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Farra di Soligo, Profeeling Brut Marchiori

6 gennaio 2013

In effetti non ci sarebbe neanche da discutere su una bottiglia del genere capace di accompagnare allegramente e benissimo tutto un pasto; se non fosse che ogni volta sull’argomento prosecco si aprono scenari di discussione che sembrano non avere fine.

Valdobbiadene Prosecco Superiore Brut Profeeling Umberto Marchiori - foto A. Di Costanzo

A dirla tutta l’ottimo Profeeling Brut di Umberto Marchiori c’entra davvero poco con tutto il casino¤ che sembra puntualmente tornare a galla quando ci si imbatte nel mare magnum¤ della tipologia “Prosecco”¤; anzi, segnatevelo per bene sul taccuino: è un Valdobbiadene Superiore assai gradevole, lieve nel colore e nei profumi, che appena versato regala almeno 3 centimetri di spuma e a fatica gli stai dietro tanto è bevibile, vivace, appena secco e un poco sapido. Per tutto il resto c’è tempo per capirci qualcosa, basta volerlo.

Montalcino, Il Brunello 2002 di Pian dell’Orino

20 novembre 2012

Duemiladue, annus horribilis per il vino? Chissà, si, boh, però; fu sicuramente un anno con un andamento climatico estivo davvero pessimo, e che certamente ne io ne Lilly dimenticheremo mai, tanta era l’acqua che prendevamo ogni sera dopo il lavoro costretti a bordo della nostra Nuova Vespa Centoventicinque.

E a guardare i numeri c’è ben poco da dire; pensate che a Montalcino, con la ‘92, la 2002 è la peggiore annata degli ultimi vent’anni: solo Due Stelle, pollice verso! Eppure, nonostante in molti si dissero talmente poco disposti nel dargli credito tanto da decidere non solo di non produrre i loro cru ma addirittura non produrne affatto, qualcuno, vuoi per necessità vuoi per avventatezza volle comunque mettersi in gioco, provarci. 

A tal proposito mi ritornano in mente le parole di Franco Biondi Santi quando gli chiesi di quell’etichetta speciale di Rosso prodotto appunto nel 2002. “Beh, Potevamo vendemmiare in Agosto quell’anno, tanto era già maturo il sangiovese grosso, ma ebbe a piovere, e per tutto il mese: più o meno 100 millimetri di pioggia la settimana, sino a metà settembre, quando decisi di far cominciare a tirar via il salvabile.  Portammo in cantina quel poco di buono che potemmo, da cui ricavammo, appunto, pochissimo vino, atto a divenire poi proprio quel Rosso di Montalcino lì!”.

Ma proprio lì, a due passi dalla Tenuta Greppo c’è anche Pian dell’Orino, la splendida azienda di Caroline Pobitzer e Jan Erbach, che decisero invece di mettersi in gioco; magari per necessità visto che muovevano proprio in quegli anni i loro primi passi a Montalcino. Dei temerari quindi o forse, chissà, semplicemente degli avventati. Detto ciò, e tutto il male possibile dell’annata e delle possibili vie di fuga da quel millesimo così nero per il Brunello, ti capita poi un vino come questo nel bicchiere e pensi a quanto invece possano essere riviste verso l’alto certe classificazioni. Non di molto magari, perché diciamolo subito che l’impressione che si ha di questo vino, già al secondo sorso, è che non avrà certamente lunga vita – manca chiaramente di profondità, di spina dorsale -, ma ad oggi, dopo dieci anni, mostra al naso come in bocca tante belle sfumature forse impossibili da cogliere allora e quindi altrettanto difficili da immaginare in prospettiva. 

Il colore è luminoso, ha sicuramente retto bene gli anni, sono infatti solo accennate le sfumature aranciate, giusto un’ombra sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ben calibrato, pulito, si avvicendano, a chiare note terragne, di sottobosco e di frutta secca i più classici sentori di confettura di amarena e prugna, grafite, e ancora note di briciole di cacao, cuoio e tabacco bagnato. Un quadro olfattivo sufficientemente apprezzabile se si pensa anche alla discreta freschezza che si coglie poi al palato: il sorso è maturo ma ben teso, con un tannino risoluto ma ancora sollecitato da buona acidità. Potremmo dire di un Brunello di ottima beva e di alto gradimento, un fiore tra le macerie di un’annata dannata, forse anche troppo. O troppo in fretta.

Più di tutti, poté uno Sperss 2001

10 novembre 2012

Proprio una bella esperienza, senza dover necessariamente aggiungere dell’altro, soprattutto usando paroloni oltremodo reverenziali per un’azienda che non ha certo bisogno di salamelecchi e cose del genere. Gaja è e rimane un riferimento. Punto.

Poche ma significative parole invece vanno scritte per la notevole esperienza degustativa regalataci proprio da Angelo Gaja in una sala del castello lì a Barbaresco, proprio di fronte, a due passi dalla sede storica della cantina; un luogo che sarebbe dovuto diventare, in origine, un posto d’accoglienza a 360° ma che poi si è scelto far diventare una sorta di showroom/museo aziendale. Per adesso. 

Un incontro aperto naturalmente dal benvenuto del padrone di casa, arricchitosi via via di tanti argomenti messi in campo di volta in volta: il territorio anzitutto, la storia (non solo dell’azienda di famiglia), il presente e il futuro di un areale, l’albese in particolar modo, che sembra rimanere, sospeso, in uno stato di grazia perenne, tra i pochi in Italia a portare avanti uno sviluppo tipicamente industriale senza però stravolgere l’equilibrio rurale delle sue immediate periferie; anzi, a guardar la storia, contribuendo in maniera decisiva a valorizzarlo probabilmente oltre ogni aspettativa.

Degustazione che si è naturalmente dilatata poi nel tempo e, dopo un passaggio obbligato per le cantine, anche a pranzo, all’Antica Torre, posticino davvero delizioso, nel cuore del centro storico di Barbaresco, proprio sotto l’antica torre del paese, dove abbiamo bevuto ancora dell’altro ma questa volta in compagnia di Lucia e Rossana Gaja. 

Questi gli appunti sul mio carnet: teso e minerale il Gaja&Rey 2009, ancora non del tutto schiuso al naso e in costante distensione in bocca (l’ultimo mio assaggio è dello scorso luglio); sopra ogni aspettative invece l’ottimo Alteni di Brassica 1998. Poi un Barbaresco, il duemilaotto, che sembra anticipare quanto vadano ad incidere i cambiamenti climatici in vigna anche da queste parti, “un fenomeno cui bisogna dedicare in futuro sempre maggiore attenzione e sempre più ricerca e studi specifici”, dice chiaramente Angelo Gaja. E la conferma ci arriva da un Sorì Tildin 2010 – un campione da botte servitoci però alla cieca e in bottiglia – che, se non fosse stato per l’evidenza tannica un po’ sgraziata sarebbe tranquillamente passato, per l’opulenza e l’eleganza con la quale si presentava invece al naso e nel complesso in bocca, come un vino “pronto” almeno per il suo lancio sul mercato.

Breve ma circostanziato il passaggio in Toscana, col Magari 2010 di Ca’ Marcanda, dal timbro inconfondibilmente rotondo e grasso tipico del bolgherese, e il Brunello Rennina 2006 di Pieve Santa Restituta, dal naso maturo e dal sorso austero e quasi ferroso tanto è minerale. Prima di ritornare, due volte, in langa, col Costa Russi: con un duemilanove di grandissima levatura, sontuoso per quanto verticale e fitto e un novantotto da manifesto emozionale, di quelli che una volta letti vale spegnere le luci e andare tutti a casa. Senza esagerare.

E infine c’è lo Sperss 2001, uno sparo secco nel buio. Quel buio dove ancora armeggiano tradizionalisti e innovatori alle prese con manuali, libretti e sermoni, quando invero servirebbe solo ascoltarli certi vini, come attraversano il tempo, e quel muro di chiacchiere inutili ai primi quanto ai secondi. Qui c’è una idea precisa, magari diversa, nuova, ma estremamente precisa di un vino verticale, variopinto, nuovo ad ogni sorso, di spessore, nerboruto, opulento, avvenente. Appagante. E dopo più di dieci anni che si mostra come fossero passati appena dieci anni. Un nebbiolo (di Serralunga d’Alba) con un saldo del 5% di barbera, mica pizza e fichi.

C’è poi, tra gli altri, anche quel Sagrantino di Montefalco 2008 della Tenuta Bellafonte…

9 novembre 2012

Ne avevo colto qua e là delle buone impressioni, sia sul progetto che sull’ottimo vino. Di certo, dopo questo assaggio, posso solo aggiungervi tutto il buono possibile.

Bel sagrantino quello della Tenuta Bellafonte di Bevagna, tutto giocato sul frutto e il gran carattere. Si coglie subito una buonissima materia prima ma soprattutto una intelligente gestione dell’uso del legno, in perfetta sintonia col varietale, le sue peculiarità – non sempre di facile lettura – ed un tenore alcolico importante ma affatto soverchiante la struttura complessiva del vino, marcata evidentemente da una certa acidità e da tannini fini di un certo spessore. Per farla breve, vale un sorso accattivante, di buona aromaticità e bevibilità ma di assoluta prospettiva. 

Il colore è avvincente, rubino, ricco e con ancora vivaci nuances porpora sull’unghia del bicchiere. Molto gradevoli quelle note di mora e piccoli frutti neri e rossi che saltano immediatamente al naso, già al primo approccio e che sembra poi, in bocca, di morsicarli per davvero. Un quadro olfattivo che si arricchisce quasi subito di tanto altro: di sfumature tostate, cioccolato, note anche speziate e iodate, sanguigne, sul finire. Il sorso invece è immediatamente avvolgente, carico com’è di frutto e di nerbo, con tannini puntuti, ben presenti ma per niente invadenti. Mi è piaciuto parecchio questo duemilaotto, un vino se vogliamo pure sgraziato, appena appena sbocciato ma, forse proprio per questo, da non perdere assolutamente.

Tenuta Bellafonte è distribuito in Italia da Les Caves de Pyrene.

Giampaolo Motta, a man beyond immagination #2: La Massa, la terra, le vigne, il suo Giorgio Primo

6 novembre 2012

Che personaggio Giampaolo Motta, che gran personaggio! Fai fatica a stargli dietro, fai fatica a capirlo se non lo conosci. Uno così meno male che c’è. Uno che per farti capire dove vuole andare ti accoglie in casa sua a suon di Haut Medòc e Pomerol, con la chitarra elettrica di Jimi Hendrix a palla e il basso di The Edge che arriva proprio sul più bello, alla fine, col Giorgio Primo 2009.

