Archive for the ‘LA VITE, IL VINO’ Category

Manocalzati, imparare a riconoscere le molecole aromatiche in un corso specifico dell’Assoenologi

8 novembre 2010

 Sabato 27 novembre dalle ore 9.00 alle 18.00

Assoenologi 

presenta

“Le Molecole Aromatiche”

Corso di aggiornamento 

Considerati l’interesse e la grande partecipazione fatta registrare negli anni passati, Assoenologi ripropone in tre sedi diverse i corsi sull’analisi olfattiva e sulle molecole aromatiche, alcune delle quali di ultima generazione. Sabato 27 novembre si fa tappa anche in Campania, a Manocalzati in provincia di AvellinoQueste invece le altre sedi e le date: martedi 23 novembre 2010 a Carpi in provincia di Modena, giovedi 25 novembre a Barletta.

Il corso si concretizza secondo i seguenti orari: 9-13 e 14.30-18, dando ampio spazio alla discussione e al confronto con i relatori, tra i quali Paolo Peira e docenti della facoltà di enologia di Bordeaux come Frédéric Brochet e Dominique Roujou de Boubée.

Il costo di partecipazione per i soci Assoenologi è di 120 euro (inclusa Iva 20%) e di 140 euro (inclusa Iva 20%) per i non soci. L’iscrizione al corso dovrà essere effettuata compilando una apposita scheda scaricabile dal sito www.assenologi.it.

La suddetta  scheda di adesione va fatta  pervenire all’Assoenologi – Via Privata Vasto 3 – 20121 Milano, corredata del relativo importo, almeno 10 giorni prima della data di inizio. Il corso è a numero chiuso, le iscrizioni verranno accettate fino a esaurimento delle disponibilità. Se viceversa non si raggiungerà il numero minimo di iscritti, il corso sarà cancellato e agli iscritti verrà restituita la somma versata.

Sede del corso
Bel Sito Hotel Le due Torri
Uscita Autostrada – Avellino Est
S.S. 7 Via Appia – 83030 Manocalzati (AV)
Tel 0825 670001   Fax 0825 670268
 

 

Per maggiori informazioni
Roberto Di Meo info@dimeo.it
Presidente Assoenologi Campania
Gerardo Vernazzaro gerardovernazzaro@hotmail.com
segretario Assoenologi Campania

Ancora sulla vendemmia 2010, note sparse…

21 settembre 2010

Concludiamo con questo post (forse), il viaggio nelle cinque province campane alla ricerca della vendemmia 2010 perfetta! Abbiamo dato, durante tutta una settimana, la parola a chi il vino lo fa, agli enologi, a coloro cioè che vivono costantemente, durante tutto il ciclo biologico annuale della vite, le ragioni dell’essere di una vigna, dal ciclo vegetativo a quello riproduttivo, e di una azienda, dalla raccolta dell’uva dalla pianta a quello che sarà, con ogni probabilità, vino autentico e piena soddisfazione dei nostri lieti calici. Noi de L’Arcante, ce l’abbiamo messa tutta, di certo non si potrà dire che non ve l’avevamo detto raccontato: Benvenuta (generosa) vendemmia 2010!

Francesco Martusciello Jr, enologo a Grotta del Sole e Foglie di Amaltea, il nuovo gioiello di famiglia in terra flegrea, ci da una seconda chiave di lettura sui Campi Flegrei. La vendemmia in Campania è piuttosto in ritardo, per cui anche dalle nostre parti soffriamo di questa problematica legata al fatto che la stagione invernale si è protratta sino alla prima settimana dello scorso giugno, con un’altalena meteorologica che ha rallentato moltissimo la maturazione. Le uve per contro si presentano tutte sanissime, abbiamo in effetti registrato solo pochi problemi fitosanitari; Le rese  per ettaro relative alla falanghina sono più alte rispetto allo scorso anno di circa un 7-8 %, ma comunque nella media dell’ultimo triennio. Per quanto concerne il piedirosso, le rese sono certamente più basse rispetto alla media degli ultimi due anni poichè le piante nella fase di pre-allegagione sono state esposte ad un periodo di forti piogge e vento, durato un paio di settimane, che ha influenzato sensibilmente la fioritura; Per cui ha allegato meno, in particolare nelle aree più alte (c.a. 230-250 mt slm), e comunque, per il momento le uve presentano buone acidità e una discreta concentrazione con un rapporto polpa/buccia decisamente a favore della buccia: se le prossime settimane saranno, come mi auguro, ricche di sole si può prevedere una qualità dei nostri mosti ottima-eccellente. In più c’è da considerare un aumento in ricchezza aromatica, considerando le buone escursioni termiche che si stanno registrando, spesso superiore agli 8-9°c.   

Così Antonio Pesce, enologo consulente per diverse aziende campane tra le quali Casa Setaro sul Vesuvio, Quarium in Irpinia e Contrada Salandra nei Campi Flegrei.  Bene, in generale la vendemmia, come già ampiamente trattato sarà certamente posticipata, la situazione è più o meno come qualche anno fa, quando si vendemmiava a fine settembre, o meglio ancora ad ottobre inoltrato. Tutto ciò è dovuto al freddo, alle forti piogge e al ritardo della ripresa vegetativa della pianta; Le vigne nelle quali si è lavorato bene, sia dal punto di vista sanitario che produttivo, sicuramente risponderanno alla grande; Le uve che ho analizzato fino a stamattina (20 settembre, ndr) rispondono alla perfezione per il rapporto fra zuccheri, pH ed acidità. In conclusione credo che i vini bianchi beneficeranno di una particolare ricchezza aromatica, i rossi inevitabilmente con una struttura importante. Molto probabilmente le “mie” vendemmie cominceranno nei Campi Flegrei il 27 settembre, prima con la falanghina e poi, qualche settimana dopo, con il piedirosso; Sul Vesuvio, dove tutto procede nel migliore dei modi, credo di arrivare sino alla prima settimana di ottobre, in Irpinia se ne parla sicuramente dopo il 10 ottobre, dapprima con il Greco, poi il Fiano e solo dopo il 4-5 di novembre con l’aglianico di Taurasi.

A Vincenzo Mercurio, tra i più attivi winemaker campani e grande interprete della vitienologia regionale, abbiamo chiesto invece di relazionarci – visto il suo gran da fare in Campania sulla tipologia – su uno dei trend in maggiore crescita negli ultimi anni: lo spumante da vitigno autoctono.

Si parte con il Giacarando, lo spumante rosè da uve aglianico di Cantine San Paolo di Atripalda: abbiamo vendemmiato il 20 settembre, uve sanissime, dalle prime rilevazioni abbiamo una gradazione alcolica più bassa rispetto allo scorso anno, siamo sugli 8 gradi. La falanghina dei Campi Flegrei per il Malazè, lo spumante di Cantine Babbo di Pozzuoli, l’abbiamo vendemmiata, vincendo la superstizione, lo scorso venerdì 17 settembre: abbiamo in cantina un’ottima materia prima, con un’acidità record pari a 8, 5 di pH. Il colore dei mosti è particolarmente brillante e fa presagire, tra l’altro, ad una buona longevità. A Torrecuso invece, nelle vigne di Paolo Cotroneo a Fattoria  la Rivolta, il Greco sarà raccolto tra qualche giorno, contiamo di iniziare il 27 settembre, l’acidità è più elevata dello scorso anno, le uve sono anche qui sanissime e ci aspettiamo, grazie alle forti escursioni termiche degli ultimi giorni, una maggiore concentrazione di note aromatiche rispetto all’anno scorso.

In Irpinia, da I Favati, il Cabrì spumante da uve fiano di avellino si vendemmia questo fine settimana. Le uve sono molto ricche e proprio per questo abbiammo deciso di dare vita anche ad un secondo vino spumante, questa volta un extra dry “etichetta bianca” con uno stile decisamente diverso dal primo. In ultima analisi, oltre che affermare con certezza che siamo di fronte ad un’ottima annata per gli spumanti, rimaniamo un po preoccupati per i rossi: abbiamo ancora una buccia sottile, con i rischi annessi e siamo forse troppo in ritardo in quanto a maturazione, perciò decisamente attaccati alla speranza a che le condizioni climatiche delle prossime settimane riescano a fare la differenza. Per i vini bianchi invece è decisamente una bella annata, ho avuto modo di registrare dati analitici di acidità record e spiccate mineralità, il che ci fa ben sperare anche in virtù di un mercato bianchista che si sta dimostrando sempre più avvezzo a tendenze stravaganti e più vicino ad interpretazioni autentiche, territoriali, che fanno finalmente preferire vini freschi e minerali a vini surmaturi e burrosi!

Qui le impressioni dei vignerons Antonio Papa e Tony Rossetti che ci presentano il millesimo nella terra dell’Ager Falernus.

Qui il polso della provincia di Caserta, Gennaro Reale su le Terre del Volturno e Roccamonfina.

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui la vendemmia 2010 in Cilento, Irpinia e provincia di Benevento analizzata da Fortunato Sebastiano e Massimo Di Renzo.

La vendemmia 2010 nell’Ager Falernus, di Primitivo e Aglianico fratelli gemelli diversi…

20 settembre 2010

Domani martedì 21 settembre concluderemo il nostro piccolo viaggio previsionale sulla prossima vendemmia 2010 giunta ormai alle porte, in Campania così come altrove, anche se a dirla tutta in alcune vigne – in partricolar modo sulle isole e aree costiere – e per alcune varietà c’è già stato un fortunatissimo prologo; Concluderemo questo excursus con un po di note sparse che in effetti non fanno altro che confermare l’impressione che questa 2010, pur nella sua complessità si possa rivelare proprio un’ottima annata: vedremo quale vino, o meglio, quale vigneron ne saprà fare tesoro. Queste che seguono sono le impressioni che abbiamo raccolto in terra di Falerno… 

Antonio Papa da Falciano del Massico, zona di produzione Falerno con base Primitivo, provincia di Caserta. Le uve, qui a Falciano, sono decisamente condizionate da un clima variabile ed abbastanza instabile, tarderanno pertanto la maturazione di almeno 10 giorni rispetto alla scorsa vendemmia. In particolare, la pioggia nell’ultima parte della primavera, ed il fresco atipico dei mesi estivi, con importanti escursioni termiche specie nella prima parte dell’estate, hanno inciso non poco. Se dovessi paragonare questa  vendemmia a quella dello scorso anno, sicuramente sottolineerei che il lavoro in vigna di questa stagione è stato più impegnativo, per vari motivi, a cominciare da una più importante selezione dei grappoli  specie nel vigneto situato a circa 120 m slm; Salendo in collina invece, cambiando il terreno, cambiando esposizione, a circa 260m slm, le uve sono davvero eccellenti e mi fanno sperare in un prodotto finale di grande potenziale. Ci tengo a precisare però che personalmente non ritengo opportuno parlare già di come sarà il vino, di questo ne parleremo fra 2/4 anni, quando le prime bottiglie 2010 saranno pronte per l’assaggio, ci tengo invece ad evidenziare un dato: io credo che se un’azienda lavora bene, lo si vede proprio attraverso queste annate, le quali proprio come le persone con un carattere difficile hanno bisogno di maggiore comprensione e pazienza per essere valorizzate appieno.

Tony Rossetti, deus es machina di Bianchini Rossetti a Casale di Carinola, in provincia di Caserta. Nella zona del Falerno del Massico che ci riguarda, in special modo sulle colline del Carinolese e del Sessano, dopo una estate piuttosto torrida le piogge di settembre hanno un po mitigato l’aria ed il repentino abbassamento delle temperature registrato già dai primi giorni di questo mese ci fanno ben sperare in una lenta ma progressiva maturazione delle uve sulle piante e quindi un giusto equilibrio fenolico. I frutti sono sani e sulle nostre colline la ventilazione ad ampio respiro ci aiuta non poco ad areare i grappoli di aglianico evitando innanzitutto eventuali problemi di muffe. Dalle prime analisi effettuate nei giorni scrosi e le curve di maturazione evidenziate ci stiamo organizzando per una vendemmia ottobrina, incrociamo le dita.

