Archive for the ‘DEGUSTAZIONI VINI’ Category
13 agosto 2020
Negli ultimi mesi non sono stati pochi i vini che abbiamo raccontato su queste pagine, ebbene, a volerne tirare fuori una decina, appena dieci tra i tanti buonissimi assaggiati, senza far torto a nessuno, proviamo a riproporne alcuni come etichette ”sicure” per le vostre prossime bevute in vacanza in Campania e, per non farci mancare nulla, come meglio apprezzarli in tavola e anche dove trovarli!

Asprinio di Aversa Spumante Trentapioli Brut s.a. Salvatore Martusciello. Di Asprinio di Aversa se ne parla sempre troppo poco, mentre l’esperienza degli anni passati ci è servita per capire che quel suo gusto così spiccato e originale ha invece una marcia in più, davvero originale, unico e particolare! Nelle versioni spumanti diventa poi irresistibile, con quel suo colore brillante giallo paglia, una spuma delicata e fine, dei profumi lievi che rimandano agli agrumi, alle erbette, la pesca, con tanta freschezza e piacevolezza al palato. Buono per la pizza fritta, ad esempio, non poche le pizzeria napoletane che ne hanno fatto un must della loro proposta vini in carta. L’azienda è a Quarto (NA), in Via Spinelli 4 – Tel. +39 081 8766123, con punto vendita a Pozzuoli (NA), in P.za della Repubblica presso la storica Salumeria Guida. La scheda completa Qui.
Asprinio di Aversa Vite Maritata 2019 I Borboni. Ecco una felice versione ferma dell’Asprinio davvero imperdibile! E’ un vino bianco dal colore paglia, il naso consegna profumi di fiori bianchi e agrumi, frutta a polpa bianca, macchia mediterranea. Il sorso è invece teso e vibrante, chiaramente sfrontato, con un frutto chiaro e un sapore asciutto, vivace, finanche citrino di cui sa farne ampiamente virtù. Resta una testimonianza viva del grande lavoro di valorizzazione di questa produzione campana della famiglia Numeroso di Lusciano. E’ un degno compagno a tavola con tutto un po’, sempre valido l’abbinamento con la Mozzarella di Bufala Campana Dop. L’azienda è a Lusciano (CE), in Vico E. De Nicola 7 – Tel +39 081 8141386. La scheda completa Qui.
Costa d’Amalfi Tramonti bianco 2019 Giuseppe Apicella. L’estate ti porta inevitabilmente ad ”alleggerire” la portata delle bevute, così se in tavola arrivano generalmente meno piatti, se non portate uniche, o comunque più semplici, ecco che nel bicchiere si preferisce versare vini profumati e leggeri, anche con una discreta personalità e carattere, come questo Tramonti bianco, purché sappiano accompagnare il cibo senza affaticare il palato, senza appesantirne il pasto. Riuscitissimo per esempio in questo caso l’accostamento alle alici impanate e fritte del Ristorante Al Convento di Cetara. L’azienda è Tramonti (SA), in Via Castello S. Maria 1 – Tel. +39 089 856209. La scheda completa Qui.
Falanghina Campi Flegrei Colle Imperatrice 2019 Cantine Astroni. Uno tra gli ultimi assaggi passati su queste pagine che ci ha consegnato un bianco decisamente coinvolgente, semplice se vogliamo, eppure disarmante nella sua piena espressività territoriale; con ogni probabilità una delle migliori versioni tirate fuori da Gerardo Vernazzaro negli ultimi anni, ben più degli altri preziosi gioielli di famiglia nati nel frattempo. E’ un vino bianco buono da bersi come aperitivo, con del pane al burro e alici, o delle bruschette con ”Stracciata di Bufala” ad esempio, se non con un piatto di pasta con frutti di mare. L’azienda è in Via Sartania 48, in Loc. Pianura a Napoli – Tel +39 081 5884182. La scheda completa Qui.