Così è stato anche per me, alle prese con una domanda a cui facevo fatica a trovare una risposta: per quale ragione uno (di fuori) compra a Panzano, nel cuore del Chianti Classico – nel bel mezzo della Conca d’Oro -, investendo cifre blu con l’idea di fargliela vedere a tutti col sangiovese, per mollare poi tutto quanto dopo appena dieci vendemmie? 

“Mollare un corno!”, ti dice. “Più semplicemente non mi andava bene quello che veniva fuori dalle mie bottiglie dopo appena 6/7 anni. Vini quasi stanchi, distesi, maturi. Per qualcuno era il meglio mai bevuto prima, col meglio che addirittura doveva ancora venire. Assurdo, mi ripetevo. Dieci anni di investimenti, ricerca, mappatura zonale, selezione clonale, sperimentazioni non potevano finire così, non era possibile che si risolvessero in poco più di un lustro con vini dal colore quasi aranciato e note di terra e sottobosco. Doveva esserci dell’altro; da lì, da quelle vigne, da quei terreni, dalla nostra passione doveva venir fuori dell’altro, che ci potesse emozionare nel tempo, un tempo non necessariamente da quantificare!”.

E come gli si può dar torto? Basta dare un’occhiata qua e là in giro, vedere le carte, i numeri, i fatti, la strada fatta sino ad oggi. Semplicemente non gli andava più bene, non era quello il risultato sperato, non era quello il grande vino pensato da Giampaolo a Panzano. Punto. E accapo. Semplice, no? 

Così nel 2002, approfittando dell’annata così così si è messo via la denominazione Chianti Classico. E pian piano, dal Giorgio Primo, il sangiovese, destinato dal 2007 in poi tutto al secondo vino aziendale, il La Massa. Spazio quindi al taglio bordolese, al cabernet sauvignon, merlot e petit verdot in percentuali variabili a seconda dell’annata. E spazio poi ai lavori della nuova cantina, finita solo quest’anno, dove poter lavorare con maggiore serenità e mezzi tecnici all’avanguardia più efficaci. La quadratura di un cerchio dopo i primi quindici anni spesi in vigna a capire dove, come e perché.

Un nuovo percorso cominciato col duemilasette, dicevo, quando poco prima di andare in bottiglia, di ritorno da Bordeaux, Giampaolo decise che fosse finito il tempo concesso al sangiovese, al suo sangiovese, di contribuire al salto di qualità del Giorgio Primo. Un cambio di marcia necessario per un’azienda che conta il 92% del suo fatturato oltre i confini nazionali, per vini che vanno in carta a Capri come a Milano, a New York piuttosto che a Montréal o Parigi. Parigi che vuole il Giorgio Primo per i più ed il La Massa per i tanti, ma che di entrambi apprezza la finezza e la pulizia, con la profondità del primo e la freschezza del secondo; proprio come accade per i vari classemènt di Bordeaux. Perché in fondo l’obiettivo di sempre, la sfida vera è tutta lì, potersela giocare – ancor più nei prossimi dieci/quindici anni, sullo stesso piano, senza paura -, con i bordolesi. Parola di Giampaolo Motta.

Toscana igt Giorgio Primo 2001. L’ultimo Chianti Classico. A distanza di oltre dieci anni, contrariamente a ciò che ne pensa lo stesso Giampaolo, a me è piaciuto tantissimo; un rosso di gran carattere, con un naso ben definito, centrato sì sulla frutta matura, tabaccoso, speziato ma in perfetta armonia con tutto il resto. Sorso di buon nerbo, con un tannino sottile e piacevole. 

Toscana igt Giorgio Primo 2007. Tanta materia in questo duemilasette, figlio di un’annata calda che l’ha certamente aiutato a tirar su muscoli e carattere. Il primo senza nemmeno una goccia di sangiovese. Il naso conferma una nota piuttosto accentuata di confettura di prugna e note tostate, tabacco, muschio e sottobosco a girarci intorno. Il sorso è caldo e avvolgente, senza particolari spigolature. 

Toscana igt Giorgio Primo 2008. Ciò che salta al naso, subito, è la pulizia e la freschezza delle note e dei sentori che vi si colgono. Il colore è violaceo, vivissimo, il naso è tutto di piccoli frutti rossi e neri e liquirizia. Molto verticale. Il sorso è ricco, ciliegioso, di buon nerbo. Molto piacevole il ritorno balsamico sul finale. 

Toscana igt Giorgio Primo 2009. Impressionante la precisione con la quale il bicchiere rivela il frutto, lo spessore e la profondità della gran materia prima, appena in rampa di lancio. Siamo su percentuali importanti di cabernet sauvignon, intorno al 70%. Varietale che va ritagliandosi uno spazio sempre più importante nella cuvée del primo vino di Giampaolo, non a caso. Se questo è l’inizio non si possono certo biasimare le scelte fatte a La Massa. Gran-Bel-Vino! 

Toscana igt Giorgio Primo 2010. In molti, in Piemonte come in Toscana dipingono la duemiladieci come un’annata interlocutoria, calda certo, che ha dato vini di un certo spessore eppure, laddove si sia lavorato con dovizia, soprattutto in cantina, dosando per bene la qualità dei legni, sembrano venir fuori vini di una prontezza insolita ma anche caratterizzati da una rara eleganza. Il frutto c’è tutto, croccante e di gran livello, il sorso ha da scrollarsi di dosso tutti i primi passi appena fatti, ma è lecito aspettarsi un campione di razza. Una cosa è certa, il Giorgio Primo, oggi, è un’altra cosa, e chissà che domani non capiti per davvero di ritrovarselo lì tra i più grandi del firmamento bordolese.

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In Poscritto: bellissimo il gioco sull’assaggio delle Premiere cuvée ancora in affinamento in barriques, soprattutto quelle atte a divenire Giorgio Primo 2011. Mi ha molto impressionato, per profondità, il cabernet sauvignon #9, di uno spessore quasi inaudito nonostante una bevibilità già dissacrante. Un po’ sulle sue invece il petit verdot, che Giampaolo invece intravede tra i migliori dell’annata. Ma pure il sangiovese pare aver fatto un bel balzo in avanti, tanto più che per il La Massa sembrerebbe destinato solo un 50/60 % dei vini base, per dar vita, forse, ad un nuovo imbottigliamento in purezza per conto proprio (un terzo vino o magari un second-vin di mezzo). 

Qui, Giampaolo Motta, a man beyond immagination #1.

Barbaresco, Langhe Alteni di Brassica 1998 Gaja

1 novembre 2012

Curioso ma vero, tra i tantissimi vini provati durante le giornate spese tra Gavi e Barbaresco, due in particolare mi hanno conquistato: un Gavi ‘96 di Villa Sparina e un Alteni di Brassica ‘98 di Gaja. Strano, ma è così.

Il primo l’abbiamo colto alla fine di una grandissima giornata di degustazioni con Pepi Mongiardino, regalo di Massimo Moccagatta di Villa Sparina che ci ha accolto a pranzo nel suo meraviglioso Resort di Monterotondo, nel cuore del Gavi docg. Un bianco d’altri tempi, 11 gradi e mezzo di gran carattere che, svanita quella fastidiosa nota idrocarburica al naso si è aperto in maniera eccezionale regalandoci grandi sospiri e fresche emozioni. Un vino certamente risoluto, ma integro e godibilissimo. Millenovecentonovantasei! 

L’Alteni ’98 invece è un regalo, l’indomani, di Angelo Gaja, a conclusione di un’altro momento memorabile nel suo splendido castello a Barbaresco. Anche questo è arrivato alla fine di una batteria da sogno: Costa Russi, Sorì San Lorenzo, Sperss, Sorì Tildin e altro ancora. Anche lui c’ha fatto una bella figura, forse inaspettatamente (per noi), per questo ancora più sorprendente. Per chi non lo sapesse stiamo parlando di un sauvignon blanc, tra i primi all’epoca a sbarcare – e sbancare – in Italia, i cui primi impianti risalgono all’83. 

Il colore, nonostante il timbro chiaramente maturo ha conservato luminose venature verdi sull’unghia. Soave e dolce il primo naso, offre sentori fruttati e vegetali ancora ben distinguibili, come ad esempio il pompelmo e il sambuco. Il sorso è chiaramente segnato dal tempo ma di certo non si può dire sopito tant’è che freschezza e sapidità ancora giocano a rincorrersi, primeggiare, sostenute da un buon corpo mai pesante. Bianco di gran levatura. A memoria ricordo di non aver mai bevuto un sauvignon così lontano nel tempo. E buono.

P.S.: un caso, ma non a caso, ha voluto entrambi i vini serviti conservati in bottiglie Magnum (litro e mezzo).

Un Tignanello è per la vita, sta scritto nel tuo bicchiere, chiaro e tondo come mai prima d’ora!

17 settembre 2012

Buono è buono, ogni volta però sembra di stare a scoprire l’acqua calda, così non ci si può nemmeno ricamare su più di tanto perché il Tignanello è il Tignanello e da qualsiasi punto di vista tu lo possa leggere, interpretarlo o decantare è e rimane il grande rosso Toscano italiano famoso in tutto il mondo.

E’ un rosso che vanta numerosi primati e numeri importanti, tra i più importanti in Italia. Ciononostante, non so se ve ne siete mai accorti, ne girano davvero poche di recensioni sul web; sembra quasi che sia deleterio, soprattutto per i critici enofili più affermati, anche il solo scriverne due righe, men che meno di apprezzamento. Eppure è sempre lì, tra i primi nelle migliori guide ai vini d’Italia di ogni tempo.

La vigna, contigua a quella del Solaia, è più o meno sempre quella, poco meno di 50 ettari su per le colline chiantigiane tra i borghi Montefiridolfi e Santa Maria a Macerata. Tignanello è stato il primo sangiovese a vedere la barrique nonché il primo vino rosso con varietà internazionali e, tra gli altri, uno dei primi vini rossi fatti nel Chianti a non usare più uve bianche. Nel ’70, quanto è uscito per la prima volta, recava in etichetta la denominazione “Chianti Classico Riserva vigneto Tignanello”, con ancora del canaiolo, trebbiano e malvasia; con il ‘71 è diventato semplicemente Tignanello e con l’annata 1975 le uve bianche sono state completamente eliminate dall’uvaggio. E’ dal 1982 che la composizione varietale è invariata: sangiovese all’80%, 15% cabernet sauvignon e cabernet franc per il restante 5%.

