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17 settembre 2014
Da tempo ne parlavo con Andrea, desideravo che i nostri ragazzi de L’Olivo e del Riccio potessero fare un giro in cantina con lui per capire meglio di cosa parliamo quando raccontiamo di viticoltura¤ a Capri.

Lunedì 22 settembre, nel primo pomeriggio saremo lì da lui per fare un giro in vigna, ascoltare la sua storia e bere un bicchiere di Capri bianco nella sua minuscola ma deliziosa cantina ai piedi della Scala Fenicia¤.
Azienda Agricola Scala Fenicia
Via Fenicia 15, 80073 Capri
081 838 9403
info@scalafenicia.com
scalafenicia.com
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Tag:Amici di Bevute, capri, capri palace, il riccio, l'olivo, scala fenicia, visite in cantina
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17 settembre 2014
C’è di là su Doctor Wine¤ di Daniele Cernilli una bella intervista di Francesco Annibali a Luigi Moio¤. Una lunga chiacchierata che per comodità è stata divisa in due parti, #1 e #2.

Ci sono alcuni passaggi davvero memorabili, uno meglio dell’altro, osservazioni, spunti che da soli basterebbero a scriverci sopra un libro. Buona lettura…
Doctor Wine
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Tag:daniele cernilli, doctor wine, francesco annibali, luigi moio, quintodecimo
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16 settembre 2014
Pur non convincendomi mai del tutto devo ammettere che la Ripassa di Zenato rimane un vino estremamente funzionale in certe realtà, una tipologia che ha dato e continua a dare a molti la possibilità di ammortizzare la tranvata della crisi dei consumi.

Etichetta simbolo che ha spinto molti ad avvicinarsi alla Valpolicella con un piglio diverso, da almeno vent’anni buona garanzia per quei ristoratori in cerca di bottiglie che si vendono perlopiù da sole e con una battuta di cassa, anche al calice, sempre molto conveniente. Un vero successo per i Zenato che talvolta ha rischiato persino di offuscare il loro Amarone¤ ‘base’. Non così invece per quanto riguarda le Riserve. Questo qui ad esempio è un vero campione, ma di quelli capaci di farti veramente saltare dalla sedia.
Uve corvina, rondinella e l’immancabile sangiovese selezionate dalle vigne più vecchie intorno a Sant’Ambrogio di Valpolicella. La Riserva Sergio Zenato 2006 nasce dalla solita grande attenzione in vigna ed un lungo appassimento in fruttaio, poi ancora almeno 4 anni in botti di Slavonia.
Il colore ha una bellissima foggia violacea, porpora sull’unghia del vino nel bicchiere, vivace e intensa. Il naso è intriso di frutta polposa, spezie, balsami. Sa di arancia sanguinella, ciliegia, visciola, confettura di gelsi, con rimandi a caffè, tabacco, crema al cioccolato. Il sorso è spigliato, che sia caldo e avvolgente te lo aspetti, ci mancherebbe, ma qui c’è molto di più di quanto conosciuto dell’Amarone: è fitto ma senza sovrastrutture, ha grande spessore ma una sorprendente tensione gustativa. Una freschezza incredibile, tra i migliori assaggi dell’anno!
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Tag:amarone classico, corvina, riserva sergio zenato, rondinella, sangiovese, valpolicella
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10 settembre 2014
I ricordi vanno ai primi anni del duemila, di nero d’Avola ne erano già piene le enoteche ed i ristoranti, sulle riviste specializzate otto pagine di pubblicità su dieci erano appannaggio di aziende siciliane. Un fenomeno in piena espansione, un’inarrestabile successo del vino italiano.

Così gli anni a seguire. L’Italia e il mondo avevano riscoperto il piacere di bere vino tutti i giorni, fioccavano i Wine Bar, non ve n’era uno che non ne offrisse almeno un paio al calice. Mettici che il nero d’Avola a dispetto dei ben più noti vini italiani presenti anche nei supermercati riusciva ad offrire una così vasta fascia di prezzi che il gradimento popolare era assoluto. C’era di che godere già a tremila lire. Sotto le sei/settemila lire ti portavi a casa un successo assicurato, con dieci/dodicimila lire ti prendevi, anche al supermercato, il top di gamma. A cena con gli amici non sbagliavi un colpo, quando toccava a te portare il vino con una bottiglia di queste o Cusumano, Morgante, Donnafugata – giusto per citarne qualcun’altra – facevi cappotto garantito!
E con l’euro, parlo dei primi due-tre anni, il cambio rimaneva comunque favorevole. Poi però alcune cose sono cambiate repentinamente: il peso della crisi, i consumi del vino in Italia sono continuati a scendere, la gente ha cominciato a guardare al vino con un approccio un po’ più snob, l’avvento del web ed il vino che diviene faccenda seria (faccino preoccupato), per espertoni insomma; nel frattempo un po’ tutti sono diventati sommelier in cerca di durezze, acidità, lenta maturazione e ‘solo vini bioqualchecosa’ così il nero d’Avola ha finito per perdere appeal proprio là in quella fascia di consumatori ‘trendy¤’ che l’aveva lanciato nell’olimpo del vino italiano per almeno una decina di anni.
Certo taluni produttori c’hanno messo del loro proponendo vini per tutte le stagioni, alcune promo in certi momenti dell’anno erano una martellata sui denti più che un aiutino commerciale. Tant’è, un po’ tentando la fortuna, un poco l’azzardo, soprattutto all’estero, alcuni hanno subìto il tracollo finendo per scomparire letteralmente dalle cronache enoiche rimanendo da soli col cerino in mano e con la cantina piena.
Ma effettivamente cosa si sa di questo splendido varietale siciliano? Si siciliano, sfatiamo anzitutto il luogo comune che si tratti di un vitigno di origine calabrese come erroneamente riportato da molti. Si sa che già nel 1500 vi è notizia di un vino detto calavrisi, ‘coltivato nell’agro di Catania, vino fatto con uve dall’acino rotondo’. Ma calavrisi, poi italianizzato in calabrese non dice correttamente delle sue origini. Tracce sull’evoluzione linguistica locale conducono a che certe uve venute da Avola, che oggi sono conosciute come nero d’Avola appunto, si diceva fossero scese da Avola, cioè ‘calate da Avola’, quindi: Calau Avulisi, divenuto poi Calaurisi e nei passi successivi Calavrisi, Calabrisi, Calabrese. Quindi dal vitigno originario da Avola, diviene nei secoli calabrese, per semplice assonanza, tipica dell’evoluzione linguistica.