Falanghina Campi Flegrei 2019 Azienda Agricola Mario Portolano. Un vino dal bel colore paglia con accenni dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; il quadro olfattivo è molto invitante, è varietale e tipico, con un quadro organolettico floreale e fruttato molto fine, cui s’aggiunge un lieve rimando salmastro e dei piacevoli sentori di acacia e ginestra. Il sorso è secco e morbido, possiede una buona progressione gustativa, tant’è il calice sparisce con due sorsi e con piena soddisfazione, quanto ci basta per apprezzarne appieno la bevuta con un pesce al sale al forno. L’azienda è in Via Toiano 12 a Pozzuoli (NA) – Tel. +39 0818042974. La scheda completa Qui.

Lacryma Christi bianco Superiore 2018 Cantina del Vesuvio. Di vulcano in vulcano ci piace lasciare traccia di questo vitigno autoctono campano, tipico del Vesuvio, il Caprettone dell’azienda Cantina del Vesuvio di Trecase. Si tratta di un bianco leggiadro e morbido, da bere ben fresco, magari affiancandoci piatti ricchi di verdure, pensiamo ad esempio ad insalate arricchite con carpacci di pesce. Non è difficile comprendere perché queste terre, questi luoghi, già in epoca antica, sin dai Romani, fossero così ricercati e apprezzati. Non da meno oggi, grazie a chi con visione e lungimiranza non smette di credere che il Vesuvio sia molto, molto di più di un semplice tratto di paesaggio da incorniciare in una cartolina. E il lavoro della famiglia Russo emerge perentorio tra i molti nuovi protagonisti di questo straordinario territorio. L’azienda è a Trecase (NA) in Via Panoramica 65 – Tel. +39 081 5369041. La scheda completa Qui.
Greco di Tufo Chianchetelle Feudi Studi 2017 Feudi di San Gregorio. Chianchetelle proviene da una vigna del Comune di Chianche ubicata a circa 400 metri d’altitudine, due ettari esposti verso sud-est, caratterizzati da un sottosuolo principalmente argilloso e tufaceo, parte del Progetto FEUDI STUDI, una delle diverse espressioni di Greco di Tufo sulla quale Feudi di San Gregorio ha condotto un grande lavoro di ricerca sul varietale e sul territorio, nel tentativo di portare alla luce la loro massima espressione. E’ un vino bianco preciso e compiuto, estremamente suggestivo al naso, pieno di lievi sfumature, con un sorso ricco di carattere. Di quei vini da provare in compagnia, per goderne e parlarne, magari proprio là in giardino presso Feudi, dove in questo periodo è anche possibile fare picnic seduti sull’erba a fare merenda all’aperto, davanti a un piatto di grandi salumi e formaggi freschi. L’azienda è a Sorbo Serpico (AV), in loc. Cerza Grossa – Tel. +39 0825 986611. La scheda completa Qui.
Fiano di Avellino Pietramara 2018 I Favati. Il Pietramara è ormai una certezza in termini di territorialità e personalità, l’azienda di Piersabino e Giancarlo Favati e Rosanna Petrozziello veleggiano spediti verso il ventennale con mano sempre più sicura, tanta è infatti la strada fatta e tanta ancora li aspetta da grandi protagonisti quali sono ormai diventati. Dalle vigne di Cesinali viene fuori un bianco in splendida forma, dai sentori floreali e fruttati che lasciano poi via libera a note di erbe aromatiche e la classica nocciola tostata. Il sorso è carico di materia, c’è frutto da vendere, con tanta freschezza e sapidità che ne accompagnano il finale di bocca pienamente coinvolgente. A pensarci su, ci viene in mente un abbinamento con il ”Gran Fritto di mare” di Sud Ristorante a Quarto (NA), per dirne una. L’azienda è nei pressi di Piazza Di Donato, al civico 41 a Cesinali (AV) – Tel. +39 0825 666898. La scheda completa Qui.
