chardonnay e piccole parcelle di Aligoté, vigne coltivate con gande rigore e profondo rispetto del terroir; da qui vengono fuori  vini 1er Cru di indiscutibile personalità – En Virondot, Les Caillerets, Les Chenevottes, Morgeot i più conosciuti, ndr – ma anche bianchi giovani ed immediati che non fanno mancare certo spunti di finezza e precisione olfattiva come questo Bourgogne Blanc duemilasedici, godibile e gustoso. 

Il timbro cromatico è netto, di uno splendido giallo paglierino, ben luminoso. Il primo naso è immediato, piacevolissimo e pieno di sfumature varietali fruttate e floreali, si arricchisce via via con rimandi agrumati e un sottile tono tostato. Il sorso è lineare, ben fresco e sapido, corroborante. E’ un bianco di grande franchezza, certo senza particolari sussulti ma indubbiamente piacevole, vivace, leggero. Di quei vini che proprio in queste giornate rimandano a ”la playa, l’estate, la notte, la festa”!

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Pozzuoli, il Forno Artigianale di Salvatore Tesoro

19 agosto 2019

Pozzuoli conserva profonde tradizioni per le attività primarie quali pesca e agricoltura, una vocazione che ne caratterizza fortemente ancora oggi la comunità nonostante abbia vissuto da grande protagonista gli anni del boom industriale italiano.

Qui, infatti, proprio nel cuore della città flegrea, già sede degli storici stabilimenti Armstrong¤, si sono insediate nel secondo dopoguerra alcune tra le principali aziende italiane artefici di quel boom,  la Olivetti nel 1955 e a seguire la Aerfer, poi denominata Sofer nel 1967, attività che hanno contribuito letteralmente a ”costruire” il paese Italia e che in cinquant’anni di storia (più o meno) hanno segnato, nel bene e nel male, in maniera indelebile il tessuto urbano, sociale ed economico della città e di gran parte dell’hinterland flegreo.

Un periodo storico che ha indubbiamente rilanciato la città, consegnandole un benessere inaspettato in anni di grande patimento come quelli subito successivi la fine del secondo conflitto mondiale, manna dal cielo per un territorio di difficile lettura per l’epoca e destinato altrimenti, con ogni probabilità, a spopolarsi rapidamente per via della migrazione verso il nord già industrializzato. Ne hanno beneficiato quasi due generazioni di metalmeccanici, operai specializzati ed impiegati d’ordine, già figli di mezzadri, pescatori, fornai e piccoli commercianti di vario genere a cui è stato concesso un ascensore sociale di straordinaria portata.

Chiusa quella fase storica però, tutto sembra cristallizzato dal tempo, di quel periodo rigoglioso rimane giusto il ricordo di anni ruggenti che un poco contribuisce ad alimentare le aspettative di una lenta riconversione di molte di quelle aree della città oggi, ahinoi, ancora abbandonate; un rilancio che tarda  però ad arrivare, gli anni passano e con essi le speranze di una generazione di mezzo che aspetta risposte che probabilmente non riceverà mai. E allora che fare? Con fatica, chi ha potuto si è ripreso in mano le redini della propria storia ed è ritornato a fare mestieri per un po’ dimenticati, per non andar via. Il pane non ha mai avuto un sapore così profondo.

Con questa premessa lasciamo spazio al Forno Artigianale della famiglia Tesoro, riaperto proprio a metà degli anni ’90 e condotto oggi, non senza grandi sacrifici, dai frattelli Salvatore e Paolo; una realtà che sopravvive grazie alle radici familiari, ne conserva la memoria storica che vale la pena assaporare ogni giorno. Il forno non ha insegna, è su via Campana, l’antica via Romana che unisce ancora oggi il porto della città flegrea alle principali strade Consolari interne dalle quali si giunge poi sino alle ss Domiziana e Appia antica, verso Roma.