Il vitigno viene considerato particolarmente adatto all’invecchiamento, un riscontro potremmo averlo solo nei prossimi anni quando si cominceranno a stappare – con una certa continuità – bottiglie di 15/20 anni. Un po’ come si auguravano i Planeta nelle loro prime retro del Santa Cecilia, quando avvicinavano con un certo moto di orgoglio il nero d’Avola ai ben più noti nebbiolo e sangiovese (Barolo e Brunello, ndr). Eppure la sua tipicità che lo rende da sempre facilmente riconoscibile rimane la sua giovane freschezza, che non vuol dire ‘d’annata’, sia chiaro, ma riconducibile a vini dal colore rosso sempre molto pronunciato immediatamente riconoscibili, invitanti, suggestivi, che sanno di frutta rossa (prugna e mora), che hanno sì toni balsamici ma tannini morbidi, dolci si dice.
Poi certo c’è la prova del tempo, e andiamoci allora indietro negli anni. E cominciamo proprio con una delle più apprezzate etichette in giro, il Santa Cecilia dei Planeta¤, vino che nasce proprio nelle terre storicamente riconosciute tra le più vocate per il nero d’Avola in Sicilia, tra i comuni di Noto e Pachino nel siracusano. Qui nel 1998 la famiglia Planeta comprò la Tenuta Buonivini¤, 51 ettari tutti votati al nero d’Avola e il moscato bianco. Qui, per dire, nasce il Santa Cecilia ed il loro Moscato di Noto (dolce e passito).

Terreni bianchi, perlopiù calcarei, con frazioni di scheletro abbondante e di piccole dimensioni, una tessitura fine con frazioni argillose anch’esse di colore chiaro. Impianti fitti manco a dirlo, tanta selezione in vigna ed una cantina più che all’altezza.
La ’99 è stata la terza annata prodotta di questo vino. Diciamo subito che siamo di fronte ad una splendida bottiglia, il sughero è perfetto, nessun cedimento, il colore rubino è cangiante, appena più sfumato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è allettante e suggestivo, un baule di esperienze vissute: è preciso e minuzioso di frutta e aromi balsamici, di un floreale passito e spezie fini; sa di composta di prugna e ciliegia, mirto, cioccolato, polvere di caffè. Il sorso è caldo, avvolgente, polputo, ha ancora tanta roba per deliziare il palato; non sorprenda la bontà del sorso nonchè la piacevolissima bevibilità, un piacere atteso quindici anni come nulla (o quasi) fosse cambiato. Il nero d’Avola di Planeta è decisamente vivo!
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Tag:alessio planeta, francesca planeta, nero d'avola, noto, pachino, planeta, santa cecilia 1999, tenuta buonivini
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6 settembre 2014
A proposito di aglianico e Taurasi cominciano a venire fuori spunti sempre molto interessanti anche dalle piccole cantine sparse qua e là in Irpinia.

Grazie all’esperienza magistrale della famiglia Mastroberardino¤ sappiamo di poter contare su grandi bottiglie e siamo convinti, più o meno tutti definitivamente, del grande valore dell’aglianico e del Taurasi, vino che attraversa il tempo con lentezza senza cedere però un solo grammo di personalità ed autenticità. Anzi.
Una sicurezza talvolta vacillata dinanzi a bottiglie un poco fuorvianti, sono piene le cronache di Anteprime¤ dove gli assaggi spesso rivelavano puntualmente mani poco esperte se non addirittura un eccesso di sicurezza sfociato però in bottiglie banali senz’anima e futuro. Vi è tuttavia una schiera di produttori di riferimento ormai consolidata ed affidabile, per storia, tradizione, capacità, impronta: Colli di Lapio¤ ad esempio.
Il fiano di Avellino¤ di Clelia Romano ce l’abbiamo tutti sulla bocca, da almeno tre lustri tra i più autentici e fedeli rappresentanti di questo meraviglioso bianco ma soprattutto del terroir lapiano. Non tutti sanno però che queste terre, oggi gettonatissime per il fiano un tempo erano perlopiù votate all’aglianico che ricopriva buona parte della superficie vitata dell’area prima di venire lentamente soppiantato dal fiano, che aveva, con il greco di Tufo, più appeal e mercato soprattutto sul vicino mercato napoletano.
Lapio terra di Taurasi quindi. L’altitudine, il suolo argilloso, le escursioni termiche, elementi fondamentali che uniti alla tradizione familiare ed alla capacità di un grande enologo esperto come Angelo Pizzi hanno consegnato agli annali sempre buone bottiglie di rosso; certo vini austeri, da aspettare, caratterizzati da grande tensione gustativa più che piacevolezza del frutto, per questo forse un po’ fuori tema soprattutto con certe mode e tendenze contemporanee.
Il tempo però riequilibra tutto, rende onore alle scelte, premia la lungimiranza, esalta il manico; così anche in annate ‘minori’ consente di tirare fuori il meglio. Un Taurasi il 2002 di Colli di Lapio dove a predominare è la terra, le note balsamiche, la liquirizia, la menta. Il sorso è teso, carico di energia ma senza ammiccamenti, non una piega, elegante e severo. Il frutto è un po’ diluito ma rimane di grande eleganza, anima autentica, con la tipica chiusura sferzante amarognola dell’aglianico sul finale di bocca. Sospeso nel tempo, ce ne fossero di bottiglie così!
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Tag:aglianico, colli di lapio, romano clelia, taurasi, vigna andrea
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29 agosto 2014
Ci sono serate in cui basta la compagnia di un buon amico a sollevarti dalla grande fatica di una normale giornata di lavoro. Se poi questo amico reca con se una bottiglia di Dom Ruinart 1996 il cielo di Capri sopra la testa da luccicoso diviene incredibilmente brillante.

