Posts Tagged ‘fiano di avellino’

Chiacchiere di fine agosto, o di quanto sia utile e salutare sapere di avere l’acqua calda in casa…

24 agosto 2012

C’è un dato oggettivo che non si può più assolutamente trascurare, molti vini bianchi della Campania vanno acquisendo sempre maggiore rispetto da parte dei consumatori, soprattutto quelli più attenti e coloro i quali possono vantare palati abituati assai bene. Ergo, scopro l’acqua calda o ché..?

Mi riferisco per esempio a chi, in maniera continuativa, in carta al ristorante punta vini di una certa levatura: parliamo di bianchi di spessore, non necessariamente nerboruti o grassi ma vini che hanno comunque gran materia, una certa impronta territoriale e una propria storia come certificato di garanzia. Così, pare, che da Puligny, Vouvray e Kaysersberg a Montefredane e Lapìo via Campi Flegrei la strada divenga sempre più breve mentre il viaggio sopra ogni cosa molto piacevole oltreché avvincente.

Adesso, più di ieri però conta dire la verità, starci naturalmente dentro e mantenere la calma. I prossimi dieci anni ci diranno se la generazione di vignaioli campani che si sono fatti “un mazzo tanto così” negli ultimi dieci/quindici avranno definitivamente un futuro da star o meno. Le loro bottiglie, frattanto, ne stanno scrivendo un bel pezzo e tra i tanti attori sul palco molti ci stanno mettendo tutta l’anima per disegnarle ed interpretarle al meglio, qualcuno devo dire è davvero fenomenale! Non sarà quindi un romanzo breve, piuttosto speriamo in una scrittura epica.

In poscritto, per maggiori informazioni a riguardo, farsene un’idea più precisa intendo, consiglio vivamente di stappare e poi aspettare i duemiladieci del Cupo di Pietracupa di Sabino Loffredo, del Fiano di Clelia Romano e, non ultimo, il Cruna DeLago di Vincenzino Di Meo.

Caffé e Nocciola…

1 giugno 2012

Una fresca e deliziosa ricetta dolce di Paolo Barrale, chef del Ristorante Marennà dei Feudi di San Gregorio di Sorbo Serpico – Avellino -, Una Stella Michelin. Inutile dire che vale sicuramente la pena (ri)provare…

La Meringa all’italiana

  • 500 gr zucchero semolato
  • 250 gr albume 

Portate lo zucchero con poca acqua a 121° in una planetaria; montate a parte gli albumi e versatevi a filo lo sciroppo; lasciate montare ancora per 10 minuti e poi stendete il tutto su dei fogli di acetato della misura 17×7 aiutandovi con una spatola. Arrotolateli quindi come per formare un cannolo; lasciate asciugare per 3/4 ore. 

Il caramello alcolato al caffè

  • 100 gr glucosio
  • 50 gr zucchero
  • 50 gr acqua
  • 70 gr caffè ristretto
  • 40 gr rum ambrato 

In una pentola portate gli zuccheri a 121° e fuori dalla fiamma unitevi il caffè, lasciate quindi intiepidire prima di aggiungervi tutto il rum. 

Pasta di nocciola

  • 300 gr pasta nocciola
  • 60 gr glucosio
  • 60 gr zucchero
  • 200 gr acqua 

Intiepidite in acqua gli zuccheri, poi versateli a filo nella pasta nocciola e montate il tutto aiutandovi con un minipimer o comunque una frusta meccanica. 

Montata al caffè

  • 1 lt di panna
  • 70 gr polvere di caffè pestato
  • 135 gr zucchero semolato
  • 180 gr tuorli
  • 1 foglio colla di pesce 

Sbattete i tuorli con lo zucchero in una boule; a parte, in una pentola, scaldate la panna e lasciatevi in infusione il caffè per circa 20 minuti (coprendo con della pellicola). Filtrate e regolarizzate con panna fresca il peso. Scaldate nuovamente il composto e versatelo nella boule con i tuorli. Realizzate una crema inglese. Unitevi la gelatina ammollata in acqua fredda e conservate in frigo per 12 ore. Poi montate come fareste per della panna, con una frusta da pasticceria. 

Preparazione: posizionate i cannoli di meringa in piedi, colate per metà la montata al caffè e passate in congelatore. Successivamente create una fossetta e versate un cucchiaio di caramello. Riportate quindi nuovamente i cannoli in congelatore avendo cura di coprire il tutto con la rimanente montata al caffè. E conservate in congelatore fino al momento del servizio, quando basterà attendere qualche minuto affinché venga servito morbido ed invitante. Completate il piatto con un bel cucchiaio di pasta nocciola ed una spolverata di cacao.

Cesinali, Pietramara Etichetta Bianca ’09 I Favati

26 gennaio 2012

Il fiano di Avellino conserva in sé l’anima del grande vino, e il tempo ci continua a dare, sempre più spesso, ampie conferme. Un grande vino, senz’altro, quando arriva da territori vocati e lavorato come si deve, capace di esprimere equilibrio ma anche e soprattutto opulenza ed eleganza; bianco vivace e sbarazzino da giovane, spesso anche sopra le righe, ma al contempo in grado di offrire, quando affinato, profondità e complessità gusto-olfattive al pari dei migliori vini bianchi del mondo.

Delle tre denominazioni di origine controllata e garantita irpine quella del fiano di Avellino copre senza dubbio l’areale più ampio attraversando ben 26 comuni sparsi qua e là sul territorio, dalla Valle del Calore sino al Vallo di Lauro. Un vigneto affatto omogeneo, di cinquecento ettari, piantati per lo più su terreni argilloso-calcarei con diverse variabili locali, ma che proprio grazie alla complessa eterogeneità dei territori che attraversa, alle profonde connotazioni di suoli e condizioni microclimatiche, riesce in punte di eccellenza di grande valore degustativo. Vini talvolta profondamente caratteristici, con aromi suggestivi di fiori e frutti e reminescenze dolci in gioventù e sentori invece tostati, marcatamente iodati, talvolta empireumatici quando affinati ed evoluti; insomma, espressioni multiformi di un grande varietale nonché del terroir di appartenenza, che sanno però maturare, mutare, migliorare nel tempo.

E quando bevi il Pietramara Etichetta Bianca 2009 di Rosanna Petrozziello, Giancarlo e Piersabino Favati, hai subito la certezza di ritrovarti dinanzi a un grande vino, mutevole e pregevole. Viene dai 5 ettari del vigneto omonimo di Cesinali, un piccolo “anfiteatro naturale” che si apre da nord-est a nord ovest a circa 450 metri di altezza. Ma Etichetta Bianca diviene solo il fiano raccolto nei filari collocati più a nord della vigna, laddove matura lentamente e più tardi, giovandosi anche di particolari escursioni termiche. La vinificazione avviene tutta in acciaio, poi finisce quasi un anno in bottiglia.

Il colore è luminoso, mentre il naso pare aver acquisito una impressionante intensità e complessità che va ben oltre la suggestione varietale; il sorso è asciutto, dinamico, sbarazzino, ma ricco di sfumature minerali, iodate. Insomma, un bianco dalla forte personalità, capace senza ombra di dubbio di attraversare il tempo con la stessa semplicità con la quale una lama calda affonda nel burro. Nemmeno ti accorgi che è un vino di quasi tre anni. Ma che stiamo a fare ancora a sottolinearlo! E lo bevi con tutto o niente, perché sin dal primo sorso ti accorgi che val la pena bere anche solo il vino, fregandotene altamente delle frottole che l’accompagnano. Un vino è grande quando sa raccontarsi anche da solo, si dice; bene, qui la storia è appena cominciata.

Questa recensione esce anche su www.lucianopignataro.it.

Buon Compleanno Feudi di San Gregorio!

25 agosto 2011

Azienda parecchio chiacchierata quella dei Feudi di San Gregorio; criticata, talvolta sino all’inverosimile, tale dall’essere addirittura demonizzata; per contro, come smentirlo, ci sono centinaia di migliaia di professionisti e consumatori che ne hanno fatto una icona, un riferimento assoluto ed indiscusso per i loro acquisti.