Qui il polso della provincia di Caserta, Gennaro Reale su le Terre del Volturno e Roccamonfina.

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui la vendemmia 2010 in Cilento, Irpinia e provincia di Benevento analizzata da Fortunato Sebastiano e Massimo Di Renzo.

Vendemmia 2010, le previsioni in provincia di Caserta nelle Terre del Volturno e Roccamonfina

16 settembre 2010

di Gennaro Reale, enologo di Fattoria Selvanova a Castel Campagnano, Masseria Starnali a Roccamonfina nonchè collaboratore in Vigna Viva.

L’annata 2010 si è manifestata un poco strana all’inizio ma poi pian piano sta venendo fuori molto bene. La maturazione delle uve si è lentamente evidenziata in maniera molto eterogenea, l’aglianico in particolare è emblematico per come si differenzia da areale in areale, si pensi per esempio che in Cilento credo che non si arriverà nemmeno alla fine del mese (settembre, ndr) mentre in Irpinia come è già noto si arriverà, in alcuni casi, sino a novembre inoltrato. Detto ciò, mi sento di affermare con certezza che per i bianchi sarà una gran bella annata, in alcune zone l’andamento fresco ha permesso una maturazione lenta ma particolarmente regolare, ed i ritardi, ove registrati, hanno permesso o stanno permettendo alle uve di giovarsi di importanti escursioni termiche tra giorno e notte che insistono tra l’altro già da qualche settimana.

Le Colline Caiatine e le Terre del Volturno, provincia di Caserta. I terreni qui sono ricchi di argilla con una buona dotazione calcarea ed organica (usiamo nutrire i suoli esclusivamente con gli scarti delle potature ed il letame bovino, il cosiddetto compost). Sono terreni molto resistenti alla siccità, ma nelle ultime tre annate – soprattutto ’07 e ’08 – abbiamo avuto notevole stress idrico che ha fatto andare in disidratazione soprattutto le piante più giovani mentre quest’anno l’andamento stagionale più fresco e piovoso ha permesso ai terreni di fare scorta d’acqua in abbondanza e quindi di essere rigogliosi ed equilibrati anche nel periodo più caldo agostano. Confido quindi in un grande pallagrello bianco, guardando al passato, mai sono riuscito a vendemmiare dopo il 15 settembre, per via dell’accumulo eccessivo di zuccheri ed il conseguente crollo dell’acidità, ma quest’anno invece il quadro analitico è equilibratissimo, e la maturità aromatica piuttosto spinta promettono un pallagrello bianco da ricordare negli annali, estremamente ricco e complesso: solo a vederne i mosti sono già contentissimo. Anche il pallagrello nero promette ottimi risultati, ma per il momento è opportuno rimanere alla finestra, sarà utile aspettare ancora qualche settimana per avere una perfetta maturità fenolica prima di raccoglierlo dalla pianta! L’aglianico sta benissimo, le poche spaccature dell’acino che c’erano si sono rimarginate rapidamente e queste belle giornate permettono ai grappoli la giusta areazione, importantissima per questa varietà tanto sensibile quanto prelibata.

Roccamonfina, provincia di Caserta: Masseria Starnali, di cui mi occupo, ha circa 30 ettari tutti a conduzione biologica di cui 6 vitati, in una delle zone più suggestive della denominazione, non a caso confinanti con Fontana Galardi, a circa 500 m slm e proprio alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina. Qui  i terreni sono sciolti con affioramenti di roccia vulcanica e lapilli, denotando comunque una discreta percentuale di argilla. Sono terreni che soffrono molto le annate siccitose e che hanno invece goduto particolarmente di questa 2010 rivelatasi sufficientemente piovosa, quindi offrendoci vigne dalle pareti fogliari verdeggianti e frutti sanissimi. La vocazione è a falanghina ed aglianico, con una piccola parte anche di piedirosso. I tempi di maturazione sono più o meno simili a quelli Irpini, quindi è abbastanza presto per azzardare previsioni, credo si arriverà ad iniziare intorno al 20 settembre ottobre per la falanghina e fine ottobre-inizio novembre per aglianico e piedirosso. Anche qui mi aspetto una gran materia prima e non nego di aspettarmi delle belle sorprese!

In definitiva, guardando più in generale il quadro regionale, penso che sarà proprio un’ottima annata, in particolar modo sui vini bianchi e soprattutto per chi ha lavorato con buon senso ed equilibrio in vigneto. Aspettiamo i vini a conferma di tanto entusiasmo…

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui la vendemmia 2010 in Cilento, Irpinia e provincia di Benevento analizzata da Fortunato Sebastiano e Massimo Di Renzo.

Qui le impressioni dei vignerons Antonio Papa e Tony Rossetti che ci presentano il millesimo nella terra dell’Ager Falernus.

Benvenuta (generosa) vendemmia 2010, ma…

14 settembre 2010

Benvenuta (generosa) vendemmia 2010! Nelle scorse settimane, in previsione della vendemmia che andava già iniziando in alcune regioni d’Italia, si sono subito levate voci gaudenti di piena soddisfazione in virtù dell’imminente sorpasso, numeri alla mano, nei confronti dei cugini francesi, che avrebbe confermato la produzione vitivinicola italiana come primo riferimento assoluto in Europa, grazie ad una vendemmia abbondante, talmente ricca che porterà nelle cantine italiane (già stracolme, ndr) uve sane ed in quantità più che soddisfacente. Giusto il tempo però di lanciare alcune riflessioni e tutto l’entusiasmo iniziale è andato subito a farsi benedire, lasciando spazio ad accesi dibattiti, speculazioni mediatiche nonchè polemiche sterili e quintalate di buoni auspici per riordinare un sistema che a quanto pare non riesce proprio a vedere ad un palmo dal naso il buco nero che si è aperto all’orizzonte, continuando ad annaspare, ed in maniera pedissequa, a sovrastimare un mercato in continua svalutazione, perchè in Italia di uva e di vino se ne producono fin troppo! 

Così, in attesa del lungo inverno alle porte che ci accompagnerà in in giro per l’Italia e ancora in Francia a scoprire e capire cosa poi è arrivato nelle bottiglie (promettiamo che ne leggerete delle belle!) abbiamo chiesto ad alcuni enologi, stimatissimi amici, di darci delle dritte o più semplicemente illustrarci il loro punto di vista sul campo, in primo luogo in terra campana, certamente primario interesse di questo blog e qua e là in giro per l’Italia. Ecco le prime testimonianze che ci sono arrivate. 

Fortunato Sebastiano, enologo, con Vigna Viva segue diverse aziende sparse nelle cinque province campane; La sua è una testimonianza molto utile che ci da il polso di diverse microaree regionali; Questo il suo racconto: “è importante premettere che tutte le vigne di cui scrivo sono condotte in regime biologico. In provincia di Salerno (Picentini e Cilento) si prefigura una grande annata, con uve Fiano straordinarie, raccolte a fine agosto, di grande equilibrio acidico; L’aglianico promette benissimo, le escursioni termiche e gli abbassamenti di temperatura di fine primavera hanno rallentato le maturazioni ma qui questo non è un problema. In provincia di Benevento, areale di Sant’Agata dei Goti, dove opero, è stata per l’aglianico un’annata difficile, la peronospora è stata particolarmente invadente; La Falanghina invece molto buona, il Greco ed il Piedirosso idem, ci attendiamo vini molto interessanti. Qui alcune zone umide hanno risentito delle temperature medie troppo basse, inchiodandosi e trovando un pò di difficoltà di allegagione, la cosiddetta maturità eterogenea. Ad Avellino, negli areali di Montefusco, Santa Paolina, Castelfranci, Lapio, Montefredane, San Michele di Serino, il Greco è risultato molto equilibrato e dalle acidità perfette che mi fa pensare ad un’annata “tipica e varietale”, peccato per la grandine di fine luglio a Santa Paolina che ha un po ridimensionato le prospettive. L’Aglianico è in grande forma, ci aspettiamo grandi cose anche perchè per le zone più alte si arriverà presumibilmente sino a metà novembre per la raccolta; il Fiano risulta di grande spessore a Lapio, e anche nelle esposizioni più calde si avranno uve di buona spalla acida, a Montefredane si prevede una vendemmia nella media ma proprio qui si è registrata peronospora larvata diffusa, con le problematiche che ne conseguono. Infine a San Michele di Serino non ho dubbi sul fatto che si otterranno uve di grande qualità come base spumante”.

Massimo Di Renzo, enologo in Mastroberardino, senza dubbio tra le aziende di riferimento per tutta la regione; Ecco le indicazioni di Massimo: “Le mie riflessioni sulla vendemmia sono basate soprattutto su dati rilevati e costatazioni nelle province di Avellino e Benevento. L’inverno freddo e piovoso ha ritardato un po’ l’inizio della fase vegetativa, riportandola ai tempi classici delle suddette zone, sfatando gli anticipi a cui si è stati costretti negli anni precedenti. La primavera e l’estate sono state caratterizzate da precipitazioni superiori alle medie stagionali. In linea generale oltretutto non è stata un’estate molto calda e le escursioni termiche sono cominciate già forti nel mese di agosto, e ciò si traduce in un rallentamento nella progressione della maturazione, esaltando ricchezza aromatica e freschezza nelle uve. Siamo in ritardo sull’epoca di raccolta di circa 15 giorni, possiamo dunque confermare quanto accennato in precedenza e cioè che si ha un ritorno alle vendemmie tradizionali di ottobre avanzato e novembre, il che, ove possibile, esalterà fortemente il valore del territorio sulla qualità delle uve che arriveranno in cantina. Più degli altri anni la conduzione del vigneto è stata difficile ma prevedo ottimi risultati per chi ha lavorato bene in vigna, chi ha saputo guardare con lungimiranza ad una materia prima di qualità e non necessariamente di quantità. Detto questo però, con un mese circa ancora avanti, è naturale che saranno decisive le condizioni meteo dei prossimi giorni per definire il profilo definito dell’annata, pertanto incrociamo le dita e buona vendemmia a tutti!”

Grazie mille a Fortunato e Massimo, come sempre precisi e di facile lettura, a breve ci occuperemo anche dell’areale vesuviano (Lacryma Christi, ndr) e dei Campi Flegrei; Continuiamo, imperterriti, a scoprire e capire il vino e le sue origini, e così ci pare più facile, non trovate?

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui il polso della provincia di Caserta, Gennaro Reale su le Terre del Volturno e Roccamonfina.

Qui le impressioni dei vignerons Antonio Papa e Tony Rossetti che ci presentano il millesimo nella terra dell’Ager Falernus.

Professione Sommelier, il Sauvignon blanc

9 agosto 2010

Diamo ufficialmente il benvenuto su questo blog a Gerardo Vernazzaro¤, giovane enologo napoletano tra i più preparati e attivi della nouvelle vogue nonchè mio Amico di Bevute. A lui, una pagina dedicata nella rubrica IL VINO DEGLI ALTRI, dalla quale ci illustrerà tecnicamente cosa e come nasce ciò che ci ritroviamo a raccontare nel bicchiere. Questo è L’Arcante¤ diario enogastronomico, una passione in grande crescita! (A.D.)

Il Sauvignon blanc (detto anche Blanc Fumé) è un vitigno a bacca bianca, proveniente originariamente dalla zona francese di Bordeaux. Il nome deriva dalla parola francese sauvage (“selvaggio”), aggettivo dovuto alle sue origini di pianta autoctona del sud-ovest francese. Grazie alla sua capacità di adattamento, è coltivato estensivamente in Francia, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, California e Sud America, con una piccola quota anche in Italia. È impiegato (fino ad un massimo del 30%) anche nella produzione di uno dei più famosi vini dolci al mondo, il Sauternes.