Viaggiava lentamente verso il ventennio questa bottiglia, piccolo capolavoro di chardonnay. Diciamo che non fa una piega nonostante i 18 anni sonanti. E che naso che ha: esuberante, preciso, invitante, sa di menta e anisette, poi fiori gialli, mandorla, con un accenno appena salmastro.
Il sorso è cremoso, forse meno sferzante di quanto ci si aspetti da una cuvée in larga parte selezionata da grand crus della Cote des Blancs ma pieno e calibrato, vivace, senza alcuna spiacevole nota ossidativa che ad una certa età pare sempre in agguato. Proprio una bella bevuta. E che bella persona che è Pino, che bella l’amicizia¤!’
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Tag:blanc des blancs, champagne ruinart, chardonnay, dom ruinart 1996, pino esposito
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25 agosto 2014
Pioggia, allagamenti, grandine, peronospora larvata, oidio, non bastasse tra una decina di giorni si comincerà col marciume acido e muffa grigia, c’è davvero ben poco da salvare di questa bizzarra annata 2014. Magari da qualche parte qualcuno molto fortunato ne tirerà fuori comunque qualcosa di buono, molto poco e appena appena buono.
Insomma, abbiamo alle porte la solita vendemmia del secolo.
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Tag:2014 da salvare, annata storica, la vendemmia del secolo, marciume, muffa grigia, oidio, peronospora
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20 agosto 2014
Stiamo parlando di una delle più importanti aziende americane, tra le prime a piantare vigne in Napa Valley sin dal 1885.

Un’azienda florida e già conosciutissima ad inizio secolo scorso che a causa del proibizionismo dovette chiudere i battenti e vedere sciupate le vigne di proprietà, poi reimpiantate a fine anni settanta dalla famiglia Nickel che ne detiene attualmente la proprietà.
I vini di Far Niente¤ non sono proprio così a portata di portafogli, il loro Cabernet Sauvignon¤ ad esempio ha un prezzo assai improbabile per il nostro mercato, stiamo parlando di circa 90 euro franco cantina – e per la verità nemmeno mi ha convinto così tanto -, mentre questo Chardonnay¤ pare avere già più chance di appassionare pur collocandosi in una fascia di prezzo comunque abbastanza alta per la media europea, qui siamo sui 40 euro sempre franco cantina.
Ad ogni modo il 2012 mi è parso davvero molto buono, senza alcun dubbio tra i più buoni chardonnay che abbia mai provato proveniente da quelle parti, tra i pochissimi con una spinta tale, un senso di compiuta eleganza e sostanza da rimandare a vini come quelli che nascono ad esempio in Francia.
La cremosità ed il boisè sono appena accennati, il primo naso ha un gran frutto che si arricchisce via via con note piacevolmente dolci. Buccia di mandarino, melone, ma anche ananas, sono chiarissimi, così come un profumato sentore di felce. Il sorso ha una gran progressione, conquista e convince sorso dopo sorso.
Penso alle migliaia di bottiglie sparse nel mondo che in qualche maniera tentano di riportare alla mente terre e vini di Borgogna; alla cieca, in questo caso, non sarebbe poi così da sciocchi avvicinarlo a un ben più quotato bianco di Puligny, per dirne una.
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Tag:california, chardonnay, far niente, napa valley, nickel & nickel, oakville, usa
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19 agosto 2014
Nando non ha certo bisogno della mia pubblicità, ormai la sua Osteria¤ è un riferimento per tanti appassionati nei Campi Flegrei, un luogo del gusto che in pochi mancano di conoscere.

Dell’Abraxas ne ho scritto con piacere diverse volte anche se, lavoro permettendo, da quelle parti ci si ferma con molto piacere molto più spesso di quanto sia necessario raccontare. Di corsa desidero però lasciare una nota per la splendida novità dell’anno, il forno a legna e il piccolo girarrosto messi su come divertissement per se e per i suoi ospiti, oltre che un plauso per il rinnovato ambiente esterno per metterli ancor più a loro agio.
La pizza nel ruoto, il pollo ruspante, le varie ciambotte al forno sono solo le prime novità di un menu già arricchito per la verità questa primavera ma che nel prossimo autunno conterà di stupire ancor più e conquistare con i profumi e i sapori di un tempo, sempre più merce rara non solo da queste parti.
Insomma, Nando ha le idee chiare e guarda lontano ma tiene i piedi ben piantati per terra, fortemente radicati alle origini; un passo alla volta – slow! come dice lui -, senza fermarsi un attimo come mai in questi ultimi 12 anni di attività, anche per questo il ruolo di Oste che si è cucito addosso gli sta proprio bene, un ruolo che in molti, da almeno vent’anni rimpiangono sempre di più…
Pozzuoli, Osteria Abraxas
Abraxas Osteria
Via Scalandrone, 15
Tel.: 0818549347
Chiuso il Martedì e la Domenica sera
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Tag:l'arcante, nando salemme, osteria abraxas, osterie d'italia, pozzuoli
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18 agosto 2014
Nelle ultime settimane ho avuto molto poco tempo da dedicare al blog, sono stato letteralmente sommerso – vivaddio! – dal lavoro qui in albergo: una stagione che ricorderemo straordinaria da ogni punto di vista la si voglia guardare!
Non mi sono sfuggiti tuttavia tutta una serie di accadimenti che soprattutto sui social hanno più o meno avuto largo respiro: uno a caso, ad esempio, la questione dei fiano di Avellino di Antoine Gaita e Luigi Sarno bocciati alle commissioni di assaggio per la docg. Sono state spese tante di quelle parole che davvero c’è ben poco da aggiungere alla discussione rimbalzata qua e là sul web anche se talvolta con toni sinceramente esagerati e al limite del peggior celolunghismo dei nostri tempi.
Tant’è, per dire: La Congregazione 2012 di Gaita rimane un gran bel fiano, certo meno sostenuto e complesso delle sue ultime fortunatissime uscite ma comunque buono buono. E lo dicono pure i clienti, a cui è bastato spiegare due cosettine semplici semplici senza scomodare sceneggiature occulte, loschi figuri, commissioni incapaci o, peggio, il vignaiolo sfigato per un turno. 60 bottiglie sono volate via in meno di due settimane, in gran parte sbicchierate. Magari nessuno di questi clienti ne scriverà mai un post, o manderà, indispettito, missive di protesta ufficiale per la mancata assegnazione della docg – se ne saranno accorti? Ma gliene frega? -, però il vino di Villa Diamante se lo ricorderanno lo stesso, e come se lo ricorderanno…
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Tag:antoine gaita, cantine del barone, commissione docg campania, fiano la congregazione, irpinia, luigi sarno, villa diamante
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22 luglio 2014
Etichetta pressoché sconosciuta in Italia ma che invito seriamente a ricercare e bere. Davvero buona questa bottiglia, sorprendente, fresca, goduriosa, un Chianti come non ne avrete mai assaggiati prima.