Renzo Cotarella va affermando da tempo che Tignanello e Solaia, due delle tante punte di diamante delle tenute del Marchese Antinori, col 2007 ma ancor più con il 2008, dopo la piena maturità delle vigne reimpiantate tra il 2000 e il 2001, avrebbero cominciato un nuovo percorso verso l’eccellenza, del tutto diverso dai loro primi anni di vita. Un timbro, il loro, di nuova forgia che nasce dopo la lunga analisi, negli anni, di ogni singolo aspetto del terroir lì in tenuta. Una caratterizzazione che gli consentirà così di sfidare il tempo alla stessa maniera dei grandi chateaux di Bordeaux. Vedremo.

Intanto il duemilaotto tira le fila a tanta materia, evidente già nel colore ricco, ma soprattutto al naso, dove l’iniziale esplosione di frutta rossa va lentamente defilandosi per lasciare il passo a note di tutto un po’: è intrigante ritrovarvi sin da subito un tono iodato piuttosto marcato, sanguigno; poi si fanno largo sottili spezie dolci ma anche cuoio bagnato e sentori balsamici. Il sorso è gustoso, il piacere lungo e avvolgente, non mancano le spigolature – più acide che tanniche – ma, vivaddìo, che carattere che ha questo Tignanello. E pensate un po’ che se ne fanno (quasi ogni anno) svariate centinaia di migliaia di bottiglie. Gulp!

Il Prosecco ieri, oggi e domani. E dell’ottimo “Ius Naturae” 2011 della famiglia Bortolomiol

12 settembre 2012

La domanda del giorno è: cosa ne vogliamo fare di questo Prosecco oltre che continuare ad allungargli sempre di più il nome?

La domanda me la pongo da un po’ di tempo, da quando, penso un paio d’anni fa, mi accorsi, leggendo dalle pagine di una delle ultime Duemilavini ricevute che gran parte dei produttori di “Prosecco di Valdobbiadene” erano passati, apparentemente così d’emblé, dall’utilizzo di uve prosecco al 100% al ben più “povero” e diffuso glera, chi in uvaggio, chi invece addirittura in purezza.

Ad un mio commento a caldo su Facebook, dove mi dicevo sinceramente un po’ confuso sull’argomento, qualche giorno più tardi, un giovane (bravo) produttore di prosecco di Asolo mi avvisava che non c’era tanto da stupirsi poiché in realtà in molti si preparavano semplicemente allo sbarco della nuova docg Valdobbiadene Prosecco Superiore che sarebbe arrivata di lì a poco.

Perché? Cosa stava per accadere al vino spumante italiano che da anni, secondo l’ex Ministro ed attuale Governatore della Regione Veneto Luca Zaia, va sfidando in giro per il mondo i consumi dello Champagne? Senza entrare troppo nel merito della faccenda è bene sapere che dal 1 Aprile 2010 la parola “Prosecco” è divenuta identificativa di un vino a denominazione di origine e non più di una varietà di uva. Quest’ultima ha assunto il nome di glera.

In parole povere oggi il “Prosecco è un vino ricavato da uve di varietà glera prodotto solo nel nord est d’Italia, rigidamente vincolato da un disciplinare che ne distingue le diverse varietà qualitative in base alla zona di origine”. Per dirne una, chiunque in Italia o nel mondo che vorrà acquistare barbatelle di glera (non più di prosecco) potrà chiamare il vino “Prosecco” solo se esse crescono nelle zone previste dal disciplinare, in caso contrario sarà “costretto” a chiamarlo “Glera” ed in etichetta potrà riportare solo il nome “Glera” (frizzante, Spumante, ecc.) senza nessun riferimento o legame al Prosecco. Più chiaro di così…

E’ evidente quindi che con queste prospettive in molti si stanno dando un gran da fare per migliorare sia la propria presenza sul mercato che, in senso più stretto, la qualità stessa dei vini proposti. Qualità che, sia chiaro, a certi livelli viene garantita da anni, ma è indubbio che questa svolta, che possiamo tranquillamente definire epocale sul Prosecco, è di grande stimolo per tutti produttori a fare sempre meglio.

Ecco quindi capitarmi a tiro lo Ius Naturae 2011 di Maria Elena, Elvira, Luisa e Giuliana Bortolomiol che, oltre al nome lunghissimo in etichetta, viene presentato come la sintesi del lavoro di anni di conversione al biologico di alcuni vigneti di famiglia proprio nel cuore di Valdobbiadene, all’interno del Parco della Filandetta.

Un Brut, Millesimato, molto interessante: ha bollicine abbastanza fini ed un colore molto invitante, paglierino assai luminoso. Il naso è sincero, ha un buon timbro minerale e i sentori sono fragranti e puliti. Il sorso è fresco, equilibrato, la sensazione zuccherina appare ben contrastata da una buona dose acida e dalla giusta sapidità. La strada mi sembra quella giusta, conserva – vivaddìo! – grande bevibilità ed è questo, al di là di lustrini e paillettes, che desidero non manchi mai a questo vino.

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Qui il viaggio nelle terre del prosecco di qualche anno fa.

San Martino sulla Marrucina, Montepulciano d’Abruzzo Marina Cvetic ’00 Gianni Masciarelli

3 settembre 2012

Lì a San Martino sulla Marrucina ci sono capitato ahimé una sola volta, era pieno agosto 2001 e la cantina era tutto un cantiere. Non potemmo vedere molto, ma cogliemmo pienamente quanto si andava scrivendo in quegli anni in quello splendido angolo d’Abruzzo; l’ormai consolidato successo del Montepulciano Villa Gemma e il talento irrefrenabile di Gianni Masciarelli avevano bisogno di una “casa” all’altezza della situazione.

Con Lilly avevamo deciso di passare quell’estate tra le vigne d’Abruzzo, Marche, Umbria e Toscana; Guardiagrele, Peppino Tinari, Valentini e Masciarelli appunto erano solo la prima tappa di un viaggio che si sarebbe rivelato poi una delle esperienze più ricche ed entusiasmanti della nostra vita.

Ricordo, lasciato allora tra gli appunti di una sbiadita copia della Michelin di quell’anno, un grande Montepulciano Marina Cvetic 1997 bevuto proprio una sera di quelle passata a mangiare “Pallotte case e ove” e “Costine d’Agnello” al Villa Maiella: “spettacolare” si legge, “l’Albergo Ristorante dei Tinari ed il vino di Masciarelli”. Se chiudo gli occhi mi pare di rivedere tutto lo splendido carrello della colazione servita in camera ogni mattina. Un incanto di profumi e sapori abruzzesi. Poi riassaporo quel vino, dal colore intenso e porpora, il naso ruvido e sgraziato, appena ridotto ma di una autenticità unica, corpulento e succoso. Senza fronzoli e franco. Gran Vino!

Un vino deve avere una storia, portare con se un messaggio, rievocare la sua terra, le persone che l’hanno forgiato, si dice. Eccone uno di quelli impeccabili, tiri via il tappo a questo 2000, temi l’irreparabile ed invece ti si apre un mondo davanti: colori, profumi e sapori di una terra splendida che non vorresti mai smettere di camminare, vivere, portare con te. Il bicchiere mostra un vino ancora in grande forma, il timbro è rosso rubino, solo appena sgranato sull’unghia. Il naso è un portento, c’è ancora tanto frutto, maturo, pienamente espresso ma vivo: si colgono persuasive note di viola, mora, amarena, poi ancora mirtillo, quindi tabacco e liquirizia, cuoio e una certa carica balsamica. Il sorso è succoso, pare tingere il palato, ancora appena tannico ma di enorme piacevolezza. Chiude nerboruto e sfrontato, come i meravigliosi anni che ci ha regalato Gianni Masciarelli.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Farra d’Isonzo, Pinot Nero 2006 Bressan. Non è mai troppo tardi ricordare di aver dimenticato

14 agosto 2012

Ne hanno già parlato praticamente tutti, così eccomi in coda per aggiungere la mia su questo bellissimo pinot nero insolito e gustoso come pochi e questa bella “novità” di mercato per noi comuni mortali.

Lo dipingono come un tipo difficile Fulvio Bressan¤ e con molta probabilità non si sbagliano, ma se uno poi fa vini così buoni non è che ci stai troppo a pensare; magari ne parlerai poco con lui, saprai già come approcciarti al suo banchetto alle (poche) fiere dove lo trovi, ma quantomeno ne guadagni attaccandoti alle sue bottiglie.

Ha una bellissima forgia il Pinot Nero 2006, un colore acceso e invitante ed un naso scalpitante e polposo; ci trovi dentro di tutto, dal garofano passito alle amarene nere dolci e succose, dai piccoli mirtilli dalla buccia pruinosa alle note di sottobosco, china e ancora sentori balsamici e note ferrose. Ma è in bocca che diviene travolgente, debordante oserei dire, ha frutta e tutto quanto il resto da vendere. Il sorso è fresco e pungente, il vino avvolge il palato con intensità e voluttà scivolando poi via dalle papille con energia e gusto. Esecuzione impeccabile, non v’è da dire altro!

Conservatelo in fresco prima di servirlo, se ci riuscite cercate di tenerlo costantemente intorno ai 14 gradi, magari anche un po’ meno in questi giorni agostani, vedrete che ne farete il vostro rosso per l’estate!

Chiacchiere sotto l’ombrellone, tra sconosciuti

2 agosto 2012

Capita una mattina di ritrovarsi sotto l’ombrellone a fare due chiacchiere sulla sera prima: l’aperitivo al tramonto, l’atmosfera unica al Faro di Anacapri, le grasse risate per quel vassoio rovesciato – l’imbarazzo della cameriera per aver rovinato quel vestito di Prada è impensabile! -, ma soprattutto l’ottima cena e, immancabili, le buone bottiglie bevute. Bottiglie per una volta sconosciute. E sorprendenti…

Quando si ha una idea precisa di cosa sia o cosa possa divenire nel tempo uno Champagne, anche un assaggio controverso può rivelarsi invece una bella scoperta da appuntare subito sul taccuino, ovvero mettere subito in rete. Sconosciuta e sorprendente era l’etichetta Prestige Brut 2003 di Jacques Picard, récoltantmanipulant a Berru, un paesino di poche anime appena fuori Reims; i protagonisti, ancor più sconosciuti, sono José Lievens e sua moglie Corinne Picard, che dalle loro migliori vigne tirano via uva per circa 8.000 bottiglie di questo ottimo haut de gamme, una piccolissima fetta di quella immensa torta che è il mercato dello Champagne, una fetta però dolcissima e imperdibile.