La verità, come sempre sta nel mezzo: i Feudi hanno tracciato la storia contemporanea del vino campano in maniera indelebile, sino agli anni novanta senza protagonisti di rilievo fatto salvo i soli Mastroberardino e giusto uno o due nomi in più. C’è stato, come negarlo, una Campania del vino prima dei Feudi, dal sapore romantico, quasi nostalgico ma mai incisiva e persuasiva sul mercato del vino; e una dopo e con loro: attenzionata, rivisitata, finalmente considerata, rivalutata e rispettata, lanciata come non mai; un lavoro ai fianchi che per vent’anni ha visto l’azienda di Sorbo Serpico protagonista indiscussa sulla scena italiana e internazionale, a far da apripista, e in molti casi da traino, a centinaia di nuovi piccoli e audaci produttori.

Al centro di un circo mediatico tanto utile e funzionale al progetto di crescita quanto talvolta deleterio e deterrente per quella territorialità sempre evidenziata ma mai espressiva sino in fondo, o quantomeno immediatamente riconoscibile. Insomma, allori, fama, prestigio e primati indiscutibili; ma anche errori e orrori – di cui si è discusso tra l’altro infinitamente, sino alla nausea – che ne hanno fatto troppo spesso capro espiatorio di una visione del mondo del vino speculativa e globalizzata, per molti da condannare, ma essenzialmente segno del nostro tempo piuttosto che marchio di fabbrica depositato. In fin dei conti, tutti ben sanno che solo chi non fa non sbaglia mai.

Tant’è buon compleanno Feudi di San Gregorio!. Questo 2011 ci consegna i tuoi primi 25 anni di attività; agli occhi di molti possono sembrare tanti ma chi sa di vino (e vigne) conosce bene invece che è un tempo assai breve per sedersi sugli allori, quindi, aggiungo Ad maiora!. E il Campanaro, questo duemiladieci non fa altro che confermarlo, rimane il bianco più rappresentativo dell’azienda, forse il modo migliore con il quale salutare questo importante avvenimento. Personalmente l’ho sempre considerato, con il Taurasi Riserva Piano di Montevergine, il loro vino simbolo. Qui vivace, cristallino, dal naso davvero interessante e in lento divenire, come via via negli anni sa rinnovarsi voluttuoso, austero e adulatore, giustamente minerale.

Paestum Fiano Pian di Stio 2010 San Salvatore

6 giugno 2011

Un anno fa l’esordio, ne raccontava in maniera compiuta l’amico Luciano Pignataro sul suo seguitissimo wineblog; qualche settimana più tardi un primo assaggio, poi ancora non mi sono fatto sfuggire l’occasione di metterci la bocca (qui e qui) alla ricerca di altre conferme, ma soprattutto per coglierne quella sana variazione sul tema aglianico/fiano/Cilento che l’azienda San Salvatore sembra aver colto nel segno!

L’azienda dell’anno? Perché no! In verità non mi stupirebbe affatto visto anche l’incredibile consenso dei suoi finissimi vini; un piccolo gioiello? Possiamo tranquillamente affermarlo; nato nei dintorni di Capaccio/Paestum, a Stio, è da considerarsi pura merce rara, rarissima visti pure gli ultimi tempi. Il progetto è sano e serio, e guarda lontano, messo su da uno dei personaggi più vulcanici dell’imprenditoria alberghiera campana, quel Peppino Pagano che di certo non ha deciso di mettersi in gioco per fare di questa avventura una mera comparsata.

L’occasione per ribadire ancora una volta quanto sia imperdibile l’assaggio dei vini dell’azienda San Salvatore è questo Pian di Stio 2010, prodotto con uve coltivate secondo agricoltura biologica e che esprime tutte quante le facce di una terra di rara bellezza, il Cilento, sospesa tra il cielo e il mare e capace di imprimere ai suoi frutti un imprinting inconfondibile. Del fiano di questa parte della Campania, si dice che abbia una vocazione ben precisa – fresca, impulsiva, immediata – e che non debba ambire a sfidare il tempo, ovvero senza nutrire ambizioni di reggerlo; questione questa – secondo taluni – tutto appannaggio del fiano di Avellino. Un altro punto sul quale ritornare sicuramente, possibilmente con argomenti più forti, e con calma.

Adesso però c’è questo vino, dal bellissimo colore paglierino, luminoso e invitante. Il primo naso è uno schiaffo balsamico, ad occhi chiusi pare camminare una gariga, dove la terra arida si alterna a cespugli sempreverdi di erica, corbezzolo, ginestra. Ha bisogno di tempo, e lentamente si scopre anche fruttato, croccante – turgido -, con una complessità ed una persistenza olfattiva indimenticabili. In bocca è ficcante, regala un sorso di pregevole finezza, intensità e persistenza: le papille gustative si perdono e si ritrovano tra l’austerità dell’acidità e la graditissima sapidità, anch’essa lunga e persistente. Un bianco, non uno qualunque, per oggi e per domani, memorabile sin da ora, ma capace di stupire ancora e ancora tra qualche tempo. Un fuoriclasse insomma! Intelligente ed insolita la scelta di metterlo in bottiglie da mezzo litro, belle da vedere e funzionali ad una bevuta più sobria del solito; ah dimenticavo!, e a portata di tutte le tasche!

Taurasi, Grecomusc’ 2008 Cantine Lonardo

14 aprile 2011

Ecco un esempio di come la ricerca rimanga un valore assoluto da non perdere mai di vista, un assunto per niente opinabile e, men che meno, subalterno a questo o quel giochino politico di turno; il lavoro portato avanti su questo raro e, a quanto pare, straordinario vitigno campano dal prof. Giancarlo Moschetti & co., ci induce oltretutto a pensare, qualora qualcuno non ne avesse ancora colto il valore, non senza una sana presunzione, che la Campania del vino ha tutto quanto necessario per ambire a primeggiare nell’affollato e sempre più omologato calderone del mondo del vino italiano.

Quel che è certo, è  che non abbiamo i numeri per competere con regioni ben più prolifiche della nostra, e a dirla tutta manchiamo anche di annali storici degni di nota, ma da qualcosa bisogna pur partire, e non è certo sul breve, in vitivinicoltura più che mai, che si costruiscono e si affermano ambizioni di questo genere; sono quindi altri gli elementi su cui fare leva e spianarsi al successo. Se ai numeri ed al blasone degli altri si è capaci di contrapporre elementi ancor più preziosi come la continua valorizzazione, come in questo caso, e la riscoperta del nostro straordinario patrimonio ampelografico, soprattutto in virtù di una loro precisa collocazione territoriale, della loro identità, che in certi luoghi, e per certi mercati in particolare, esprimono un valore che va ben oltre la normale esperienza degustativa, ecco svilupparsi un potenziale a dir poco eccezionale, invidiabile, un potere culturale di suggestione unica, un significato antropologico ineludibile; in altri termini, percorrendo questa strada non ci sono ragioni che tendano ad ostacolarci, il futuro è certamente nostro!

La ricerca dicevamo; quella genetica, ampelografica ed agronomica messa in campo sul Rovello bianco ha pochi altri precedenti nel recente passato in regione, e ciò la dice lunga sul fascino che questa varietà ha subito destato agli occhi dei ricercatori che se ne sono occupati, oltre che naturalmente sulla fermezza dei Lonardo’s a riguardo del progetto scientifico. Lo studio ha evidenziato che la varietà, allocata perlopiù a Taurasi e nel comune di Bonito, gli unici in Irpinia dove è ancora possibile rinvenire il Grecomusc’, si differenzia nettamente da altri vitigni sia regionali che nazionali italiani. Storicamente poi, si sapeva che il Roviello o Greco moscio fosse un varietale abbastanza diffuso anticamente in tutto l’areale tanto dall’essere annoverato in diverse citazioni ampelografiche ottocentesche, sin dal 1875; lentamente però pare che il vitigno sia stato soppiantato da altre varietà, fiano e greco su tutte, probabilmente a causa della sua precocità, e quindi destinato praticamente all’estinzione se non fosse stato per quei pochi ceppi vecchi sparsi qua e là nelle vigne, spesso ancora a piede franco, più a preservarne una sorta di memoria storica, un valore affettivo, che per fini produttivi.