A seconda del clima, le uve sauvignon possono dare vini con sentori erbacei o di frutta fresca. In ogni caso i vini risultanti sono destinati ad un veloce consumo, dato che l’invecchiamento superiore ad alcuni anni, non dà effetti migliorativi sulle caratteristiche organolettiche nella maggior parte dei casi. Hanno generalmente un aroma caratteristico che li distingue da tutti gli altri vini, generalmente poco marcato nel mosto, ma decisamente singolare che si sviluppa in particolar modo nel corso della fermentazione alcolica.

I vini prodotti da uve sauvignon presentano un vasto ventaglio aromatico in cui i principali descrittori sono il peperone verde, il bosso, la ginestra, l’eucalipto, la gemma di cassis, il rabarbaro, la foglia di pomodoro, l’ortica, il pompelmo, il frutto della passione, la scorza di agrumi, l’uva spina, il frullato di asparagi, la ginestra e la pietra focaia. Le migliori bottiglie di alcuni vini, dopo qualche anno di affinamneto sviluppano sentori di affumicato, pietra focaia e perfino di tartufo.

Dunque alcuni sentori più vegetali, altri più floreali per finire con quelli più evoluti e di tipo minerale. Fino a poco tempo fa si ignoravano quasi completamente i composti volatili responsabili di queste differenti note (tioli volatili). Si sapeva solamente, grazie ai lavori di autori come Augustyn ed Allen, che il carattere di peperone verde del sauvignon è dovuto a metossipirazine, in particolare all’isobutilmetossipirazina. Questo odore vegetale piuttosto sgradevole è molto marcato nei mosti e nei vini quando la maturità dell’uva è insufficiente, esso è anche tipico dei vini di Cabernet provenienti da vendemmie non molto mature o prodotte da vigneti troppo vigorosi la cui alimentazione in acqua ed azoto è eccessiva. Le metossipirazine non rappresentano dunque gli aromi più tipici e ricercati dei vini di Sauvignon.

Gli enologi sanno chiaramente che i profumi caratteristici sono talvolta difficili da ottenere ed in seguito da mantenere nei vini. Soprattutto nei climi caldi il Sauvignon è un vitigno difficile da vinificare. Il materiale vegetale (clone), terroir, maturazione dell’uva, data di vendemmia, condizioni di estrazione dei succhi, ceppo di lievito responsabile della fermentazione alcolica, metodi di affinamento sono tutti fattori che ne possono influenzare l’espressione aromatica. Infine, anche nelle zone di produzione più vocate, la qualità aromatica dei vini Sauvignon è irregolare da un’annata all’altra e da una vasca all’altra. Per tutto questo insieme di motivazioni è importante fare un piccolo approfondimento sulla natura chimica degli aromi tipici di questo vitigni e sui meccanismi e fattori che li possono influenzare.

La prima molecola scoperta come composto caratteristico dell’aroma di Sauvignon è il 4-mercapto-4-metilpentan-2-one (4MMP) identificato nel 1993. Questo mercaptocetone, che possiede uno spiccato odore di bosso e di ginestra, è olfattivamente molto attivo, la sua soglia di percezione in soluzione modello è di 0,8 ng/l. Il suo ruolo nel vino è indiscutibile dato che il suo tenore nei Sauvignon tipici può raggiungere i 40 ng/l.

In seguito sono stati identificati nel Sauvignon molti altri tioli volatili odorosi da parte di T. Tominaga e D. Dubourdieu tra il 96 ed il 98: l’acetato di 3-mercaptoesan-1-olo (3MHA), il 4-mercapto-4-metilpentan-1-olo, il 3-mercaptoesanolo-1-olo (3MH) ed il 3-mercapto-3-metilbutan-1-olo. L’acetato di 3-mercaptoesan-1-olo è il responsabile di un odore complesso che evoca non solamente il bosso, ma anche la scorza di pompelmo ed il frutto della passione. La sua soglia di percezione è di 4 ng/l ed in certi sauvignon ne possiamo trovare alcune centinaia di ng/l. Anche il 3-mercaptoesanolo ha un aroma che richiama quello del pompelmo e del frutto della passione. La sua soglia di percezione è dell’ordine di 60/ ng/l ed è sempre presente nel sauvignon con tenori che raggiungono qualche centinaio di ng/l, a volte perfino alcuni mg/l.

In definitiva il ruolo organolettico del 4-mercapto-4-metilpentan-1-olo, con odore di buccia di agrumi, è più limitato. La sua concentrazione nei vini supera raramente la sua soglia di percezione (55 ng/l) tuttavia questo valore può essere raggiunto in qualche vino. Il 3-mercapto-3-metilbutan-1-olo, con odore di pera cotta, è molto meno odoroso, la sua soglia di percezione è di 1500 ng/l, valore che non viene mai raggiunto nei vini.

Gerardo Vernazzaro, enologo e viticoltore a Cantine Astroni¤.

C’è davvero ben poco da aggiungere a questo post, da rileggere più e più volte per chi volesse capirne di più su questo particolare vitigno d’oltralpe, se non un paio di considerazioni personali. Da un punto di vista strettamente “commerciale” il sauvignon non gode certo dello stesso successo che ha fatto dello chardonnay una icona dell’internazionalizzazione omologazione del gusto mondiale, e questo è dovuto più che al suo gusto “eccentrico” alla sua limitata capacità di acclimatarsi in vigna; non manca però di un certo appeal soprattutto se considerato alla giusta maniera ed abbinato, a tavola, ai piatti giusti: pesci mediamente grassi, primi piatti iodati, carni succose, formaggi giovani a pasta molle, anche erborinati. La seconda considerazione è quasi una soffiata: molti, qua e la nel mondo, sono soliti usare piccole quantità di sauvignon come “saldo” negli uvaggi di vini bianchi generalmente poco espressivi, spesso non menzionandolo nemmeno, proprio per la sua capacità di “sostenere” una certa carica aromatica senza stravolgere oltremodo, a piccole dosi, l’equilibrio gustativo. 🙂

Consiglio, a chi volesse masticare di riconoscimenti di molecole presenti nel vino, di riprendere questa lettura sui ‘difetti del vino’¤ (A.D.).

© L’Arcante – riproduzione riservata

Douro, preziose son le gocce di Porto

3 aprile 2010

Il Porto, o vino di porto, è un vino liquoroso portoghese prodotto esclusivamente da uve provenienti dalla regione del Douro, nel nord del Portogallo, sita a circa 100 chilometri a est della città di Porto, tra le quali la Touriga Nacional, Touriga Francesa , Tinta roriz, Bastardo. La peculiarità maggiore del porto, oltre al clima in cui maturano le uve, è la sua fermentazione incompleta, fermata (mutizzata) ad uno stadio iniziale tramite l’aggiunta di alcol vinico, ottenuto da distillazione del vino contenente circa il 77% di alcol. In questo modo il vino risulta naturalmente dolce – a causa del residuo zuccherino derivante dall’uva che i lieviti non hanno potuto trasformare interamente in alcool perchè inibiti dalla concentrazione elevata di etanolo che può raggiungere livelli compresi tra il 18 e il 22%. Sono noti sette tipi fondamentali di vino di porto: le categorie base, bianco, ruby e tawny, poi i tipi più pregiati, Tawny invecchiato (aged tawny può essere commercializzato dopo 10 anni di invecchiamento, fino a 40), Colheita, LBV (Late Bottled Vintage), e Vintage, in assoluto il più pregiato. Il vino di porto è tradizionalmente un assemblaggio, tra uve provenienti da diversi vigneti, vinificate con tecniche differenti, di diverse annate; tuttavia un nuovo tipo di prodotto detto Single quinta (proveniente da una sola tenuta), ha conosciuto un successo crescente negli ultimi anni.

Porto bianco: è prodotto esclusivamente da uve bianche ed invecchia in grandi botti di legno di quercia, da oltre 20.000 litri. È un vino tipicamente giovane e fruttato ed è l’unico vino di porto classificato per grado di dolcezza. Esistono pertanto bianchi secchi, semi-secchi e dolci. Per via delle sue modalità di produzione, il porto bianco catalogato come “secco” non è mai completamente secco e conserva sempre parte della sua dolcezza iniziale.

Porto Ruby: sono vini rossi ed anch’essi invecchiano in grandi botti. Per via del poco contatto con il legno – dovuto al basso rapporto superficie/volume – e della scarsa ossidazione, essi conservano a lungo le loro caratteristiche iniziali. Sono generalmente vini molto fruttati, dal colore rubino intenso e sapore di frutti rossi (frutti di bosco e prugna, per esempio), con le caratteristiche dei vini giovani.

Porto Tawny: sono vini rossi prodotti con le stesse uve dei ruby, ma invecchiano in botti grandi solo per due-tre anni, dopo i quali vengono travasati in piccole botti da circa 550 litri. In queste botti il contatto con il legno e, tramite esso, con l’aria è maggiore; i tawny “respirano” di più, ossidandosi e invecchiando più rapidamente dei ruby. In questo modo perdono nel tempo il colore originale rosso rubino per assumere una tonalità più chiara, ambrata, e sapore di frutta secca, tipo noci o mandorle. Con l’invecchiamento, i tawny guadagnano ulteriormente in complessità aromatica, rinforzando il sentore di frutta secca ed acquisendo sapori che vanno dal tostato al caffè, al cioccolato, al miele. Nei tawny molto vecchi il colore rosso iniziale va scomparendo e passa da tonalità castane-dorate al color ambra. All’opposto, il porto bianco – normalmente giallo pallido quando giovane – col tempo tende a scurire diventando giallo-dorato e giallo-castano. Vi sono vini di porto bianco che data la loro età hanno assunto un colore ambrato tale da poter essere confusi per colore con tawny altrettanto vecchi.

Porto Vintage: di gran lunga i porto più pregiati, prodotti con uve di una singola annata, invecchiati inizialmente in botte per poi essere sottoposti ad un secondo invecchiamento in bottiglia. Il prestigio di tale tipologia è dato da un insieme di fattori, non ultimo la qualità delle uve raccolte, che, come nel caso di alcuni grandi vini italiani, qualora non raggiunga un alto standard non verranno impiegate per la produzione dei Vintage, ma solo per vini di qualità inferiore: in quella annata, quindi, non verrà prodotto alcun Vintage. Il vino, per raggiungere la completa maturazione, necessita di lunghissimo invecchiamento: secondo alcuni produttori non andrebbe bevuto prima dei vent’anni, raggiungendo in molti casi età ben più mature. Alcuni produttori selezionano uve di una sola vigna, in questo caso il vino sarà un Porto di “Quinta unica”, considerato ancora più pregiato del semplice Vintage.

E… se il cliente mi chiede vino Kosher?

8 gennaio 2010

Il periodo di lavoro appena trascorso a Capri mi ha spesso messo a confronto con richieste di vino Kosher, occasioni, quelle, per saperne qualcosa in più sulla particolare procedura grazie alla quale certi vini possono ottenere la certificazione dal Rabbinato d’Israele per essere poi consumati dagli avventori ebrei.  

La premessa è che il vino, nella sua sacralità e nel suo contenuto di potenzialità nascosta che si trasforma in atto, richiama la mente all’idea della Creazione, con l’insieme di leggi naturali e sacerdotali destinate all’umanità in genere ed il popolo d’Israele in particolare. Per questo la preparazione accurata eseguita anche manualmente da ebrei osservanti è l’unica garanzia di un uso moderato e sobrio che riconduce l’uomo della gioia del cuore secondo il verso dei salmi “il vino farà gioire il cuore dell’uomo” nell’eseguire la volontà del creatore.