Qui il pane bianco si fa alla vecchia maniera, con il lievito madre rinnovato continuamente ed il forno alimentato con legno di castagno. Le pezzature sono perlopiù da chilo, rigorosamente tagliate a mano, sono sempre disponibili anche altri prodotti da forno come le tradizionali pizze al pomodoro in teglia e panini farciti con verdure e olive nere; durante le ricorrenze poi non mancano mai i grandi classici delle feste comandate, dai Tortani ai Casatielli alle Pizze ripiene e i Rustici. La famiglia conta inoltre su un fondo agricolo di circa tre ettari dove si producono principalmente uva da vino (Falanghina e Piedirosso), frutta e alcuni ortaggi. I prezzi sono popolari e pienamente centrati.

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Forno Artigianale di Salvatore Tesoro
Pane – Pizza in teglia –  Prodotti della terra
via Campana 183, Pozzuoli (Na)
Tel. 081 526 7202

Brexit, come ne usciremo (con il vino e il food made in Italy)

9 agosto 2019

Con l’uscita dalla UE, la politica commerciale del Regno Unito è sottoposta da tempo ad una rinegoziazione che appare di difficile soluzione pacifica. Da un lato, le imprese britanniche non potranno più beneficiare del libero accesso ai mercati europei, dall’altro, il Regno Unito dovrà presumibilmente innalzare le barriere tariffarie verso gli ex partner e ciò riguarderà anche le imprese agroalimentari italiane.

Per il vino, come riportato qui¤ sul sito di Ismea, ”con 55 milioni di ettolitri di vino nel 2018 (+29% su base annua), di cui quasi 20 milioni indirizzati verso i mercati esteri, l’Italia conferma il suo ruolo di leader mondiale nella produzione di vino e consolida la sua posizione di esportatore. Con un valore record dell’export di 6,2 miliardi, il nostro Paese mantiene il secondo gradino del podio dei maggiori fornitori mondiali, alle spalle della Francia”.

Un ruolo, precisa il documento dell’Istituto di Servizi per il mercato Agricolo Alimentare, ”frutto della crescita robusta delle esportazioni nell’ultimo decennio (+70% l’incremento in valore dal 2008), consolidata anche nell’anno appena trascorso (+3,3% l’export in valore). A trainare le esportazioni del settore, lo scorso anno, sono stati i vini Dop con un aumento del 13% in volume e del 12% in valore, a fronte di una battuta d’arresto degli Igp (-23% le quantità e -15% il giro d’affari), e di volumi inferiori per i vini comuni (-22%)”.

Tant’è, recentemente, in una intervista rilasciata alla BBC dal responsabile della Food and Drink Federation, Tim Rycroft¤ripresa qui¤ su Intravino¤ da Elena De Luigi, viste le ultime vicissitudini ed il forte rischio del no-deal, si anticipa che con ogni probabilità dal 1 novembre prossimo tutti i prodotti provenienti dall’Europa (il 28% del fabbisogno) destinati per esempio ai supermercati e ai ristoranti, dovranno fermarsi a Dover per il controllo e l’approvazione dei “nuovi” documenti di transito. Si prevede quindi, inevitabilmente, un significativo ritardo nella consegna che potrebbe risultare fatale anzitutto per il cibo fresco, ma anche per quei prodotti come il vino che rischiano di non arrivare per tempo sul mercato, e nelle quantità richieste per la vendita nel periodo natalizio. Insomma, forse è presto per dirlo, ma sembra proprio che Okay, London, we willl have a problem over there!

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Cosa rimane del blasone dello Champagne (buono)

6 agosto 2019

Ci si avvicina alle vacanze, l’estate impazza, la sete vira su vini leggeri, talvolta poco impegnativi da bere in maniera spensierata e senza troppe fisime. Poi però c’è lo Champagne, che in un modo o in un altro ti mette sempre davanti ad una scelta: so sempre buoni, ma meglio quelli di marca o quelli misconosciuti di piccoli produttori?

Negli ultimi anni, questo va detto, quale che sia lo Champagne nel bicchiere si può affermare oltre ogni ragionevole di dubbio che è più buono di quello degli anni passati e che fiumi di bulles continuano ad alimentare un mercato fiorente e costantemente in crescita nei numeri, per alcuni, davvero impressionanti.

Tutto ciò ha dato la stura ad interessi economici molto importanti che hanno dato una vera e propria scossa, oltre che alle storiche Maisons, per fare meglio¤ o inventarsi altro¤, anche a tanti piccoli vignaioli e commercianti di uve e vini che si sono spinti finalmente ad intraprendere strade nuove che in più casi hanno portato a delle affermazioni importanti di tanti nuovi marchi di successo.