Ecco perché ci ritornerò su volentieri, non appena possibile; per adesso val bene segnalarvi che trattasi di una bella storia d’amore sbocciata tra le vigne, di agricoltura sostenibile e di uno stile champenois tagliente e implacabile – controverso, appunto – e di prezzi vivaddìo più che umani.

E sconosciuta era la bottiglia di Vita Menia 2011, rosato da piedirosso e aglianico prodotto nelle vigne a Raito, minuscola frazione sopra la costiera amalfitana, sopra il mare di Vietri per intenderci. Panorama mozzafiato, la vigna qui è tutta a conduzione biologica. Di questo sottile e profumato rosato se ne fanno appena seicento bottiglie l’anno, Patrizia Malanga ha voluto mandarmene qualcuna; un pensiero prezioso, almeno quanto il vino saggiato.

Bello e invitante il colore cerasuolo, il naso è ciliegioso ma anche un po’ marino, mentre il sorso è secco, leggiadro e sapido. Il frutto ritorna perentorio in bocca, aggraziando il palato sollazzato da una beva fresca e gradevole. Andatela a trovare Patrizia, siete ancora in tempo per sposare il mare alla vigna che lì, dalle quelle parti mi dicono essere entrambi bellissimi. 🙂

Montagna, A. A. Pinot Nero Rosé 2011 Franz Haas

23 luglio 2012

Giusto ieri sottolineavo quanto il vino rosato italiano stia recuperando posizioni e consensi tra i consumatori più appassionati; proprio questo è uno di quei vini che sicuramente contribuisce in maniera decisiva al “rinascimento” della tipologia…

Poco o nulla da ribadire su questo stupendo vino, altro colpo ad effetto del grande Franz Haas che va a rimpolpare una gamma di vini sempre di grande valore. Val la pena però lasciare una traccia di questo pinot nero 2011 rosé che pare avere una marcia ancora in più rispetto ai precedenti duemiladieci, assaggiato l’anno scorso – qui tra i miei migliori della scorsa estate – e duemilanove dell’anno prima ancora, praticamente all’esordio.

Ha un bel colore ciliegia chiaro con un naso intenso, fresco e fruttato; parte del vino fermenta in legno, poi solo acciaio e bottiglia, anche per questo il varietale è in grande spolvero, col naso polposo e balsamico che richiama lamponi, more ed erbe aromatiche mentre il sorso è deliziosamente fresco e disteso, succoso e sapido con un finale rinfrescante che invita subito ad un nuovo bicchiere. Immancabile!

Bollicine in tavola a tutto pasto, quattro buone idee che si rifanno ai piatti di Ugo Alciati…

12 luglio 2012

Quattro piatti di Ugo Alciati del Ristorante Guido di Pollenzo che mi piace “rivedere” in abbinamento a 4 bollicine che mi hanno particolarmente colpito in queste ultime settimane e che sento di riproporvi in assaggio. Un gioco di alleggerimento e freschezza sempre opportuno in estate pur senza dimenticare però la tradizione, sempre ben interpretata dal talento di Ugo.

L’Aperitivo. Fingersandwich, la salsiccia fresca. Un omaggio alla sua terra che però vedo bene con una bollicina del profondo sud molto invitante, profumata e leggiadra, qual è il Brut Rosé di Rosa del Golfo da negroamaro e chardonnay: naso delicato, che sa di crosta di pane, petali di rosa, lampone e mora. In bocca scorre via che è un piacere, starci dietro manco a dirlo!

L’Antipasto. Filetto crudo di Vitella Bianca piemontese, alici di Cetara e Parmigiano Reggiano 36 mesi, con Abissi 2009 di Bisson; bollicina suggestiva e puntuta, dal naso curioso, dapprima giocato su note di frutta secca e spezie dolci, poi invece marine, iodate, con un timbro salmastro largamente gradevole, molto particolare e avvincente. Il sorso è asciutto, di spessore, chiede spazio e se lo prende, è vivace, fresco e di buona persistenza, assai sapido.

Il secondo. “Caldo freddo” di Faraona con riduzione al marsala. Mi è subito saltato in mente lo splendido Champagne Cuvée Millésimé 2000 di Alain Thienot, forse nuovo ai più ma senz’altro un piccolo gioiello tra le cosiddette Maison d’Aujourd’hui; 60% chardonnay dalla Cote des Blancs ed il restante 40% pinot noir da Montaigne de Reims. Vino di grande equilibrio degustativo, dal naso ricco, polputo e verticale e dal sorso maturo e avvolgente. Insomma, una grande cuvée da consumare a tutto pasto!

Il dessert. Gelato al fiordilatte con pomodori canditi e basilico fritto. Fortissimamente territorio con il gelato più buono mai mangiato (leggi anche qui) accompagnato per l’occasione da spicchi di pomodorino canditi; così, di slancio, l’accostamento all’ottimo e spumeggiante Asti Galarej 2010 di Fontanafredda. Dolci note moscate messe in riga da un palato sì zuccherino ma mai banale. Controcorrente e fortunato.

Le foto dei piatti sono di Umberto D’aniello © 2012.

Brunello di Montalcino Riserva Soldera ’99 Case Basse, o di un bicchiere come elogio all’infinito

2 luglio 2012

Da sempre Gianfranco Soldera e i suoi vini dividono appassionati e critici suscitando, nel bene e nel male, passioni e tensioni più di ogni altro produttore lì a Montalcino.

E’ difficile farsene una idea precisa su quale sia la posizione (o le posizioni) definitive sugli argomenti perennemente in discussione – filosofia, centralità delle colture, esposizioni, naturalità, tipicità ecc… -, e non v’è argomento tra questi che non sia stato messo in cassaforte o, per contro, alla berlina ogni qualvolta si apre una bottiglia di Brunello Riserva Soldera di Case Basse.

Tenendo tra le dita questo ’99 ho ripesato all’infinito e a quanto questo concetto abbia profondamente diviso, lacerato le coscienze di molti fini pensatori della storia, antica e contemporanea. Il suo rifiuto ha origini lontane e nasce dal fatto che già i greci ritenevano conoscibile solo ciò che è determinato, finito; tutto ciò che è indeterminato, infinito e perciò inconoscibile è quindi da rifiutare. Ecco.

Così in molti dicono di conoscere Case Basse e Gianfranco Soldera abbastanza per averne compreso appieno ogni segreto e proposta ideale, tanto dal poter chiaramente decidere da che parte stare. Loro di là, lui di qua. Personalmente non ho ancora deciso del tutto, nonostante nel febbraio dell’anno scorso (leggi qui il reportage) sono andato a trovarlo e cercato di capirci qualcosa, faccia a faccia, camminandoci assieme le vigne e rubando pezzi di storia dalle sue botti. Ognuna con una propria. Di certo vado maturando una convinzione: i suoi vini “vivono” come pochi altri e qualcosa a noi ancora oscuro li rende mutevoli, talvolta imperfetti ma comunque sibillini, altre voltre semplicemente inarrivabili. Infiniti, appunto.

Certo, avrò beccato una bottiglia eccezionale, ma questo ’99 è stata una rivelazione nel vero senso della parola, una delle esperienze degustative più emozionanti di sempre. Un vino straordinario, con un colore a tratti ancora porpora fissato nel tempo; un corollario di sensazioni varietali che poche bottiglie ilcinesi sanno regalare, ancor mai con una tale intensità ed integrità espressiva; asciutto e profondo, la ricchezza espressiva si tramuta in arma letale quando il vino arriva al palato: succoso, dolce, avvolgente, caldo e nerboruto, lunghissimo. Infinito, appunto!

Verticale storica Barolo Borgogno, le degustazioni

23 giugno 2012

A fine serata ci siamo seduti in terrazza, saranno state le una o giù di lì. Con me e Andrea Farinetti ancora un manipolo di colleghi, una dozzina di calici “belli alti” per l’Alta Langa pas dosé di Fontanafredda e una piccola “sciabola” di fortuna. E ancora, quei calici di Barolo messi là in cantina a prendere aria per tutta la sera, che avevano da dirci ancora tanto. Mamma che vini! Perché le cose più affascinanti e avvincenti vengono fuori davanti a un bicchiere di vino, e più ce ne sono (di bicchieri) e più se ne raccontano (di storie).

La storia di Borgogno è (quasi) tutta qua, mentre qui ci trovate i miei appunti di viaggio della passeggiata in langa dello scorso ottobre; oggi invece provo a raccontarvi l’emozione di questi quattro meravigliosi vini. Imperdibili!

Barolo Riserva 1978 Fu quella un’annata molto particolare, caratterizzata da un andamento climatico piuttosto irregolare. Nel dettaglio, il protrarsi delle piogge nel periodo della fioritura ne hanno drasticamente ridotto la produzione. L’avvento di condizioni climatiche ottimali a fine estate ed inizio autunno e soprattutto alla limitatissima quantità, hanno però consentito una buona maturazione delle uve, nonostante il clima non proprio favorevole. Ne è venuto fuori un Barolo di altissima levatura, strutturato e piuttosto concentrato. I dati registrati dicono che fu vendemmiato tra il 23 e il 26 ottobre (!), svinato a fine novembre e per almeno 1 anno lasciato in vasche di cemento; poi 4 anni e mezzo in botti di capacità medio/grande.

Ha un bellissimo colore granato, con l’unghia chiaramente aranciata ma luminosissima. Il naso appare infinito, nelle cinque ore tenuto nel bicchiere ad ogni passaggio ha saputo regalare nuove e piacevoli sensazioni: un tocco di cipria, foglie secche, sottobosco, gruè di cacao, mallo di noce, cannella e cera d’api. Il sorso invece è semplicemente stupefacente, secco e incalzante, lungo e di sostanza, ancora nerboruto, di spessore. Un piacere senza fine.

