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Guide ai ristoranti d’Italia 2013, così L’Espresso

11 ottobre 2012

Voto: 16
Un Cappello: cucina buona, interessante.
Bicchiere: particolare cura nella ricerca e nel servizio dei vini, internazionali, nazionali o locali.

“Dissolto nell’aria ogni orpello di cucina internazionale, seduti sulle poltrone di cashmere o a tovagliati davanti alla piscina, scoprirete il ritorno al futuro: l’esaltazione di uno stile italiano che ha l’ambizione di coniugare il meglio della nostra terra – e del mare – con una cucina attenta alla “leggerezza”. Assistiti da un sommelier scoppiettante come Angelo Di Natale Di Costanzo e coccolati da un servizio che non smette un attimo di porgere pani e oli e sali e burri, sfilano i nuovi classici di Andrea Migliaccio: supplì di riso con ragù di pesce e strepitosa crema di cipollotti con scarola, acciughe e crostini. Un equilibrio antico che sigla il matrimonio felice tra la palamita e la lingua di vitello, testimone fave, piselli, pancetta e caviale, mentre il merluzzo nero duella in una nuvola di vapore con spinaci, pomodori secchi e spuma di whisky. Il carrello dei formaggi fa strada a quelli dei gelati e dei dolci: uno per tutti, il babà. Degustazione da 200 euro, sui 150 alla carta”. (da Le guide de L’Espresso – I ristoranti d’Italia 2013)

Un sommelier ha 10 certezze assolute in testa, tutto il resto sono solo sogni che scalpitano…

13 agosto 2012

Da domani ritorno a raccontare di vini – domani o più in là vediamo, incalza Ferragosto -, ho saggiato infatti diverse cose parecchio interessanti in quest’ultima settimana che varrebbe la pena segnalarvi. Stamattina però mi sono svegliato con un grillo per la testa…

Eh sì, anch’io avevo le mie aspettative una volta finita la scuola, ancor più dopo i primi passi al ristorante. Poi le prime incertezze – ma chi me lo fa fare?, ti chiedi mentre gli amici vanno al mare -, salvato da certi sogni da inseguire, progetti da realizzare, con al centro il lavoro che diventa ogni giorno più tuo, fare il sommelier. Con tutti gli annessi e connessi del caso. Possibilmente senza rimpianti (o quasi).

Così mi sono venuti alla mente una decina di punti, chiamateli pure “passaggi obbligati” se volete, l’ordine temporale decidetelo voi, se ne può certamente discutere ma non passarci sopra. Eccoli…

1. Trovare un lavoro capace di dare soddisfazioni.

2. Lavorare in un posto dove con altri si possano condividere esperienze e crescita professionale.

3. Stappare finalmente “la bottiglia”, una di quelle che fa sospirare ed esclamare: “cazzo, allora esistono per davvero sti’ vini!”.

4. Lasciare quel lavoro dopo un giusto tempo di maturazione per trovarne un altro ancor più soddisfacente in termini professionali ma anche economici. O aprire una propria attività, che non è proprio lo stesso ma va bene comunque.

5. Concorsi, riconoscimenti, cotillons: eppure ripartire sempre con grande slancio con la convinzione che il traguardo raggiunto sia solo una linea di partenza e non un punto di arrivo.

6. Fare del proprio meglio – sempre! – per dare piena soddisfazione al cliente e accontentarsi di riceverne poco meno della metà. Quando accade.

7. Stappare un La Tache del ’90 di Romanée Conti e un Mouton Rothschild dell’82 e coglierne al volo le primarie differenze (fazzoletto alla mano). Parliamo di fenomeni!

8. Come qualsiasi vino, senza la propria terra, una storia di valore, soprattutto credibile, non si va da nessuna parte. Quindi non sarà mai una cattiva idea studiare per diventarne l’ambasciatore.

9. Mettersi in discussione, sempre. Anche quando si pensa di essere il numero 1 (!).

10. Sorridere, che è la cosa più saporita della vita.

Intervallo. Risotto con nervetti di vitella, gli scampi e la liquirizia di Annie Féolde e Italo Bassi

4 agosto 2012

Non è un piatto qualunque, è il Risotto con nervetti di vitella, scampi e liquirizia di Annie Féolde e Italo Bassi dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze.

C’è dentro equilibrio e sapienza, il mare e la terra, v’è soave dolcezza e puntuta speziatura, delicata consistenza e al tempo stesso leggerezza, profumi antichi e nuovi riveduti con esecuzione magistrale di un piatto border line tra tradizione e creatività.

Professione Sommelier, ci sono capsule e capsule

28 luglio 2012

Eh sì, l’argomento torna perentorio ogni qualvolta la sera prima si corre il rischio di rimanerci fregato. Un paio di settimane fa, dopo aver scritto questo post (leggi qui) ho avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con alcuni “tecnici del settore” ma anche e soprattutto con alcuni produttori di vino evidentemente sollecitati dall’argomento. Loro mi hanno detto la loro, che più o meno provo a sintetizzare, poi io ci metto ancora del mio…

La capsula in PVC = competitività. La parola d’ordine per chi sceglie questo tipo di chiusura è la competitività; difficile infatti trovare equilibrio fra estetica e controllo dei costi, soprattutto quando ci si deve confrontare con i canali della GDO dove il giusto rapporto qualità-prezzo è di fondamentale importanza.

Le capsule termoretraibili vengono realizzate a partire dalla materia prima acquistata in bobine, vengono poi verniciate sulle linee rotocalco dove si effettua la verniciatura del fondo e una prima personalizzazione che si ottiene attraverso cilindri di stampa disposti su tutta la larghezza della rotocalco. Il semilavorato, una volta verniciato e tagliato viene avviato nelle linee di formatura, dove le capsule vengono modellate attraverso un processo di termoretrazione su appositi mandrini conici. Anche in questo caso, nelle macchine di formatura, le capsule possono essere ulteriormente personalizzate con stampe a caldo e punzonature, sia sulla testa che sulla parete.

Tecnicamente facili da approcciare possono creare una qualche difficoltà quando il pvc non è di altissima rifinitura, strappandosi letterelmante sotto il coltellino del cavatappi. Con mano ferma però ed un po’ di esperienza l’apertura è regolare ed abbastanza veloce. (A.D.)

La capsula in Polilaminato, viva la modernità e l’eleganza. Le capsule in polilaminato sono essenzialmente costituite da un sandwich di Alluminio – Polietilene – Alluminio. Sia l’alluminio che il polietilene, vengono acquistati in bobine che vengono lavorate all’accoppiatrice, capace di produrre fino a 250 metri/min di materiale. Il semilavorato viene poi verniciato con dei colori di fondo ed eventualmente personalizzato con le grafiche richieste nelle linee rotocalco. Grazie al connubio fra la forza dell’alluminio e l’elasticità del polietilene, si ottiene una gamma di prodotti particolarmente adatti per tutti quei vini che devono, comunque, distinguersi anche a livello di packaging.

Se ti capita tra le mani una brochure promozionale di una qualche azienda non è raro trovare descrizioni del genere: “durante la fase di apertura, la sua eccezionale duttilità esalta al massimo questo importantissimo momento”. Bene, ma è davvero così? Non sempre, e di sicuro c’è da starci seriamente attenti; perché anche qui c’è Polilaminato e Polilaminato. Il più delle volte ti capitano capsule pessime, sottilissime, che hanno lo stesso potenziale letale di un Boker Magnum 02RB3 (qui); diciamola tutta, ne faremmo davvero a meno!

L’impressione è che sono sì facili da approcciare ma proprio qui rimani fregato. Il coltellino del cavatappi gli scivola intorno velocemente ma la dentatura spesso ne trattiene qualche briciola rendendo la capsula praticamente un’arma letale anche solo sfiorandola con le dita. Bisogna metterci molta attenzione, e 1 a 10 un paio di dita rischi sempre di rimettercele. (A.D.)

La capsula in stagno, un po’ amarcord e un po’ tradizione. Con i moderni impianti e materiali selezionati si ottiene di sovente un prodotto capace di adattarsi perfettamente al collo di ogni bottiglia. Nelle fasi di verniciatura, serigrafia e timbratura, vengono poi eseguiti i più svariati lavori di decoro e personalizzazione indispensabili per completare l’abbigliamento delle bottiglie destinate a contenere vini di grande pregio riservate alla clientela più attenta ed esigente.

Risultano un po’ “pesanti” da aprire e non sempre il taglio è lineare e scorrevole tant’è che spesso capita di doverci ritornare ancora una volta su per effettuare un taglio più decisivo e funzionale. Meglio procurarsi un cavatappi veramente dei migliori o una levacapsule piuttosto efficace. (A.D.)