Proprio per questi motivi ogni operazione manuale ed ogni spostamento mosto/vino deve essere eseguita da ebrei osservanti che collegheranno i tubi necessari ed azioneranno pompe, valvole e raccordi su indicazione del tecnico di cantina. Ogni eventuale operazione eseguita da altri comprometterebbe l’intera vasca di produzione; Per evitare intromissioni è necessario quindi sigillare con 2 segni in alto ed in basso con piombi e firma.

Durante le fasi della produzione è importante che tutti gli impianti in metallo o vetroresina siano precedentemente lavati con acqua bollente; Le parti di raccordi in gomma, qualora già in uso in cantina da diverso tempo, vanno procurate nuove. Il personale ebraico entra in scena sin dall’operazione di spremitura delle uve, per ribaltare il camion e far pervenire le uve nella coclea, azionare le pigiatrice e diraspatrice e le pompe che dirigono il mosto nel tino. A questo punto, le bucce ed i semi vengono chiusi e sigillati per essere portati in distilleria dopo aver bollito l’impianto. I prodotti che ne derivano da questa catena sono oramai considerati Mevushal (vino cotto), quindi da questo momento può essere toccato da ogni operatore purchè ad ogni travaso o altra operazione successiva sia presente l’autorità Rabbinica. In fase di lavorazione del vino è permessa l’immissione di:

  • anidride solforosa S02;
  • zuccheri, purché controllati in forma di mosto concentrato, solo se certificato, generalmente molto difficile reperirlo in Italia;
  • aggiunta di saccaromiceti controllati dal Rabbinato francese, tipo Kl Lavine o prodotti certificati Isecco;
  • bentonite;
  • la bollitura e la cottura, sono fasi necessarie visto che trasformano la qualità del prodotto rispetto agli addetti professionali e tecnici, che solo dopo questa fase possono intervenire manualmente. La recente esperienza vinicola prevede di collegare un pastorizzatore ad un refrigeratore così il vino passa in poco più di 4 – 5 secondi alla temperatura di 86 Celsius per essere immediatamente raffreddata a -4 C. Tale procedura garantisce un mantenimento delle qualità organolettiche del prodotto senza perdita di aroma e profumo.

Durante la fase di filtraggio è necessario per poter avere il prodotto Kasher Le Pesach, controllare che i filtri in cellulosa non contengano amidi o derivati da altri cereali. La maggior parte di filtri in commercio se certificati rispondono a questi requisiti. Dopo una preparazione e pulizia dell’impianto è possibile imbottigliare in bottiglie nuove e pulite secondo la normale procedura. La norma ebraica richiede che vi siano tre segni di riconoscimento della specificità del prodotto:

  • l’etichetta
  • eventuale retroetichetta o in alternativa capsula termica
  • tappo con segno di riconoscimento o marchio del Rabbinato.

Nell’etichetta dovrà apparire inoltre il nome del Rabbino che ha eseguito il controllo e che rilascia il certificato. Tale etichetta può anche essere eventualmente applicata sulle scatole d’imballaggio. Sarà l’Autorità Rabbinica a rilasciare ogni volta il numero di etichette o tappi necessari all’operazione. Tutta la produzione annuale sarà accompagnata da un certificato originale registrato presso il Rabbinato Centrale d’Israele che ne garantisce l’esportazione.

Tra le più rinomate etichette del panorama enologico modiale dei vini Kosher, oltre ai marchi storici Israeliani Domaine Du Castel, Dalton, Galil Mountain, Yarden, Barkan, Ella Valley, Noah-Hevron Heights, Tanya non mancano alcune etichette italiane di aziende anche di enorme spessore come la nostra Feudi di San Gregorio (molto buono l’Aglianico Rosh ed il Fiano di Avellino Maryam) ed altre come la romana di Zagarolo Federici, la marchigiana Azienda Agricola Degli Azzoni Avogadro Carradori oltre che le californiane Baron Herzog e Covenant.

Chiacchiere distintive, Sabatino Di Costanzo

19 dicembre 2009

Ovvero, della ruralità di cui si sentirà sempre più la mancanza e che io voglio fortemente ricordare, memoria di una infanzia vissuta con i piedi nella terra.

Buongiorno Sabatino, tutto apposto? “Eh, figlio mio, che ti devo dire, vecchio m’hai lasciato e più vecchio mi ritrovi; La pioggia qua, vedi, non vuole proprio farci lavorare…”. “Come ti sei fatto grande, ti ricordi quando con i tuoi compagnielli vi venivate a scippare l’uva dalle piante? Ah quante scoppettate vi sareste meritati!” Sabatino, tengo bisogno di due-tre tralci di vecchie viti, ne avete estirpati qualcuno a fine vendemmia? “Vieni, vieni, andiamo in campagna, statti attento a non sporcarti con la terra però, mantieniti sulla parte dura del terreno”. Sabatino mio, una delle poche cose che proprio non mi dispiace è sporcarmi con la terra, la mia terra ricca di pozzolana!

Sabatino Di Costanzo (nessuna parentela, nemmeno alla lontana) è il contadino puro, il lavoratore indefesso della terra. Pensare a lui mi riporta immediatamente alla mia infanzia, quando appena undicenne mi mandavano a comprare il vino per casa, quello “del contadino” era l’unico capace di far quadrare il bilancio e dare da bere agli assetati di tranquillità dopo una dura giornata per mare. Sabatino oggi ha più di ottant’anni, tutte le mattine alle cinque e trenta porta la frutta al mercato ortofrutticolo di Pozzuoli, la poca che gli è rimasta di coltivare dopo l’espropriazione dei terreni subita a fine anni ottanta per lasciare costruire un casermone finito e rifinito ormai da oltre dieci anni e lasciato decadere alla buona faccia dei contribuenti. “Mi avessero lasciato almeno il frutteto, sai che belle mele annurche venivano qua?” Eh si, me le ricordo le vostre mele, i magnifici mandarini, le fave dolcissime che coltivavate tra i filari di per’ e’palummo e falanghina in primavera. “Stì disgraziati, si sono mangiati in dieci anni più di 150 anni di storia e tre generazioni di contadini.

Allora dimmi, fai ancora “quello del vino, come si dice, o’ summelier? Eh si, caro Sabatino, mi avete rincorso con l’uva in saccoccia da bambino ed oggi mi ritrovo io a rincorrere le bottiglie di vino. “Eh, mio caro Angelo, ma il vino che vendi tu alla gente non è come questo, qua’ il vino lo fa’ la natura, io ci metto solo la bocca, e la mia bocca, credimi, è quella che vale!”. Sabatino mio, non ho argomenti per trattare male la vostra opinione, ma credetemi, che la vostra bocca non è la stessa mia, e quello che potete cercare voi nel vostro vino non è lo stesso che vado trovando io e qualcun altro. Un vino deve tenere qualcosa di dire!

Ci spostiamo adesso sotto il pergolato, si avvicina la Signora Concettina, la moglie, imbracciando una bottiglia di vetro chiaro con il tappo di plastica giallo, ci accomodiamo sulla panca sotto la quale arde un piccolo braciere: “Vieni qua’, senti questo che tiene da dirti”, mi sussurra mentre mi versa un abbondante bicchiere del suo piedirosso; il colore non è certo limpido ma è bello vivace, rubino netto ed anche abbastanza concentrato. Lo porto subito al naso, il bicchiere, il classico tumbler da osteria, non è certo ideale per cogliere tutte le sfumature, ma ad esser sincero poco mi aspetto di trovare. “Questo qua figlio mio, lo faccio solo per me, se lo dovessi vendere, come minimo mi dovrebbero dare quattro euri al litro, vallo a far capire a questa manica di fetienti qua intorno”.  In effetti sono sorpreso, lasciata sfumare la lieve nota volatile iniziale, viene fuori un bouquet davvero piacevole, vinoso, floreale di geranio e viola, fruttato di ciliegia polposa, berlo poi è davvero gradevole, frutto ancora in primo piano, fresco quanto basta e lievemente sapido. Nessuna nota sgradevole sul finale di bocca.

Sabatì, ma questo è davvero buono! “Allora qua parliamo e non ci capiamo, questo è solo uva, io ci metto solo la bocca!”. Però ditemi la verità, qua non c’è solo il piedirosso, e poi non mi potete certo dire che è tutta uva di qua, nella piana di Toiano il vino non riesce a raggiungere questa maturità di frutto. “E chi te lo dice, questo è dodici gradi e mezzo, e nessuna per’e’palummo a meno che non sia “trattata” ti riesce a dare di più”.  Con le mani e con gli occhi mi fa’ segno di girarmi e guardare quei quattro filari là, proprio sotto la montagna di Monte S. Angelo: “questo viene da là, è dell’anno passato, 5 damigiane e poche altre bottiglie di sciampagna, ne un dito in più, ne uno in meno. E non sempre però. Tu rispetta la terra, essa sa’ bene cosa darti!”

La pioggia ha smesso di cadere già da qualche minuto, decidiamo di salutarci, io mi porto via i miei tralci di vite vecchi ed un’altra lezioncina di cui fare tesoro. Se il tempo mantiene, con i pampini ormai tutti caduti, Sabatino potrà finalmente lavorare le sue viti in procinto del lungo riposo invernale. Potrà passare in rassegna i pali di sostegno per verificarne la stabilità, legare le viti al palo con i rametti di salice, piegare i tralci e fermarli a dovere con il fil di ferro. Attorno ad ogni pianta potrà togliere le erbacce e metterci il letame o il concime. Poi a Marzo, al risveglio della natura, si vedrà.

A lui dedico queste righe, a lui ed ai suoi fratelli Antonio, don Gennaro e Luigi che, ultrasettantenni ci hanno però lasciato qualche anno fa’; ripensando ai miei ricordi, pesco nella mia infanzia, bellissima, memorie di giornate spese a correre tra le loro “terre”, a giocare in mezzo alla campagna e fuggire rincorsi costantemente sotto la minaccia di “scoppettate” o vangate, per la verità mai ricevute, per un pallone di troppo calciato nel fienile o per una manciata di pesche, ciliegie e fave trafugate di sabato pomeriggio.

Quintodecimo, il 2007 secondo Luigi Moio

15 dicembre 2009

Tutto inizia con una domanda, con la quale ci lasciamo la vigna¤ alle spalle prima di accomodarci in casa di Laura e Luigi per la degustazione dei vini: “Moio realizza Quintodecimo, il suo sogno, perché in Irpinia?”.

Più di una le risposte, che aprono discussioni¤ sul passato ed auspici sul futuro, argomenti che hanno fondamenti più o meno espliciti di cui non si può non tenerne conto e che si potrebbero sintetizzare in questa frase: “Ero stanco di rincorrere sfide, era venuto il momento di lanciarne una,  quella decisiva”.

Premesso che: ha fatto la storia dell’enologia campana, ha stravolto atavici equilibri e bilanciati dei nuovi, ha rilanciato sin da tempi non sospetti il senso fondamentale della terra, della vigna prima di tutto al quale ha applicato con minuziosa visceralità il concetto, per molti secondario sino ad allora, di conoscenza scientifica dei suoi elementi. Ha reinventato, praticamente dal nulla, progetti sparuti divenuti in pochi anni perle enologiche, ha dato grande slancio a cantine cooperative con oltre 400 soci e saputo esaltare, allo stesso tempo, il valore aggiunto di piccole aziende a conduzione familiare, interpretando alla grande quel concetto di “unico e raro” tanto in voga oltralpe e spesso, alla meglio, solo mestamente scopiazzato nell’italica penisola. La Falanghina, il Pallagrello Nero e Bianco, il Casavecchia, la Pepella, la Ginestra, l’Aglianico, il Fiano di Avellino, il Greco di Tufo: piccoli vitigni e grandi vini con un dna straordinario ed un solo grande interprete: Luigi Moio.