Lasciate altrove strani pensieri su uvaggi, assemblaggi, sovrastrutture, questo qui è un vino grandioso nella sua semplicità più assoluta. Un sangiovese in purezza da filari a conduzione biologica in provincia di Arezzo, 180 ettari di ulivi secolari e vigne di 40 anni piantati tra la Val di Chiana e quella dell’Arno.
Il Chianti Gratena mi rimette in pace con una delle denominazioni più bistrattate che abbiamo in Italia, dietro la quale si nascondono centinaia e centinaia di magre delusioni e vini il più delle volte banalissimi ma, per fortuna, a quanto pare, ancora capace di sorprendere e conquistare.
Buonissimo il 2013, il colore porpora è di grande vivacità, il naso è scalpitante, polposo e pieno di verve, non ne sentivo di così interessanti in un Chianti da anni, di sovente sempre troppo acerbi o troppo cotti, o peggio inutilmente boisé e stanchi.
Qui c’è la viola – ve la ricordate la viola nel sangiovese? -, tanta frutta, arancia sanguinella, melograno, mora, ribes. Il sorso è pieno di soddisfazione, secco e ben bilanciato, fresco e sapido, snello e avvolgente, piacevolissimo e risoluto. La bottiglia va via che manco te ne accorgi. Mi mancavi Chianti.
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Tag:arezzo, chianti, chianti gratena, franco bernabei, gratena, sangiovese, siro
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21 luglio 2014
Siamo ad Anacapri, qui a due passi dal Capri Palace, lungo la dorsale del Monte Solaro che vede scorrere la seggiovia su e giù per l’imponete monte che domina l’Isola Azzurra.

Una piccola vigna da dove si gode un panorama mozzafiato, con la baia di Sorrento ad un palmo dal naso e più in là il Vesuvio, Napoli, le altre isole del golfo; una cartolina carica di suggestione, filari dove c’è dentro un po’ di tutto: falangina, greco, biancolella, piedirosso, aglianico. Una piccola vigna che lentamente rifiorisce e ritorna al suo antico splendore grazie alla volontà della giovane Alessandra Gallo. Il suo bianco è un uvaggio di falanghina e greco, ha un naso tipicamente minerale, dal timbro salmastro con rimandi alla frutta matura a polpa gialla, sa di pesca ed albicocca. Il sorso è sgraziato ma di buon equilibrio tattile, di facile beva, gradevole e succoso.
Certo ci sono ancora tante cose da mettere a posto, l’idea però è buona, mi piace e spero possa continuare sulla strada della qualità, puntare magari alla doc¤ ma prima è lecito fare due conti con la storia e con la realtà. Fare vino a Capri non è cosa da poco, qui ad Anacapri poi ancor di più alla luce di costi di gestione della vigna elevatissimi e della evidente poca disponibilità di uva e bottiglie che rendono assolutamente impraticabile una qualsiasi strategia ‘industriale’. Piccolo ed artigianale quindi, per forza, il valore di queste bottiglie rimane impagabile, ecco perché Caposcuro, come Joaquin¤ dall’Isola prima e Scala Fenicia¤ poi vanno supportati e spronati.

Se ci penso appena 5 anni fa sull’isola c’era il vuoto, gran parte delle vigne erano praticamente abbandonate a loro stesse e l’intero sistema praticamente inghiottito e in balìa dell’improvvisazione e della speculazione di gente poco avveduta ed affamata solo di facili affari.
Dopo 5 anni¤, in attesa del sospirato rilancio della storica cantina Tiberio¤ di Anacapri – con più di cento anni di storia alle spalle, ndr -, salutiamo il vino di Alessandra Gallo del Vigneto Solaria con viva soddisfazione, è la terza azienda in pochi anni che si affaccia al mondo del vino per salvaguardare e rilanciare la viticoltura¤ caprese. Certo, con le soddisfazioni non si mangia, però che bello vedere tanto entusiasmo!
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Credits: Vigneto Solaria slideshow¤, foto V. Vanacore
Tag:alessandra gallo, anacapri, caposcuro, vigneto solaria, vino di capri
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20 luglio 2014
Ricevere complimenti fa sempre piacere, ancor più quando qualificano l’intera categoria professionale italiana.
Spesso i nostri ospiti arrivano qui a Capri dopo un giro più o meno lungo nei più importanti ristoranti italiani ed europei. La Costiera e Capri sono quasi sempre le ultime tappe prima di rientrare a casa. Così durante la cena non manca mai di scambiare due chiacchiere su dove sono stati prima, come sono stati trattati, cosa abbiano mangiato di particolare, i vini, lo chef, il sommelier.
Viene fuori un dato sopra tutti che riempie di soddisfazioni i tanti che si fanno un mazzo così da nord a sud, da Alba a Ragusa passando per Milano, Roma, Napoli: i sommelier italiani sono riconosciuti tra i più bravi del mondo!
‘…ne sanno una più del diavolo, e molto spesso ne sanno molto più dei loro colleghi di New York o Londra dove spesso hanno paraocchi o se ne stanno sulle loro, freddi e altezzosi. Per non parlare di quanto gli italiani ne sanno dei vini del mondo rispetto a quanto questi conoscono dei meravigliosi vini italiani; non si tratta solo di poca considerazione dei vini prodotti nel vostro paese, si sa che nel mondo il vino è anzitutto quello francese, ma è una questione soprattutto di cultura più che di bravura. In Italia, con un bravo sommelier, riesci a parlarci di quasi tutto, altrove non sanno nemmeno dove sta Constantia’.
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Tag:angelo di costanzo, chef, cucina italiana, Italia, italians do it better, professione sommelier, sommelier, sommelier of the year
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17 luglio 2014
C’è grande entusiasmo intorno ai vini bianchi campani ultimamente, un rinnovato e straordinario entusiasmo, falanghina, fiano e greco (ma anche pallagrello per dire) non sono mai stati così cercati ed apprezzati come negli ultimi tempi.