Fiano di Avellino Colli di Lapio 2019 Romano Clelia. Restando da queste parti, in terra di Fiano, ci piace riprendere le fila di un altro grande bianco provato proprio in queste ultime settimane, impressionante per l’ampiezza olfattiva, quella nota balsamica che ne accentua l’anima di montagna e prepara il palato a tanta sostanza. Siamo su un fronte diverso della docg, l’altra faccia del Fiano di Avellino potremmo dire, oppure quella più autentica, chissà, con il colore che tradisce leggerezza ma il sorso nemmeno si accorge del 13,5% di alcol in volume in etichetta, tant’è che la bottiglia finisce in men che non si dica. Annata complessa, la duemiladiciannove, con un raccolto infinito qui a Lapio, protratto sino a metà novembre, fortunatamente da queste parti con meno problematiche che altrove. In genere nessun buon posto al mare se lo fa mancare in carta, pensate di berlo anche solo con un ”Spaghetto alla Nerano”. L’azienda è a Lapio (AV) in C.da Arianiello, 47 – Tel. +39 0825 982184. La scheda completa Qui.
Paestum Fiano Tresinus 2018 Azienda San Giovanni. Ancora un Fiano, questa volta però cilentano, di quelli con dentro una storia piena di romanticismo come quella di Mario Corrado e Ida Budetta e la loro splendida azienda agricola San Giovanni a Punta Tresino, a Castellabate. Una storia però carica anche di forza e determinazione, di passione pura, come questo bianco, un vino dal bellissimo colore paglia oro, luminoso, con un corredo aromatico merlettato: vi si colgono note di agrumi, fiori gialli, erbette aromatiche, odore di salsedine, balsami. Il sorso mostra subito consistenza e stoffa, finissima tessitura, persistenza gustativa, misurata sapidità. Uno di quei bianchi da bere con piacere magari proprio là a Punta Tresino, a guardar le stelle con qualche piccolo assaggio di crudo e cotto di verdure e pesce, gamberi, molluschi con del buon pane all’olio evo. L’azienda è a Punta Tresino, Castellabate (SA) – Tel. +39 334 1153784. La scheda completa Qui.
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Tag:asprinio d'aversa, Azienda Agricola Mario Portolano, Azienda San Giovanni, Cantina del Vesuvio, cantine astroni, Cantine del Vesuvio, colle imperatrice, colli di lapio, Costa d'Amalfi Tramonti bianco, falanghina campi flegrei, feudi di san gregorio, feudi studi, Fiano di Avellino Pietramara, giuseppe apicella, greco di tufo, Greco di Tufo Chianchetelle, i borboni, i favati, Lacryma Christi bianco Superiore, salvatore martusciello, Trentapioli, Tresinus
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7 agosto 2020
Raccontiamo di una fresca interpretazione di Falanghina e Biancolella, il Tramonti bianco di Prisco Apicella, giovane e lanciatissimo enologo che dopo aver studiato a Torino è rientrato nell’azienda di famiglia fondata dal padre Giuseppe alla fine degli anni ’70.

L’estate ti porta inevitabilmente ad ”alleggerire” la portata delle bevute, così se in tavola arrivano generalmente meno piatti, se non portate uniche, o comunque più semplici, ecco che nel bicchiere si preferisce versare vini profumati e leggeri, anche con una discreta personalità e carattere, come questo Tramonti bianco duemiladiciannove ma che sappiano accompagnare il cibo senza affaticare il palato, senza appesantirne il pasto.
I primi passi dell’azienda risalgono a metà degli anni ’70 ma la svolta arriva nel 2000 quando Giuseppe Apicella comincia ad imbottigliare il vino (rosso) prodotto in zona che prima di allora veniva perlopiù venduto sfuso ai mediatori che ne facevano in larga parte Gragnano, tra i più diffusi e apprezzati vini campani non solo qui in Costiera e nel napoletano ma soprattutto dai numerosi ”compaesani” emigrati in giro per il mondo per le loro Pizzerie.
Poi c’è Tramonti, incastonato tra la montagna e il mare, immerso nei boschi, circondato dalla natura selvaggia a cui sottrarre pezzettini di terra per piantarvi Tintore, Sciascinoso e Piedirosso, se non Falanghina (qui detta Biancazita, ndr), Biancolella (sin. Biancatenera, ndr) Pepella e Ripoli. Chi c’è stato¤ non ha potuto far altro che constatare che luogo meraviglioso è questo per la vigna, quali emozioni straordinarie si provano nel camminare questi luoghi, queste terre, le vigne ultracentenarie immerse tra le montagne che sovrastano, imponenti, la Costiera Amalfitana.