Anteposto che: l’Irpinia è un territorio unico, e qui si fanno vini di eccezione, Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi. Ha un territorio caratterizzato da un continuo succedersi di montagne, colline, pianure intervallate da corsi d’acqua con terreni che presentano un’ampia variabilità. E poi la vicinanza della costa tirrenica, che da qui dista poco più di 60 chilometri alternata alla rigidità appenninica profondono nelle vigne Irpine elementi contrastanti come freddo, neve, vento, piogge, gelate, caldo estivo, tutte condizioni che giustamente condensate portano le uve a giusta maturazione ed una concentrazione di tali peculiarità da partorire vini di fascino e carattere superiore. Ancora del tutto inespressi.

Desumo: vini di eccezionale equilibrio, in questo momento, espressioni nitidi di ciò che solo il tempo ci dirà quanto tipico del loro territorio di origine oppure interpretazione del loro illustre artefice.

Campania Falanghina Via del Campo 2007, il bianco del cuore, quel vitigno sul quale il professore ha riversato anni di studi minuziosi regalandoci una delle poche pubblicazioni scientifiche sul suo profilo agronomico ed organolettico, oggi testo imprescindibile per gli appassionati di questo delizioso e generoso vino campano. Via del Campo è anche il nome di una delle più struggenti canzoni di De Andrè, da giovane una delle prime a passare tra le corde della sua chitarra, così proprio come una grande interpretazione della Falanghina vuole oggi riversarsi nei calici di ognuno e conquistarli. Di colore giallo paglierino con nuances dorate, cristallino. Ha profumi intensi ed avvolgenti, fini ed eleganti. Fiori bianchi, frutta a polpa gialla, minerali. Netti riconoscimenti di mela e banana sono ben presto sovrapposti ad iniziali fresche note mentolate e minerali. Vino delizioso. Ha un gusto secco, di buon corpo e vibrante freschezza, un bianco da pesce e da carni bianche, una Falanghina di carattere.

Fiano di Avellino Exultet 2007, “[…] non mancheranno, le prossime vendemmie a delinearci un profilo più altisonante per questo vino, degno insomma del miglior Moio”, così definivo l’Exultet ’06¤ l’anno scorso, convinto di non aver trovato un fiano in grande spolvero ma certo che era solo l’inizio di un percorso verso l’eccellenza. Sono rimasto sinceramente impressionato da questa bevuta, un vino di grande impatto olfattivo, grasso e voluttuoso al naso come in bocca. Mai bevuto prima. Il colore è splendente, giallo paglierino con note verdi che rincorrono una luminosità esemplare, il primo naso è possente, esplosivo: tartufo bianco sottile, elegante, penetrante. Poi viene fuori un varietale accattivante, note floreali di tiglio e di acacia, sfumature mielate e tostate. In bocca è secco, avvolgente con una trama acida invidiabile soverchiata sul finale da una deliziosa matrice minerale. Da bere per puro piacere, da rimanerci col naso attaccato dopo aver ingurgitato ostriche a palate.

Greco di Tufo Giallo d’Arles 2007, la pittura come la musica rifugio intimo dell’uomo Moio, chi visita la sua cantina rimarrà folgorato (quasi sconcertato) dalla maniacale ricerca dell’ordine e della pulizia, così come chi entra in casa sua rimane affascinato dai tanti quadri che riprendono soggetti e paesaggi impressionisti, tutte opere personali, alcune delle quali devo dire, davvero belle. Il giallo d’Arles era il colore preferito da Van Gogh, quello che caratterizza per esempio la “Vigne Rouge”, giallo tendente quasi all’ocra, lo stesso colore che si può ammirare nel Greco di Tufo 2007 di Quintodecimo; timbro cromatico davvero importante per quello che è però il vino, in questo momento, meno impulsivo della batteria bianchista assaggiata. Primo naso sottile di frutta gialla matura, nitidi sentori di albicocca e cedro candito, poi mandorla. In bocca è secco, caldo, di buon corpo, frutto in perfetta armonia ma poco profondo, acidità comunque ben legata, gode di una beva di buona freschezza e sapidità. Un bianco importante da abbinare a piatti di pesce grassi, penso per esempio ad una trippa di baccalà ma anche a formaggi vaccini mediamente stagionati. 

Irpinia Aglianico Terra d’Eclano 2007, piccolo Taurasi cresce. Appena due dati tecnici per meglio inquadrare dove e come nasce questo piccolo gioiello irpino. Nasce da sole uve aglianico di Mirabella Eclano, vigneto di circa 4 ettari in corpo unico allevato con cordone speronato con un impianto di 5000 ceppi per ettaro piantati con esposizione sud/est, sud/ovest, nord/ovest tanto per non farsi mancare nessuna delle possibili influenze micro-climatiche, ad un’altitudine di circa 450 metri sul livello del mare ed una resa per ceppo di circa 1kg. Dopo la vinificazione il vino passa almeno 18 mesi tra barriques nuove e di primo passaggio ed almeno 6 mesi in bottiglia. Il duemilasette è un vino entusiasmante! Il colore è rosso rubino vivace, cristallino e poco trasparente, consistente nel bicchiere. Il primo naso è sinceramente ricchissimo di frutto e spezie, intenso, complesso, fine, elegante, debordante di sensazioni fragranti ed invitanti. Il bouquet vira continuamente dal floreale al fruttato, allo speziato, netti i riconoscimenti di viola e confettura di prugna, di pepe e carruba. L’ampio spettro olfattivo rimane intenso e complesso per tutta la beva, armonicamente fuso ad un gusto asciutto, tendenzialmente morbido, di buona compattezza e finezza superlativa. Mai bevuta di aglianico fu così equilibrata ed armonica, carattere da vendere ma avvincente e godibile dal primo all’ultimo sorso, con tannini che appaiono dissolti in un frutto sempre al centro dell’attenzione, le durezze sono come ammantate dalla setosità glicerica del corpo del vino.

Il Terra d’Eclano è il primo di quelli che saranno i tre grandi cru di aglianico di Quintodecimo, già affiancato quest’anno dal Taurasi¤ e presto dal Grande Cerzito che vedrà però la luce solo tra qualche tempo, non appena la vigna avrà maturato il giusto spessore che Luigi Moio intende poi trasferire in sintesi a tutti i suoi vini, quello di essere ognuno nella propria dimensione, dalla falanghina all’aglianico, una “sfida”, quella di cui ha bisogno ogni uomo per guardare sempre avanti nella propria vita, spesso passata a raccoglierle, qualche volta a vincerne alcune, meno a lanciarne.

Questa è la mia terra, vivila con il cuore in mano

12 dicembre 2009

Si possono sprecare parole di elogi, rivangare una storia millenaria che comunque ritorna da se ogni qualvolta si mette mano alla ricerca delle origini, citare persone, luoghi, nomi che vanno ad incarnare una storia, un paesaggio, una identità che pur nelle mille diversità conducono sempre ad un unico concetto ormai chiaro a tutti: Campania Felix!

Terra mitica per i greci, giardino imperiale per i Romani, per i regnanti delle due Sicilie poi, ci hanno trapassato il cuore in tanti e feriti i peggiori, ma l’anima, la vocazione rimangono pure ed originali. Io, noi amiamo i vini della Campania, questo è tutto. Ma è solo l’inizio…

Il fuoco, vedo il Vesuvio¤ con la sua forza immensa, con la falanghina e la coda di volpe (qui caprettone) che hanno innaffiato terre atlantiche quanto a levante, ridato vita ed humus a portafogli aridi come le anime che ci marciavano sotto, profumi di una terra del fuoco che ha finalmente ritrovato la sua dignità e che corre, entusiasta, verso il suo riscatto. Olivella, sciascinoso, catalanesca, discendono il Monte Somma come lava e lacrime¤ sino ai bicchieri di ognuno.

Pietra lavica e fuoco che nei Campi Flegrei nutrono per ‘e palummo¤ e falanghina¤, iodate dal mare del golfo, inasprite dalle terre di tufo, dalle sabbie degli Astroni¤, le acque dell’Averno come discesa agli inferi per poveri diavoli che giammai ebbero di che nutrirsi; Ischia, Capri, mete verdi ed azzurre sempre prostrate ai palati più fini e leggeri, biancolella, ventrosa ed uva rassa a inebriare ricchi e viziosi di un gioco infinito, magari piantati in asso da sirene senza più voce ne canti da regalare, a Sorrento come a Furore¤, a Ravello o a Tramonti¤: tintore, pepella, ginestra, san nicola, fresche bevute e sapidi rospi, ebbri da panorami mozzafiato e da tinte rosse, fosche di primo mattina.

Il mare, azzurro, cristallino, brillante come diamanti, il Cilento ed i sassi, la pietra liscia di spiagge incantate, incontaminate proprio ai piedi di montagne irte ed adombrate, frescure che esaltano vini di eccellente spiccata aromaticità, il fiano su tutti, e rossi corpulenti, polposi, minerali, rei di accecare il palato e conquistare lo stomaco; piccoli vigneti, agricoltori che cercano se stessi e colgono in flagranza di reato la propria anima¤, la propria origine, scappati via nella città e rifuggiti da questa per ritrovarsi ambiziosi di riscoprirsi appartenenti alla campagna. L’aglianico rifugio di destini controversi.

La terra, aspra e generosa, ferita in maniera indelebile e capace di ricostruirsi un futuro più solido, più forte della malasorte, più ambiziosa di generazioni semplici e conservatrici. Ecco l’Irpinia, la terra di mezzo, spartiacque di culture ed esaltazione di colture, l’aglianico¤, il fiano di Avellino¤ ed il greco di Tufo¤ come massima espressione enologica della nostra regione. Una convulsa evoluzione che ha stravolto le menti e gli equilibri italici, vini prestati al desìo altrui divenuti finalmente protagonisti di se stessi, della propria origine, testimoni¤ della propria terra¤ che pian piano stanno ritrovando e marcando come unicità e rarità: è Taurasi la porta del successo!

La creta che diviene fango, prende forma tra le mani, diventa specchio della propria anima, finalmente il Sannio-Beneventano balla da solo. Polmone inesauribile a rimpolpare vinacci da niente, vinodotto inesauribile che ha scosso le coscienze e motivato princìpi di autenticità¤. Sant’Agata de’Goti, Castelvenere, Guardia Sanframondi, terre spogliate come le loro vigne dalle foglie in autunno, coraggiosamente oggi rivendicano una identità superiore: il piedirosso, l’aglianico, ma anche la falanghina ed il greco, la barbera e l’agostinella, un circolo vizioso che circuisce e vizia chi non si ferma al palo, chi riesce a vedere oltre e a toccare con mano. Piaceri ineluttabili al caldo di un camino accesso a fescine.

Il vecchio e il nuovo, il passato che avanza nel futuro che è già prossimo, che è già oggi. Il Falerno¤ come vocazione antica, primitivo rosso campano tanto amato dai romani che incapaci di reggerne la possenza lo sventravano con nefandezze delle più dolci pur di mentire a se stessi. L’Ager Falernus¤ come terra eletta che riscopre oggi una vocazione per troppo tempo assopita e banalizzata, il Massico¤ che vive una nouvelle vogue entusiata di esserci e di scomettere su se stesso.

Da qui a Roccamonfina¤, vigneti sperimentali e gran cru campani, ricerca ed innovazione che regalano grandi vini e simpatiche interpretazioni, l’aglianico maritato al piedirosso, la falanghina vestita con il sauvignon, uno strappo, quest’ultimo, alla tradizione da non confondere con la tradizione stessa, una fiche buttata lì sul tavolo verde che vale la giocata ma non deve essere la partita, non abbiamo bisogno di mezzucci per abbreviare il tragitto, solo un po’ più di palle per guadare il fiume. Attributi che non sono mancati a chi¤ ha reinventato poco più in là una viticultura scomparsa, a chi, per esempio riscoprendo il pallagrello¤ bianco e nero ed il casavecchia¤ non ha abbassato le braghe agli storpi e biechi burocrati del no e ci continua a regalare emozioni liquide pure attraverso vini esemplari e ricchi di fascino.