Vi è tuttavia ancora tanta confusione che spinge alcuni produttori a seguire pedissequamente modelli sballati e in certi casi superati dal tempo. Alcuni vini, certi Greco di Tufo ad esempio, risultano sovraestratti, pesanti, addirittura ostici da berli a tavola se non ci costruisci ad hoc un piatto. Dicono che sono cru, talvolta una vigna ‘unica’, esempi di cosa si potrebbe fare con il varietale lavorandolo in un certo modo, spingendo in là l’asticella: ecco, non lo fate per favore.
Non vorrei farla pesante ma temo una deriva stilistica che non ci porterà assolutamente a nulla. Tufo non è Loreto Aprutino, o Oslavia, e per quanto nobile risulti l’accostamento non mi piace; mi sono spinto con pazienza ad assaggiare una moltitudine di vini fatti più o meno seguendo lo stesso nobile intento, con le stesse tecniche con cui si fanno certi trebbiano in Abruzzo e ribolla nel Collio: l’uva migliore, la terra bla bla bla, la bravura del vignaiolo e la sapienza dell’enologo sopra tutto: i vini però appaiono sempre più uguali a loro stessi, dal sorso fluido, appesantito, con niente di varietale se non il corpo e un liquido opaco nudo e crudo. Interessante forse, ma figlio di cosa?
Attenzione per favore, perché quando avrete strapazzato l’ultimo Greco di Tufo per stare appresso alle menate di quattro scribacchini sarà troppo tardi per tornare indietro…
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Tag:greco di tufo, ribolla gialla
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10 luglio 2014
Siamo portati a ricordare il frate Dom Perignon come l’inventore dello Champagne. Un po’ come ai Biondi Santi viene riconosciuto il merito di aver creduto nel successo del Brunello di Montalcino ed alla famiglia Matroberardino, tutta, la conservazione ed il rilancio della viticultura campana in Italia e nel mondo.

A Peppe Mancini, fondatore di Terre del Principe, va dato atto della scoperta e la valorizzazione di vitigni pressoché sconosciuti fino agli anni ’90, il Pallagrello¤ bianco e nero¤ e il Casavecchia. Così ha dato il via alla rinascita di un intero territorio sino ad allora praticamente sconosciuto agli appassionati del vino. Un slancio che in pochi anni ha visto numerose aziende seguire le orme dell’azienda di Squille.
Ecco, ogni tanto non guasterebbe fermarsi un attimo, alzare la testa, guardare lontano, sussurrare un grazie.
Oggi nella mappa del vino campano c’è dell’altro, diversamente buono ed emozionante che va celebrato, magari sottovoce, in maniera semplice come piace fare da sempre a Peppe e Manuela a cui dedico questo mio piccolo pensiero dopo aver bevuto ieri l’altro un loro meraviglioso Centomoggia¤ 2006, assaggio che mi ha subito riportato alla mente una piacevole serata¤ dell’autunno 2008 passata assieme.
Grazie per aver consegnato agli annali la vostra bella storia d’amore e a noi i meravigliosi vini di Terre del Principe¤.
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Tag:casavecchia, castel campagnano, manuela piancastelli, pallagrello bianco, pallagrello nero, peppe mancini, terre del principe, vestini campagnano
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6 luglio 2014
Continuo a pensare che le versioni ‘Dosaggio Zero’ rappresentino un approccio davvero interessante per chi volesse andare un po’ più in là nella scoperta dei reali valori in campo oggi in Franciacorta.

In giro di Arcari+Danesi da Gussago se ne parla già da un po’ di tempo: l’idea, il progetto, i vini sono un insieme che unisce, divide, conquista, fa discutere. Per svariate ragioni. La mia impressione dopo questo primo assaggio è che abbia colto nel segno: apre un confronto, lascia aperto un uscio dal quale affacciarsi curiosi per sbirciare cosa accade in Franciacorta al di là del pregevole lavoro delle più importanti aziende che già conosciamo.
Non sono moltissime le bottiglie in giro ma vi assicuro che sono di assoluto valore, un numero sufficiente per lasciare una traccia ben visibile agli appassionati più attenti ed esigenti.
Fanno un Satén e questo qui, un Dosaggio Zero 100% chardonnay dalle bollicine fini, con un naso tenue ma integro e caratteristico: sa di agrumi, fiori gialli, è minerale, lievemente mellifluo, con sentori balsamici. Il sorso è di gran lunga tra i più interessanti in circolazione, è gustoso, polputo, sapido, lunghissimo e fresco. Insomma, parecchio convincente.
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Tag:arcari+danesi, chardonnay, cuvée, dosaggio zero, franciacorta, giovanni arcari
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1 luglio 2014
Non v’era dubbio che fosse un grande rosso il Grande Cerzito 2009¤, un vino di straordinaria profondità, al suo debutto sul mercato dopo dieci lunghi anni di maniacale selezione e ricerca in vigna e in cantina (leggi qui¤). E’ il Taurasi Riserva di Quintodecimo¤ premiato al World Wine Awards 2014 della rivista Decanter.

Chi segue queste pagine sa bene quanta passione ci lega all’azienda¤ e ai vini di Laura e Luigi¤, diciamo che da sempre li seguo con particolare entusiasmo e grandi aspettative. Del resto come meritano tutti i grandi protagonisti del vino campano ed italiano che lavorano con serietà e passione.
Tra l’altro il 2014 per la splendida azienda di Mirabella Eclano è un anno molto particolare: la prossima vendemmia infatti sarà la decima¤ ‘ufficiale’. A Laura e a Luigi i miei e i nostri più sinceri complimenti, convinti, ne siamo certi, che il bello deve ancora venire.
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30 giugno 2014
Un’assemblea importante, quella a cui, ieri pomeriggio, hanno partecipato i soci del Consorzio del Brunello di Montalcino.