Gli Apicella sono certamente in buona compagnia, qui ci sono ad esempio anche Gigino Reale e Alfonso Arpino¤, di cui trovate piena testimonianza dando uno sguardo alle storiche verticali del Borgo di Gete Qui e del Monte di Grazia rosso Qui, due tracce indelebili continuamente appetite dai “pasionari” del Tintore, ma c’è anche Tenuta San Francesco, quelli del Per Eva – leggi Qui -, altra splendida realtà che produce uno dei vini bianchi più buoni prodotti qui a Tramonti.
Questo pezzo di Costa d’Amalfi rappresenta un territorio e una denominazione che vanno fermamente salvaguardati, oggi più che mai, per preservarne, con il successo commerciale, l’enorme valore culturale, sociale, identitario che qui rimane unico e irripetibile, grazie anche a vini bianchi come questi capaci di condensare in una manciata di sorsi tante suggestioni da godere con vero piacere, dei preziosi messaggi in bottiglia nel vero senso del termine.
Leggi anche Tramonti, Monte di Grazia rosso 2009 (e 2007) Qui.
Leggi anche Tramonti, il Tintore di Gigino Reale Qui.
Leggi anche Tramonti, Costa d’Amalfi Per Eva 2009 Qui.
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Tag:biancolella, costa d'amalfi, falanghina, giuseppe apicella, prisco apicella, tramonti
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4 agosto 2020
Sono trascorsi dieci anni dalla prima recensione di questa etichetta su queste pagine, se questo tempo ha visto cambiare tante cose qui a Cantine Astroni, oltre alla nascita e l’affermazione di tanti nuovi protagonisti del vino nei Campi Flegrei, è anche merito di chi, dieci anni fa, ma anche prima, aveva intrapreso una strada nuova e convincente soprattutto puntando sul lavoro in vigna e in cantina.

L’Arcante custodisce innumerevoli testimonianze storiche di questo percorso, di tanto in tanto, bicchiere alla mano, è bello e suggestivo ripercorrere certi sentieri, ritornare a quegli anni, soprattutto quando, nel bicchiere che hai davanti, ci trovi buonissimi vini finalmente liberi da pregiudizi o da ansie da prestazione; così è con il Colle Imperatrice duemiladiciannove, un bianco decisamente efficace, semplice se vogliamo, eppure disarmante nella sua piena espressività territoriale. Con ogni probabilità ben più degli altri preziosi gioielli di famiglia nati nel frattempo, dallo stesso Strione¤ al Vigna Astroni¤, sino all’ultimo nato, il Campi Flegrei bianco Tenuta Jossa¤.
Così scrivevamo, dieci anni fa, a proposito della Falanghina e del pensiero maturato qui ad Astroni: ”… c’è poi chi continua a rincorrere un ideale di un vino, per dirlo alla sua maniera, alternativo, certamente possibile, ma indubbiamente diverso, se non spiazzante; è Gerardo Vernazzaro di Cantine Astroni, convinto come pochi in regione a fare sul serio sulla Falanghina tanto da spingerlo a continuare strenuamente nella sua personale ricerca di un bianco autoctono flegreo macerato e capace di sfidare il tempo: il 2008 dello Strione, dai primi assaggi promette buone aspettative, staremo a vedere cosa saprà raccontare tra qualche tempo ancora. Frattanto però, io gli continuo a preferire il Colle Imperatrice, l’altro cru aziendale, che di sfide non ne vuole lanciare, e nemmeno ambisce a grandi traguardi se non quelli di confermare, ove mai ce ne fosse stato bisogno, un vino perfettamente calato nella sua dimensione territoriale nonché nel suo ruolo commerciale, pura esibizione di carattere ad un prezzo piccolo piccolo”.
Leggi l’articolo completo del Colle Imperatrice 2009 di Cantine Astroni Qui.