A costoro e a tutti quelli che amano la vigna, piccola¤ o grande¤ che sia, io dico grazie. A tutti quelli che di fronte a questi vini si troveranno ribadisco: “questa è la mia e la vostra terra, vivetela con il cuore in mano!”

© L’Arcante – riproduzione riservata

Noi? Solo dei buoni Amici di Bevute

5 dicembre 2009

Guardatela bene questa foto, ve la presento: c’è un ristoratore, un sommelier, una giornalista, un’enologo, cinque produttori di vino; c’è, ma non si vede, l’entusiasmo di esserci, di raccontare, di stare tra le gente. Non l’entusiasmo di ognuno di questi sorrisi, quello può apparire scontato, dovuto, essenziale, ma quello che si respirava nell’area, da vivere in prima persona, da cavalcare senza paura come si fa con un’onda e con la propria tavola da surf, quello che si costruisce con anni di storia, di mani sporche di terra e camicie e mani imbrattate di vino, polpastrelli consumati dalla ricerca della migliore materia prima e dal lavoro ai fornelli¤.

Nessun professore tra noi, nessun sermone, nessuna degustazione tecnica da sfoggiare, solo tanta ma tanta voglia di raccontare, di essere tra la gente con la gente, con i nostri avventori, giammai clienti, amici di bevute che hanno voglia di scoprire e capire il vino (ed il cibo) e le sue origini attraverso persone che il vino ed il cibo lo fanno, lo sanno fare e raccontare. Ecco perchè con Giulia¤ abbiamo pensato a questo evento, perchè Vincenzo Mercurio¤ dopo tanti anni di duro lavoro ed esperienza da vendere ha saputo raccogliere la sfida di scoprire e capire altre realtà, di sondare i tanti, diversi, complessi terreni sui quali si muove il vino in Campania, dal Cilento al Massico, dai Campi Flegrei al Taburno sino all’amata e profondamente conosciuta Irpinia.

Questo è stato Viaggio al centro dell’autoctono¤, come l’abbiamo pensato, questo è quello che vogliamo intraprendere per lasciare alle persone, liberamente ispirate da ciò che hanno nel piatto e nel bicchiere, seguite appassionatamente, di decidere qual’è il proprio vino, quali le emozioni ed il piacere più vicino alle proprie aspettative. La scuola, la didattica, l’insegnamento lo lasciamo volentieri agli altri, noi? Noi siamo più semplicemente Amici di Bevute!!

P.S.: un ringraziamento particolare, accorato, sincero a Rosanna Petrozziello e Giancarlo Favati, Maria Felicia Brini, Paolo Cotroneo, Tommaso Babbo e Cantina Barone e non ultimo Vincenzo Mercurio per averci dato la possibilità di creare questa bellissima serata qui nei Campi Flegrei, qui raccontata da Marina Alaimo sul sito dell’amico Luciano Pignataro.

 

Aeclanum, Quitodecimo parte I: la terra

3 dicembre 2009
 
Il bellissimo vigneto giardino dell’azienda Quitodecimo di Luigi Moio a Mirabella Eclano, qui inizia il viaggio di una giornata speciale a caccia di stelle, prima qui e poi a Nusco.
Esposizione nord, nord-ovest per il vigneto che discende dalla collinetta dove Luigi Moio ha deciso di realizzare il suo sogno di vigneron.I vigneti di Aglianico hanno circa 8 anni…
I protagonisti: a sinistra, l’argilla, compatta, caratteristica del vigneto Quintodecimo, a destra invece il terreno più sciolto, povero di scheletro, caratterizzante la vigna Cerzito, che diverrà in futuro il secondo cru di Taurasi dell’azienda. Il vigneto è esposto a sud…
Certi colori non si dimenticano mai, e mai si smettono di inseguire, tutto nasce qui, in vigna: La scoperta più grande sta nel ricercare e ritrovare nei bicchieri ciò che avviene perennemente qui, e a breve il report delle eccezionali bevute di questa mattinata…

Campania, piccole bollicine crescono

18 novembre 2009

Nell’epoca in cui viviamo la comunicazione è divenuto un fattore fondante del successo di un prodotto, di un marchio, di una azienda; no, non scopriamo certo l’acqua calda, in effetti “la pubblicità – si è sempre detto – è l’anima del commercio” ed in ogni stagione negli ultimi cento anni si è fatta prima pudica, poi elegante persuasione sino a divenire insidiosa al punto di vestire troppo spesso l’arroganza dell’invadenza. Oggi più che di pubblicità, termine ormai relegato al linguaggio popolano si è sempre propensi a parlare di comunicazione, “perché con la comunicazione s’intende lanciare un messaggio che è molto più complesso, spesso originale, della banale pubblicità”. Non solo quindi manifestare la bontà di un prodotto, l’intuizione di una idea,  l’identità di un marchio da lanciare o consolidare e invitare al suo acquisto, ma rendere tutti questi, attraverso un linguaggio minuzioso, magari supportato da una proposizione anche visiva, una parte integrante di una esperienza unica del destinatario di turno, insomma un momento culminate del proprio vivere quotidiano, magari di una passione, di un piacere che potrà essere a lungo condizionato tanto da modificarne le abitudini.

Ecco come si può arrivare a pensare di stravolgere le abitudini di operatori professionali ed appassionati consumatori, come si possa pensare di proporre in alternativa al Prosecco di turno la Falanghina o l’Asprinio d’Aversa spumanti, come avviare una lenta conversione alla valorizzazione di progetti interessanti sul primo, diffusissimo vitigno che sembra trovare con la spumantizzazione un’anima intrigante, deliziosamente appagante, una espressione per niente banale e sul secondo che grazie all’impegno di pochi viene costantemente reso salvo dall’estinzione. Un lento progredire che possa condurre all’idea che sia il Prosecco a divenire una valida alternativa di Asprinio e Falanghina, non fosse altro per la soddisfazione di chi ama rallegrarsi con le bollicine autoctone campane e per la buona pace dei redattori delle varie guide ai ristoranti che proprio non ne possono più di ritrovarsi a Sorrento come a Pozzuoli, a Paestum come a Caserta o Ischia sempre costantemente serviti come “calice di benvenuto” il Prosecco (spesso uno dei più mesti) o magari un Oltrepò Pavese Pinot Nero vinificato in bianco e quando gli va bene una flute di Franciacorta: nessuno, o quasi (poiché le eccezioni vi sono sempre) che pensi che uno spumante di Falanghina (quindi Asprinio d’Aversa o Greco di Tufo) possa essere un buon viatico di accoglienza quantomeno in tono alla propria tavola spesso proposta come tradizione della enogastronomia campana.

Un percorso sicuramente non facile, che passa innanzitutto dalla qualità dei prodotti proposti dalle aziende, che non si può negare, ce la stanno mettendo tutta per migliorare i propri vini, raccogliendo e vinificando le uve con le caratteristiche più adatte alla tipologia e qualificando sempre di più la propria esperienza investendo in risorse umane avvalendosi di consulenti specialisti (quasi sempre proprio provenienti dalla scuola enologica di Conegliano, nda) ed in tecnologia di cantina, con gli spumanti quanto mai essenziali per proporre un vino di qualità e rispettoso delle caratteristiche organolettiche della tipologia. Investimenti onerosi che servono necessariamente per fare il salto di qualità e garantire una filiera inattaccabile.

Una buona dose di entusiasmo in questa direzione non guasterebbe, soprattutto da parte di chi come gli operatori del settore, sommeliers, enotecari, ristoratori, distributori spesso decidono le sorti di un vino piuttosto che di un altro; non senza le dovute osservanze: i parametri della qualità devono essere integerrimi, quelli dei costi discussi seriamente e serenamente al fine di trovare un giusto equilibrio (spesso ricarichi assurdi sino al 300% sulle bollicine allontanano da certe scelte) ma soprattutto l’intelligenza di non prendere per partito preso posizioni assolutistiche, i vini spumanti da vitigni autoctoni campani non vanno contrapposti ostinatamente ai vari modelli italiani e soprattutto d’oltralpe, Champagne in testa. Sono questi, vini la cui storia è inattaccabile, la cui origine di valore straordinario e di qualità certamente superiore da prendere per modello per valorizzazione dei terroirs espressi e non da scimmiottare con interpretazioni storpiate che hanno portato negli anni a vinificare di tutto purchè frizzante.

Il valore aggiunto per le nostre bollicine autoctone campane oltre al prezzo quasi sempre alla portata di tutti, risiede nella capacità di comunicare il nostro territorio con schiettezza e semplicità non senza rimanere affascinati dalla storia di una viticoltura eroica (penso ai vigneti di Asprinio ad alberata dell’aversano, ai terrazzamenti di Falanghina di Monte di Procida ecc…) capace solo qui, attraverso questi vini di imprimere un marchio indelebile di una terra unica e straordinaria. Valori, schiettezza e sincerità che non dovrebbero mai mancare anche nei comunicatori del vino. Prosit!

Chiacchiere distintive, Nicola Venditti

15 novembre 2009

Una delle mie prime esperienze come “cronista on line” la debbo certamente all’amico Vito Trotta, fiduciario Slow Food dei Campi Flegrei che dopo una cena-degustazione, una delle prime, otto anni orsono, tenutasi a L’Arcante Enoteca mi invitò a scrivere per l’allora neonascente sito della condotta napoletana. Il progetto ebbe vita breve, a causa soprattutto della mancanza di una “struttura” che curasse il sito, ma lo slancio con il quale avevo intrapreso quel percorso non ebbe contraccolpi, forte soprattutto della continuata esperienza come “degustatore-lettore” del Gambero Rosso che nel frattempo dava sempre più spazio alle mie divagazioni enoiche. Avvenne poi l’incontro con il wineblog di Luciano Pignataro, che non esito a definire un “incubatore di bevitori responsabili”, il primo a credere nel valore della mia scrittura tanto da meritarsi ancora oggi ogni mia prima intuizione degustativa, nero su bianco, a seguito di esalazioni etiliche di qualità meritevoli di attenzioni.

Le Vigne di Villa Dora

Questa breve autocelebrazione per introdurre una piacevola chiacchierata con Nicola Venditti, enologo e patron dell’Antica Masseria Venditti di Castelvenere, persona perbene e di grande slancio evocativo di una viticoltura ed una enologia tanto semplice da attuare quando difficile e complessa da recepire. Suo infatti, fu il primo vino da me degustato e raccontato allora, il delizioso bianco Bacalat 2001, disarmante nella sua verve olfattiva e nella sua sapida beva tanto da confondermi le idee sulla sua origine certa nell’areale d.o.c. Solopaca. Con Nicola ci eravamo spesso incrociati in precedenza in manifestazioni delle più svariate, poi ultimamente anche su fb, pochi giorni fa ad AGLIANICO&AGLIANICO 2009, dove galeotto, se così si può dire è stato l’aglianico Marraioli 2003, di cui parlerò in seguito, estremamente esaustivo della sua idea di vino in vigna ed in cantina.  “La mia terra ha sempre prodotto vino, e l’ha sempre prodotto così, non si scopre nulla di nuovo, probabilmente qualcuno ha preferito addomesticarlo e renderlo più avvezzo al mercato moderno, ma questo qualcuno ha in qualche maniera tradito la sua origine…” così nasce una piacevole conversazione che non manca certo di altri spunti profondi di non difficile intelligibilità, su sistemi di allevamento, su uvaggi e soprattutto sulla cantina, che spesso diviene, senza meritarlo, l’unico protagonista di un’azienda, con le sue volte, le sue scenografie, le sue botti e le sue barriques di diversa provenienza: “l’unico legno presente nella mia cantina è quello del tetto”, mentre mi mostra orgoglioso le foto della sua azienda a Castelvenere.