La vie en rosé, l’articolo su FOOD&BEVERAGE

22 luglio 2012

Sulla rivista Food&Beverage di Luglio-Agosto è appena stato pubblicato un articolo a cura di Paolo Becarelli sui vini rosati italiani, dove, tra le altre cose, viene sottolineata la nostra proposta in carta al Capri Palace. Questo il mio breve pensiero sull’argomento che come ormai saprete mi sta particolarmente a cuore…

[…] Se alcuni anni fa i rosé erano spesso dei completamenti di gamma o realizzati per ovviare a problemi di vendemmie di rossi, ora hanno cambiato decisamente passo. Ne è certo anche Angelo Di Costanzo, sommelier del Capri Palace di Anacapri, hotel che ospita ristoranti raffinati come L’Olivo e Il Riccio. “Chi si avvicina a un vino rosato oggi riesce finalmente a cogliere il senso di bere rosa. Ossia, la leggerezza e la piacevolezza, ma trova anche il piacere di scoprire rosati diversi, come quelli d’annata o di piccoli produttori. Senza contare le nuove possibilità di abbinamento. Il rosato è infatti un vino molto versatile che lascia infinite possibilità sia a chi lo ordina, sia a chi lo propone”, spiega Di Costanzo che solo di rosati in carta ne ha ben 36, oltre a una trentina di referenze fra bollicine francesi e italiane.

“Poiché l’hotel è in Campania abbiamo un occhio di riguardo per i rosati di Campi Flegrei, Irpinia e Cilento, ma non mancano etichette sia delle zone più vocate, sia di altre regioni italiane. Ci sono anche i rosati d’annata: vini particolari, richiesti soprattutto da intenditori perché rinunciano a un po’ della tipica freschezza dei vini giovani per acquistare maggiore complessità. […]

Tratto da FOOD&BEVERAGE di Luglio-Agosto 2012, pag. 52.

E’ lei, è Annie Féolde, il mito a portata di mano

16 luglio 2012

La storia, il ”blasone enogastronomico”, forse un po’ anche il look, possono pesare tanto, creare pregiudizio; ti aspetti infatti una donna cui l’anticipa il “personaggio”, apparentemente un po’ distante, per qualcuno con la puzza sotto il naso, la grande chef scesa a Capri a fare passerella, riverita dalla grande Maison e dalla stampa tutta. E’ pur sempre, non dimentichiamocelo, l’artefice del “3 stelle Michelin” italiano più conosciuto al mondo. 

E invece no. Che straordinaria persona è invece Annie Féolde, che esempio di umiltà e disponibilità professionale. L’abbiamo capito subito, quando ce la siamo ritrovata, così d’emblé, all’ingresso delle cucine dell’albergo, con al suo fianco il fidato Italo Bassi intenti a scaricare i prodotti che han voluto portarsi dietro dalla Toscana per preparare i piatti della serata dell’indomani. Era un po’ provata Annie, accaldata ma con un bel sorriso smagliante stampato in faccia, e quando io le accenno un inchino ed il baciamano d’ordinanza, lei quasi vorrebbe darmi un pizzicotto per l’eccessiva riverenza: benvenuta al Capri Palace, Madame La Cuisine! Risata generale, abbiamo rotto gli indugi.

Questo giorno era scritto che dovesse arrivare, prima o poi; sin da quando, verso fine anni novanta m’era scattata la fissa del vino e della cucina. Lei, proprio lei e Giorgio Pinchiorri (G i o r g i o  P i n c h i o r r i!) i primi riferimenti in assoluto, il primo ristorante da non perdere negli anni a venire, il primo libro di cucina comprato (nel 2004), divorato ogni giorno con quelle splendide ricette tutte da provare a replicare, magari vicine anche lontanamente! Poi il fascino del successo ogni anno sempre più fragoroso, con l’Enoteca Pinchiorri che assurge a icona assoluta ed un fatto quantomeno curioso, incredibile ma vero: lei francese, protagonista assoluta della scena mondiale della cucina made in Italy e lui, italiano, tra i più stimati e corteggiati sommelier del pianeta e grandissimo conoscitore e collezionista di bottiglie francesi (e non solo). Insomma, tanta roba pe’ i posteri.

Ho cercato così di cogliere l’occasione per farci quattro chiacchiere, almeno con lei, raccogliere di persona un po’ di riscontri storici, di esperienze personali, di vedute, prospettive. E Annie Feolde, garbatissima e disponibile, si racconta; e non basta certo un post, ma vanno bene queste poche righe per raccontarvi almeno l’emozione e il piacere dell’incontro.

Ci ha raccontato del suo arrivo a Firenze nel 1969, in verità per studiare l’italiano non certo per cucinare, ma conoscere Giorgio qualche tempo dopo le ha completamente stravolto i progetti di vita. Così nel ’72, con lui appena diplomato sommelier rilevano l’antica cantina del palazzo lì in via Ghibellina, dove cominciano come enoteca e dove lentamente, ma in crescendo, si vira su qualcosa che ci mette davvero poco a diventare un riferimento assoluto per l’intera città. I primi piatti cucinati arrivano nel ’74, con l’aiuto prezioso della madre di Giorgio in cucina, poi gli antipasti e i dolci a cura proprio di Annie. “Tutto secondo il proprio istinto, da perfetta autodidatta, con orgoglio e senza pregiudizio, traendo qua e là ispirazioni ma con il chiodo fisso della primaria qualità degli ingredienti, made in Italy e toscani anzitutto”.

Sembra che fare di testa propria allora sia stato un’intuizione decisiva, eh sì perché di là c’erano – ci sono – le origini francesi, la nouvelle cuisine che impazzava, mentre di qua una terra di adozione straordinaria, come la sua Francia ricca di storia ma soprattutto di una cucina tradizionale, soprattutto quella povera, ancora vivissima; quella cucina popolare che Oltralpe già la rivoluzione francese aveva praticamente spazzato via d’un colpo. Un eccidio continuato negli anni, si pensi ad esempio a quell’elemento che da sempre divide i due paesi in cucina: il burro di là, l’olio extravergine d’oliva di qua. Abbastanza facile scegliere, no?, sussurra. “E poi ci sono le verdure, le mille ricette sul tema, il pomodoro, l’Aceto Balsamico Tradizionale, il Parmigiano Reggiano”. Insomma, sulla varietà e qualità della materia prima non c’è storia, anche se bisogna sempre tenere bene a mente, sottolinea, che la scuola francese rimane un caposaldo per tecnica ed esecuzione.

Tanto curiosa M.me Féolde che l’indomani ci ha onorato della sua presenza durante tutto il briefing di pre-servizio serale: aveva piacere di stare con noi, condividere sino in fondo l’evento messo su in collaborazione con la Maison Vranken-Pommery (vedi qui) di cui è oggi Ambasciatrice in cucina. E come è stato splendido, a fine serata, fare le due del mattino in terrazza a continuare la bella chiacchierata, riprendere dove s’era interrotto. E quando s’è alzata per andar via, visibilmente stanca, c’ha tenuto a salutare e stringere le mani – uno ad uno – a tutto lo staff del ristorante riunito lì per un brindisi finale. Ineccepibile, Annie Féolde.

Ecco, Signora Anniebasta francesismi, a questo punto-, come si fa a rimanere sulla cresta dell’onda per 40 anni suonati? “E’ semplice, basta non fermarsi mai e cercare sempre di migliorare, non adagiarsi. C’è sempre qualcosa di meglio che si può dare agli ospiti. Ogni giorno”.

Enoteca Pinchiorri
Via Ghibellina 87 50122 Firenze
Tel.+39 055 242757 – +39 055 242777
Fax +39 055 244983

www.enotecapinchiorri.com –
ristorante@enotecapinchiorri.com

Alcuni riconoscimenti tra i più significativi
Dal 2004 ad oggi: Tre Stelle, Guida Michelin.
2004: Primo Ristorante d’Italia, secondo le sette principali Guide ai Ristoranti.
2003: Annie Féolde, Five Star Diamond Award American Academy of Hospitality Sciences.
1995-2003: Due Stelle, Guida Michelin.
1993-1994:Tre Stelle, Guida Michelin.
1992: Primo Ristorante d’Italia, secondo le sette Guide ai Ristoranti principali.
1987: Annie Féolde, Personnalitè de l’Année Distinction Internationale, Paris.
1986: Giorgio Pinchiorri viene nominato Cavaliere all’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
1983-1992: Due Stelle, Guida Michelin.
1983: ingresso in Relais e Chateaux e Tradition et Qualité.
1982: Una Stella, Guida Michelin.

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Brunello di Montalcino Riserva Soldera ’99 Case Basse, o di un bicchiere come elogio all’infinito

2 luglio 2012

Da sempre Gianfranco Soldera e i suoi vini dividono appassionati e critici suscitando, nel bene e nel male, passioni e tensioni più di ogni altro produttore lì a Montalcino.

E’ difficile farsene una idea precisa su quale sia la posizione (o le posizioni) definitive sugli argomenti perennemente in discussione – filosofia, centralità delle colture, esposizioni, naturalità, tipicità ecc… -, e non v’è argomento tra questi che non sia stato messo in cassaforte o, per contro, alla berlina ogni qualvolta si apre una bottiglia di Brunello Riserva Soldera di Case Basse.