In “ballo”, infatti, alcune modifiche sui disciplinari, da quello del Brunello¤ a quello del Rosso di Montalcino¤ e del Moscadello¤ fino ad arrivare al Sant’Antimo¤ e l’approvazione delle rese di uva relativamente alla vendemmia 2014.
Molte delle modifiche apportate su tutti i disciplinari di competenza del Consorzio del Brunello¤ sono strettamente di carattere formale ma ci sono anche dei cambiamenti che vanno a toccare molti aspetti che riguardano i vini di Montalcino.
Si parla di densità di impianto: per quelli già realizzati valgono le norme vigenti al momento dell’impianto, per quelli nuovi o per eventuali reimpianti, a partire dal 1 gennaio 2015, la densità minima, sia per viti iscritte a Brunello, sia per quelle a Rosso e Sant’Antimo si passa da una densità minima di 3.000 ad una di 4.000 piante per ettaro. Per il Moscadello, invece, la densità resta invariata a 3.000 unità.
Se per tutti e quattro i Disciplinari resta assolutamente vietata ogni pratica di forzatura, da oggi sarà invece consentita l’irrigazione di soccorso, fino a questo momento non prevista dai Disciplinari. Sono specificate, poi, norme dettagliate sulla produzione per i vigneti nei primi anni dall’impianto, ed anche per i Cru, ovvero le rivendicazioni per porzioni di produzione denominate in etichetta come “Vigna” o “Vigneto”.
Compaiono, poi, nei “nuovi” disciplinari, nuove norme sui tagli che è possibile effettuare in cantina. Sia per il Brunello che per il Rosso sono ammessi tra tutte le annate presenti in cantina per un quantitativo massimo che consenta di ottenere un prodotto finale che, dopo il taglio, contenga un minimo dell’85% dell’annata rivendicata.
Per il Rosso di Montalcino si parla anche di “arricchimento”. Nel caso in cui, infatti, particolari condizioni lo richiedessero, è consentito effettuarlo esclusivamente con mosto concentrato prodotto da uve provenienti dai vigneti destinati alla produzione di Brunello o Rosso di Montalcino, o attraverso Mosto Concentrato Rettificato.
Aggiunta importante – anche a seguito degli ultimi eventi che hanno visto il Consorzio truffato a seguito, lo scorso maggio, del sequestro condotto dai Carabinieri del reparto operativo di Siena, di 30.000 bottiglie di vino etichettato soprattutto come Brunello di Montalcino – è quella che riguarda la commercializzazione in zona di produzione di partite di uva o di vino nuovo ancora in fermentazione o in fase di affinamento destinato a divenire Brunello o Rosso di Montalcino. Sarà obbligatorio, infatti, darne comunicazione, almeno due giorni lavorativi prima del trasferimento, all’Organismo di controllo incaricato.
Piccole aggiunte, poi, riguardano sia il Disciplinare del Sant’Antimo – che da oggi ammette anche il Rosato e lo Spumante, con le relative normative e due vitigni in più (Pugnitello e Canaiolo) – sia quello del Moscadello di Montalcino, dove, al contrario di ciò che avveniva in precedenza, sono dettagliatamente specificati tutti i parametri, dalla vigna fino all’imbottigliamento che comprende anche le diciture riportate in etichetta.
Approvate, poi, dall’assemblea dei soci, anche le rese per il 2014. I produttori hanno ratificato che la quantità di uva rivendicabile per il primo ettaro di vigneto iscritto a Brunello di Montalcino potrà essere di un massimo di 75 quintali superati i quali, la restante quantità (fino al massimo producibile compreso il supero del 20% rispetto ala massimale di 80 quintali per ettaro di cui al Disciplinare corrispondente a 96 quintali per ettaro), potrà essere rivendicata come Igt Toscana. A partire, poi dal secondo ettaro di vigneto iscritto a Brunello potrà essere di un massimo di 65 quintali per ettaro di Brunello, più 10 quintali di Rosso di Montalcino e la restante quantità (fino al massimo producibile compreso il supero del 20% rispetto ala massimale di 80 quintali per ettaro di cui al Disciplinare corrispondente a 96 quintali per ettaro), potrà essere rivendicata come Igt Toscana.
Infine, la quantità di uva rivendicabile per ciascun ettaro di vigneto iscritto a Rosso di Montalcino potrà essere di un massimo di 80 quintali superati i quali, la restante quantità (fino al massimo producibile compreso il supero del 20% rispetto la massimale di 90 quintali per ettaro di cui al Disciplinare corrispondente a 108 quintali per ettaro), potrà essere rivendicata come Igt Toscana. Per definire il primo ettaro di vigneto iscritto a Brunello di Montalcino di ciascuna ditta, deve essere fatto riferimento alla situazione aziendale così come rilevabile alla data del 31 maggio 2014.
Fonte: Consorzio del Vino Brunello di Montalcino
Tag:brunello di montalcino, consorzio vino brunello, modifiche al disciplinare, siena, toscana
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16 giugno 2014
Il 16 giugno di 6 anni fa, era il 2008¤, in una fresca serata a Cerreto Sannita mi veniva consegnato il titolo di Primo Sommelier della Campania¤. Fu per me una enorme soddisfazione.