Qui il grande merito di un’azienda come Cantine Lonardo, che sin dai suoi esordi, pur rappresentando appieno lo spirito enoico più tradizionalista, e se vogliamo integralista del comprensorio taurasino, non ha mai smesso di ricercare e sperimentare al fine di migliorare e far crescere la qualità espressiva dei suoi vini, finanche dei già superlativi Taurasi; non a caso è venuta per esempio la scelta di avvalersi, dopo la decisione del bravissimo Maurizio De Simone di prendersi un periodo sabbatico, della collaborazione dell’ottimo Vincenzo Mercurio, profondo conoscitore del terroir irpino nonché tecnico brillante e misurato in cantina.

Ne avevo già di molto apprezzato il duemilasette, annata non certo favorevolissima per i bianchi irpini, ancor meno per una varietà precoce come questa che si offre matura già alla terza decade di settembre, ma questo duemilaotto pare rivelarsi, a distanza di tempo, e cosa ancor più stupefacente, in prospettiva, a dir poco straordinario; bel paglierino nitido, cristallino, offre, a chi ama rincorrere certe sensazioni, un impulso emozionale che ha poco a che spartire forse con l’intero panorama bianchista nazionale; per questo, senza ombra di dubbio, superiore. “Il Grecomusc’ è una varietà che ha una quantità notevole di catechine che è necessario preservare dall’ossidazione durante la vinificazione e l’affinamento”, mi dice, interpellato, Giancarlo Moschetti; “quindi oltre ad una diraspa-pigiatura molto soft, in  riduzione, gli concediamo un tempo di permanenza sui lieviti abbastanza lungo, e di deproteinizzazione naturale mediante precipitazioni a freddo di cantina, per evitare di utilizzare chiarifiche”. Tra l’altro, aggiunge, “essendo un vitigno di tipo tiolico”, caratterizzato cioè da markers piuttosto netti (pensate al bosso o alla ginestra di certi sauvignon, ad esempio), “per preservarne una certa integrità espressiva, vengono preferiti lieviti ambientali selezionati in vigna che possiedono degli enzimi denominati “B liasi”, che tramutano i caratteristici aromi tiolici” – chiare note agrumate, sottile frutto della passione, pietra focaia in lento ma marcato divenire –,“da criptici a presenti”, così da consentirgli di esprimere caratteristiche odorose tipiche di queste tipologie di uve, che certamente non sono per tutti i gusti ma offrono una complessità eccezionale, e che in più mira a garantire al vino una longevità davvero interessante, di cui certo non possiamo ancora avere piena contezza, ma per come si esprime nel bicchiere questo duemilaotto, ricco, tagliente, minerale, non possiamo che apprezzarne l’interessante prospettiva.

Non nego che è piuttosto difficile pretenderlo, soprattutto in un momento di mercato così difficile e complesso dove basta poco per perdere la bussola, però ritornando a noi, al valore assoluto della nostra vitivinicoltura, la specializzazione rimane l’unica via praticabile, e questo vino ne è l’esempio più illuminante; pensare che sia possibile presentarsi ai propri consumatori con un vino bianco così insolito, e non per completare la gamma aziendale – se ci pensate, sarebbe bastato, come fanno tra l’altro in tanti, comperare una o due vasche di fiano di Avellino o greco di Tufo per annata – ma per raccogliere una opportunità di recuperare e valorizzare un vitigno misconosciuto altrimenti disperso, non è mica male come idea vincente, non trovate?

Questa recensione esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it

Ariano Irpino, Paski 2009 Cantina Giardino

29 marzo 2011

Il varietale è senz’altro tra quelli da sempre meno considerati di altri in regione, se non a “mezzo servizio”, come uva da taglio, per allungare, o meglio smorzare il brodo, come si suol dire. Eppure non mancano esempi di grande slancio, di cui non si può non tenerne conto per avere un’idea più precisa di cosa stiamo parlando.

Penso ad esempio alle bellissime interpretazioni di Raffaele Troisi di Vadiaperti consegnate agli annali, o a quelle per me indimenticabili di Ocone, le prime bevute che ricordi da sommelier a cavallo tra il ’99 ed il 2001. Furono tra l’altro proprio Antonio Troisi in Irpinia e Domenico Ocone in provincia di Benevento, ad inizio degli anni novanta, a ridare voce e dignità a questo antichissimo vitigno utilizzato sino ad allora perlopiù per tagliare i bianchi in quel tempo più alla moda, il fiano ed il greco, così da smorzarne da subito le spiccate acidità; qualcheduno forse ne avrà contezza più di me, ma a quel tempo si usciva con le nuove annate già a metà dicembre, giusto per non perdere il treno delle folli spese natalizie.

Le motivazioni di un suo rilancio sono state poi suffragate negli anni dal continuo aumento dei prezzi delle altre uve bianche, la falanghina, piuttosto che il fiano e il greco, hanno praticamente monopolizzato i consumi di questi ultimi anni, ed un vino come la coda di volpe, che si esprime tra l’altro con una tipicità così arguta, non ha mancato di fare proseliti e costruirsi la sua bella coltre di fedeli appassionati; per dirne una, un po’ come capita oggi per chi va preferendo il Pallagrello bianco ai soliti noti fiano di Avellino e greco di Tufo.

La mia esperienza di appassionato mi ha consegnato negli ultimi dieci-dodici anni diversi assaggi parecchio gratificanti di vini da coda di volpe; ricordo per esempio, oltre ai suddetti, le primissime uscite di Paolo Cotroneo, Fattoria La Rivolta, davvero notevoli: concentrazioni certamente estreme, quasi materiche, a cui eravamo molto poco abituati per i bianchi, ma indubbiamente di notevole impatto emotivo. Quasi da contraltare, dallo stesso areale, già andava affermandosi, sin dalla sua prima annata nel ’95, la finissima versione di Cantina del Taburno, quell’Amineo inventato da Angelo Pizzi tanto esile quanto sempre estremamente godibile, dal primo all’ultimo sorso. E ritornando all’Irpinia, mi è sempre piaciuto, con Vadiaperti e Di Meo, le mie preferenze assolute dall’areale, il Bianco di Bellona della giovane irpino-belga Milena Pepe.

Anche per questa sua vocazione non-vocazione alla versatilità più estrema è davvero sorprendente il lavoro di Antonio di Gruttola con questa coda di volpe Paski 2009, bevuta e ribevuta a più riprese lo scorso 20 Marzo ai banchi d’assaggio di Parlano i Vignaioli. Un vino prodotto da qualche anno – in principio solo in damigiana e ad uso e consumo familiare (!) – e a quanto pare sempre un po’ in ombra rispetto agli altri bianchi di Cantina Giardino, che detto fuori dai denti, in questa occasione mi hanno convinto ancor meno di quanto abbiano fatto in passato al primo assaggio; il fiano Gaia ed il greco T’ara rà 2009 presenti in degustazione, sono in evidente ritardo, ma non potrebbe essere altrimenti visto che proprio questi due, a dispetto di tanti altri vini, sono da attendere a lungo, e quindi in questa fase l’impressione ricevuta è certamente labile; ne convengo quindi che sarebbe decisamente prematuro esprimere giudizi, porteremo pazienza.