Tenendo tra le dita questo ’99 ho ripesato all’infinito e a quanto questo concetto abbia profondamente diviso, lacerato le coscienze di molti fini pensatori della storia, antica e contemporanea. Il suo rifiuto ha origini lontane e nasce dal fatto che già i greci ritenevano conoscibile solo ciò che è determinato, finito; tutto ciò che è indeterminato, infinito e perciò inconoscibile è quindi da rifiutare. Ecco.

Così in molti dicono di conoscere Case Basse e Gianfranco Soldera abbastanza per averne compreso appieno ogni segreto e proposta ideale, tanto dal poter chiaramente decidere da che parte stare. Loro di là, lui di qua. Personalmente non ho ancora deciso del tutto, nonostante nel febbraio dell’anno scorso (leggi qui il reportage) sono andato a trovarlo e cercato di capirci qualcosa, faccia a faccia, camminandoci assieme le vigne e rubando pezzi di storia dalle sue botti. Ognuna con una propria. Di certo vado maturando una convinzione: i suoi vini “vivono” come pochi altri e qualcosa a noi ancora oscuro li rende mutevoli, talvolta imperfetti ma comunque sibillini, altre voltre semplicemente inarrivabili. Infiniti, appunto.

Certo, avrò beccato una bottiglia eccezionale, ma questo ’99 è stata una rivelazione nel vero senso della parola, una delle esperienze degustative più emozionanti di sempre. Un vino straordinario, con un colore a tratti ancora porpora fissato nel tempo; un corollario di sensazioni varietali che poche bottiglie ilcinesi sanno regalare, ancor mai con una tale intensità ed integrità espressiva; asciutto e profondo, la ricchezza espressiva si tramuta in arma letale quando il vino arriva al palato: succoso, dolce, avvolgente, caldo e nerboruto, lunghissimo. Infinito, appunto!

Intervallo. L’Olivo, vista mare al tramonto

24 giugno 2012

Interview with Angelo Di Costanzo, Head Sommelier of the prestigious Capri Palace Hotel

12 giugno 2012

Qualche settimana fa ho rilasciato questa intervista al sito “Cellar Tours” che si occupa, tra le altre cose, di organizzare tours esclusivi in tutto il mondo per i grandi appassionati del vino. Se vi va dategli una occhiata…

The youngest of 7 brothers, Angelo was born in Pozzuoli in 1975, he attended hotel school and, after working in several local restaurants, he became a certified AIS sommelier in 2001.

In 2008 he was awarded “Best Sommelier in Campania” (leggi qui) and “Silver Pin – Charme Sommelier of Italy”. From 2002 to 2009, he run a great wine shop in Pozzuoli, L’Arcante, which is also the name of his fantastic food and wine blog, L´Arcante.

Sipping a glass of Falanghina dei Campi Flegrei Cruna De Lago 2007*, we began our chat… continua a leggerla su cellartours.com 🙂

*la foto dell’ultima bottiglia di Cruna DeLago dei Di Meo è di Sara Marte (che linko) ripresa dal blog di Luciano Pignataro.

Pillole di vita da sommelier, “Odi et Amo” #1

8 giugno 2012

E’ da un po’ che mi girava per la testa, invero è da un po’ che dovevo – a domanda – delle risposte: a Claudio, Piero, ma anche ad Alessandro che più di una volta si sono chiesti e mi hanno detto “quanta fortuna fare il sommelier lì a Capri...”.

Ore 8,30/9.00 del mattino, poco dopo il caffé.

Amo. Ci sono giornate che comincio a rincorrere bottiglie dalle otto e mezzo/nove del mattino: quelle che la sera prima hanno consumato e vanno rimandate al Riccio – con, eventualmente, carta aggiornata e stampata -, quelle che deve ritirare il Bar degli Artisti, quelle da rimpiazzare nei frigo a L’Olivo uscite il giorno prima. E quelle che vanno al Bistrot Ragù, meno impegnative ma pur sempre da tenere sotto costante controllo. Almeno un centinaio, nelle giornate più “cool” talvolta anche più, da rincorrere su e giù per la Cantina del Giorno, in La Dolce Vite o nel deposito. Un lavoraccio? Più o meno, ma che mi piace ed amo perché dà valore alle scelte, e valore – ancor più prezioso! – al lavoro dei ragazzi che con me le propongono, presentano, servono al meglio, al loro meglio.

Odio. Un po’ mi scoccia, è vero, ma come si fa? E’ pesante mettere ogni giorno tutto a posto quando gli spazi sono quelli che sono, i tempi poi, manco a dirlo; 8/9.000 bottiglie l’anno da far fuori in 4/5 mesi di stagione buona. Tante, anche questo un lavoraccio, duro, per tutti: per Gennaro che talvolta è immerso nelle carte, per Dario, Sabatino – bontà loro – che non mancano mai di offrire la spalla, per Claudietta che, poveretta, morde il freno a fare su e giù per le scale ma ohh!, non si risparmia mai. Non v’è rimedio, è quanto necessario per garantire quello che proviamo a fare, offrire il meglio, alquanto più ci è possibile!

Ore 10,00/11,30: carta canta.

Amo. Nomi, etichette, annate, varietali, annotazioni. Talvolta c’è da perderci la testa: nuovi arrivi, passaggi di annata, revisioni, ma quanto mi piace metterci l’anima nel preparare una carta quanto più completa, affascinante, convincente, viva possibile!

Odio. Lo so, capita nei migliori ristoranti del mondo, ma quanto è banale bere ovunque nel mondo sempre lo stesso vino del cuore: “i would like any chardonnay, smooth, buttery, Napa style!”. Per fortuna sono sempre meno (di clienti che lo chiedono, il vino del cuore e di chardonnay Napa Style), ma aprila quella carta, sei a Capri mica in culo al mondo, guarda almeno cosa ha raccontarti…

Ore 19,30: quasi sempre sino a tardi.

Amo. I clienti attenti, anche severi, esigenti, pure quelli che si attaccano al taglio della zucchina nel Cotto&Crudo o alla goccia d’acqua trasudata della bottiglia appena alzata dal seau à glace. Sono di grande stimolo, ti fanno stare in allerta, correre e concentrare, ti fanno dare il meglio di te e quasi sempre riuscire nell’ardua impresa di sbagliare il meno possibile.

Odio. I fighetti, presuntuosi, altezzosi e soprattutto quelli incazzatissimi che ti arrivano al ristorante per aprirti in faccia tutte le valvole di sfogo possibili: “fa caldo”, “ma fa freschetto?”, “c’è poca luce” o “troppa, si può abbassare?”, “c’è rumore… e un posto più appartato?” o “troppo silenzio, mica saremo soli?”. Almeno passala la soglia, guardami, ho le braccia aperte, ti sto dando il benvenuto, prova a fidarti! Continua…

© L’Arcante – riproduzione riservata

Termeno, Gewürztraminer Kastelaz ’11 E. Walch

13 Maggio 2012

Non so quanto possa essere durevole il piacere di tutto un pasto accompagnato con un vino di questa struttura e complessità aromatica, tant’è che a parlar di Gewürztraminer sono davvero pochissimi quei vini che sanno esprimere con una tale profondità e vigoria tutta la tipicità del varietale.

Il Kastelaz 2011 di Elena Walch¤ è senza dubbio alcuno un bianco superlativo, c’è ben poco da girarci intorno, assolutamente cristallino nel colore, esagerato quasi nell’intensità aromatica ed estremamente voluttuoso al palato. Veste un giallo paglierino piacevolmente dorato, il naso è praticamente infinito, inarrestabile, indomabile: sa di frutta tropicale, fiori gialli, erbe di montagna e piante officinali, agrumi, spezie e chi più ne ha, più ne metta. Il ventaglio olfattivo è tra i più complessi e variopinti mai proponibili: si colgono nitidi sentori di ananas e litchi, rosa canina e gelsomino, camomilla, mentuccia e finanche dolci note di miele di Millefiori; un continuo divenire di finissima levatura. 

In bocca, al primo sorso, appare anche docile, morbido, sostanzialmente però è carico di materia, quasi grasso, sapido e lungo; e basta giusto un altro sorso per coglierne appieno tutta l’anima più nobile del Gewürztraminer. E’ un bianco di particolare struttura, pervaso però da una giusta tensione acida ma anche caratterizzato da un notevole spessore alcolico (siamo sui 15 gradi!). Non è, per dirla tutta, un bianco per tutti e, aggiungo, nemmeno da spendere su qualsiasi piatto, però se amate il pesce crudo, o una o più variazioni sul tema, avrei anche pensato all’abbinamento giusto da proporvi… (leggi qui¤).

The era of the sommelier as “Delphic Oracle” is over, lo dicono a Talia Baiocchi* su “Eater”

19 aprile 2012

L’amico sommelier e giornalista Andrea Gori (da Burde) mi segnalava iersera questo articolo apparso su “Eater”, il giornale on line di Talia Baiocchi. Il pezzo, “The Era of the Sommelier as Delphic Oracle Is Over” è interessante e descrive chiaramente la nuova veste del sommelier moderno, non più semplicemente un Oracolo ma un vero comunicatore a 360°. In home page c’è una mia foto – l’hanno scovata Flickr -, è la prova di decantazione al concorso “Primo Sommelier della Campania vinto nel 2008! 