Più del bellissimo ricordo di quel giorno, ripensando al pianto di quella notte in macchina mentre rientravamo a Napoli, mi viene però in mente il dolce e l’amaro del nostro mestiere: le soddisfazioni, piccole o grandi che siano arrivano, è vero, ma quanta fatica in più senza riferimenti, qualcuno che ti guida, crede in te, ti sostiene: si rischia continuamente di perdere la bussola.
La formazione dei professionisti di domani viene ancora considerata una questione assai marginale, qui al sud in particolare; associazioni ed enti diciamo così ‘promozionali’ non mancano, spesso però si sovrappongono talvolta in chiaro contrasto, sono molto attente a fare proseliti ma il più delle volte solo per istituire corsi e bevute più o meno memorabili dietro il pagamento di laute quote di partecipazione.
Il rischio ormai conclamato è di finire a produrre pezzi di carta fini a se stessi buoni giusto per riempire le pareti di casa e qualche curricula. Insomma, titolifici¤ lontani anni luce dal mondo del lavoro.
La distanza si allunga sempre più. Non entro nel merito della questione, non ho nessuna intenzione di alimentare polemiche sterili, il paese sta attraversando un momento tremendo, in molti devono sbarcare il lunario e lo capisco pure, il dato di fatto però è chiaro: a pochi sta a cuore la faccenda, pochi investono seriamente sulla formazione, soprattutto sembra mancare del tutto il contatto con la realtà lavorativa. E chi può, quei pochi, pochissimi talenti ormai rimasti in giro si vedono costretti a scappare via altrove, talvolta persino dall’Italia. Ahinoi!
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Tag:16 giugno 2008, angelo di costanzo, l'arcante, primo sommelier campania 2008, professione sommelier
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16 giugno 2014
‘C’è oggi grande attenzione alle esigenze del mercato. Va lo spumante? Tutti lo propongono. Rincorrere il momento è un segno di debolezza, a mio avviso. Il consumatore è oggi subissato di offerte, confuso, senza più riferimenti. Servono certezze, pochi riferimenti, precisi. Servono messaggi chiari, trasparenti, veri: tre rossi, tre bianchi! La novità? La nuova annata…’ (Luigi Moio).
Qui¤ su lucianopignataro.it una bella intervista a Luigi Moio. Articolo pubblicato sul n.5 di giugno 2014 di ‘Imbottigliamento’.
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13 giugno 2014
Ci sono bottiglie che ti entrano prepotentemente nella memoria e che non ti levi più dalla testa, il Brunate-Le Coste di Beppe Rinaldi ad esempio.

L’inverno di un paio d’anni anni fa, a La Ciau del Tornavento¤ a Treiso, durante una cena di lavoro con Rossana Gaja mentre in tavola girava il ben di Dio una bottiglia tra le tante ci colpì tutti in maniera disarmante: era il Barolo Brunate-Le Coste 2006 di Beppe Rinaldi.
Fu poi una faticaccia recuperare qualche bottiglia in giro, da qualche tempo invece grazie ad un amico comune, finalmente sono riuscito a mettere in carta almeno il 2009. Mi spiegò Marta che la scelta di fare Barolo unendo le uve dei due cru non è una novità, qualcuno la chiama ‘prudenza contadina’ ed in effetti a sentirne il bicchiere ci sta tutto. Un vino di rara eleganza, chiaramente ai suoi primissimi passi ma già contraddistinto da un certo equilibrio e da una incredibile personalità.
Bottiglie che se le dimentichi in cantina diventano immortali, se le apri, indimenticabili. Comunque vada sarà un successo!
Per approfondire l’argomento vi suggerisco di leggere questo splendido report pubblicato qualche tempo fa su nonsolodivino.com¤, il blog degli amici di rete Stefano e Giorgio.
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10 giugno 2014
Irpinia terra di grandi vini. Da queste parti le novità sono sempre dietro l’angolo, un fermento positivo che continua ad arricchire una proposta bianchista sempre più interessante e trasversale.

Oi nì 2011 è un bianco dalla struttura importante, un fiano di Lapio di grande estrazione, direi sorprendente, dal naso molto avvenente, tanto verticale quanto ampio. Il frutto è bello dolce e dal contorno piacevolmente balsamico. Più sta nel bicchiere più convince.
Il sorso è pieno, rotondo, appagante. Certo 14 gradi e mezzo non sono pochi; non che non sia agile, l’acidità è puntuta ed il palato attento la coglie a pieno, ne sorregge anche bene la beva, ciononostante l’insidia del ‘kappaò’ tra il secondo e terzo bicchiere rimane in agguato e rischia di far passare in secondo piano tutto il buono che c’è invece in questa bottiglia.
Siamo comunque di fronte ad un’altro giovane campione¤ da allevare con pazienza e seguire con attenzione nei prossimi anni, sin dalle prossime uscite. E’ una vendemmia tardiva, non so quanto volutamente ma è fuori dalla docg, esce infatti come Campania Fiano igt.
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Tag:campania fiano, fiano di avellino, lapio, oi nì, tenuta scuotto
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9 giugno 2014
Quando apri una vecchia bottiglia di Pergole Torte sei certo di cosa ci troverai dentro, cosa ti aspetta, forse per questo quando la bottiglia non è fortunata, capita eh, la delusione che monta è doppia.

Mi è successo tempo fa e ne ho scritto¤. Come va scritto e sottolineato quanto questo ’95 merita di stare tra i migliori sangiovese mai bevuti prima: perfetta incarnazione chiantigiana. I suoi vent’anni consegnano al bicchiere una esperienza più rara che unica.
Anni complicati i ’90, un periodo dove la tentazione ‘internazionale’ ha preso in castagna un po’ tutti da quelle parti, non solo a Radda, bruciando fior fior di vini anche solo per trenta denari. A difesa dei bastioni in tanti, qui a Montevertine c’era la storia, gente che l’ha scritta e l’ha difesa strenuamente: Sergio Manetti, Giulio Gambelli, Bruno Bini, per dire. Risultato? Un sangiovese fuori dal tempo, mai urlato, autentico, da aspettare e rispettare. Soprattutto rispettare.
Un Pergole Torte ’95 dalla forte connotazione territoriale, con un filo di frutta ancora in evidenza, erbaceo e speziato, terroso; dal nerbo posato, giustamente acido, con un tannino ancora pulsante ma dal sorso sottile e affilato, che sul finale regala un ritorno piacevolmente secco. Un grande vino!
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Tag:giulio gambelli, martino manetti, montevertine, pergole torte, radda in chianti, sergio manetti
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6 giugno 2014
Non tenete conto di questa recensione, Gerardo¤ è un caro amico e l’azienda è una di quelle ‘molto’ presenti su queste pagine data la mia assidua frequentazione con lui. 🙂