Nicola vendittiL’azienda ha da sempre una condotta in vigna esemplare, tutti i vini sono certificati come prodotti da agricoltura biologica e la scelta di non usare legni per affinare e/o invecchiare il vino arriva a seguito di una riflessione, se vogliamo estremista, ma autentica e perseverante. “Ho voluto sempre garantire l’autencità dei miei vini, anche a discapito di rimanere incompreso da una certa parte del mercato; Le mie prove, le mie sperimentazioni le ho fatte, ma sinceramente il risultato era talmente divergente dalla mia idea di vino che ho preferito proseguire per la mia strada: non mi ha mai attirato l’idea di emulare altri, soprattutto quando per altri s’intendono i cugini francesi!” Qui si avanzano poi diverse riserve sul lavoro che si fa oltralpe di cui qualcuna, sinceramente, anche condivisibile, ma la conversazione giunge ad un apice che mi piace particolarmente quando si parla del vino che abbiamo nel bicchiere, sotto il nostro naso, il suo Marraioli 2003, aglianico in purezza di grande impulso olfattivo e gustativo, fitto di una trama acido-tannica sorprendente e lungamente invitante. Un vino per pochi sicuramente, per chi ama le durezze del vino e per chi sa apprezzare la lungimiranza di un viticoltore autentico. “Non mi piace particolarmente l’idea del vino monovarietale, la storia della mia terra, ma la storia del vino in generale ci insegna che i grandi vini sono quasi sempre figli di uvaggi e vinaggi, quindi della capacità dell’uomo di interpretare al meglio una vigna, un territorio, un’annata. Rimane però utilissimo capire il potenziale dei propri vitigni e dei propri vini, e quale migliore efficacia di aspettarli nel tempo facendoli interagire esclusivamente con acciaio e bottiglia? Naturalmente si potrebbero trascorrere ore a disquisire su questo concetto di purezza o integrazione vino-legno, ma il dato oggettivo è che c’è un vino nel nostro bicchiere profondamente integro, dopo 6 anni, che alla cieca non si discosterebbe tanto (forse per niente) da un vino appena messo in bottiglia: addirittura sono ancora nitide tracce olfattive di vinosità.

Ci salutiamo con Nicola con la promessa di rivederci in cantina, mi parla del suo vigneto didattico, delle vendemmie notturne, del lavoro che porta avanti con la moglie Lorenza per educare ed informare i loro avventori, clienti, che una viticoltura diversa c’è, basta conoscerla e seguirla per poter bere bene, forse meglio, senza poi svenarsi. Grazie Nicola, posso dire di aver avuto una delle più piacevoli conversazioni enoiche degli ultimi tempi. Ascoltare aiuta a capire, sentire, purtroppo, è forse il male peggiore dell’odierna incultura sociale. 

L’altro aglianico, Bocca di Lupo Tormaresca

14 novembre 2009

Deg. Bocca di Lupo

Aglianico&Aglianico 2009, con Pasquale Porcelli a condurre la verticale.

Diciamoci la verità, quando il Marchese Piero Antinori diede il via libera all’acquisizione delle tenute Bocca di Lupo a Minervino Murge e Masseria Maìme a S. Pietro Vernotico non pochi produttori pugliesi mossero dubbi sulla validità di questa discesa in Puglia del grande marchio toscano del vino, già in preda al panico del rinnovamento a fatica iniziato qualche anno prima ed impauriti com’erano del rischio di una colonizzazione soprattutto alla mercè di un mercato internazionale sempre più pressante, all’epoca, riferimento assoluto non solo della blasonata famiglia fiorentina che vanta oltre 26 generazioni di vignaioli alle spalle. La paura però ha avuto corso breve, il timore si è da subito trasformato in opportunità e molti di quegli stessi produttori oggi applaudono Tormaresca per la dinamicità con la quale è riuscita, in poco meno di un decennio, a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama enologico italiano, facendo da traino per il loro stesso territorio, in particolare per l’areale di Castel del Monte che ha sempre posseduto grandi qualità elettive ma poche opportunità di penetrazione sul mercato, fatte le poche eccezioni del caso, vedi la storica azienda Rivera tra l’altro acquisita da poco dal colosso Gancia. A Minervino Murge, nel cuore del Parco nazionale dell’alta Murgia e della doc Castel del Monte si estendono i 130 ettari dell’azienda Tormaresca, piantati perlopiù ad aglianico, chardonnay ed altre varietà bianche e rosse pugliesi tra le quali il nero di Troia ed il Moscato di Trani. Terroir che risente positivamente dell’influenza del vicino Vulture ad ovest e del mare poco più in là verso Bari e la costa adriatica.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2006, è il vino che più mi è piaciuto, per impatto visivo ed olfattivo, per gradevolezza del frutto, per un equilibrio gustativo certo a breve ma di buona godibilità già adesso. Prodotto da uve Aglianico 100% da vigne di circa 8 anni di età, nasce da una vendemmia abbastanza regolare, terminata in vigna nella prima decade di ottobre, ha superato un periodo di 15 mesi di affinamento in barriques di rovere francese e legni ungheresi ed altri 12 in bottiglia. Colore rubino netto, con buona vivacità e media trasparenza nel bicchiere. Il primo naso è invitante, ampio, note floreali di garofano, fruttate di piccoli frutti rossi maturi, una lieve sensazione gradevolmente balsamica accompagna la fase di retrolfazione. In bocca è secco, caldo, abbastanza morbido, ha una trama acido-tannico evidente ma di qualità fine e di grande prospettiva. La beva rimane piacevole dal primo all’ultimo sorso, buona anche la profondità gustativa che concede sul finale di bocca una discreta sapidità marcando di nuovo un ritorno balsamico che adesso riporta nitidamente alla liquerizia. Da provare su quaglie laccate al miele e purea di zucca gialla al pepe nero, nessuno degli astanti avrà di che lamentarsi.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2004, è il primo riferimento “old style” per così si può dire. Nel senso che l’azienda sino al duemilaquattro era propensa a produrre questo vino con massima parte aglianico, tra vecchi e nuovi impianti appena entrati in produzione con un saldo di Cabernet Sauvignon. L’idea era naturalmente di salvaguardare l’autenticità e la continuità della denominazione, pur utilizzando uve da vigne giovanissime (con tutte le crude conseguenze) ma maritandole con l’opulenza del cabernet (ammesso dal disciplinare d.o.c.) sempre di grande aiuto per stemperare, in questo caso acidità molto spinte e o tannini poco addomesticabili se non attraverso un affinamento estremamente lungo e complesso. Rosso rubino molto carico, con sfumature lievemente tendenti al granato, impenetrabile. Il primo naso è intenso e complesso, varia dal fruttato in confettura, prugna, ciliegia, ribes nero a note balsamiche e speziate: la liquerizia qui è nitida accompagnata anche da un sentore pepato gradevole ed avvolgente. In bocca è secco, decisamente caldo, mediamente tannico e di buona profondità. Rimane a lungo una percettibile sensazione di masticabilità del frutto, segno di grande estrazione e buona evoluzione nel tempo che ha ben amalgamato tutte le componenti del vino. Equilibrato, pieno, assolutamente da bere adesso. Su Canestrato stagionato e noci.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2003, ovvero quando meno te l’aspetti hai da rivedere alcune convinzioni, che ormai radicalmente vedono l’annata duemilatre come calda, siccitosa e madre di vini surmaturi, poveri di acidità e probabilmente poco longevi. Val bene le prime due affermazioni, smentite a mani basse le ultime, un pareggio dal quale, stranamente, ne esce vincitore questo bellissimo vino, inaspettatamente vivo e voglioso di confrontarsi con il tempo e con il palato dei più fini. Rosso rubino, carico di materia, poco trasparente e vivacità cromatica invidiabile. Il primo naso è intenso, marcato sì su note evolute, secche, passite, in confettura, ma non banali: viene fuori una prima nota di dragèe al lampone, crema di cassis, garofano appassito, liquerizia. In bocca è secco, caldo, ricco e di ottima intensità e persistenza gustativa, equilibrato tra i volumi tannici e glicerici chiudendo su una sapidità evidente ma non stucchevole. Una gran bella bevuta, magari sorretta da costolette d’agnello Kleftiko ed un buon amico a cui raccontare il mare di Naxos.

bocca_di_lupo_tormaresca[1]Bocca di Lupo 2001, ovvero l’origine, vigne vecchie già segnate da un destino certo, allevate per anni, prima, sovraccariche di frutti e stressate da sistemi tradizionali poco avvezzi alla qualità. La rieducazione dei sesti d’impianto ha dettato i temi futuri, il completo reimpianto di qualche anno dopo, la certezza di aver fatto le scelte giuste e di aver imbroccato la strada maestra. Aglianico e cabernet sauvignon per un blend segnato dal tempo, dal colore rubino carico ma non franco dall’aver ceduto materia al passar degli anni, comunque integro. Il primo naso e surmaturo, evidentemente evoluto su note di frutta cotta, note di burro di cacao, poi di terra bagnata. In bocca è secco, caldo, lungamente persistente ma monocorde su note tendenzialmente dolci; il frutto appare risoluto, coscritto, probabilmente arrivato al traguardo del suo percorso evolutivo. Evocatico del primo step che fu, opportuno avere anche un duemilatre a portata di mano ed amici comprensivi.

E non chiamatelo più “prosecchino”…

14 novembre 2009

Nell’immaginario collettivo popolare “il prosecchino” rappresenta il vinello da servire senza pretese come aperitivo, spesso da anonima bottiglia e quanto più di rado nell’appropriata flute.

La Collina del cartizze

Ebbene, molto è stato fatto in questi anni per sensibilizzare anche i palati più effimeri alla buona conoscenza di certi vini che rappresentano indiscutibilmente un gran bel pezzo della produzione vinicola italiana e non soltanto per i volumi spaventosi che muovono in giro per il mondo ma anche per le eccelse qualità che sempre più si affermano come forte sostegno alle bollicine di qualità made in Italy e come validissima alternativa “economicamente sostenibile” alle più famose transalpine dello Champagne.

Confidando altresì in una opportuna e proverbiale competenza professionale di ogni buon sommelier mutuiamo e benediciamo la definitiva caduta del diminutivo “ino” (che tanto stà al Prosecco come ogni pittore tentasse di qualificarsi come Van Goghino) alla luce di ciò che abbiamo potuto vedere di quanto si stà facendo in questa meravigliosa terra per migliorare e qualificare questo straordinario vino. Si può pensare alla terra del Prosecco come una vasta e pianeggiante area viticola, con distese a perdita d’occhio di vigne anonime e scomposte ma appena si ha l’opportunità di giungere in queste terre ci si rende conto di quanto fascino e cultura enologica sprizzi dai suoi pori, generosa con i suoi nobili e generosi interpreti.

Il viaggio inizia a Rolle, piccola frazione di Cison Valmarino abbarbicato sù per le colline trevigiane in uno scenario verdeggiante e ventilato caratterizzato da giornate estive luminose e miti e da notti con forti escursioni termiche dove domina il paesaggio il Relais Duca di Dolle della famiglia Bisol, tutt’intorno le vigne di questa azienda che si stà rivelando soprattutto negli ultimi anni assai dinamica che produce una serie di Prosecco doc di grande eleganza e finezza caratterizzati da profonda freschezza che solo grazie a queste particolari condizioni pedoclimatiche si possono comprimere in un vino.

Qui giacciono le bottilgie della Riserva Amalia Moretti

Lungo la Strada del Prosecco che scende giù verso Valdobbiadene si incontrano i piccoli comuni che contornano l’areale maggiormente votato a questo eclettico vitigno, da Miane a Guia incastonati in un bellissimo bosco di castagni sino alla zona per elezione del Prosecco denominata “Cartizze“, nei comuni di Saccol, S. Stefano e S. Pietro di Barbozza, piccolo Grand Cru trevigiano con i suoi 100 ettari suddivisi per circa 140 viticoltori.