“People are no longer looking for the best wine, they’re looking for the most distinctive wine,” says Levi Dalton, sommelier at Boulud Sud in New York City. While that may just sound like semantics, it’s actually the single most significant development in the diner-sommelier relationship over the past 20 years. 

Raj Parr, the wine director for the Michael Mina group and the co-author – along with Jordan Mackay – of Secrets of the Sommeliers said that in 1996, when he first started as a sommelier it wasn’t about anything but what the guest wanted. Now, he says, the sommelier is less of a steward and more of an ambassador. Sommeliers are no longer just there to give the diner what they are familiar with; they’re there to expose them to something they probably wouldn’t have discovered on their own.

Qui l’articolo per intero pubblicato lo scorso 17 Aprile. 

*Talia Baiocchi is Eater’s Wine Editor. Find her on Twitter at @TaliaBaiocchi and over at “Eater NY” where she covers the treacherous world of New York wine lists via her Decanted column.

Detto, fatto!

12 aprile 2012

Lo dicevo ieri su facebook: orgoglio, finalmente senza pregiudizio. Dopo tre anni di duro lavoro e fine cesellatura (cit.), la Carta dei Vini della Campania – qui a L’Olivo – ha ufficialmente più referenze della Toscana (101 a 99). E così, pur crescendo, sarà sempre.

Un lavoro iniziato nel 2009, promosso dalla proprietà e deciso con l’amico e collega Giovanni Guida con il quale ho condiviso due splendide stagioni insieme e continuato ostinatamente per garantire agli ospiti dei nostri ristoranti oltre ad una cucina d’autore, espressa a più livelli, anche una proposta vini che sapesse dare ampio spazio e lustro non solo alle splendide bottiglie delle varie regioni italiane, Piemonte e Toscana in testa – al solito, appunto -, ma anche, soprattutto, allo straordinario patrimonio varietale regionale campano. Oggi posso dirlo, finalmente ci siamo, la mia terra è protagonista assoluta.

I numeri della cantina¤? Bene, giusto qualcuno: 850 etichette (più un centinaio fuori carta), qualcosa come 9.000 bottiglie, 88 vini al bicchiere (60 vini dolci, praticamente tutti quelli in carta sono proposti anche al calice), una trentina gli Spumanti, 75 Maison di Champagne, 25 rosati italiani, 150 e più referenze tra francesi ed esteri in generale, una sessantina i vari formati speciali tra mezze bottiglie, magnum, doppi magnum e jeroboam). Si riparte quindi, è (quasi) tutto pronto!

La Dolce Vite del Ristorante L’Olivo del Capri Palace Hotel, tutti gli appuntamenti del 2012

7 aprile 2012

Come ogni anno si rinnova la tradizione degli eventi enogastronomici al Capri Palace Hotel&Spa di Anacapri; anche quest’anno vogliamo stupire e crescere, così non ci faremo mancare proprio nulla, emozioni comprese!

Si apre il 18 maggio, come sempre con un’azienda campana e Feudi di San Gregorio ci è sembrata una scelta di assoluto valore. Poi si fa un passaggio in langa, dal Piemonte arriverà una storica verticale di Barolo Borgogno; quindi un tuffo nel meraviglioso mondo delle bollicine d’autore con la Maison Pommery di Reims e una carrellata di cuvée e millesimi da non credere. E con un ospite d’eccezione, Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze!

Poi un salto nel profondo Sud, con Tasca d’Almerita e il sole di Sicilia, mentre per la chiusura di stagione s’è pensato ad un altro gioiello della viticoltura regionale campana: l’azienda Terredora della famiglia Mastroberardino.  Questo in sintesi il programma, seguiranno naturalmente gli opportuni aggiornamenti: 

  • Venerdi’ 18 maggio 2012
  • Feudi di San Gregorio – Sorbo Serpico, Campania.
  • Chef: Paolo Barrale del Marennà di Sorbo Serpico, Avellino.
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  • Venerdì 15 Giugno 2012
  • Borgogno – Barolo, Piemonte. 
  • Chef: Ugo Alciati del Ristorante Guido a Pollenzo, Cuneo.
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  • Venerdì 13 Luglio 2012
  • Pommery – Reims, Champagne. 
  • Chef: Annie Feolde, Ristorante Enoteca Pinchiorri, Firenze.
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  • Venerdì 14 settembre 2012
  • Tasca d’Almerita – Sclafani Bagni, Sicilia.
  •  Chef: Riccardo Di Giacinto, Ristorante All’Oro, Roma.
  • Venerdì 5 Ottobre 2012
  • Terredora – Montefalcione, Campania.

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Per informazioni dettagliate e prenotazioni:
Capri Palace Hotel & Spa
Ristorante L’OLivo
Via Capodimonte, 14
80071 Anacapri – Isola di Capri – ITALIA
Phone: (+39)081 978 0225
Fax: (+39) 081 978 0593
www.capripalace.com
olivo@capripalace.com
 

Carta canta

10 marzo 2012

Prendo spunto dal post di Jacopo sul suo Enoiche Illusioni. Me l’ero perso, ma solo perché ero in giro a bere aglianico qua e là, in cerca di persone, conferme, buone nuove, cose del genere insomma.

Non che ci sia da stupirsi più tanto – o forse si? -, però è indubbio che non mi capitava da tempo vederne una così. E non è che frequenti solo posti infiocchettati. Diciamocelo una volta per tutte: la carta dei vini o ce l’hai oppure lascia stare. E non mi dite che siamo alle solite, che siamo noi a menarla, non è che vi si chiede un lavoro certosino, quello va bene lasciarlo ai fissati, come me per esempio. Però cavolo, un po’ di attenzione!

Non è necessario metterci per forza tutto: la foto dell’etichetta, la denominazione, quando c’è la sottozona o il cru, il nome del vino, l’azienda, i vitigni, l’annata, magari indicazioni tipo “organic wine” o quando, in caso di verticali, sia nel frattempo cambiato qualcosa (uvaggi, denominazioni ecc.). Queste sono cose complicate, talvolta addirittura pesanti se non opportunamente supportate.

Basta riportare in carta – semplicemente – ciò che c’è scritto in etichetta: denominazione, quando c’è il nome del vino, l’azienda, annata e prezzo. Possibilmente scritti correttamente.

Un riso amaro

21 febbraio 2012

Di là: Pronto… Buongiorno…
Di qua: Buongiorno! Mi chiamo Angelo Di Costanzo. Ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere nel venire a farvi visita in cantina. E’ possibile?
Di là: Sì, si, un attimo che vi passo l’interessato… [breve attesa].
 
Di là: Pronto… Buongiorno…
Di qua: Buongiorno a voi, mi chiamo Angelo Di Costanzo. La settimana scorsa ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere di venirvi a trovare in cantina. E’ possibile?
Di là: Ah, ma voi cercate la cantina? Aspettate un attimo che vedo se ci rispondono… [attesa, non proprio breve].
 
Di là: Pronto Buongiorno… chi è che parla?
Di qua: Sì, salve, buongiorno, mi chiamo Angelo. Di Costanzo. Dicevo… che qualche giorno fa ho assaggiato alcuni vostri vini e così avrei piacere nel venire in visita in cantina per conoscervi meglio. E’ possibile?
Di là: Eh sì, grazie grazie. Sentite, ma voi scrivete? Su qualche giornale, rivista, blogger (che immagino con l’h, ndr)?
Di qua: Per la verità sì, a tempo perso anche, ma…
Di là: No perché se vuole i vini glieli posso spedire: mi manda l’indirizzo e così facciamo prima.
Di qua: In verità le mie intenzioni erano altre. Ci terrei a visitarvi, conoscere l’azienda, e magari saggiarli assieme a voi i vostri vini; guardi è mia intenzione comprarne un po’ per mettervi in carta…
Di là: Ah… allora se è così dobbiamo fare quando ci sta pure l’enologo. Fa tutto lui qui…
Di qua: Bene, se lo preferisce, per me va bene. Quando possiamo?
Di là: Le faccio sapere quando è disponibile.
Di qua: Attendo sue allora, buone cose. Le lascio il mio num…
Di là: Buona giornata.

Ecco, immaginatevi adesso cosa possa essere, significare, e non per un appassionato mentecatto come me, ma per un normalissimo avventore o cliente – manco a pensarlo uno straniero, chennesò americano –, scoprire l’Italia del vino ancor oggi.

Falanghina Via del Campo 2009 Quintodecimo

6 febbraio 2012

Via del Campo c’è una graziosa/gli occhi grandi color di foglia/tutta notte sta sulla soglia/vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c’è una bambina/con le labbra color rugiada/gli occhi grigi come la strada/nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c’è una puttana/gli occhi grandi color di foglia/se di amarla ti vien la voglia/basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano/lei ti guarda con un sorriso/non credevi che il paradiso/fosse solo lì al primo piano.

Via del Campo ci va un illuso/a pregarla di maritare/a vederla salir le scale/fino a quando il balcone ha chiuso.

Ama e ridi se amor risponde/piangi forte se non ti sente/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori. (1986, © Fabrizio De André).