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1 agosto 2020
L’azienda conta già tre lustri di storia alle spalle, resta una giovane e promettente realtà, nata dalla ristrutturazione della Cantina Sociale del Cilento di Rutino e che anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia ha saputo tracciare un percorso di tutto rispetto, armati di gioia e passione per questa terra cosi piena di storia e di tradizione.

L’abbiamo ritrovata in carta al ristorante Al Convento¤ di Cetara, a casa di Pasquale Torrente¤, non potevamo farci scappare l’assaggio. L’azienda è a Rutino, lavora circa 12 ettari di vigna tutti in conversione biologica, piantati perlopiù con Aglianico e Fiano e alcune varietà locali minori. Del Vignolella conserviamo un piacevole ricordo, è passato un po’ di tempo dall’ultimo assaggio ma la memoria di un bianco così fine, elegante e tanto espressivo e piacevole da bere non ci ha fatto battere ciglio.
Che buono! Ritroviamo nel bicchiere un Vignolella duemiladiciotto in grande equilibrio, davvero un gran bel Fiano del Cilento, dal colore paglia luminoso, capace di stillare tante suggestioni al naso, con sentori floreali di ginestra, erbette di campo e macchia mediterranea, frutta a polpa bianca e gialla, anzitutto con note di agrumi e di pesca. Il sorso è scorrevole, è secco, morbido, piacevolissimo con quel finale di bocca sapido e minerale, perfettamente disteso.
Ne abbiamo molto apprezzato l’accostamento al pescato del giorno, un Merluzzo in umido servito con tante fresche verdure di stagione, talune alla griglia altre ripassate in padella con un meraviglioso olio extravergine di oliva. Il lusso, il più delle volte, risiede nella semplicità!
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Tag:al convento, cantina sociale del cilento, cantine barone, cilento, fiano, pasquale torrente, rutino, vignollella, vincenzo mercurio
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26 luglio 2020
Abbiamo scritto più volte di questa nuova interessante azienda flegrea di proprietà della famiglia Portolano, imprenditori napoletani attivi in campo manifatturiero dal 1895. Ci siamo tornati con piacere a distanza di poco più di un anno, per camminarci nuovamente le vigne con Mara e provare alcuni vini, tra questi la deliziosa Falanghina Campi Flegrei duemiladiciannove di prossima uscita.

L’azienda è a Toiano, area periferica del comune di Pozzuoli, cuore della denominazione di origine controllata Campi Flegrei; possiede 5 ettari e mezzo di cui 4 a corpo unico proprio a via Toiano, giusto all’ingresso del quartiere popolare del comune flegreo che ha conservato a macchia di leopardo piccole oasi verdi dove sono ancora evidenti le origini rurali di questi luoghi che, a metà-fine anni ’70 sono stati destinati, dopo un repentino e intenso piano di urbanizzazione, ad accogliere gli sfollati del centro storico e del Rione Terra di Pozzuoli, prima a seguito del Bradisismo, poi ancora del Terremoto dell’80.
Tra le vigne, al netto di qualche filare di Aglianico proveniente da Taurasi e piantato quasi per gioco negli anni ’90, regna sovrano il Piedirosso dei Campi Flegrei, protagonista di un vino che si sta facendo molto apprezzare per le sue caratteristiche organolettiche, così uniche e rare, che ne fanno uno dei rossi campani tra i più ricercati e apprezzati negli ultimi anni, qui poi particolarmente sorprendente, come già abbiamo avuto modo di raccontare nelle annate degustate che vi riproponiamo alla fine di questo post.
Da due anni è entrato in produzione anche un piccolo appezzamento di Falanghina, collocato però ad un paio di chilometri dall’azienda, in via Montenuovo Licola Patria, sul versante costiero di Cuma, sempre nel comune di Pozzuoli; una vigna di circa 1 ettaro e mezzo dove, con la vendemmia 2018, si è cominciato a fare un bianco di buona personalità, sempre con l’aiuto in cantina di Gianluca Tommaselli, ottimo enologista e buon interprete di questo e diversi altri territori della provincia di Napoli.