Altro giro, altre emozioni invece per questo Paski 2009, un sussulto d’orgoglio che ci consegna un vino sopra le righe ma assai rassicurante, per la naturale vocazione e per l’integrità espressiva che ne rende fruibile una piena e sana godibilità da subito. Mi racconta Daniela De Gruttola che nasce da una attenta diraspatura manuale, che appena dopo la pigiatura passa subito in botte di acacia e castagno dove vi rimane per quattro giorni in macerazione sulle bucce; successivamente, per circa tre mesi, in fermentazione sulle fecce grossolane; poi, dopo il travaso, l’unico ed il solo a cui è soggetto in questa fase, rimane ancora un anno sulle fecce fini senza mai essere mosso, nemmeno rabboccato, con l’intento di conferirgli, in contemporanea, una doppia evoluzione in fase di affinamento, ossidativa e riduttiva. Il colore paglierino è intenso ma non più della media dei vini così prodotti. Il naso è subito variopinto, buccioso, inizialmente crudo, ma basta lasciargli raggiungere la giusta temperatura, ed un tantino di ossigenazione in più, che si riescono a cogliere note ancor più verticali, in continuo divenire, un timbro fenolico insolito per il varietale ma davvero avvincente. La sua ricchezza trova ulteriore conferma al palato, incisivo ma risoluto, di estrema bevibilità. La solforosa totale è minore di 20 mg/l ed è stata aggiunta solo all’imbottigliamento. Il nome è un omaggio all’autore del quadro rappresentato in etichetta.

Questo articolo esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it.

Montefusco, l’aglianico spumante di Montesolae

25 gennaio 2011

Quanto è difficile raccontare di un vino spumante del genere, andare a scovare una ragione nobile per la quale valga la pena battere i polpastrelli sulla tastiera – un tempo si sarebbe preferito il senso estetico di “impugnare penna e calamaio” – per descrivere un così sottile e fugace piacere; eh si, perchè qui le emozioni c’entrano poco, si tratta solo di puro piacere.

Mi spiego: non ci troviamo di fronte ad una première cuvée ritrovata per chissà quale fato in un buio e dimenticato anfratto di Mesnil sur Oger, e nemmeno dell’ultima genialata di turno per far passare per nettare biodinamico uno sciroppo per la tosse buono appena ( a volte nemmeno) per condire l’insalata. Niente di tutto questo, nessun lavoro ai fianchi insomma, nessuna aurea vocazione riscoperta, nessuna aberrazione di “marchetting”, trattasi di solo vino, rosato spumante, buono!

Questo vino quindi merita sincera attenzione, la stessa che non mi sono fatto mancare poco più di un anno fa, al primo assaggio, la medesima ripagata quest’anno da una prova ancor più convincente, un approccio franco e diretto, che mi fa pensare ad una costante crescita del prodotto in termini di qualità della materia prima utilizzata, aglianico in parte sannita, in parte taurasino, e della particolare cura profusa in fase di vinificazione, utilizzando – tra i pochi in Campania – un metodo charmat lungo che arriva sino a dieci mesi di lavorazione, prevedendo oltretutto, come opportuno, un doppio inoculo di lieviti selezionati. 

Colli Irpini non la scopro certo io, è una delle tante aziende campane sbocciate nel solco tracciato dall’entusiasmo dei primi anni novanta ma che ha saputo nel tempo costruirsi spalle belle larghe, rimanendo ancorata a pochi ma salubri principi produttivi, lasciando ad altri il compito di favoleggiare, e puntando su una più che corretta qualità media dei suoi prodotti offerti  tra l’altro a prezzi piccoli piccoli. Ricordo uno dei miei primi assaggi, più o meno dieci anni fa, di un fantomatico fiano di Avellino frizzante – Ilios – leggero e vivace a tal punto che non facevi nemmeno in tempo ad aprire la bottiglia che già te ne chiedevano una seconda. Erano quelli altri tempi, l’altra faccia di una medaglia che, perché negarlo, ha arricchito molti, i ristoratori in primis, e che molti, sotto sotto, rimpiangono e come: che numeri ragazzi! Forse non torneranno mai più, e mi riferisco, in generale, a quelli degli ordini a pedane, quelli delle “500lire per tappo” che molti rappresentanti di vino sino ad una dozzina di anni fa non avevano problema a promettere e che oggi farebbero carte false per rispolverare; in poche parole, quel “lato b”, nemmeno tanto oscuro, che ha fatto tanto bene a molte realtà agricole consentendo di costruire aziende sane e, aspetto non certo secondario, capaci di garantire, al territorio, ai contadini, una discreta continuità di reddito pur dovendo rinunciare a vestire quei panni da profeti di una territorialità tanto apparentemente necessaria al nostro tempo quanto effimera. O no?

Questo vino mi piace perché è questo che mi aspetto da una bollicina del genere, non mi deve raccontare una storia, non ne ho bisogno, non ne ha forse nemmeno la vocazione, ma mi deve, per quello che promette sulla carta un aglianico spumante, questo lo esigo, rendere grazia. Bellissimo il colore cerasuolo tenue, reso brillante da una gradevole vivacità, il bicchiere è coronato da una spuma fine e delicata, caratterizzato da un corollario di bollicine mediamente sottili seppur evanescenti. Il primo naso è davvero gradevole, le note floreali di rosa e violetta vengono subito affiancate da piacevolissime sensazioni di mora e lampone, per altro neppure sfiorate da note fermentative; ma dove questo vino mi è piaciuto di più è in bocca: immediato e delicato, schietto e fresco, con una beva lineare e senza asperità, degno compagno di tutto un pasto, con un costante, un piacevolissimo ritorno fruttato e, dato non trascurabile, mai pesante nella carbonica, il che lo rende particolarmente digeribile. In soldoni, meno di dieci euro in enoteca, in pratica, gli altri, li mette in fila tutti!

Cesinali, Greco di Tufo Terrantica 2009 I Favati

2 dicembre 2010

La fierezza, la dignità dell’appartenenza, la sottile malinconia di valori tanto radicati quanto a volte facilmente ignorati. Non si può produrre vino prescindendo dai primi due elementi appena citati, non ha senso invischiarsi nell’impresa di fare vino se non credi nel valore della tua terra, men che meno se la ignori in virtù del solo fine di produrre reddito. Mi sono ritrovato, ultimamente, parecchie volte a guardare la vigna su cui affaccia il balcone di casa mia; tutta sarà poco più di un ettaro, terrazzato, curato con parsimonia, vecchio quasi come il contadino che lo conduce ed allevato con il sempre suggestivo “spalatrone puteolano”; a dirla tutta, dà un vino da poco o niente, ma la fierezza e la dignità dell’appartenenza con la quale don Antonio, e di tanto in tanto suo fratello, vecchio forse più di lui, ci spendono intere giornate, in questi giorni anche sotto la pioggia, mi fa pensare a qual valore abbia la terra per chi coltiva la vite. Decisamente Incalcolabile.

Con questo pensiero mi lascio alle spalle Cesinali, così si esaurisce la piacevole giornata trascorsa a casa di Rosanna Petrozziello e la famiglia Favati tutta, con le stesse ultime curve prima della strada statale che mi avevano accompagnato qui dall’uscita autostradale Avellino est. Con me però anche la convinzione di aver ritrovato vini davvero importanti, come avevo sempre avuto modo di assaggiare, ma oggi più che mai ascritti ad una identità ben precisa e a quanto mi è parso sempre più riconoscibile soprattutto nella personalità di una straordinaria donna del vino –Rosanna appunto – che al vino, d’un tratto, si è dovuta concedere in tutto e per tutto per dare continuità ad un progetto iniziato per volontà della famiglia ma che in lei, anzitutto in lei, ha trovato linfa vitale per affermarsi e progressivamente proporsi come tra i più interessanti e solidi dell’areale irpino.

L’azienda nasce nel 1996 per volontà dei fratelli Piersabino e Giancarlo Favati (di cui Rosanna è moglie, ndr) e sin dal primo imbottigliamento, annata 2000, si è subito imposta come un riferimento da non perdere d’occhio, sul fiano in particolare che rimane la loro specializzazione, il loro fiore all’occhiello, espresso tra l’altro anche con un sempre interessante spumante metodo charmat, il Cabrì. Per la verità la prima vendemmia del fiano di Avellino è avvenuta nel 1999, ma date alcune complicanze sopraggiunte in commissione per l’allora doc, in primis per banali errori di interpretazione del grado alcolico, si lasciò preferire, pur di non declassare la produzione, il tombino della cantina allo svilimento di quattro anni e mezzo di lavoro, il che la dice lunga sull’approccio che coltiva la famiglia Favati con il mondo del vino!