A parlar di vino, cos’è la falanghina nell’immaginario comune se non quell’uva – come una puttana, cercata e violentata da molti -, procace e disponibile, appariscente, profumata e “pittata” all’evenienza, talvolta ingrassata sino al ridicolo per attirare orde di clienti il più delle volte coscientemente incapaci di coglierne la benché minima emozione, figuriamoci l’anima. Che nemmeno cercano. Il ché rende le cose molto più semplici a tutti.

Ecco, Luigi Moio¤ è un grande anche in questo. Provate a mettere nel bicchiere questo 2009: c’è chi ha timore della semplicità del varietale, di un indemoniato uso del legno, di un trucco pesante e, non ultimo, quanto tutto ciò costi in soldoni. Bene, mettetela nel bicchiere questa falanghina, fatela provare magari a settanta persone tra appassionati, enologi, sommelier, conformisti e anticonformisti compresi: palati fini – certi finissimi -, ma anche palati meno “allenati”, puri, taluni anche grezzi. E poi statele ad ascoltare, provando a raccogliere le loro opinioni.

No, non serve che aggiunga altro, dire del colore fulgido e luminoso, del naso avvincente, fine e verticale, del sapore fitto, memorabile. Del valore: semplicemente prezioso. Non a caso il Professore sulla falanghina ci lavora da più di vent’anni. E non a caso, dopo vent’anni e più di ricerche, studi, prove, vini, la Sua falanghina, a Quintodecimo, si chiama Via del Campo. Certo non a caso, dicono.

Pozzuoli, Giovedì 2 Febbraio a l’Abraxas Osteria

13 gennaio 2012

Un appuntamento imperdibile per tutti i grandi appassionati del vino; l’abbiamo pensato in omaggio alla ricorrenza dei dieci anni di attività dello splendido locale flegreo di Nando Salemme.

E abbiamo deciso di cominciare questa particolare rassegna dedicata a “I Maestri del Vino” con una delle più belle realtà vitivinicole campane, l’azienda agricola Quintodecimo di Mirabella Eclano.

Mettete in agenda quindi, giovedì 2 febbraio, dalle ore 20,00, presso l’Abraxas Osteria di Pozzuoli, il prof. Luigi Moio ci racconta la sua terra e i suoi vini prodotti proprio lì a Quintodecimo, senza ombra di dubbio uno dei luoghi più suggestivi del vigneto irpino.

In degustazione, condotta dallo stesso Luigi Moio, con il sottoscritto, verrà proposto un percorso davvero interessante e trasversale di tutti i vini dell’azienda di Mirabella Eclano, con l’eccezionale anteprima assoluta del Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2007.

Informazioni e prenotazioni:
OSTERIA ABRAXAS
Via Scalandrone 15, Pozzuoli (NA)
Tel. 081 8549347
Cell. 366 6868795

Serene festività e… Buon Natale!

22 dicembre 2011

Campi Flegrei, tutte le novità della doc dal 2011

11 dicembre 2011

Lo scorso 26 ottobre 2011 è stato approvato con decreto ministeriale l’aggiornamento del disciplinare di produzione della d.o.c. Campi Flegrei, da tempo ferma ai dettami del ‘94, anno in cui era stata costituita.

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Modifiche importanti, che diverranno pane quotidiano già col millesimo 2011 in cantina, in uscita nei prossimi mesi del 2012; uno scatto in avanti a parer mio, intelligente e lungimirante, per una denominazione in forte ascesa che così facendo va confermando tutti i buoni auspici di affrontare questo particolare momento del mercato del vino con impegno e serietà produttiva, nella costruzione di una prospettiva per il territorio sempre più alettante, come ho imparato a leggere camminandoci le vigne e come vi stiamo cercando di proporre con sempre maggiore vigore; un territorio quello flegreo, capace di proporre ormai un ventaglio di assaggi ogni anno di qualità superiore e sempre più eterogenei, corrispondenti alle particolari caratteristiche di un areale storicamente vocato e sempre meglio interpretato di zona in zona.

Senza stare ad elencarvi tutte le novità, tra le quali anche accorgimenti tecnico-colturali-analitici, che comunque potete consultare con calma qui sul sito della Regione Campania, dove trovate tra l’altro tutte le modifiche ben evidenziate, queste sono quelle salienti più attese: anzitutto la modifica della doc Campi Flegrei bianco e rosso, con l’aumento della base ampelografica ammessa alla produzione: si spera così di dare maggiore vigore ad una etichetta praticamente mai utilizzata dai produttori. L’introduzione poi nella doc Campi Flegrei Falanghina, della versione passito (insisteva solo col piedirosso) e, nella stessa, l’opportunità di uscire con uno spumante dry o extra dry; infine, forse la più gradita delle novità, almeno per me, l’introduzione della doc Campi Flegrei Piedirosso o Pér e palummo rosato.

Altra novità, con un iter già ben avviato ma in via di definizione legislativa, sarà la possibilità di iscrivere sulle etichette delle bottiglie il nome della “vigna” o i suoi sinonimi, seguita dal relativo toponimo o nome tradizionale che potrà essere utilizzata nella presentazione e designazione dei vini DOP (ex doc e docg) ottenuti dalla superficie vitata che corrisponde al toponimo o nome tradizionale, purché rivendicata nella denuncia annuale di produzione delle uve prevista dall’articolo 14 del disciplinare ed a condizione che la vinificazione delle uve corrispondenti avvenga separatamente e che sia previsto un apposito elenco positivo a livello regionale. Elenco, come detto, di cui presto ne sapremo di più.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Falerno del Massico rosso Etichetta Bronzo 2004

9 dicembre 2011

E’ indubbio quanto sia importante ritornare su certi vini più volte nel tempo prima di decretarne definitivamente la loro bontà, quella loro fondamentale capacità di rappresentare a pieno l’idea di vino che t’aspetti da un certo luogo o un produttore, da questo o quel vitigno; in una parola, la sua più alta espressione.

Si dice in genere tipicità, termine di cui spesso si abusa ma che in questo caso risulta più che mai azzeccato per questo splendido rosso di Masseria Felicia. C’è poi un tema ancora più profondo, dal titolo “territorio” – o “terroir”, per dirla alla francese -, ancora e sempre più in primo piano quando si vuole far arrivare sino in fondo il messaggio che si tenta di lasciare con una recensione; tema però, diciamocelo, evidenziato talvolta più per vanità intellettuale che per verità storica oggettiva.

Trovo giusto aprire una parentesi: sino a qualche anno fa sembravamo perderci quasi esclusivamente tra merlottiani e cabernettiani ovvero pro e contro quella internazionalizzazione che ci ha sedotti, insidiati, conquistando posizioni importanti, sino a farci sentire assediati da un fenomeno che ci appariva incontrastato e incontrollabile: un fiume in piena che oltre ad aprirci ad una visione globale del vino (offrendoci tra l’altro, perché non ammetterlo, anche autorevoli brividi) ci ha scosso le coscienze e convinto molti a darsi una mossa e prendere per mano quel poco (o tanto, a seconda dei casi) di buono consegnatogli dalla storia, dalla tradizione e rilanciarlo, valorizzandone i contenuti, costruendovi sopra addirittura un’intera reputazione. Insomma, più che inseguire la moda, ha avuto le palle il coraggio di dire: “questa è la mia terra, così è se vi pare!”.

Così è successo qui a casa di Maria Felicia. E l’Etichetta Bronzo ne rappresenta il risultato più alto, la punta di diamante, e come questi un gioiello che nasce grezzo ma che il tempo, più dell’uomo, sa levigare e consegnare prezioso nelle mani della storia. Un 2004 tra le più belle interpretazioni di Falerno da aglianico e piedirosso in giro: fitto, dal naso elegante e dal sorso austero, pregnante. Il colore è splendido, rubino con delicate sfumature granato sull’unghia. Il naso è ricco, intenso e trasversale nei profumi e persistente: nitidi i riconoscimenti di amarena, prugna, china, carrube, rabarbaro. In bocca è slanciato, conquista il palato per la sua decisa profondità, ma anzitutto per l’ampiezza; il tannino, tanto è caparbio, ti sembra quasi di masticarlo, ma lo perdi appena prima di ogni stretta di denti perché ti arriva subito il frutto a distrarre le intenzioni, croccante e denso. Un vino superbo, di grande intensità, dal valore assoluto, una magnifica rappresentazione territoriale, quello subito a ridosso di San Terenzano, che poi è terra di Falerno, ma soprattutto Masseria Felicia.  

Pozzuoli, good news: Le Cantine dell’Averno, cominciamo dal Piedirosso dei Campi Flegrei ’10

7 dicembre 2011

Giusto per farvi capire subito dove vi trovate: siete a Pozzuoli, affacciati sul lago d’Averno, uno specchio d’acqua dalla forma ellittica che occupa l’antico cratere dove i romani posero l’ingresso agli inferi.