Qui il vigneto diviene giardino, le vigne si arrampicano lungo i terrazzamenti delle colline, con pendenze a tratti impensabili e l’ordine e la compostezza di come si inerpicano sui pendii sono gli unici elementi di discussione che ti viene da affrontare. Niente diradamenti, le uve hanno bisogno di protezione, per non cadere in surmaturazioni inattese e per difendersi dalle improvvise grandinate che qui, soprattutto in epoca di vendemmia sono il rischio numero uno. Queste vigne donano vini di una fragranza e piacevolezza sublimi, sentori floreali e fruttati intensi e persistenti con riconoscimenti nitidi di rosa, albicocca e mela ed un gusto asciutto, persistente su linee minerali ed un finale gradevole ed ammaliante, consigliamo a tal proposito di non perdere le versioni di Foss Marai, Còl de Salici, Val d’Oca, Bisol, Solìgo e Villa Sandi ed una raccomandazione generale: attenzione agli strafalcioni, il Prosecco Superiore di Cartizze può essere prodotto solo nella denominazione Prosecco di Valdobbiadene (comune di cui fanno parte i crù sopra citati) e non come qualcuno potrebbe desumere anche nella denominazione Prosecco di Conegliano.

Scendendo verso Valdobbiadene incontriamo per strada diversi contadini nel trasportare le prime uve raccolte nelle aziende di vinificazione, la grandezza di questi luoghi stà anche nella enorme capacità di partecipazione che i vignaioli sono stati in grado di portare avanti con i progetti di cooperazione, Cantine Cooperative che riuniscono nelle loro fila tutti i minuscoli viticoltori che da soli mai avrebbero potuto affrontare progetti di vinificazione e commercializzazione mirati all’alta qualità come il mercato oggi richiede.

Il nostro viaggio termina a Crocetta del Montello, presso l’azienda Villa Sandi di proprietà della famiglia Moretti Polegato, già imprenditori di successo nel campo dell’industria manufatturiera trevigiana (a qualcuno dirà qualcosa il marchio GEOX, nda) e da circa un trentennio sugli scudi per il gran lavoro di promozione che stanno portando avanti per il loro territorio. Qui si aprirebbe un’altro lungo ed articolato racconto da fare che preferiamo però conservare nella nostra memoria e raccontare attraverso le immagini postate, che parlano da sole e chiaramente di una realtà eccelsa della quale senza dubbio non si può tenere conto.

A guidarci Roberto, gran cerimoniere di cantina e nelle degustazioni tecniche l’enologo Luciano Vettori assieme a Cinzia Zocca ed il direttore commerciale dott. Campesan (quattro persone a nostra disposizione!) a cui vanno i nostri più sentiti ringraziamenti per l’ampia disponibilità manifestata. Se pensate di aver visto tutto è il momento di ricredersi, se pensate che certi luoghi non hanno poi molto da raccontare statene certi che qui vi smentiranno a mani basse, se ancora esitate per raggiungere queste terre, rompete gli indugi e non perdetevi questo passaggio a nordest e per favore, non chiamatelo mai più “prosecchino”!

Falanghina, radiografia di un vitigno

9 novembre 2009

“[…] Fiorisce ai principi di giugno, presto sfiora e manda via la corolla. Grappolo di mezzana grandezza, allungato, poco ramoso, raro. Bacca quasi rotonda, picciola, di un bel gialletto, ed a perfetta maturità più si colora; sugosa, molto dolce. Molto e costantemente fruttifero. Fa buon vino”.

Così Vincenzo Semmola, storico di ampelografia di metà ‘800 descriveva, affascinato, le varietà di Falanghina (dal greco falangos, dal latino phalange, legata al palo) delle quali ne arrivò a catalogare circa 112 incontrate di volta in volta nelle sue camminate su per le campagne del Monte Somma ed intorno a Napoli ed al suo circondario, dalla collina di Posillipo, ai Camaldoli sino ai cosiddetti campi ardenti, gli odierni Campi Flegrei.

Prima  e dopo questo periodo non sono mancate citazioni e lodi per questo vitigno tanto diffuso quanto poco conosciuto, e molti esperti ed autori hanno lasciato tracce interessanti sulle sue peculiarità tanto da farne dei capisaldi anche per i moderni studi di agronomia ed enologia: basti pensare alle opere di Columella Onorati (1804), dell’Acerbi (1825), di Federico Corrado Denhart (1829) che nel tempo si occuparono ampiamente, soprattutto quest’ultimo, di definire ampelograficamente le caratteristiche di questo vitigno tanto diffuso da non poterlo far mancare nel prestigioso patrimonio vivaistico del Real Ortobotanico di Napoli. Come non citare il Cavaliere Giuseppe Frojo che nel 1879 fu tra i primi a lasciare traccia di un intero processo produttivo del vino Falanghina, ripreso proprio alcuni anni fa dalla Famiglia Mustilli di Sant’Agata de’Goti che assieme ad Antonella Monaco, ricercatrice della Facoltà di Agraria dell’università Federico II di Napoli,  lo riproposero con una bella iniziativa culturale tesa alla valorizzazione storica di questo straordinario vitigno del quale l’ing. Leonardo, capostipite della famiglia, è stato primo promotore in assoluto nella nostra regione sin dal 1970.

La storia ci consegna quindi un panorama ricco di blasone ed un salto ai giorni nostri ci apre ad una visione sulla Falanghina (distinguibile oggi essenzialmente in due precisi cloni, uno beneventano ed uno tipicamente Flegreo) estremamente più complessa di quanto appare facile decifrare con non poche sfumature in chiaro-scuro, fatto di antiche considerazioni, ataviche convinzioni e come sempre di poca “memoria storica liquida” – come amo definirla io – cioè di bottiglie di vendemmie passate sulle quale realmente costruire anno dopo anno un profilo indentitario di questo vitigno e delle sue varie espressioni ed interpretazioni territoriali.

La sua ampia diffusione nella geografia vitivinicola campana ci induce a sostenere quanto la Falanghina sia stata capace nei decenni ad adattarsi a tutte le varianti morfologiche territoriali regionali quasi sempre con risultati di tutto rispetto tanto da divenire il bianco varietale più diffuso oggigiorno nella nostra regione e soprattutto capace di coprire un’ampia fascia di collocazione commerciale pari a pochi altri vini bianchi italiani con un forte indice di penetrazione sul mercato facendone un successo enologico che non ha riscontri pari per volumi e numeri negli ultimi anni in Campania: insomma un vitigno dal grande passato, un fiorente presente ed un futuro tutto da rivelare!

Proprio seguendo questo filo logico alcuni produttori campani, grandi e piccoli, sparsi qua e là in regione hanno deciso di puntare su questo vitigno lanciandosi in interpretazioni estremamente profonde consegnandoci vini dall’aspetto culturale ed organolettico più affascinante, decisamente complessi, termine quest’ultimo spesso abusato in degustazione ma quasi mai realmente riscontrabile nei vini Falanghina prima di allora, forzatamente e malinconicamente relegati ad una deontologia basata sul “giallo verdolino e sulle note olfattive erbacee, appena floreali”.

donna[1]Per fare questo era necessaria una profonda riflessione ed una piccola rivoluzione culturale, che a dire il vero non tutti si sono sentiti in grado (dovere) di fare ma chi ha imboccato questa strada certamente non ha avuto che riscontri positivi dal mercato e dalla critica. Un lavoro importante è stato avviato in campagna, la vigna prima di tutto, molti impianti erano assolutamente inadatti a perseguire questo nuovo orizzonte; come detto la Falanghina non ha particolari esigenze colturali, paradossalmente anche da rese alte, intorno ai 120 quintali per ettaro il vitigno esprime ottime peculiarità enologiche ma l’affaticamento dei ceppi, spesso con oltre 15 gemme per pianta non rendeva certamente semplice la gestione enologica del vino.

 Assieme all’intervento in vigna è stato necessario un forte, deciso, indefesso intervento culturale nei confronti dei contadini, soprattutto dei conferitori di piccole parcelle, penso per esempio ai Campi Flegrei, dove l’allevamento con il “sistema puteolano” ha reso per molti anni la vita difficilissima a chi si ritrovava poi in cantina uve buone solo per la distillazione ed è qui che è avvenuto il cambiamento più radicale, rifiutando questa atavica condizione passiva mutuando nuove prospettive, che come già affermato, vede una realtà non solo capace di affrancarsi dagli stereotipi ma indubbiamente già rivolta ad un futuro da protagonista del panorama enologico regionale ed italiano. Convertire questi impianti, dove possibile, a conduzioni più rigide con potature per esempio più efficaci non oltre le 7-8 gemme per pianta e pensare a nuovi impianti con sistemi più moderni, come per esempio il Guyot basso (anche bilaterale) ha di fatto creato i primi presupposti necessari per intraprendere il giusto cammino verso la qualità assoluta.

A questa rivoluzione in vigna è seguita anche una maggiore consapevolezza di profondere maggiore attenzione ai processi produttivi in cantina, mirando ad investimenti capaci di lasciare sviluppare una nuova coscienza enologica che ha aperto la strada anche a molti giovani enologi campani che stanno delineando le fila di una vitienologia di assoluta qualità: penso al lavoro di Antonio Pesce sul Vesuvio, di Fortunato Sebastiano nel Sannio, di Gerardo Vernazzaro e Francesco Martusciello Jr nei Campi Flegrei tanto per citarne alcuni; enologi capaci di seguire la scia di predecessori illustri, il prof. Luigi Moio in testa, senza mancare in personalità, quella personalità tangibile ad ogni sorso dei vini che firmano, valore questo entusiasmante ed inattaccabile nel tempo.

In conclusione è utile fissare bene in mente che proprio per tutto questo fermento, figlio di notevoli e radicali cambiamenti, è assolutamente importante approcciarsi alla Falanghina ed ai suoi vini con occhi, naso e palato nuovi. Via i vecchi stereotipi di un vino blando, verdolino, erbaceo ed acido, molti forse non lo sanno (ovvero sono erroneamente indotti a sapere) ma le componenti odorose “tipiche” della Falanghina, dal Garigliano a Sapri, fatte le dovute eccezioni per aree viticole sono tutt’altre e di tutt’altra prospettiva. Analisi sensoriali, ovvero l’individuazione dei descrittori aromatici e successive indagini strumentali (analisi olfattometrica e varie Gas-cromatografie) hanno tracciato un profilo dell’aroma e del gusto del vino Falanghina davvero sorprendente (Colori, odori ed enologia della Falanghina, A.A. Vari, a cura di Luigi Moio, 2004).

La Falanghina non è un uva particolarmente aromatica, per questo è difficile riconoscerne il varietale dall’assaggio del chicco o del mosto ma successivamente alla vinificazione si generano una serie di sensazioni olfattive che ne delineano efficacemente la riconoscibilità. I descrittori aromatici che intervengono dopo appena sei mesi dalla vendemmia (vino Falanghina vinificato in modo tradizionale, in acciaio) sono il fruttato di banana, di mela, di ananas, di pesca e via via note floreali, di agrumi, di miele ed infine di erba. Dopo circa 18 mesi dalla vendemmia il quadro organolettico muta verso l’albicocca secca, il miele, il floreale passito lasciando presagire sensazioni mentolate, ancora di anice, e di felce.

Insomma, un vino Falanghina di qualità e longevità è possibile; aggiungiamo a questi elementi le varianti del caso che intervengono area per area come l’incidenza dei suoli (minerali), dell’esposizione, dell’altitudine (escursioni termiche), delle tecniche di produzione ed abbiamo ben chiaro un quadro del tutto inaspettato. Il tempo poi come sempre è un grande interprete di ogni nostra convinzione, e di ogni nostro sogno.

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