Oggi l’azienda conta giusto 12 ettari di vigna di cui 10 di proprietà, sparsi qua e là nelle sottozone maggiormente vocate del territorio sia per quanto riguarda il fiano di Avellino che l’aglianico di Taurasi, tra la stessa Cesinali per il primo e varie parcelle nei comuni di Montemarano e Venticano per quando riguarda il secondo. I due ettari di greco sono invece in conduzione, ma ciò nulla toglie, ed il Terrantica 2009 ne è testimonianza tangibile, alla straordinaria capacità di ben interpretare uno tra i più interessanti varietali regionali. Il tutto si traduce in circa 100.000 bottiglie prodotte, delle quali più della metà vanno all’estero.

Dagli assaggi per la verità gran parte della mia attenzione è ricaduta sull’ottimo Fiano di Avellino 2009, sempre etichetta bianca, che personalmente ritengo il migliore sino ad oggi uscito dalle porte di questa cantina, oggi seguita da Vincenzo Mercurio: un vino di una piacevolezza olfattiva e progressione gustativa sinceramente molto al di sopra della media dei Fiano 2009 sino ad oggi assaggiati. Ma non posso negare la tanta curiosità su questo greco di Tufo, anzitutto perché se per i Favati fare fiano è una vocazione naturale, il greco non sembra affatto soffrire di minor attenzioni, sfoggiando con questo millesimo una gran verve, soprattutto al gusto, che ne fa presagire non poca fortuna.

Sia chiaro, non è un vino “facile”, tutt’altro, e la veste di selezione – o come spesso anch’io amo tradurre in cru – confido sia ben spiegata al ristoratore di turno come dal sommelier all’avventore appassionato: è un vino che va lasciato respirare e soprattutto servito ad una giusta temperatura (12°-14°) per non ghiacciare con le papille gustative anche i sottili ma persistenti profumi minerali e soprattutto una vivacità gustativa che sorso dopo sorso si tramuta in una profondità davvero encomiabile, che avvolge il palato e non lo lascia per molto, molto tempo.

Si è parlato, spesso, di non pochi errori di interpretazione di questo come altri varietali autoctoni campani, nel tentativo, di rendere più slanciate note olfattive per la verità sempre poco caratterizzanti vini del genere, il greco su tutti, ed ammorbidire certe sfumature gustative magari troppo poco appetibili dal gusto internazionale quanto invece patrimonio di questo vitigno in particolare. Ebbene, lo stile dei vini dei Favati non si è mai piegato a questo gioco al massacro e semmai servisse un esempio per ribadire ancora una volta il concetto che l’unica molla su cui fare leva per affermare e consolidare la viticultura regionale sia la profonda biodiversità che la caratterizza e non il vano tentativo di renderla puttana, beh, il Terrantica etichetta bianca 2009 merita sicuramente una delle poche candidature alle primarie!

L’utile sottovalutato, il tappo a vite per esempio

16 agosto 2010

Lo ammetto, inizio ad accettare di buon grado l’idea delle bottiglie di vino con la chiusura tappo a vite. Credo siano stati fatti buoni passi avanti, innanzitutto sull’utilizzo dei materiali, soprattutto in riferimento alle plastiche utilizzate internamente al tappo come sigillante, da qualcuno, in passato, additate come nocive se non addirittura cancerogene e poi anche, sebbene ancora poco, da un punto di vista comunicativo e divulgativo. Per la verità, per quanto ci riguarda, in Italia il dibattito sulla utilità o efficacia di questa soluzione, nata perlopiù per sopperire alle difficoltà causate dal prezzo dei sugheri in costante ascesa, non si è mai acceso del tutto, dovuto soprattutto al fattore culturale, più che altro così filo mittel-europeo quanto vera e propria sincope del nuovo mondo, distante quasi anni luce dal romanticismo latino, italiano e francese in primis, che vuole, aggiungo forse giustamente, le bottiglie di vino bollate e consegnate al tempo esclusivamente con il tappo di prezioso sughero.

Ecco, pur essendo io un romantico, me ne sono fatto una ragione, professionale innanzitutto e nel tempo ho imparato a rivalutare il tappo a vite sino a pensare che prima o poi ne diverrò un convinto sostenitore, quasi un fan; A ciò aggiungo che rilancio molto volentieri l’invito, a chiunque ne fosse strenuo ostruzionista, a rivedere sin da subito la propria posizione e poichè non sarebbe così male di pensare di utilizzarlo con maggiore frequenza, e mi riferisco in particolar modo a quelle aziende che dedicano stabilmente una “linea di prodotti” per esempio alla banchettistica o più semplicemente propongono sul mercato vini dal consumo più o meno veloce (bianchi e rossi d’annata, rosati). Tra i pro, tra i tanti, uno lampante proprio per gli addetti ai lavori, quello cioè di non dover aprire (metti un evento di gala) cento-centocinquanta bottiglie e – come mi auguro capiti di sovente – provarne l’integrità da tricloroanisolo una ad una. Qualcuno ha pensato bene di attenuare lo stress per il sommelier di turno con i tappi sintetici, bene, bravo, ma rimangono pur sempre da aprire, cavatappi alla mano, cento-centocinquanta bottiglie di cui sopra. Vuoi mettere con uno Stelvin,  svita e… vai!

© L’Arcante – riproduzione riservata

La calda estate degli Amici di Bevute: quando il Fiano di Avellino sorprende, conquista, delude.

26 luglio 2010

Appena qualche giorno fa vi ho raccontato di una spelndida serata¤ vissuta tra amici in quel dell’Abraxas¤ a Pozzuoli dove ci eravamo riuniti, di piacere e di gusto, per bere del buon Pinot Nero. Entusiasti di come era andata quella cena, ci eravamo ripromessi di rivederci appena possibile per un nuovo appuntamento, stavolta centopercento bianchista; tra un sms e l’altro, è venuto fuori di puntare una dozzina di fiches bottiglie sul fiano.

Premessa: Qualcuno avrà pensato di apparire troppo originale nel portare con se bottiglie non Irpine, cosicchè alla fine ci siamo ritrovati con 11 vini dei quali 10 Fiano di Avellino ed uno solo, Il Cumalè di Pasquale e Betti Mitrano di Casebianche, del Cilento. Vatti a fidare del buon intuito…

Prologo: ognuno si è preoccupato di procurare almeno tre bottiglie di vino, opportunamente celate da carta stagnola e decapsulate. Al momento dell’arrivo a casa di Gerardo ed Emanuela sono state consegnate nelle mani di una persona che successivamente non ha partecipato alla degustazione (e neppure siedeva tra noi) che ha provveduto a numerarle e poi di volta in volta a consegnarle alla tavola. Tutto questo pragmatismo, sia ben chiaro, non è stato messo su per ostentare certe “pippe mentali” sulla tecnica della degustazione alla cieca (che tanto ci piace ma che in queste serate preferiamo relegare al noncipuofregardemeno!) ma piuttosto perchè se divertimento doveva essere volevamo che lo fosse fino in fondo.

Questo il risultato a latere di un piacevolissimo convivio tra Amici di Bevute; la sequenza dei primi cinque vini esprime quello che potremmo definire “il podio”, in base ad una loro valutazione in termini di franchezza, integrità e piacevolezza. Gli altri vini, alla luce di quanto espresso, vengono ritenuti praticamente alla pari seppur alcuni di essi ci sono apparsi in chiara difficoltà, qualcuno addirittura rovinato.

Fiano di Avellino 2008 Colle di San Domenico, un vino davvero delizioso, assai piacevole, di una freschezza memorabile ed una franchezza incredibile. Ci ha conquistati tutti, all’unanimità e senza riserva alcuna. Dal bellissimo colore cristallino ai profumi freschi e profondamente varietali, alla distanza anche di una particolare ampiezza ed eleganza. L’impressione è di una materia prima di altissimo lignaggio e molta poca tecnica in cantina se non lo stretto necessario, da manuale insomma.