Cento metri sotto di voi, subito sulla sinistra, giacciono le rovine del Tempio di Apollo. In lontananza, a ore 12, il costone dello Scalandrone; dall’altra parte c’è il lago Fusaro. Nel mezzo, il cratere vulcanico spento, nato più o meno 4.000 anni fa, coperto da acque immote e scure; le ripide pareti che lo circondano sono coperte da boschi mentre quelle a pendenza dolce, proprio sotto di voi, sono occupate da vigneti, in parte terrazzati. Vigne straordinarie, quando in fioritura, nel loro pieno splendore, offrono un colpo d’occhio impagabile. Eppure è curioso come in questo luogo dove il verde e la natura splendono si racconti che in passato le acque esalassero tanto acido carbonico e gas da non permettere la vita agli uccelli: così il nome Avernus, dal greco Aornon, luogo senza uccelli.

In questo scenario nasce il sogno di Emilio e Nicola Mirabella, due fratelli, per quanto mi riguarda due amici di lunga data, soprattutto Nicola con il quale abbiamo condiviso tante bevute sin dai tempi del corso sommelier Ais. Era il 2000, con Franco Continisio come Maestro. Sì, s’è fatto anche quello Nicola, un corso per imparare a stare dinanzi a un bicchiere, ma non per sciorinare prosopopea a tavola, magari al ristorante, ma più semplicemente per imparare a leggere il vino, soprattutto il suo, “suo” anche se prodotto per tanti anni da altri a cui conferiva le uve.

Frattanto, un po’ alla volta, con il fratello hanno rimesso a nuovo il vecchio cellaio di famiglia, comprato i ferri del mestiere – tutti quelli utili e indispensabili -, chiamato in aiuto in cantina uno bravo, Carmine Valentino. Tutto questo senza nel tempo perdere mai di vista il vigneto: poco più di un ettaro e mezzo, a piede franco, tutto a per ‘e palummo con viti tra i 40 a i 60 anni d’età; poi altri 40 quintali circa di falanghina conferitegli dalle vigne confinanti di alcuni parenti. Tutto lì intorno al lago insomma. Appena 4.000 bottiglie in tutto, una per ognuno degli anni del lago, verrebbe da dire.

Il 2010 è il debutto: vendemmia svolta tutta a mano, con passaggi ripetuti in vigna; alcune particelle infatti sono giù, sul lungolago, in contrada Canneto, altre invece sulle terrazze che arrivano fin su via Strigari. Le uve pigiate col torchio, come si faceva un tempo, e lasciate fermentare in solo acciaio. Col 2011 appena in cantina invece si sta già lavorando a qualcosa di maggiore slancio: una falanghina, solo quella, che fa anche un breve passaggio in legno (di quelli piccoli e vecchi, ndr). Ma questa è un’altra storia che poi vi racconto. Promesso.

E’ molto severo Nicola, e pignolo. Raccontandomi dei suoi vini si dice abbastanza soddisfatto della falanghina, ancora poco convinto di questo per ‘e palummo: “l’idea è certamente un’altra, il piedirosso è una brutta bestia, ci stiamo lavorando su duramente, ma abbiamo una sola possibilità l’anno di metterla in pratica, per cui non vogliamo aver fretta, dobbiamo saper attendere”.

Invero non mi è dispiaciuto affatto questo vino. E’ vero, manca di lunghezza, al naso come in bocca, ma ha tanta piacevolezza, un ventaglio olfattivo di tutto rispetto ed un tessuto gustativo di estrema godibilità; mi ricorda, ad ogni sorso, quanto questo varietale sia sempre da tenere in considerazione quando si parla di vino oggi, di quei vini, intendo, capaci di conquistare il consumatore immediatamente, al primo sorso, per piacevolezza e bevibilità (oltre che per il prezzo, qui davvero encomiabile). Duemila bottiglie. Quattro euro franco cantina. Dovreste fare a cazzotti! Per quanto mi riguarda, buona la prima Nicò!

Questa recensione esce anche su www.lucianopignataro.it.

Taurasi, prove tecniche di Grand cru con il Coste e il Vigne d’Alto duemilasette di Cantine Lonardo

1 dicembre 2011

A margine della splendida verticale storica di greco musc’ andata in scena iersera al ristorante Rosiello di Posillipo, i Lonardo’s ci hanno concesso, in anteprima, un prezioso assaggio dei due loro nuovi cru di Taurasi in prossima uscita a Gennaio: il Coste e il Vigne d’Alto, tutti e due 2007.

Ci riserviamo naturalmente di approfondire meglio l’argomento, in vista anche di una prossima incursione irpina proprio tra qualche giorno, poco prima di Natale, quando non mancheremo (promesso!) di fare un salto da quelle parti; vi lascio però volentieri alcune annotazioni di merito sulle prime sensazioni ricevute. Prove tecniche di Gran cru irpini.

Il Coste 2007 appare vibrante, direi un rosso d’impeto. L’annata calda certamente lo incoraggia in questa veste sprint, con un colore decisamente avvincente con ancora evidenti nuances porpora. Il naso è intriso di note spiritose di frutta croccante e macerata, e l’accompagna una sottile e intrigante connotazione pepata. Il sorso è decisamente austero, di gran carattere, seppur quando accompagnato, come abbiamo fatto, con dell’ottimo e arcigno formaggio pareva scorrere via dissolvendosi. Dalle vigne intorno a Taurasi, allignate per lo più su terreni argillosi e di età media sui 40 anni, con una maturazione delle uve precoce e rapporto buccia/polpa a favore di quest’ultimo, quindi un approccio in vinificazione più soft. Tonneau e bottiglia.

Altra impressione il Vigne d’Alto 2007. Naso pronunciato su toni più tradizionali – riferibili ai vini di Contrade di Taurasi intendo -, con note di rabarbaro, fervori terragni, ricordi di ceneri, spiccatamente minerale. Qui “parla” il terroir: le vigne sono allocate in contrada Case d’Alto, su terreni compositi dove affiorano lapilli e ceneri di origine vulcanica. Classici starseti taurasini di età compresa tra i 40 e gli 80 anni: poca uva, di gran nerbo, con una buccia più spessa favorita senz’altro da condizioni pedoclimatiche più consone e quindi una maturazione più omogenea. Nonostante l’annata, qui il colore pare cedere un po’ della sua brillantezza ma appare più denso e meglio calibrato. Su misura. Del naso s’è detto, poi l’aspettiamo ancora, aggiungerei forse voluminoso, e poi un sorso decisamente appagante. Soprattutto, in questa fase, per chi ama le accentuate spigolature di un “giovane” e pimpante tradizionale aglianico di Taurasi. Legni diversi – comunque grandi -, e bottiglia.

Un anno di blog, ritorna L’Arcante Wine Award®

25 novembre 2011

Ritorna L’Arcante Wine Award®, ovvero cosa ci è piaciuto di più di quello che ci è capitato a tiro, nel 2011. Sottotitolo: perchè siamo convinti che i vini, e quindi le aziende, hanno sempre bisogno di essere riconosciute, tanto quanto di vedersi premiate. Un titolo in più non gli farà mica male, anche perchè, per esperienza vissuta, sembra che le mensole negli uffici di rappresentanza siano sempre più solide, come decisamente affollate le librerie nelle sale degustazioni aziendali o le pareti di fresco imbiancate degli uffici commerciali.

Qui trovate il nostro regolamento completo, mentre qui tutti i premiati dello scorso anno; queste che seguono invece le categorie ammesse ogni anno ai L’Arcante Wine Awards®: Miglior vino bianco, Miglior vino Rosato, Miglior vino rosso, Miglior vino dolce, Miglior vino spumante, Miglior vino straniero, L’azienda/Produttore dell’anno, L’enologo dell’anno. Inoltre ci riserviamo un Premio Speciale L’Arcante Wine Awards® per la persona del vino dell’anno, che con la sua opera fattiva ha contribuito o contribuisce a dar lustro al mondo del vino. Presto tutte le nominations e quindi i risultati. Stay tuned!

Napoli, Falanghina Vigna del Pino ’06 Agnanum

21 novembre 2011

E di quattro chiacchiere distintive con Raffaele Moccia¤. Un assaggio può evocare tante belle sensazioni, soprattutto quando condiviso con una persona deliziosa come Raffaele, viticoltore in Agnano, alle porte di Napoli. Sono tornato a trovarlo, mancavo di venirci da due-tre anni, non molti – o forse troppi, chissà -, eppure il tempo qui appare immutato, lento e prezioso com’era. Com’è.

Rompiamo subito il ghiaccio: Raffaele, ci ricordi chi sei, e come nasce Agnanum¤? Niente di complicato: sono un vignaiolo, ma anche un allevatore, soprattutto un padre, e a meno di 50 anni, pure nonno! Vabbè… mio padre ha piantato la vigna qui su per la collina alla fine degli anni sessanta. A cinque anni la mia prima vendemmia e contemporaneamente aiutavo i miei con l’allevamento degli animali. Ne ho spalato di m…a!. Poi nel 2002 la prima imbottigliata. Agnanum¤ è il primo nome che mi è venuto in mente.

Caspita, 2002-2011. Siamo al decennale. Dieci vendemmie sono da celebrare? E’ una buona idea. Pensa tu cosa fare e fammi sapere. Le bottiglie ce l’ho.