Barolo Riserva 1985 Annata estremamente regolare quella dell’85, con uve di grande qualità. Così ci si è potuti spingere “oltre”: in cantina la fermentazione è durata circa 15 giorni con temperature comprese tra i 26/28° C. Seguì macerazione a cappello sommerso di almeno tre settimane con svinature effettuate a partire dal 20 novembre. La fermentazione malolattica è terminata nel febbraio 1986 (!). Un secondo travaso all’aria verso fine febbraio ‘86 e quindi un terzo a Giugno. Poi solo legno in botte grande, sin da settembre ‘86.

Qui il granato è da manuale, perfettamente integro, più ricco addirittura del più giovane ‘96. Al naso subito nuances di fiori passiti e cassis, poi sentori di grafite, nocciola tostata e ancora sottobosco. Il sorso è copioso, di sostanza, teso e giustamente tannico. Finale di bocca lievemente caldo. Impeccabile!

Barolo Riserva 1996 Annata un poco complicata, come il vino nel bicchiere. I registri un po’ sgualciti riportano di un 1996 caratterizzato da un buon numero di precipitazioni piovose e da un inizio estate molto caldo, in particolare nella prima decade di giugno. Poi di un andamento altalenante, con forti escursioni termiche durante tutta la bella stagione sino alla regolare maturazione delle uve.

Il colore è di un bel granato vivace, integro, molto vicino, per trasparenza, al ‘78. Il naso rimane a lungo chiuso, ritratto, indefinito; poi, almeno tre ore dopo averlo messo nel bicchiere di colpo è una esplosione di varietale e terziari incredibili: viola passita e tabacco, terra bagnata, sottobosco, foglie secche, china e rabarbaro. Il sorso è spiazzante, ha tannino puntuto, sferzante, indomito, di tutta la batteria è certamente il meno armonico, ma forse, quello con più carattere e con un naso incredibilmente avvincente. Scontroso.

Barolo 2005 Due appunti tecnici: vinificazione di tipo tradizionale, con macerazione a cappello emerso di circa due settimane a temperatura controllata (primi gg. a 23°/25° C e fine fermentazione a 29/30° C) e successiva macerazione e post-fermentativa a cappello sommerso di durata variabile fra i 15 e i 25gg. Invecchiamento in botti di rovere di Slavonia di oltre 3 anni e mezzo con affinamento in bottiglia di circa 6 mesi.

Nel bicchiere è giovane e pimpante, ha colore rubino granato, concentrato ed è poco trasparente: il primo naso è molto invitante, sa di viole passite e amarena, quella nera e croccante; poi sentori speziati comunque dolci e avvenenti. Il sorso è secco, ha buon corpo e vanta buonissima bevibilità. Il tannino è importante ma non invadente, l’alcol ne compensa – in perfetto equilibrio – le spigolature, regalandogli beva sostenuta e profonda. Da bere a sorsi copiosi.

Montalcino, Bramante 2005 Podere Sanlorenzo, o di quando le trasparenze si fanno finissima luce

9 giugno 2012

L’aquilotto ha lasciato il nido, adesso vola determinato per le valli dell’Orcia. Il suo nome compare ormai ovunque si parli di futuro del sangiovese e di quanto di nuovo e di buono c’è a Montalcino.

Blogs, riviste on line, guide, tutti, nel tempo hanno assaporato quanto siano espressivi, autentici, reali i vini di Luciano Cilofi¤. E tutti (!) hanno avuto le conferme che cercavano dagli assaggi ripetuti nel tempo: a Sanlorenzo vengon fuori dei gran vini!

Il Bramante 2005 ha maturato un colore granato dal fascino antico, con tutte le trasparenze del Brunello più tradizionale di Montalcino: è luminoso, invitante, concede un variegato ventaglio olfattivo che frattanto si è fatto fine, ancora più sottile ed elegante dei primi assaggi, che snocciola frutto e richiama la terra ad ogni sorso. Ha sapore asciutto il Brunello di Luciano, è austero, retto, distante da certi cliché eppure succoso, nerboruto, fresco, quasi dissetante. Sarebbe una bottiglia da conservare nel tempo, gelosamente, per la memoria e per la storia, memoria e storia che vogliono però rinnovarsi troppo in fretta. A ragione.

Franciacorta Vittorio Moretti 2004 Bellavista, belle bolle ma anche tanto imballo (di cartone)!

3 giugno 2012

E’ solo un pensiero domenicale, di riflesso a quanto rilanciato ieri su facebook dal collega sommelier Ivano Antonini (qui) che in qualche maniera richiamava l’attenzione sul packaging di certe etichette di vino italiane; osservazioni naturalmente acute di chi ogni giorno il vino lo compra e lo vende, prima di raccontarlo…

 

Così mi è tornata in mente questa ottima bottiglia di Franciacorta di Bellavista. Un vino simbolo della crescita di questo piccolo paradiso delle bollicine italiane, con il quale l’azienda di Erbusco compie probabilmente un altro significativo salto di qualità, invero già garantita da tempo da una gamma di vini sicuramente tra i più rappresentativi della denominazione.

Nel Vittorio Moretti 2004 c’è dentro tutto il meglio dei crus di Franciacorta, da quelli di Erbusco a Nigoline, Torbiato e Colombaro, per il 50% chardonnay e 50% pinot nero e, non dimentichiamocelo mai, il grande talento – ormai una garanzia anche questa -, del winemaker e chef de cave Mattia Vezzola. Il colore è splendido, brillante e luminoso. La spuma è ricca e persistente e il perlage finissimo, abbondante. Il naso, svanite le prime insistenze classiche di una cuvée che fa così tanti anni di bottiglia si dimostra assai invitante, elegante, pienamente avvolgente; si apre a sentori di frutta e fiori tra i quali tornano nitidi pesca, frutto della passione, bosso, agrumi e, infine, miele. Il sorso è asciutto e sapido, ma non troppo, v’è tanta freschezza e più che attaccare il palato quasi lo ammanta, lo rapisce, e a lungo. Insomma, stiamo parlando di signore bollicine.

Una critica – ognuno fa un po’ come gli pare, sia chiaro – mi permetto però di avanzarla sul packaging¤ con il quale esce dalla cantina bresciana: la bottiglia è sicuramente bella, elegante nella forma e nell’etichetta, nemmeno troppo pesante, trovo però esagerato quanta carta e cartone si porta dietro in giro; una scatola è infatti composta di solito da 6 bottiglie, ognuna delle quali incartata a mano e posta in un grande astuccio (anche bello!) a forma di violino, tutte dentro una seconda scatola in cartone (!); un tantino eccessivo, visto i tempi che corrono e la sempre maggiore necessità di ridurre gli imballi e di conseguenza il loro smaltimento.

P.S.: rimanendo sul tema, come tante aziende spumantistiche anche Bellavista le ha sicuramente tentate tutte con le chiusure e le capsule delle sue bottiglie; le prime, su tutta la linea rimangono tra le più funzionali, le capsule del Vittorio Moretti vanno invece migliorate tant’è che consiglio spesso di tirarle via completamente col coltellino del cavatappi (A.D.).

Gaiole in Chianti, La Casuccia ’97 Castello di Ama

28 Maggio 2012

Lorenza Sebasti e Marco Pallanti, Castello di Ama. L’Arte, la cultura, il vino, la tradizione del Chianti e quella del Chianti ad Ama, il sangiovese, il merlot, il pinot nero ed altre storie…

Invero non ho nessuna intenzione di perdermi in convenevoli tra conservatori e riformisti, tradizionalisti e innovatori, c’è n’è già tanto in giro; in fin dei conti poi ogni giorno può regalare uno stato d’animo adatto e diverso per un sorso dell’uno o dell’altro. A me, sia chiaro, il sangiovese fa impazzire – quello tirato su come Dio comanda però -, a Gaiole come a Montalcino. Eppure, dinanzi a una bottiglia di L’Apparita 2001 come si fa a chiudere gli occhi? Come non ci si può fermare anche solo un attimo a riflettere…

E La Casuccia 1997? Bene, non saprei se lo è un grande vino ($!), però tradizione o no è un gran bel bere e, dopo 15 anni, assolutamente ancora sugli scudi. Si dice che una immagine, per quanto chiara, possa trarre in inganno; beh, qui il particolare pare non ammettere repliche: la vigna conta poco più di 12 ettari, impiantati tra il ‘64 ed il ’75 su terreni abbastanza uniformi di natura argilloso-calcarea. Sin da subito furono scelte forme di allevamento “innovative” per l’epoca, tra le quali la Spalliera verticale con taglio a Guyot semplice e la Lira Aperta, un sistema, quest’ultimo, mai visto in Italia prima di quegli anni ed importato direttamente dalla Francia, da Bordeaux. Il vigneto è suddiviso in 17 piccole parcelle impiantate per lo più con le varietà tradizionali chiantigiane, su 2 parcelle invece c’è la presenza del merlot che concorre – in questo come in quasi tutti i vini di Ama – a caratterizzarne profondamente lo stile, per qualcuno magari discutibile eppure inequivocabilmente di spessore.

Il colore, nonostante i tre lustri è assolutamente integro, rubino/granato vivace e ancora abbastanza carico. Il naso è subito molto elegante, il frutto non ha perso smalto, anzi, offre una maturità ineccepibile, irreprensibile, con note di confettura di prugna e amarene estremamente invitanti. Ma c’è dell’altro: prima un sottofondo speziato e tabaccoso, e di cuoio, ma anche note balsamiche, liquirizia, china e di finissimo sottobosco. Il sorso è asciutto, copioso, ha materia da vendere e giusta tensione acida, più del tannino che, lentamente, appare avviato a sopirsi. Dal 1985, quando la prima bottiglia ha varcato per la prima volta la cantina di Ama, sono state prodotte meno di dieci annate. E questo la dice abbastanza lunga. 

Chiavari, Golfo del Tigullio Spumante Pas Dosé Abissi 2009 Bisson: il vino con il mare dentro!

25 Maggio 2012

L’idea è bizzarra, suggestiva, improbabile. E’ venuta in mente, una decina d’anni fa a Piero Lugano, enotecaro e produttore di vini con la figlia Marta a Chiavari. A me è rimbalzata iersera: “senta, avremmo voglia di bollicine, qualcosa di buono però, magari di insolito e che stia bene con il pesce…”

Abissi 2009 di Bisson è un vino particolare o, se preferite, più semplicemente, davvero singolare: un metodo classico che nasce letteralmente in fondo al mare! A seconda delle annate vengono utilizzate in percentuali variabili le uve tradizionali liguri bianchetta genovese, vermentino e pigato. La vendemmia è generalmente precoce, come tradizione vuole, per ottenere vini base ricchi in acidità; fermentato a temperatura controllata, è avviato alla presa di spuma con inoculo di lieviti selezionati. Sin qui, è chiaro, nulla di particolare.