Fiano di Avellino Exultet 2008 Quintodecimo, della serie, già un classico? I vini di Luigi Moio come pochi riescono a dividere (non si capisce perchè :-)) ma come pochissimi altri riescono ad esprimere una tale perfezione tecnica. Un vino infinito, impressionante per la materia che esprime, in bocca più che al naso. Dal bellissimo colore paglierino carico, al naso è carezzevole e suadente, intenso, ampio e profondo, giocato su di una eleganza di rara fittezza. E’ buono, ma buono per davvero, come il pane!

Fiano di Avellino Pietracalda 2009 Feudi di San Gregorio, tecnicamente perfetto, molto piacevole, nessuna sbavatura. Ottimo compagno a tutto pasto di grasse bevute, nessun sussulto se non il pensiero di come in Feudi di San Gregorio stiano percorrendo una strada di crescita qualitativa costante, espressa a mani basse da una gamma di vini, ormai prodotti in quantità certamente industriale ma che difficilmente risultano inaffidabili. Per palati al primo approccio con il varietale, ammiccante.

Fiano di Avellino Colli di Lapio 2007 Romano Clelia, l’annata calda non l’aiuta certamente ad esprimere il meglio di se, di un terroir assolutamente d’elezione per il varietale e senz’altro di riferimento per il movimento bianchista in Campania, ma val bene l’assaggio. Il colore è un tantino surmaturo, già tendente all’oro, il naso è un effluvio di sensazioni dolci, molto piacevoli a dire il vero, ma guai a lasciare andare la temperatura sopra la soglia ottimale dei 10-12 gradi, il ventaglio olfattivo ai più potrebbe risultare stucchevole se non addirittura spiacevole. Buono il palato, manchevole in profondità, non in acidità.

Fiano di Avellino 2009 Cantina Astroni, il padrone di casa naturalmente non ha resistito alla tentazione di infilare in batteria una delle sue bottiglie. Sulla falsa riga del Fiano di Colle di San Domenico abbiamo ritrovato in questo vino estrema piacevolezza. Naso molto invitante, palato pulito, fresco, di gran bella beva. Non un vino lunghissimo in bocca, ma certamente impossibile da confondere. Ottimo passaggio, di certo il pensiero che questo è solo il secondo anno nel quale Gerardo si cimenta in tutto e per tutto nella vinificazione di Fiano di Avellino è foriero di ottimi auspici per il futuro aziendale, soprattutto perchè le uve hanno origine in un’areale ben esposto della denominazione, a Montefalcione.

A margine, come detto, Il Vintage 2002 di Mastroberardino (risultato di tappo), il Cumalè 2009 di Casebianche che non ci ha convinti ma siamo certi che si sia trattato di una bottiglia poco espressiva. Nando Salemme ci ha tenuto a sottolineare che ne aveva goduto appena la sera prima ed era di tutt’altra pasta, io stesso ho avallato tale opinione essendo un convinto fan dei vini¤ di Pasquale e Betti Mitrano. Il Vigna Pezze 2007 di Struzziero invece non è per niente pervenuto: un vino decisamente greve, assolutamente inespressivo, ma qui la qualità della bottiglia c’entra poco.

Ci è dispiaciuto invece non aver potuto godere e dissertare di Bambinuto, piccola realtà (in verità specializzata sul Greco di Tufo) in buona crescita, ma la bottiglia di Fiano aperta ci ha letteralmente sconvolto: crediamo essersi trattato di un serio problema che speriamo non comune ad altre bottiglie in giro, il vino era praticamente rancido, il colore sull’ambrato, assolutamente svanito al naso.

Una considerazione a parte meritano i due Fiano di Avellino di Ciro Picariello e Guido Marsella, entrambi 2006 ed inaspettatamente relegati – ad unanimità – in fondo alla classifica. Del valore dei due “winemaker” ne abbiamo piena coscienza soprattutto per la ventata di nuovo ideologico sul varietale (addirittura avvicinabile – in certe annate – al Riesling della miglior Mosella¤) che sono stati capaci di affermare soprattutto negli ultimi quattro-cinque anni in Campania; non è da meno l’enorme considerazione che nutriamo per il terroir di Summonte che i suddetti, con i propri vini, rappresentano in maniera più che egregia, in certe annate davvero con esecuzioni eccezionali; questa omogeneità espressiva però sembra tanto una costante di primissimo pelo nelle grandi annate quanto un limite invalicabile in quelle definite “minori”.

Di Picariello rimane indimenticato indimenticabile il 2004, di Guido Marsella oltre al vino, la sua storia personale che lo ha consegnato ad esso e immediatamente consacrato come il “rookie” più interessante dell’ultimo ventennio; una storia contornata tra le altre cose da una passione infinita, tanto da farlo decidere di rompere col passato per tuffarsi, letteralmente, in vigna.

Insomma, il millesimo 2006 non è stato per niente tenero con il fiano e la diluizione del frutto che si palesa nei bicchieri non ci offre certo spunti di riflessioni entusiastiche, ma per dirla tutta, un semino di assennatezza lo vogliamo lanciare: è proprio tutta colpa dell’annata o c’è dell’altro? Inoltre, questo limite, siamo disposti in tutto e per tutto ad accettarlo accontentarci o tecnicamente si potrebbe fare di più? E cosa direste se vi avessero detto che prima di berle queste stesse bottiglie avreste dovuto aspettarle almeno per tre-quattro anni, con tale risultato nel bicchiere?

Hanno partecipato al convivio, per precisione di cronaca: il sottoscritto, Vanna Ambrosino e Nando Salemme (ristoratori, il secondo sommelier professionista), Emanuela Russo (sommelier), Lilly Avallone (sommelier professionista), Gerardo Vernazzaro (enologo), Rosaria Fiorillo (sommelier)  oltre che alcuni Amici di Bevute particolarmente appassionati.

Taurasi, in arrivo Anteprima Irpinia 2010

2 giugno 2010

Sabato 5 e Domenica 6 giugno 2010

Anteprima Irpinia 2010

Prima Edizione

Castello Marchionale – Porta Maggiore, Taurasi (AV)

le nuove annate di

Taurasi

Fiano di Avellino

Greco di Tufo

 all’attenzione di giornalisti, operatori ed appassionati

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Montefusco, Fiano di Avellino 2006 Terredora

22 Maggio 2010

Ci sono aziende che rappresentano per qualità dell’offerta una continuità espressiva inappuntabile, sono spesso marchi che ci portiamo dietro da sempre, sembrerebbe sin dalla notte dei tempi; Sono lì, costantemente presenti, pur non curandoli in maniera particolare pare impossibile trascurarli del tutto. Sono etichette per qualcuno storiche, per altri più semplicemente rappresentazioni di storie di famiglie che il vino, in questo caso in Campania, l’hanno letteralmente inventato ed imposto sul mercato come unico modello di sviluppo possibile, una opportunità economica da non mancare assolutamente, soprattutto in anni in cui, siamo verso la fine dei settanta, oltre alla politica di asservimento del “Palazzo”, in alcuni areali, rurali in particolar modo, di certezze tangibili ve n’erano davvero ben poche.

“Il lavoro rende liberi”, una frase che rievoca certamente ricordi oscuri di un passato tremendo, eppure presa così com’è potrebbe rappresentare il manifesto di “liberazione” di una terra, l’Irpinia, che faticosamente sta riscoprendo e affermando sempre più una propria identità/vocazione – chiamiamola rurale, viticola, enoturistica – che non può passare inosservata alle politiche di sviluppo che il “palazzo” (in questo caso scritto in minuscolo perchè minuscoli son gli interpreti moderni) deciderà di delineare per questa regione nella regione.