Qualcosa è cambiato, dico qui in cantina? Beh sì, abbiamo messo un po’ di cose a posto, comprato qualche piccolo tino in acciaio per serbare meglio i vini. Adesso riesco a vinificare tutte e tre le vigne separatamente. Per il resto poco o nulla. Sono e rimango un artigiano.

Ci spostiamo in campagna. Con una Smart ci arrampichiamo su per la collina. Il maltempo degli ultimi giorni ha reso praticamente impossibile girare motorizzati. Decidiamo così di proseguire a piedi, una scalata in piena regola. Adesso non si sente più nemmeno il rumore di una sola auto nonostante là sotto scivoli via un bel pezzo della tangenziale di Napoli.

In vigna, come siamo messi in vigna? Con qualche reinnesto, tra le piante morte per qualche motivo, e quelle rimaste bruciate dagli incendi che di tanto in tanto hanno investito la zona, siamo oggi a quattro ettari pieni; il vigneto si può dire che ha una età media di quarant’anni. Più i nuovi impianti, lassù “sopra il bosco”, circa 400 nuove viti sul limitare del cratere degli Astroni.

Tornare qui è sempre bellissimo. E’ vero. Respira, tira su, questo è ossigeno allo stato puro, ha un sapore difficile da trovare là sotto. Ho terminato di raccogliere il 2 novembre scorso. Prima la falanghina, il 30 e il 31 ottobre, poi il per ‘e palummo. Al di là di quel muro c’è il Parco degli Astroni, un posto magnifico, per niente valorizzato; un bosco naturale tra i più vecchi d’Europa. Qualcuno ancora oggi vi s’intrufola dalle mie vigne a caccia di funghi. E qualcos’altro.

Raffaè, come vedi questa situazione di mercato? Ci difendiamo, con molte difficoltà. La doc è molto inflazionata, la stanno massacrando, ed è un peccato, per lavoro che c’è da fare è davvero un peccato. Certi vini meriterebbero ben altro. Sinceramente non riesco a capire come si faccia a proporre certi prezzi; è palese che altri non hanno speso fatica in campagna, dedicato abbastanza tempo alle proprie vigne. E’ indubbio che comprare e rivendere uva o addirittura vino bello e fatto rende economicamente molto meglio che spezzarsi le reni ogni giorno.

Spiegati meglio. Il mio vigneto è tutto qui, su per la collina; faccio tutto a mano, piantare, curare, raccogliere; e scavare canali per l’acqua, il continuo sovescio, tutto il ciclo naturale della campagna insomma. Io dico che i costi in cantina possono più o meno essere omogenei, fatte le dovute proporzioni; in campagna però c’è da buttare il sangue, io il vino lo faccio con la mia uva, coltivata nella mia terra.

Un vignaiolo a tutto tondo. Non potrebbe essere altrimenti. Guarda, se non fossi continuamente in campagna certe cose scapperebbero di mano; con tutta l’acqua caduta nei giorni scorsi per esempio, se non avessi scavato per tempo questi canali, sai dove avremmo rincorso questa vigna? Qui adesso mi tocca rimettere a posto, riportare le terrazze a un giusto livello. Il terreno qui è talmente povero, sciolto, che dopo certi disastri si rischia che l’acqua si porti via anche le piante.

Torniamo in cantina, e dopo un breve ma meditato passaggio tra le vasche, ad assaggiare “i vini nuovi”, ci accomodiamo nell’ampia sala degustazione nelle immediate adiacenze della cantina; un luogo spartano e rustico, ma accogliente, seppur in questo momento un tantino impicciato dai lavori in fermento in cantina per la vendemmia appena alle spalle. Qui Raffaele conserva almeno un centinaio di bottiglie di tutte le annate prodotte, sin dalla prima duemiladue. Apriamo un Vigna del Pino 2006, falanghina passata in legno ed affinata almeno due anni in bottiglia.

Come è andata la vendemmia 2011? Non male; come ti ho detto ho terminato da poco, sono riuscito a rispettare i miei tempi, quella della mia vigna. Vendemmiare il 2 novembre quest’anno per molti sarebbe stato disastroso. Qui è andata così.

Poca uva o che? Quella necessaria, la migliore possibile. Appena 20 quintali di per ‘e palummo, più o meno 50 di falanghina.

Là dentro che c’è? Qui ci metto parte della falanghina raccolta nella vigna più bassa, quella subito a ridosso della cantina, e tutte quelle poche cassette delle uve da sempre in vigna, piantate da papà come si faceva una volta, e che tu conosci bene: la gesummina, la catalanesca e un poco di biancolella e coda di volpe. Ci faccio l’igt.

Con Gianluca Tommaselli come va? Ho deciso per la continuità. Maurizio De Simone è stato un passaggio indispensabile per inquadrare bene il lavoro da fare, pur tra le mille difficoltà avute. Lui è un uomo di pancia, grande enologo ma prima ancora una grande persona. Gianluca è un tecnico, si muove bene, sa cosa fare, come seguirmi, e fin dove si può spingere. Poi, come è ovvio che sia, decido io.

Continua a dire la sua questo vino, ancora dopo più di 5 anni? Sei tu l’esperto. Però si, sono molto felice quando li riassaggio e riesco, evocandone la travagliata genesi, ancora a sentire la mia uva. E’ una sensazione molto bella.

In effetti sì, questo Vigna del Pino 2006 conserva ancora una certa espressività. Il colore è ben definito, oro, limpido e cristallino. Il naso conduce ancora al varietale, però buccioso, polposo, cremoso quasi. Piacevoli le note di uva spina ed albicocca che si sovrappongono senza confondersi; chiude con un finale ammandorlato e di zenzero candito. In bocca è secco, gode ancora di buona freschezza nonostante l’età, ma colpisce ancor più la soave rotondità che infonde lungamente al palato, ricca e persistente; particolarmente incisivo il timbro minerale che regala un sorso vibrante e sapido. Inaspettato.

Mentre parliamo, tra un assaggio e l’altro, gli arriva una telefonata: è una promoter di un noto Magazine settimanale; lo tiene al telefono non poco, lui interloquisce con una certa disponibilità, la sua, quella di sempre; dall’altro capo del telefono – adesso in viva voce – sento proporgli un paio di uscite sulle proprie testate e in più un passaggio sull’omonimo canale tematico satellitare, alla modica cifra di 1000,00 euri + iva. Lui è sibillino, non se lo può permettere, ringrazia e rimanda alla prossima; poi mi fa un gesto come a dire “ma c’è ancora chi ci crede a ‘ste cose?” Sorridiamo…

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

Guide 2012, così la “guida rossa” Michelin

17 novembre 2011

  • 4 Cucchiaio&Forchette (luogo di Gran confort)
  • 2 Stelle (Tavola Eccellente)
  • Grappolo Rosso (Specialità e Vini scelti)

Specialità: Trilogia di cotto e crudo di mare: capesante, palamita e gamberi. Ravioli di crostacei con pappa di pomodoro, totani al limone, crema di riso e nero di seppia. Merluzzo nero con spuma al whisky torbato, spinaci e pomodori secchi.

La discreta eleganza della sala ristorante, il suo stile soffuso e le tonalità ecrù hanno ormai esaurito ogni aggettivo, iperbole, metafora. Come la cucina, scrigno di tesori napoletani, allegoria di sapori mediterranei, eclettico saggio di fantasia gastronomica del cuoco Andrea Migliaccio.

Come sapete ho preferito non lasciare un mio personale commento sulle precedenti segnalazioni (vedi qui, ma anche qui) fatte passare su questo blog in merito alle recensioni dedicateci quest’anno dalle principali guide gastronomiche; ma qui non posso, è davvero grande la soddisfazione di aver colto la seconda stella da non potermi esimere dal fare un grandissimo Complimenti! al nostro Andrea Migliaccio per il gran lavoro fatto quest’anno. Non era per niente facile, tutt’altro. S’è fatto il “mazzo”, e io c’ero!

P.S.: grande, anzi grandissima e luminosissima (e strameritata!) anche la prima stella a Marianna Vitale, la prima nella storia recente dei Campi Flegrei. E sono felice anche per il pronto ritorno alle due stelle dell’amico Oliver Glowig in quel di Roma. (A. D.)

Napoli, il 16 novembre arriva Landscape #04

10 novembre 2011

Landscape #4 si terrà a Napoli presso il Plart Museo della Plastica, in via Martucci 48. E’ un evento a cura di Classic Malt, e la partecipazione è esclusivamente su invito. Si comincia alle ore 19:30.

Roma, Ristorante Oliver Glowig

28 ottobre 2011

Siamo in una delle aree più esclusive del centro di Roma, tra Villa Giulia e la Galleria Borghese. L’Aldrovandi Palace non è un albergo qualunque, gode di fortissime tradizioni, nonché di nobilissime origini che ne fanno meta preziosa di una clientela, italiana ed internazionale, particolarmente esigente. L’albergo ha camere elegantissime, talune suites decisamente lussuose – vi è una Royal Suite di 120 metri quadrati (!), non so se mi spiego – e, tra i mille e più servizi offerti, c’è anche un ristorante gurmé.