A questo punto però entra in scena la trovata di Piero Lugano, navigato lupo di mare prima che intraprendente imprenditore del vino, così parte il progetto “Abissi”: le bottiglie, circa 6.000, vengono sistemate dentro dei gabbiotti di acciaio ed immerse, alla profondità di 60 metri, nei fondali dell’Area Marina Protetta di Portofino per circa diciotto mesi.

La convinzione è che durante il periodo d’immersione, le bottiglie, adagiate in un ambiente di affinamento effettivamente particolare – costantemente intorno ai 15° e, grazie anche all’effetto di bilanciamento di pressione, omogenea ed equilibrata sia dall’esterno verso l’interno che viceversa -, possano giovarsi di un élevage talmente esclusivo da caratterizzarne profondamente lo stile e la complessità, anche grazie all’effetto culla, svolto in questo caso naturalmente dalle correnti marine che permettono, costantemente, di mantenere in sospensione le “fecce nobili”, fondamentali per conferire al vino corpo, struttura e, naturalmente, profumi unici. Dopo il ripescaggio e la sboccatura augurale, le bottiglie vengono lasciate ancora in affinamento nella miniera di Gambatesa. Il vino, come scritto anche in etichetta, non viene “dosato”.

Le bottiglie sono anzitutto molto particolari, alcune recano evidenti segni della lunga sosta in mare, con un gioco di incrostazioni e disegni marini naturali effettivamente affascinanti: certe bottiglie conservano addirittura conchiglie e stelle marine attaccate, una mise conservata anche grazie ad un particolare packaging che vede ogni singola bottiglia rivestita, prima della sua commercializzazione, con una speciale pellicola trasparente protettiva che ne preserva tutta l’avvenente suggestione.

Un fascino che trova immediate conferme nel vino, vestito di un giallo paglierino ricco e brillante, carezzato da bollicine sottili, fini e particolarmente persistenti. Molto persistenti. Il naso è realmente curioso, suggestione o no regala realmente note molto particolari: dapprima di frutta secca e spezie dolci, ma anche e soprattutto marine, iodate, un timbro salmastro largamente gradevole, particolare ma non eccessivamente invadente. I bocca poi è asciutto, di spessore, chiede spazio e se lo prende, è vivace, fresco e di buona persistenza, assai sapido. Chiude leggermente amaro, ma è solo un richiamo, nulla di ché. Insomma, Abissi è sicuramente una buona idea – diciamo pure geniale, una trovata! -, ma soprattutto è un ottimo vino spumante.

Se ne è parlato anche qui e qui, mica sul giornalino di Roccasecca (cit.)!

Termeno, Gewürztraminer Kastelaz ’11 E. Walch

13 Maggio 2012

Non so quanto possa essere durevole il piacere di tutto un pasto accompagnato con un vino di questa struttura e complessità aromatica, tant’è che a parlar di Gewürztraminer sono davvero pochissimi quei vini che sanno esprimere con una tale profondità e vigoria tutta la tipicità del varietale.

Il Kastelaz 2011 di Elena Walch¤ è senza dubbio alcuno un bianco superlativo, c’è ben poco da girarci intorno, assolutamente cristallino nel colore, esagerato quasi nell’intensità aromatica ed estremamente voluttuoso al palato. Veste un giallo paglierino piacevolmente dorato, il naso è praticamente infinito, inarrestabile, indomabile: sa di frutta tropicale, fiori gialli, erbe di montagna e piante officinali, agrumi, spezie e chi più ne ha, più ne metta. Il ventaglio olfattivo è tra i più complessi e variopinti mai proponibili: si colgono nitidi sentori di ananas e litchi, rosa canina e gelsomino, camomilla, mentuccia e finanche dolci note di miele di Millefiori; un continuo divenire di finissima levatura. 

In bocca, al primo sorso, appare anche docile, morbido, sostanzialmente però è carico di materia, quasi grasso, sapido e lungo; e basta giusto un altro sorso per coglierne appieno tutta l’anima più nobile del Gewürztraminer. E’ un bianco di particolare struttura, pervaso però da una giusta tensione acida ma anche caratterizzato da un notevole spessore alcolico (siamo sui 15 gradi!). Non è, per dirla tutta, un bianco per tutti e, aggiungo, nemmeno da spendere su qualsiasi piatto, però se amate il pesce crudo, o una o più variazioni sul tema, avrei anche pensato all’abbinamento giusto da proporvi… (leggi qui¤).

Pantelleria, Entelechia ’03 della Tenuta Rekale

6 Maggio 2012

Entelechia, per dirla con Aristotele, è la sostanza che ha perfettamente attuato tutte le sue potenzialità. Bicchiere alla mano, mai nome per un vino fu più azzeccato.

Non v’è molto da aggiungere sull’origine e la produzione del vino, che in fin dei conti richiama una tradizione ormai secolare a Pantelleria, un rito davvero unico. Ma anche del territorio isolano, ormai conosciutissimo ai più e passato ai raggi x in ogni suo minimo anfratto, si è già raccontato il lungo e in largo; i valori assoluti rimangono quelli di sempre: il particolare microclima, la maniacale ricerca della purezza da parte dei vignaioli panteschi nonché l’anima preziosa di un vitigno generoso e tanto trasversale come solo il moscato d’Alessandria, alias zibibbo, sa essere. 

Magari val bene spendere due righe, appena due, sull’azienda; quella Miceli che nonostante le mille e più difficoltà ed il continuo peregrinare nel rinnovamento degli ultimi anni, almeno sui vini della splendida Tenuta Rekale a Pantelleria non ha mai smesso di garantire investimenti e qualità assoluta, talvolta inarrivabile. Così mentre l’Yrnm, sin dalla sua vendemmia nel 1998 continua a rimanere l’unico riferimento seriamente attendibile del moscato secco, l’Entelechia è, assieme a pochissimi altri sull’isola, quel “nec plus ultra” imperdibile della denominazione in versione dolce. 

E’ puro nettare quindi, e si intuisce sin da subito. Il colore ha certamente perso un poco di smalto, e brillantezza, nove anni sono in verità sempre nove anni anche per un campione della meditazione come questo. Adesso il timbro è quasi “ruggine”, rimane però il fascino delle sfumature ancora ambra sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ricco e finissimo ed offre un ventaglio di aromi e sentori preziosissimi. C’è il varietale, con quella sferzata di agrumi canditi e albicocca secca, ma c’è molto di più: frutta secca, cioccolato fondente, caramella d’orzo, chiodi di garofano, liquirizia. Ricchezza e concentrazione di aromi sostenuti da un sorso pieno e vellutato, naturalmente dolce, mieloso eppure non affatto stucchevole grazie anche alle sfumature accorse grazie alla lenta maturazione in legno e gli ultimi anni in bottiglia. Diciamo pure però che l’abbiamo “preso per i capelli” come si suol dire, da bersi subito quindi, mo’ mo’!

T’amo o t’odio, così è per il Cerdeña ’08 Argiolas

5 Maggio 2012

L’etichetta è a mio avviso una delle più belle in circolazione, rappresenta l´isola di Sardegna, Cerdeña in catalano, presa da una vecchia carta contenuta nell´Atlante nautico isolano del 1375, detto di Re Carlo V di Francia. La zona interna dell´isola, segnalata con il colore marrone quasi a sottolinearne la sua vocazione montuosa, è decorata da finissimi arabeschi multicolori.

Nasce con l’intento di valorizzare al massimo il vermentino pur accompagnandosi con altre varietà autoctone locali tra le quali il prezioso nasco; ha, anche per questo, una impronta gusto olfattiva molto particolare. Prodotto per la prima volta nel 2000, anche per il Cerdeña come per tanti vini passati in barriques nati a cavallo tra gli anni novanta e duemila si è dovuto faticare non poco prima di centrare appieno il giusto equilibrio con il legno; rimane il bianco di punta della produzione della famiglia Argiolas, un vino che all’approccio ricorda alcune delle più felici versioni secche di un’altro particolare classico bianco isolano italiano, il moscato di Pantelleria, dal naso intriso di fragranti dolcezze mediterranee ed un sorso invece asciutto e salino, talvolta spiazzante.

Il colore porta con se tutto il sole di Sardegna, il naso gode di una timbrica impressionante, è ampio e tremendamente persistente. L’attacco è quasi pungente, decisamente esotico, dalla miriade di fiori passiti si vira immediatamente su profumi più netti e distintivi di frutta secca, miele e burro con sfumature speziate ed eteree quantomeno originali; un ventaglio davvero particolare, unico, dove le note di mallo di noce e mandorla fanno il paio con finissimi sentori di zenzero candito e zafferano in polvere. Il gusto è intenso, in bocca è asciutto e di buona persistenza, ha struttura e buona tensione acida, nonostante l’alcol, chiude quindi particolarmente sapido con un ritorno molto piacevole di profusa dolcezza retro olfattiva. Non è certo a buon mercato, siamo infatti decisamente sopra i 30 euro in enoteca, però penso che almeno una volta si può provarlo. E amarlo, ma anche no!

Alezio, Spumante Brut Rosè Rosa del Golfo

16 aprile 2012

Ci siamo riempiti la bocca coi rosati della famiglia Calò di Alezio, senza dubbio tra le più valide aziende vitivinicole pugliesi e tra le più brillanti sulla tipologia da almeno 40 anni.

Il Salento, il negroamaro, un territorio collinare di particolare vocazione intriso di argilla e ferro, il clima temperato, le vigne storiche: tutti elementi che fanno la differenza e che, all’unisono, si sentono tutti nel Rosa del Golfo come nello splendido Vigna Mazzì, i due rosati tra i più amati dagli italiani (cit.); ma anche, sorpresa delle sorprese, in questo nuovo delizioso spumante rosé per il quale si rischia davvero la dipendenza.