Tutto questo fermento, oggi continuamente rinnovato dai tanti nuovi piccoli vignaioli, talvolta veri e propri “garagiste” – devo dire interpreti di ottimi primi vini – e talvolta costellato di ex imprenditori del cemento, dell’asfalto, ex capitani d’impresa, ex piloti di nave da crociera ed ex qualcosa che tanto funziona sempre, va delineando un profilo territoriale davvero eterogeneo, diverso, ma che dico, di più, biodiverso, ma che ha nel dna le tracce indelebili degli iniziatori, tra questi la famiglia Mastroberardino, di qui il ramo familiare di Walter che in quel di Montefusco con i figli Daniela, Lucio e Paolo sin dal 1978 ha continuato con Terredora di Paolo a lavorare le vigne ed in cantina per portare la Campania del vino in tutto il mondo, guadagnandosi tra le tante gran menzioni, di entrare nel 2007 tra le prime cento aziende al mondo selezionate da Wine Spectator per continuità e qualità offerta (!).

Oggi l’azienda produce mediamente 1.200.000 bottiglie l’anno, particolare attenzione è destinata senz’altro ai vini dell’areale storico irpino, personalmente ritengo per esempio il Taurasi Fatica Contadina tra le più autentiche espressioni della denominazione e non di meno ineccepibile la costanza qualitativa dei vini bianchi base, il Greco di Tufo ed il Fiano di Avellino. Lo spunto per questa recensione nasce però dalla piacevole bevuta di questo cru di Fiano Avellino Terre dei Dora 2006, un bianco, dopo quattro anni, davvero soprendente, per vivacità, complessità e bontà gustativa. Il colore è marcato da un giallo paglierino intenso, appena teso a venature ossidative, il primo naso è salmastro, inizialmente, ti invita quasi ad allontanarti dal calice, ma appena alla seconda sniffata ti accorgi di ritrovarti di fronte ad un grande bianco. Il ventaglio olfattivo ha smarrito l’eleganza delle note fruttate e floreali ma in compenso si offre terragno, minerale, etereo, cremoso, quasi tostato. In bocca è asciutto, l’ingresso gustativo è grasso ma si distende immediatamente con una freschezza inaspettata, gratificante, piacevolmente lunga, il finale minerale riconsegna nuovamente il leit motiv a sensazioni cremose e salmastre. Un fiano da non banalizzare su primi piatti ai frutti di mare, piuttosto ben indicato su estrose preparazioni gourmet, penso al Carciofo ripieno con burrata di Andria e scampi crudi del nostro Oliver Glowig. Ed è ancora scoperta…

Lapio via Atripalda, More Maiorum 2007

21 gennaio 2010

Il Fiano di Avellino come Montrachet? Perchè no! Naturalmente siamo ancora lontani dall’idea di esigere una classificazione della tipologia come dire – alla borgognona – seguendo un po’ ciò che i francesi hanno intuito ed espresso già oltre cento anni fa, creando terroir straordinari come Montrachet, con tante piccole facce di uno Chardonnay di inarrivabile qualità, distinguendone i cru di Puligny da Chassagne, quelle di Batard dallo stesso comune omonimo, ma sempre più spesso ci capita di pensare e di parlare di questo vino non più come genericamente “di Avellino” ma ricercandone anche gli areali di produzione a conferma di una diversità tangibile e di una particolare e maggiore vocazione: a seconda che ci si ritrovi dinanzi ad una bottiglia proveniente da Pratola Serra piuttosto che da Montefalcione o da Montefrèdane, Cesinali, Summonte e via discorrendo sino a Làpio, tutte terre d’elezione per il Fiano. L’ultima in particolare – dove nasce appunto il More Maiorum della famiglia Mastroberardino e dove il vitigno appare baciato, più che dal sole dalla madre terra che gli conferisce una mineralità capace di forgiare un vino bianco votato a sfidare il tempo senza eguali in Campania e forse in Italia.

Il colore è di un bel giallo paglierino cristallino e si presenta nel bicchiere con una buona consistenza. Il primo naso è intenso e persistente su note fruttate eleganti e fini, dapprima mela verde, note agrumate, poi banana, continuando a stupire su di una complessità eccelsa ed abbastanza profonda chiudendo su leggere sensazioni vanigliate e nocciolate. In bocca è secco, abbastanza caldo e particolarmente fresco chiudendo dopo una lunga e piacevole persistenza con un sapore decisamente mandorlato. Carattere da vendere da consegnare tra poche settimane a quel mercato finalmente ritornato sui suoi passi con una ritrovata esigenza di acidità e mineralità a discapito di bianchi “tuttifrutti” dalle rotondità burrose stucchevoli tanto serbevoli quanto anomini e scipiti. Da bere fresco tra i 12 e 14 gradi in calici generosi nell’esaltare l’ampiezza olfattiva espressa, da abbinare a piatti importanti, mi viene in mente la sorprendente interpretazione delle Alici marinate con ricotta, melanzane e caponatina in salsa di prezzemolo di Oliver Glowig dell’Olivo del Capri Palace.

Quintodecimo, il 2007 secondo Luigi Moio

15 dicembre 2009

Tutto inizia con una domanda, con la quale ci lasciamo la vigna¤ alle spalle prima di accomodarci in casa di Laura e Luigi per la degustazione dei vini: “Moio realizza Quintodecimo, il suo sogno, perché in Irpinia?”.

Più di una le risposte, che aprono discussioni¤ sul passato ed auspici sul futuro, argomenti che hanno fondamenti più o meno espliciti di cui non si può non tenerne conto e che si potrebbero sintetizzare in questa frase: “Ero stanco di rincorrere sfide, era venuto il momento di lanciarne una,  quella decisiva”.

Premesso che: ha fatto la storia dell’enologia campana, ha stravolto atavici equilibri e bilanciati dei nuovi, ha rilanciato sin da tempi non sospetti il senso fondamentale della terra, della vigna prima di tutto al quale ha applicato con minuziosa visceralità il concetto, per molti secondario sino ad allora, di conoscenza scientifica dei suoi elementi. Ha reinventato, praticamente dal nulla, progetti sparuti divenuti in pochi anni perle enologiche, ha dato grande slancio a cantine cooperative con oltre 400 soci e saputo esaltare, allo stesso tempo, il valore aggiunto di piccole aziende a conduzione familiare, interpretando alla grande quel concetto di “unico e raro” tanto in voga oltralpe e spesso, alla meglio, solo mestamente scopiazzato nell’italica penisola. La Falanghina, il Pallagrello Nero e Bianco, il Casavecchia, la Pepella, la Ginestra, l’Aglianico, il Fiano di Avellino, il Greco di Tufo: piccoli vitigni e grandi vini con un dna straordinario ed un solo grande interprete: Luigi Moio.

Anteposto che: l’Irpinia è un territorio unico, e qui si fanno vini di eccezione, Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi. Ha un territorio caratterizzato da un continuo succedersi di montagne, colline, pianure intervallate da corsi d’acqua con terreni che presentano un’ampia variabilità. E poi la vicinanza della costa tirrenica, che da qui dista poco più di 60 chilometri alternata alla rigidità appenninica profondono nelle vigne Irpine elementi contrastanti come freddo, neve, vento, piogge, gelate, caldo estivo, tutte condizioni che giustamente condensate portano le uve a giusta maturazione ed una concentrazione di tali peculiarità da partorire vini di fascino e carattere superiore. Ancora del tutto inespressi.

Desumo: vini di eccezionale equilibrio, in questo momento, espressioni nitidi di ciò che solo il tempo ci dirà quanto tipico del loro territorio di origine oppure interpretazione del loro illustre artefice.

Campania Falanghina Via del Campo 2007, il bianco del cuore, quel vitigno sul quale il professore ha riversato anni di studi minuziosi regalandoci una delle poche pubblicazioni scientifiche sul suo profilo agronomico ed organolettico, oggi testo imprescindibile per gli appassionati di questo delizioso e generoso vino campano. Via del Campo è anche il nome di una delle più struggenti canzoni di De Andrè, da giovane una delle prime a passare tra le corde della sua chitarra, così proprio come una grande interpretazione della Falanghina vuole oggi riversarsi nei calici di ognuno e conquistarli. Di colore giallo paglierino con nuances dorate, cristallino. Ha profumi intensi ed avvolgenti, fini ed eleganti. Fiori bianchi, frutta a polpa gialla, minerali. Netti riconoscimenti di mela e banana sono ben presto sovrapposti ad iniziali fresche note mentolate e minerali. Vino delizioso. Ha un gusto secco, di buon corpo e vibrante freschezza, un bianco da pesce e da carni bianche, una Falanghina di carattere.