I fattori che hanno contribuito a questa crescita qualitativa sono molteplici, legati ad esempio ad una migliore interpretazione della viticoltura, ai passi in avanti in alcune tecniche di cantina e, non ultimo, ai cambiamenti climatici che negli ultimi vent’anni hanno indubbiamente reso questa regione un posto ancor più vocato per la produzione di vini contribuendo di fatto a ridurre e stabilizzare alcune ataviche problematiche di maturazione dell’uva che a queste latitudini hanno sempre creato non pochi problemi.

Ecco spiegato il successo di piccoli vignerons, quei Récoltant Manipulant di cui poco si sapeva e conosceva oltre i confini nazionali francesi, talvolta oltre gli stessi confini della Champagne. E questo è senz’altro un valore aggiunto per l’appassionato che ha più possibilità di scoperta e di godere di tante (nuove) buone bottiglie, anche di facile reperibilità e il più delle volte a prezzi più che onesti.

E’ questa una generazione di produttori probabilmente più attenta e preparata di quella che l’ha preceduta, in particolar modo nel coltivare la vigna e fare vino, più che assemblare cuvée. Un valore aggiunto? Chissà, forse più un rischio, non è ancora del tutto chiaro, al centro di tutto vi è una ricerca spasmodica, quasi un’ossessione per la territorialità, l’unicità come un mantra che rischia però di condurre a bottiglie sicuramente di grande personalità ma talvolta un poco meno rappresentative della tipologia. Alla fine, per noi, tra quelli di marca o quelli misconosciuti di piccoli produttori ci va bene tutto, purché buoni, ma, soprattutto, che siano però Champagne e non vino con le bolle!

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Il vino al calice, attenzione agli scarti di cantina

23 luglio 2019

Opportunità spesso mancata, il vino al calice rimane una pratica di grande valore all’interno di un locale, che sia un Bar con aperitivi oppure attività più strutturate come Osterie, Wine Bar, Pizzerie e Ristoranti, siano questi ”Gastronomici” oppure no.

Opportunità da saper gestire però con estrema attenzione. Proporre vini al calice non significa (necessariamente) dare fondo alla cantina o propinare all’avventore qualsiasi cosa pur di svuotare lo scaffale e il frigo ad ogni costo, soprattutto, è necessario stare attenti a non provare mai a darla a bere, persino all’ultimo arrivato.

Saremo più chiari. Mettete che una sera, siamo in piazza, seduti alla tavola di un Bar di buona fama con una proposta ampia e ben strutturata di cibi dolci e salati e bevande, con una discreta proposta di drink ed alcuni vini al bicchiere di una nota azienda campana, tra cui uno spumante metodo classico e tre ottime referenze di bianchi. L’avventore, piacevolmente rapito da quell’offerta, dopo aver ordinato piccole cose da mangiare, chiede di bere un calice di vino spumante, ben freddo. Il giovane cameriere, preso l’ordine si congeda con educazione e si allontana.

Al momento del servizio, con le altre cose, arriva – già versato – il calice di vino, fermo. Cosa che non passa certo inosservata; richiamata l’attenzione del cameriere, questi appare sorpreso ma nemmeno poi tanto, si scusa, aggiungendovi però che ”sì, purtroppo lo spumante ci è terminato, ho pensato potesse piacerle questo…”. L’avventore, non proprio l’ultimo arrivato, apprezza lo spirito d’iniziativa e sorseggiato il vino, chiede di vedere la bottiglia di vino. ”Eccola qua, è questa!”. Il risultato? Un disastro totale!

La bottiglia portata a tavola era chiusa e a temperatura ambiente, presa evidentemente dallo scaffale; non era, non poteva essere, quel vino anonimo servito nel bicchiere al posto dello spumante senza aver chiesto prima cosa ne pensasse l’avventore. Insomma, senza tirarla per le lunghe, la pezza si è rivelata molto, ma molto peggio del buco. Morale della favola: non tutti gli Spritz serviti nel mondo sono necessariamente desiderati!

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