Realizzato secondo il metodo classico, con la seconda fermentazione che avviene quindi in bottiglia, rimane sui lieviti per almeno 24 mesi. La liqueur è preparata col vino base del Vigna Mazzì, il loro negroamaro rosato affinato in legno. Il prodotto finale non subisce dosaggio, magari solo un rabbocco dopo la sboccatura. Il risultato? Molto invitante, già dal colore, rosa tenue ma assai brillante. Il perlage non gode di particolare intensità però è piuttosto fine e di buona insistenza. Così anche la spuma. Il naso è molto delicato, soffre inizialmente del classico “effetto primordiale”, sa cioè di crosta di pane e ancora minimamente di lievito, ma tutto svanisce in poco più di un attimo; arrivano quindi sentori di petali di rosa, lampone e mora, chiaramente riconoscibili già al primo naso e caratteristici del varietale predominante, il negroamaro appunto (il saldo è chardonnay). In bocca è secco ma invita a sorsi copiosi, non impone carattere richiamando particolare serbevolezza ma bensì bevibilità e morbidezza estrema. Tiene molto bene diversi abbinamenti, in particolar modo con carpacci o crudi di pesce più in generale; ha tra l’altro un tenore alcolico nella media della tipologia, pertanto in due la bottiglia scivola via che nemmeno te ne accorgi. O quasi.

Termeno, Lagrein 2011 Cantina di Termeno

15 aprile 2012

Alcuni scritti ampelografici riportano che è quasi certo che “lagrein” derivi da Lagara, colonia della Magna Grecia famosa per un vino, il Lagaritanos. Del lagrein sono generalmente riconosciuti due biotipi abbastanza difformi nella dimensione del grappolo: quello a grappolo corto ed uno a grappolo lungo, tra l’altro con caratteristiche organolettiche abbastanza diverse. Nelle zone cosiddette più tipiche, si ottengono sostanzialmente due tipologie, il rosato (Lagrein Kretzer) e quello scuro (Lagrein Dunkel). In entrambi i casi il risultato è quasi sempre al di sopra delle aspettative.

Tramin o Cantina di Termeno è senz’altro tra le cantine sociali altoatesine di più antica tradizione viticola; sono 270 i soci, sparsi qua e là tra Termeno, Ora, Egna e Montagna, territori tra i più vocati dell’Alto Adige su una superficie totale di circa 230 ettari. Molti ricorderanno magari il loro meraviglioso Terminum, un vino dolce tra i migliori in Italia o forse il Nussbaumer, altro piccolo gioiello di gewürztraminer vera e propria bandiera di queste terre.

Ogni qualvolta mi trovo dinanzi a un vino di queste zone mi ritorna in mente una frase, lapalissiana, di Giovanni Puiatti; si parlava di vini bianchi, della frenata subita negli ultimi anni dai bianchi friulani a favore dei vini altoatesini: “Il Friuli ha cominciato a fare i conti con le proprie convinzioni, i propri limiti commerciali, non appena in Alto Adige hanno deciso di sbarcare sul mercato italiano”. “E’ stato subito un bagno di sangue”. Non ha certamente torto, anzi. La qualità anzitutto, indiscutibile, ma soprattutto il rapporto prezzo-qualità, talvolta decisamente inarrivabile.

Probabilmente, ma molto in generale, i vini dell’Alto Adige mancano ancora di quella profondità, longevità ampiamente riconosciuta a mani basse ai classici friulani, ai bianchi soprattutto, ma in quanto ad altro (pulizia espressiva, franchezza varietale, bontà gustativa) siamo veramente su livelli di assoluta eccellenza.

E parlando di rossi magari questo Lagrein Dunkel 2011 è giusto quel rosso domenicale da spendere a tavola senza pensarci su più di tanto: dal colore purpureo, con un naso vinoso, floreale di viola e fruttato di mora, solo appena speziato; il sorso è asciutto e ben inquadrato, disinvolto, senza particolari briglie, insistenze tanniche o sferzate acide. Mettiamola così, ma non facciamolo sapere a quel geniaccio di Willi Sturz, non sarebbe affatto d’accordo: un rosso di facile approccio, di estrema pulizia olfattiva, franchezza varietale e bontà gustativa, appunto. Però non abbiate timore di beccare una bottiglia di due o più anni. Vi racconto del duemilaundici appena in cantina, ma non ho resistito a confrontarlo subito col 2010; poi, con altre intenzioni però, con un Riserva Urban 2006. Davvero sorprendente il lagrein di Tramin, e i primi due mai sopra i 10 euro in enoteca!

Supertuscan tra passato, presente e (poco) futuro

9 aprile 2012

Non che siano mancati argomenti, anzi, come inizio non poteva andare meglio. Più degli altri anni però durante questa “apertura” di stagione m’è mancato quel poco di tempo in più per potervi raccontare subito le prime bottiglie passatemi per mano: priorità all’attenzione a certi dettagli, alcune novità, gli ingranaggi da oliare e un programma di eventi enogastronomici decisamente coi fiocchi¤. Poi… l’abiocco! 🙂

Insomma, uno start up di gran soddisfazione ma parecchio impegnativo. Ancora qualche giorno di pazienza quindi e L’Arcante riprenderà a consegnarvi cose buone (nuove) dal mondo del vino con la solita frequenza; frattanto “copioincollo” dai primi appunti e vi consegno un paio di assaggi notevoli di cui vale la pena scrivere almeno qualche riga; il primo è l’Acciaiolo ’97 di Castello d’Albola¤: gran rosso, una garanzia, dal colore ancora vivace e dal naso estremamente fitto e verticale, in splendida forma. Si certo, annata fortunata quella, verrebbe da dire “impressionante”, ma giuro che non me l’aspettavo ancora così profonda: il sorso è integro, ancora vibrante e ricco, puntuto e avvolgente, decisamente “fresco” ed invitante, sorprendente!

Di proprietà della famiglia Zonin¤, Castello d’Albola è a Radda in Chianti, su per le splendide colline chiantigiane; 850 ettari di cui circa 160 a vigneto frazionato in tanti piccoli cru tra cui spiccano Montevertine, Crognole, Solatio, Ellere e Acciaiolo, appunto. Quasi il 90% delle superficie vitata è occupata dal sangiovese, poi cabernet sauvignon, chardonnay e canaiolo.

Rimanendo da queste parti, intendo in Toscana, due facce della stessa medaglia  e convincenti per metà: Le Serre Nuove 2004 e Ornellaia 2008 di Tenute dell’Ornellaia¤. Il primo, second-vin dell’azienda-mito bolgherese è nato nel ’97 per dare manforte al più blasonato Bolgheri Superiore: vi finisce infatti, solitamente come prima ricaduta, tutta l’uva ritenuta non adatta per l’Ornellaia. Sin dal colore è evidente che vive ancora una splendida stagione, è in perfetto equilibrio degustativo e laddove necessario non avrei dubbi che sarebbe il meglio da offrire a coloro i quali vanno in cerca di un bordolese toscano da cogliere a pieno e nell’immediato: al naso è fulgido, soave, asciutto in bocca. Il sorso è risoluto, composto ma con un ritorno felice e ancora pimpante, di buona stoffa e profondità. Non sarà magari il vino della vita ma ne mette parecchi in fila, anche di più blasonati, pure volendo fare due conti in casa propria.

Il secondo, dal curriculum certamente invidiabile, m’è parso invece in questa versione un tantino troppo sovraestratto, e pur vestito da uno splendido colore e da un naso incalzante – amaroneggiante – ne ho colto un sorso sostanzialmente eccessivo, surmaturo e debordante; non vorrei dirlo ma già al secondo sorso fa registrare un attacco piuttosto invadente, monocorde, quasi stancante. Paga probabilmente ognuno dei 15 gradi d’alcol (onestamente troppi).

Chianti Classico Riserva La Selvanella 2003 Melini

4 marzo 2012

145 ettari di proprietà, cinquanta dei quali nel comune di Radda in Chianti, uno dei migliori cru della zona classica. Dieci sono dedicati esclusivamente a questo vino, tra i primi Chianti a portare in etichetta la menzione della vigna, una felice intuizione seguita poi negli anni da tanti altri.

E’ vero, Melini è un colosso di quelli che tirano fuori dalle proprie cantine milionate di bottiglie, ciononostante però non manca di una solida tradizione e qualche buona chicca come, quando esce, un Vin Santo Occhio di Pernice sui livelli dei migliori e questa Riserva, che non perde un colpo nemmeno con le cannonate, etichetta storica di sicuro approdo per chi desideri saggiare, senza svenarsi, un grande Chianti Classico. 

Ne conservo, da vero afeçionado come sono, diverse bottiglie di più annate, nonché ancora alcuni magnum. E proprio tra questi ultimi mi è capitato finalmente di tirarne il collo a qualcuno: uno sfortunato ‘95, ahimè di tappo, e un 2003, oggetto di questa recensione, rivelatosi invece vino davvero splendido, e in ottima forma. Colore rubino con appena accennate sfumature granato e ben luminoso; il naso è lento a svelarsi, ma non disattende i buoni propositi, con sentori di viola passita, ciliegia matura, tabacco.

Dopo qualche tempo in caraffa l’intensità olfattiva regala anche sentori più intriganti di grafite, cacao, caffé appena tostato e cuoio bagnato. Un ventaglio maturo ed affascinante. In bocca mostra ancora buonissima stoffa, una certa freschezza, con tannini ancora insidiosi ed un sorso gradevole che chiude morbido e sapido. E’ sempre piacevole trovare conferme nonostante i tanti anni, quasi dieci, di questa etichetta, che rimane, come detto, un porto sicuro dove riparare nel mare magnum dei Chianti Classico.

Guudniùs, Barbaresco Cascina Roccalini ’07 e ’08

2 marzo 2012

Trovo interessante segnalarvi questo vino, che ad esser buono è buono, di gran materia, con un bel naso “dolce” e verticale ed un sorso di un certo spessore, a tutto tondo; però stateci attenti, “à consommer avec modération” dicono i francesi: 14 gradi e mezzo in alcol il 2007 e 15 (!) il 2008, non so se mi spiego…

Leggo che Cascina Roccalini ha sempre conferito le uve a Bruno Giacosa, almeno fino al 2004, quando Paolo Veglio cominciò a pensare che era arrivato il momento di andare per la sua strada ed iniziare a vinificare in proprio. Già questo la dice abbastanza lunga sulla qualità, sia delle uve che della vigna. La cantina, distribuita in Italia da Les Caves de Pyrene, è molto piccola e con una produzione media che non arriva alle diecimila bottiglie l’anno. Chi l’ha conosciuto, dice che Paolo Veglio è uno di quelli decisi a fare le cose per bene, profondamente innamorato di quello che fa e dal futuro sicuramente luminoso. Prendiamoci tutto per buono e vediamo, di qui a qualche anno, cosa ne viene ancora fuori.