Fiano di Avellino Exultet 2007, “[…] non mancheranno, le prossime vendemmie a delinearci un profilo più altisonante per questo vino, degno insomma del miglior Moio”, così definivo l’Exultet ’06¤ l’anno scorso, convinto di non aver trovato un fiano in grande spolvero ma certo che era solo l’inizio di un percorso verso l’eccellenza. Sono rimasto sinceramente impressionato da questa bevuta, un vino di grande impatto olfattivo, grasso e voluttuoso al naso come in bocca. Mai bevuto prima. Il colore è splendente, giallo paglierino con note verdi che rincorrono una luminosità esemplare, il primo naso è possente, esplosivo: tartufo bianco sottile, elegante, penetrante. Poi viene fuori un varietale accattivante, note floreali di tiglio e di acacia, sfumature mielate e tostate. In bocca è secco, avvolgente con una trama acida invidiabile soverchiata sul finale da una deliziosa matrice minerale. Da bere per puro piacere, da rimanerci col naso attaccato dopo aver ingurgitato ostriche a palate.

Greco di Tufo Giallo d’Arles 2007, la pittura come la musica rifugio intimo dell’uomo Moio, chi visita la sua cantina rimarrà folgorato (quasi sconcertato) dalla maniacale ricerca dell’ordine e della pulizia, così come chi entra in casa sua rimane affascinato dai tanti quadri che riprendono soggetti e paesaggi impressionisti, tutte opere personali, alcune delle quali devo dire, davvero belle. Il giallo d’Arles era il colore preferito da Van Gogh, quello che caratterizza per esempio la “Vigne Rouge”, giallo tendente quasi all’ocra, lo stesso colore che si può ammirare nel Greco di Tufo 2007 di Quintodecimo; timbro cromatico davvero importante per quello che è però il vino, in questo momento, meno impulsivo della batteria bianchista assaggiata. Primo naso sottile di frutta gialla matura, nitidi sentori di albicocca e cedro candito, poi mandorla. In bocca è secco, caldo, di buon corpo, frutto in perfetta armonia ma poco profondo, acidità comunque ben legata, gode di una beva di buona freschezza e sapidità. Un bianco importante da abbinare a piatti di pesce grassi, penso per esempio ad una trippa di baccalà ma anche a formaggi vaccini mediamente stagionati. 

Irpinia Aglianico Terra d’Eclano 2007, piccolo Taurasi cresce. Appena due dati tecnici per meglio inquadrare dove e come nasce questo piccolo gioiello irpino. Nasce da sole uve aglianico di Mirabella Eclano, vigneto di circa 4 ettari in corpo unico allevato con cordone speronato con un impianto di 5000 ceppi per ettaro piantati con esposizione sud/est, sud/ovest, nord/ovest tanto per non farsi mancare nessuna delle possibili influenze micro-climatiche, ad un’altitudine di circa 450 metri sul livello del mare ed una resa per ceppo di circa 1kg. Dopo la vinificazione il vino passa almeno 18 mesi tra barriques nuove e di primo passaggio ed almeno 6 mesi in bottiglia. Il duemilasette è un vino entusiasmante! Il colore è rosso rubino vivace, cristallino e poco trasparente, consistente nel bicchiere. Il primo naso è sinceramente ricchissimo di frutto e spezie, intenso, complesso, fine, elegante, debordante di sensazioni fragranti ed invitanti. Il bouquet vira continuamente dal floreale al fruttato, allo speziato, netti i riconoscimenti di viola e confettura di prugna, di pepe e carruba. L’ampio spettro olfattivo rimane intenso e complesso per tutta la beva, armonicamente fuso ad un gusto asciutto, tendenzialmente morbido, di buona compattezza e finezza superlativa. Mai bevuta di aglianico fu così equilibrata ed armonica, carattere da vendere ma avvincente e godibile dal primo all’ultimo sorso, con tannini che appaiono dissolti in un frutto sempre al centro dell’attenzione, le durezze sono come ammantate dalla setosità glicerica del corpo del vino.

Il Terra d’Eclano è il primo di quelli che saranno i tre grandi cru di aglianico di Quintodecimo, già affiancato quest’anno dal Taurasi¤ e presto dal Grande Cerzito che vedrà però la luce solo tra qualche tempo, non appena la vigna avrà maturato il giusto spessore che Luigi Moio intende poi trasferire in sintesi a tutti i suoi vini, quello di essere ognuno nella propria dimensione, dalla falanghina all’aglianico, una “sfida”, quella di cui ha bisogno ogni uomo per guardare sempre avanti nella propria vita, spesso passata a raccoglierle, qualche volta a vincerne alcune, meno a lanciarne.

Pozzuoli, a casa di mia suocera

6 dicembre 2009

Girovagando su internet ho scovato un interessante “manuale della buona suocera”; un almanacco a tratti esilarante, soprattutto per chi come me di certi problemi non ne ha mai avuti. Piuttosto, pescando poi tra i vecchi appunti di gola non ho resistito alla tentazione di riproporre suqueste pagine una vecchia, assai anomala, recensione: a casa di mia suocera. Non è, evidentemente, un ristorante, seppur potrebbe tranquillamente esserlo vista la fantasia che si innesca quando si decide il nome di un nuovo locale.
 
Pozzuoli, 10 Maggio 2008. Mangiare alla tavola di Partorina, questo il nome della diletta suocera è sempre un gran piacere, spesso sono ospite la domenica quando va in scena tutta l’opera tradizional-popolare della cucina flegrea-napoletana tramandata di madre in figlia da diverse generazioni. La casa è sempre affollata, figli e figlie di dimora ancora stabile e figli, figlie, generi e nuore prole dipendenti con un solo indirizzo sul loro navigatore satellitare settimanale: via Cicerone 29.

L’ambiente è semplice ma ben curato, i colori sono chiari e sovrapposti, mia suocera poi ama il verde fresco delle piante rampicanti che circondano il soffitto della sala da pranzo. Qui la tavola in certi giorni fatica ad essere accomodante per tutti ma regge sempre bene l’arrangiamento del momento, il servizio è semplice ma magnanimo. L’appetizer di benvenuto per taluni sono finocchi freschi all’insalata, per noi altri, di palato meno fine, crostini con zucchine arrosto sott’olio, con i quali decidiamo di “avvinare” con un Fiano di Avellino 2007 Colli di Lapio di Clelia Romano. La tradizione di casa vuole che s’inizi sempre con il primo, oggi sono Penne a rigatoni con ragu’ di tracchiolelle e polpettone, quest’ ultimo fungerà poi da primo secondo per i più piccoli e capricciosi degli avventori; primo contorno consigliato: involtini di melanzane fritte con provola affumicata.

Nel frattempo nei calici abbiamo già versato un rosso austero. Scegliamo di verificare le qualità della nuova sottozona Campi Taurasini del fido Salvatore Molettieri: un aglianico, il Cinque Querce 2005, profumato, intenso e di nerbo; opportuno però riassaggiarlo tra qualche mese per verificare le buone impressioni.Il secondo proposto è coniglio alla ciglianese, con la salsa di pomodorini tirata proprio come piace a me e, a làtere, friarielli verdi fritti in olio e peperoncino, chi opìna può sempre ripiegare su di una parmigiana di melanzane in versione “egg-free” (senz’uovo!) e carciofini impanati: ditemi voi se questo non è un gran piacere!! Chiudiamo con una Barbera d’Asti Chersì, azienda Ca’Bianca di Alice Belcolle, Piemonte, un rosso che amo particolarmente e che continua a stupirmi anno dopo anno sempre di più. Il predessert è un freschissimo sorbetto al limone e menta piperita preparato da Lilly, chiudiamo come sempre di domenica con piccoli pasticcini bignè e codine d’aragosta con panna e cioccolato. Io qui c’ho il contratto per due anni, naturalmente rinnovabili!