Ne scrivo solo per lasciarne traccia e ricordarcelo quando, tra qualche anno, cominceranno a ‘premiare’ finalmente coloro i quali si stanno facendo un mazzo tanto così per ridare slancio e dignità ad uno dei vini più interessanti in circolazione e ad uno dei territori vitivinicoli più suggestivi in Campania per storia, vocazione e fermento: i miei Campi Flegrei¤.
Una corsa contro il tempo e i tempi cominciata 20 anni fa anzitutto dalla famiglia Martusciello¤ e strada facendo seguita con sempre più entusiasmo tra gli altri¤ anche dalla famiglia Varchetta.
Questo vino l’ho visto nascere, ho visto Gerardo scegliersi i chicchi d’uva che arrivavano in cantina dalle vigne Colle Rotondella e Tenuta Camaldoli uno ad uno, l’ho visto rincorrere come un pazzo le lancette mai a posto, certe sere piegarsi distrutto per rompere a mano ‘il cappello’ nel tino di ciliegio, quell’unico tino tronco-conico dove c’è rimasto per ben 65 giorni prima di finire, non filtrato, in bottiglia. Si e no 1000 bottiglie, un gioco da ragazzi insomma, ma buono come l’olio sul pane.
L’ho visto nascere e ci credo, vedo nel lavoro dentro questa bottiglia tanta energia positiva e tanti spunti per il futuro. Un piedirosso finalmente libero di volare, come molti negli ultimi anni lontano dal cono d’ombra dell’aglianico ma nuovo, dal taglio decisamente moderno, che non ha bisogno di ciccia, un vino vivo, dal naso anzitutto orizzontale, concentrico, sottile e ficcante, immediato ma profondo, dal sorso giovane e arguto al tempo stesso. Anzi, astuto.
Ecco, magari non tenete conto di questa mia sviolinata per quello che reputo sì un amico ma anche uno che nel suo mestiere di enologo è davvero in gamba, sa il fatto suo, però voi il vino assaggiatevelo lo stesso, sentite a me, anzi, sentite a lui. Io ve l’ho detto!
1994-2014 20 anni dalla doc Campi Flegrei¤.
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Tag:campi flegrei, cantine astroni, gerardo vernazzaro, napoli, piedirosso, piedirosso riserva, pozzuoli, tenuta camaldoli
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3 giugno 2014
A dirla con tutta sincerità ultimamente faccio uno sforzo enorme anche solo a tirare le fila di una recensione degna di questo nome. La testa è altrove, un giorno per una ragione un giorno per un’altra.

Fortuna che c’è il pinot nero, mi verrebbe da dire, un bene di rifugio non certo per stipare grana – ad avercela quella! – ma quantomeno utilissimo a rilassare i nervi tesi e rasserenare l’animo.
I vini di Elisabetta Dalzocchio mi sono sempre piaciuti, certo sono difficili da raggiungere, non sempre disponibili quantomeno per me che sono costretto a programmare i miei acquisti talvolta con largo anticipo altre con colpevole ritardo, il suo pinot nero però è sempre degno di attenzione ed ammirazione che merita di essere rincorso.
Un piccolo gioiello per grandi appassionati. Chi l’ha veduta dice che l’azienda è di una suggestione notevole, circondata da montagne, boschi di querce e piante di conifere, immersa in un ambiente unico. Poco più di due ettari, una manciata di bottiglie, quattro, forse cinque sorsi e via, finito.
Il naso quasi mai dice tutto subito, anzi, qui su questo 2010 pare giocare a nascondino, dispettoso e frugale. Si smarca continuamente, almeno però ti lascia cogliere il meglio delle sue innumerevoli sfumature, un po’ varietali ma soprattutto dall’impronta fortemente identitaria: sa di queste terre, di sottobosco, erbe officinali, té nero, di mandorla. Il sorso ha spessore e grande matrice, spiega un lunghissimo tempo avanti e chiede pazienza, il che rende questo assaggio solo un primo piccolo consiglio per gli acquisti. Di certo non ve ne pentirete!
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12 Maggio 2014
L’area di Mazzon è da tutti considerata la migliore zona per il Pinot Nero in Italia. Un luogo certamente unico, siamo tra i 300 e i 450 metri d’altitudine, sul versante sinistro dell’Adige che dà vita a vini soprendenti.

Qui l’ambiente pedoclimatico è davvero particolare: la cima di Prato del Re al mattino tiene ombra su tutta l’area così il sole ci mette un poco più di tempo a dissipare la frescura notturna. Alla sera invece, quando il fondovalle è già in ombra, da queste parti il sole e la luce la fanno ancora da padroni. Insomma, un microclima incredibile!
Kurt Rottensteiner ha le idee molto chiare e alle spalle una solida tradizione familiare; l’azienda è un piccolo gioiello di sostenibilità ambientale, i suoi vini sono ‘vivi’ ed in continua evoluzione. Qui l’uva viene da Dio, appare più difficile sbagliarlo il vino che non farne un grande rosso!
Questo riserva 2010 mi ha riportato alla mente l’impressionante timbrica di alcuni Morey-Saint-Denis¤, dove il frutto è solo uno degli elementi perfettamente coniugati. Il vino ha bisogno di un po’ di tempo, offre però una verticalità stupenda, dapprima con uno slancio varietale impressionante, poi, man mano, aprendosi a note e sentori molto particolari come la lavanda e il gesso. Il sorso è importante, austero e pungente, sul finale di bocca piacevolmente balsamico.
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Tag:alto adige, l'arcante, mazzon, morey-saint-denis, neumarkt, Pinot Nero Riserva '10 Brunnenhof
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10 Maggio 2014

L’Arline è solo una delle chicche di questa piccola cantina Valdostana, bianco dolce – o da meditazione come si usa dire più in generale – da Pinot Gris al 50%, Muscat di Chambave e Gewurztraminer, per qualche tempo affinato in rovere.
Colpisce la freschezza che ritorna sul finale di bocca, dal carattere quasi salino, da passito mediterraneo, con quei sentori un po’ agrumati un po’ melliflui che riportano alla mente Pantelleria e Samos. Siamo però in alta montagna, intorno ai mille metri, a un passo dal cielo.
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