Il Barbaresco Roccalini 2007 ha gran stoffa, un bel colore rubino, vivace e un naso piuttosto fine, elegante, pure variopinto. In bocca è asciutto, nerboruto, con buona tessitura ed una sana corrispondenza del frutto; come anticipato in apertura è un rosso di gran corpo, che si giova di una buona acidità e di un sorso abbastanza sapido. Un pelino più fitto il 2008, dal colore leggermente più carico ma anch’esso luminoso ed invitante. Il primo naso soffre ancora di una certa insistenza del legno, ma grosso modo non manca di centrare il varietale, e con discreta eleganza; Il sorso è copioso, ha spessore e si sente, qui però forse un po’ troppo. La bocca infatti è come ammantata dal vino, e dopo il secondo bicchiere si fa quasi fatica a digerirne la carica alcolica, così vigorosa e prorompente nonostante una buonissima acidità ed una carica tannica invidiabile.

Non ci resta che attendere fiduciosi che il tempo ci consegni altre annate da saggiare, confrontare ed un po’ più di esperienza a Paolo per inquadrare meglio quale strada vorrà perseguire. Per il momento però val la pena e come provarli i suoi vini, non fosse altro per il prezzo, qui più o meno sui 20 euro in enoteca. Quasi un affare!

Lucera, Cacc’ e Mmitte 2009 Cantina La Marchesa

20 febbraio 2012

Ci sono (quasi) sempre piacevoli sorprese dietro una bottiglia di vino; e più è curiosa, diciamo “particolare”, l’etichetta o la sua storia, più è grande poi il piacere della scoperta e del racconto quando il vino è buono.

Il nome Cacc’ e Mmitte di Lucera fu scelto allorquando si decise per la doc, nel 1975, per i vini prodotti in questo bel pezzo di Puglia. Questa espressione, di chiara origine dialettale locale, ha una storia abbastanza curiosa e questa etichetta non manca di svelarla nella sua retro: dovete sapere che un tempo, qui come in tanti altri luoghi dell’Italia meridionale, la vinificazione avveniva nei cosiddetti “palmenti”, delle arcaiche strutture di produzione agricola, in pietra e calcestruzzo, di notevole rilevanza per l’economia rurale locale e, generalmente, utilizzate da più coltivatori, magari anche dello stesso latifondo. Così, in tempo di vendemmia, capitava che vi fossero tutto un susseguirsi di vari utilizzatori che, una volta portato a termine la propria di vinificazione, dovevano lasciare il “palmento” a disposizione di chi seguiva. Da qui Cacc’ e Mmitte, dove Cacc’ sta pertira fuori” il mosto dal palmento…” e Mmitte per “metti” nel palmento l’uva di chi segue…

La doc qui di per sé non è certo un vanto della produzione vitivinicola, fosse solo perché nel disciplinare, praticamente, non ci si è fatto sfuggire proprio nulla dei varietali più appetiti dagli imbottigliatori di ogni dove degli anni ’60 e ’70, dal nero di Troia al montepulciano, ma anche sangiovese, malvasia nera e bianca, trebbiano, bombino bianco e chi più ne ha, più ne metta, ma non per questo si può dire che manchino esempi di pregevole qualità e seria interpretazione territoriale. Esecuzioni cioè franche e piacevolmente suggestive, proprio come questo Cacc’ e Mmitte di Lucera 2009 di Cantina La Marchesa che, a parte un’etichetta poco felice – giocata ostinatamente sull’oro e il viola, in tutta onestà un tantino kitsch -, mi è parso senza ombra di dubbio un degno e gradito compagno in tavola.

Un rosso interessante, da quel che leggo composto in buona parte proprio da nero di Troia e montepulciano, ma anche, in piccola parte, da bombino bianco. Curioso no? Un vitigno bianco complementare a due rossi, un po’ come accadeva un tempo anche nel Chianti. Cose d’altri tempi insomma. L’assaggio invece rivela una certa vivacità tutta nostra, figlia del nostro tempo; il primo naso non è dei più immediati ma con la giusta attenzione si colgono chiare fresche note di violetta e frutta rossa, polposa, sentori di ciliegia, mirtilli, un bouquet ancora caratterizzato da una certa vinosità. Ben dosato anche il legno, assolutamente non invadente, e affatto banale, che ne tratteggia un corpo solido, rotondo e snello. E la conferma non tarda ad arrivare: il sorso è franco e vigoroso, apparentemente più dei suoi tredici gradi, e secco, caldo, scorrevole, il primo ne richiama subito un’altro. Un buon rosso dal nome sicuramente curioso, se vogliamo uno dei più autentici della mappatura enoica italiana, un souvenir quasi, però di quelli da bere e non da lasciare impolverare su di una mensola.

Trento Riserva del Fondatore Giulio Ferrari ’97

16 febbraio 2012

Se guardi al mondo delle bollicine italiane un pensierino subito a Ferrari lo fai, anzitutto a questo nome, a questo marchio ormai storico, poi anche a tutti gli altri, quelli che ti vengono in mente. E se cerchi, tra i metodo classico italiani, quelli di riferimento, lo spumante ideale, quello assoluto, forse l’unico a giocarsela alla pari con i più grandi Champagne, bene, il Giulio è sempre lì, lassù, tra i migliori, quando non il migliore.

Il Giulio Ferrari è la Riserva del Fondatore, prodotto per la prima volta nel 1972 e avviato sin da subito ad un luminoso futuro. Non è uno spumante qualsiasi, è anzitutto uno chardonnay di gran spessore, poi un finissimo metodo classico – da un punto di vista tecnico di grandissima levatura -, che si giova quindi di una materia prima e di un terroir eccezionali e poi di una pratica di cantina altrettanto unica per esperienza e capacità. E tutto ciò salta subito al naso e al palato, sin da un primo assaggio. Non a caso ci vogliono almeno dieci anni di maturazione sui lieviti per donargli quel carattere distintivo unico ed inequivocabile, siffatto, di una tale opulenza e al tempo stesso finissima eleganza; a parer mio da sempre avanti anni luce a qualsiasi altra bollicina italiana.

Il 1997 è stato un millesimo di spessore, e nonostante i quindici anni questo vino si conferma capacissimo di attraversare il tempo senza perdere carattere e verve espressiva: il colore, tendente all’oro, è solo appena più pronunciato di quanto ci si aspetti ma decisamente in forma, luminoso, rinvigorito tra l’altro da un corollario di bollicine che hanno conservato finezza e persistenza. Il naso è chiaramente maturo, però sorprendente e pulito, integro, variopinto di erbe alpine, frutta gialla sciroppata e cioccolato bianco, e che sfuma lentamente su lievi sentori speziati di zenzero candito e frutta secca. Il sorso è asciutto, pieno e caldo, accompagnato da una sobria vivacità ma soprattutto da una avvolgente rotondità gustativa che chiude con un finale di bocca piacevolmente sapido. Un bicchiere tira l’altro. E’ un gran peccato, ma pare che anche i magnum prima o poi finiscono.

Se vi va, qui trovate una più ampia cronistoria del Giulio con annessa una speciale miniverticale di tre annate.

Nutrivo una speranza, o di come si cambia non sempre in meglio: Avvoltore 2006 Moris Farms

15 febbraio 2012

Ricordo una ragazza, conosciuta quasi vent’anni fa, eravamo poco più che adolescenti, lei con un paio d’anni in meno dei miei; era piuttosto alta – “spilungona” usavamo dire -, non certo bellissima, ma aveva un fascino tutto suo, e per noi del gruppo era “la preda”, assai ambita pur se dichiaratamente inarrivabile: aveva linee sinuose e in pieno sviluppo, dei bei capelli castani, talvolta arruffati e occhi cristallini ma sempre incazzati, un caratterino deciso e, puntualmente, sempre un gran da fare.

Strappargli un appuntamento era impossibile: tra la scuola, le lezioni di pianoforte, la pallavolo potevi ritrovarti ad inseguirla per settimane intere; e non era detto che ci uscivi. Insomma, alla fine era chiaro che non l’avrebbe mai mollata a nessuno di noi, però tutti, compreso me che degli aspiranti ero il più spacciato della comitiva, continuavamo a stargli dietro. Era lì, era dei nostri, e assieme ci stavamo bene, passavamo delle belle serate ed era bello desiderarla.

Ci perdemmo di vista, suo padre – onestamente non ho mai capito cosa facesse di preciso – fu trasferito altrove. La rincontrai qualche anno dopo, venne una sera a cena al ristorante dove lavoravo, saranno passati una decina d’anni, anno più anno meno; non la riconobbi subito, in verità ci volle quasi tutta la cena per raccoglierne la familiarità, e fu più lei a riconoscere me che viceversa. L’appariscente fiore giallo che portava nei capelli, adesso chiari e più corti, ne illuminava il profilo, fulgido, ben truccato, non pesante ma finemente tratteggiato.

A fine serata, al momento dei saluti, non mancò uno scambio di battute come ai vecchi tempi, le sue, devo dire, meno originali di quanto m’aspettassi – i miei chili di troppo, l’accento puteolano, cose così -; sembrava insomma tenerci alla conversazione, ma mica più di tanto, infatti quelle stesse parole gliele avevo già sentito dire tante altre volte in passato.

Le mie non furono certo da meno, chiaramente autorizzate dalla sua compagnia di sole donne, altrimenti non mi sarei mai permesso: la trovavo certamente “cresciuta”, parecchio avvenente, era evidente che il lavoro nella moda ne aveva fatto una donna accorta, attenta, forse adesso veramente bella, di quella bellezza di cui tanto si parla in giro e della quale, ahimé, spesso si abusa. Però non so, continuavo a cogliere nelle sue espressioni, nel suo sguardo, una certa distanza, una sorta di stanchezza, quasi il tempo gli avesse strappato via le unghie, oppure, più semplicemente, la voglia o l’interesse a graffiare.

Si parla dell’Avvoltore 2006 Moris Farms, ovvero sangiovese 75%, cabernet sauvignon 20%, syrah 5%. Siamo naturalmente in Toscana, a Massa Marittima in località Poggio all’Avvoltore, su terreni argillosi, ricchi di scheletro, alcalini con esposizione a sud ovest.