Chiusa l’esperienza con il Baby affidato per diverso tempo alla famiglia Iaccarino del Don Alfonso 1890, il ristorante è stato consegnato lo scorso aprile nelle mani di Oliver Glowig, un nome, una garanzia si direbbe, di ritorno dalla breve esperienza montalcinese in quel di Poggio Antico (qui); con gli amici e colleghi di tutta la brigata de L’Olivo, in vena di una “rimpatriata”, vi abbiamo fatto un salto lo scorso martedì, per “festeggiare” diciamo così, la nostra chiusura stagionale a Capri. Questo che segue il racconto dello splendido pranzo servitoci a due passi dal bellissimo giardino che da sulla piscina dell’albergo.

Non sono mancati rituali a noi cari: qui “i tre tenori” che si ritrovano, ovvero Oliver Glowig con Fabio Raucci (oggi nostro F&B Manager al Capri Palace) e Francesco Mussinelli (da qualche mese passato all’Hassler proprio qui a Roma). Una triade questa, cresciuta tra grandi intese, rara professionalità e infinita disponibilità con la quale ho avuto la fortuna di condividere due splendide stagioni di lavoro.

I pani, con i grissini, vengono tutti fatti “in casa” dal giovane e bravo Domenico Iavarone, ancora al suo fianco anche in questa nuova avventura romana all’Aldrovandi Palace. Notevole il “cornetto bianco”, insolito e buonissimo quello ai semi di zucca.

Dopo un piccolo benvenuto accompagnato dall’ottimo Champagne “della casa”, si comincia con Lumache alla mentuccia con fagioli di Controne e caffè. Oliver non abbandona in nessun caso le “sue” radici campane. La scoperta e la valorizzazione di tanti piccoli prodotti straordinari della nostra terra non mancano nella “vetrina” romana dello chef tedesco cresciuto e maturato sull’isola azzurra.

Forse il piatto più riuscito, anzi no, quello che più ci è piaciuto in assoluto: un trionfo di sapori; Eliche cacio e pepe con ricci di mare, ovvero come muoversi da equilibrista sulla fune senza colpo perire! Oliver in questo è sempre stato un maestro, l’ultilizzo di formaggi infatti, anche negli accostamenti più insoliti, rimane un segno distintivo della sua cucina, franca e precisa come poche e senza nessun ammiccamento a mode, tentazioni o salti nel buio; insomma, una rivisitazione più che rispettosa.

Pasta e fagioli al profumo di mare; si può senz’altro affermare sia diventato ormai un classico nella carta dei primi di Glowig: la pasta mischiata è cotta perfettamente al dente, e la sempre criptica sapidità del condimento solo accenata, poi tanta, ma tanta piacevolezza da vendere.

Il Baccalà con carciofi in salsa di uova. Mi è piaciuto molto, un piatto invitante, puritano ma al contempo intrigante e persuasivo. Il pesce è pura scioglievolezza, la trippa di Baccalà (battuta e poi fritta) non è una semplice decorazione ma un elemento di brio, di una croccantezza importante, e la salsa di uova debitamente avvolgente ma non stucchevole.

Lombo di coniglio con zucca. Esecuzione da manuale: la carne è avvolta in una foglia di borragine, cottura rare – proprio come piace allo chef -, e accompagnata da una passatina di zucca (impreziosita con pochi suoi semi, secchi) e cipolla rossa di Tropea.

Comincia qui la carrellata dei desserts, che strizzano ancora l’occhio alla lunga estate appena alle spalle, vista l’importante presenza di gelato nelle varie composizioni portateci in tavola (un vecchio pallino dello chef): si comincia con Arancia speziata al melograno con gelato di lenticchie gialle. Fresco e dalle sfumature candite e amarognole; ben mantecato il gelato.

Quindi la Meringa morbida in salsa di ananas, imperdibile per gli appassionati. Tra l’altro il dessert risulta molto più leggero di quanto in verità appaia così citato in carta. Da riprovare senz’altro.

Poi il Gelato di prugne con composta di frutta secca: un vero piacere per gli occhi – la preparazione è assai apprezzabile -, con il gelato molto saporito ed un vero e proprio viaggio tra decise sensazioni speziate/amare sia con le cialde di cioccolato che con la composta di frutta secca che invita a nozze un vecchio Madeira Malmsey o, per gli appassionati alle gradazioni più forti, uno dei più apprezzati rhum in circolazione, tipo un Demerara.

Con i deliziosi petit fours, praticamente divorati, anche le immancabili zeppoline di patata,  fritte al momento e servite “al tovagliolo”, col ripieno di calda crema pasticcera a suggellare un pranzo decisamente da ricordare.

In chiusura due appunti di degustazione sui vini, proposti da una carta essenziale che non mancherà di crescere nel tempo, ci dicono. Anzitutto l’ottimo Champagne offertoci all’arrivo, “firmato” dallo stesso Glowig, di cui però, avute le debite notizie, racconterò in maniera più esaustiva in un prossimo post.

Molto apprezzati comunque tutti i vini scelti per l’abbinamento: il laziale Bellone bianco 2009 di Cincinnato (cant. cooperativa di Cori), piuttosto intenso, profumato di glicine e miele di millefiori, in bocca voluminoso e di spessore; buonissimo invece (non pensavo fosse così bbuono il 2009!) il Derthona bianco di Walter Massa, che mi ha subito messo “in pace” col timorasso, dopo un poco (o per niente!) convincente assaggio di quello de La Colombera. Poi, il Merlot 2009 della Cantina Produttori Santa Maddalena, un classico altoatesino, buono per tutte le stagioni, anch’esso franco e piuttosto pronunciato al naso, e ben gradito dai colleghi, non solo sul coniglio. Sul finale dolce invece, il Passirò 2007 da uve roscetto di Falesco (mentre io – ça va sans dire -, ho continuato per tutto il tempo a finirmi tutto quello che c’era ancora in giro di Derthona).

Bene Oliver, anzi benissimo, ancora una volta allora in bocca al lupo amico mio e… Ad Maiora! (ché però me lo dai il numero di telefono dello chef de cave che ti ha selezionato questa meravigliosa cuvée?).

Le foto di questa recensione sono di Enrico Moschella, riproduzione riservata.

Guide ai ristoranti d’Italia 2012, il Gambero Rosso

19 ottobre 2011

 

Punteggio: 87due forchette
Cucina: 52
Cantina: 16
Servizio: 18
Bonus: 1

Lo sapete, questo è uno degli alberghi più belli d’Italia. Il suo “Olivo” è di conseguenza un posto splendido (bonus), curato nei minimi dettagli, di grandissimo fascino e confortevole come pochi. Servizio attento, cortese e professionale, carta dei vini molto assortita e cantina da vedere. In cucina ora c’è  Andrea Migliaccio, mano felice ed equilibrata, inventiva ben dosata e miscelata con la cucina regionale, per un risultato notevole nei piatti assaggiati. Trilogia di cotto e crudo di mare (gamberi, cappesante e palamita), carpaccio di cefalo e tartare di scampi con caviale e cuore di bue alla colatura, risotto al limone con gamberi rossi e bisque, spaghetti ai ricci, maialino croccante con scarola e zuppa forte, babà con zabaione, frutti di bosco e Ratafià. Tutti piatti esenti da critiche, che risultano soddisfacenti e meritevoli di una cena, come tutto il complesso che ritorna meritatamente nei punteggi alti dell nostra Guida. Sulla terrazza da quest’anno troverete il Bistrot Ragù, con vista magnifica sul mare, che offre la possibilità di fare una sosta più informale, sempre in questa incantevole, e impagabile cornice. (da I Ristoranti d’Italia 2012 del Gambero Rosso)

Guide ai ristoranti d’Italia 2012, così L’Espresso

8 ottobre 2011
Voto: 15
Un Cappello: cucina buona, interessante.
Bicchiere: particolare cura nella ricerca e nel servizio dei vini, internazionali, nazionali o locali.

“A volte capita, nel corso della vita, che d’un tratto ci venga offerta una occasione imprevista e imprevedibile, una bella opportunità: è successo ad Andrea Migliaccio, trentenne chiamato dall’oggi al domani a prendere il posto del celebrato Oliver Glowig, come chef del ristorante e dell’albergo più blasonato dell’Isola Azzurra. E Migliaccio non si è fatto spaventare, ben spalleggiato da una squadra più che rodata, il sommelier Angelo Di Costanzo in primis, pronto a offrire con la stessa disinvoltura millesimati milionari o falanghine di nicchia. Una cucina delicata e avvolgente, con pochi angoli acuti, capace di entusiasmare una clientela curiosa e viziata. Gustosa la crema di cipollotti con scarola e acciughe, carico di agrumi il risotto all’astice, appetitoso il pollo di Bresse con salsa al fois gras e friarielli (broccoli campani). Trionfo di pani, piccola pasticceria e orgia di dolci: d’obbligo meringata e gelati. Degustazioni da 150 e 190 euro. Sui 130 alla carta.” (da Le guide de L’Espresso – I ristoranti d’Italia 2012)