Proprio in questi giorni finisce in bottiglia il secondo atto di questo lavoro, il duemiladiciannove; nel bicchiere ci arriva un vino dal bel colore paglia con accenni dorati sull’unghia del vino nel bicchiere; il quadro olfattivo è molto invitante, è varietale e tipico, con un quadro organolettico floreale e fruttato molto fine, cui s’aggiunge un lieve rimando salmastro e dei piacevoli sentori di acacia e ginestra. Il sorso è secco e morbido, possiede una buona progressione gustativa, si gioverebbe di maggiore freschezza con un pizzico di acidità, tant’è il calice sparisce con due sorsi e con piena soddisfazione, quanto ci basta per apprezzarne appieno la bevuta. Ci piace pensare che una nuova piccola stella possa brillare nel firmamento flegreo, ancora un passo avanti, ancora un tassello di qualità per tutto il territorio!
Leggi anche Pozzuoli, il Piedirosso Campi Flegrei 2017 di Mario Portolano Qui.
Leggi anche Pozzuoli, il Piedirosso Campi Flegrei 2018 di Mario Portolano Qui.
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Tag:bradisismo, falanghina campi flegrei, Gianluca Toomaselli, Mara Portolano, mario portolano, rione toiano
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24 luglio 2020

Ci trovi dentro aromi delicati e vari, il colore rossiccio è una finestra sul tempo, sembra ritrovarci bacche e uva completamente mature, si resta impalati sugli aromi di cacao, cioccolato e legno tostato, caffé, liquerizia. Il sorso è denso e profondo, conserva una bella freschezza gustativa, denota ovviamente un tono alcolico deciso eppure pienamente integrato nel vortice di cioccolato, frutta nera e un po’ di spezie dal sapore antico. Dona suggestioni straordinarie.
La storia della “Feitoria*” Burmester è simile a tantissime altre del panorama produttivo dei Porto ma la qualità dei suoi vini è comparabile a pochissime altre etichette in circolazione; Henry Burmester, originario della Germania, si era stabilito con la sua famiglia a Londra agli inizi del settecento dove aveva avviato in poco tempo una compagnia di commercio di cereali da e per il Regno Unito. Arrivato a Vila Nova de Gaja, in Portogallo, per tutt’altri affari, si accorse immediatamente del grande potenziale di questo delizioso vino che tanto lo aveva inebriato ma che tanto sembrava soffrire delle difficoltà di distribuzione commerciale sul mercato mondiale: è il 1750, nasce così la Burmester Port Wine Company che ancora oggi sfoggia vini dall’eccezionale valore degustativo e tipicità.
*Feitoria, è l’equivalente di azienda agricola.
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22 luglio 2020
Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Ne abbiamo scritto ampiamente, tra questi ci sono vini generalmente considerati economici e percepiti come semplici, immediati, che non richiedono particolari attenzioni oppure conoscenze specifiche in materia di degustazione per essere spiegati e apprezzati sin dal primo sorso. Vi sono, tra questi, anche certi vini che riescono, anno dopo anno, a far parte della vita quotidiana degli appassionati lasciando sempre buoni segnali, piacevoli ricordi.
Non è da meno questo delizioso Aglianico di Antico Castello che si merita, per quanto ci riguarda, una menzione assai speciale tra questi vini che definiamo ”da non perdere”, tra i rossi campani in circolazione. Un rosso che quando è nato, una decina di anni fa, faceva generalmente solo acciaio, mentre oggi non disdegna un passaggio in legno grande prima di un lungo affinamento in bottiglia, un periodo che contribuisce a mantenere nel vino un naso estremamente varietale, pulito e invitante mentre si sviluppa un sapore decisamente più complesso e succulento, fresco ma profondo, dal tannino sottile con un sorso di grande piacevolezza.
Poppano, località dove è nata e sta Antico Castello, non era certamente tra i primi posti dove andare alla ricerca delle terre d’elezione in Irpinia, pur situata a San Mango sul Calore, in pieno areale Taurasi docg, eppure qui Francesco e Chiara Romano hanno saputo, con forza e determinazione, dare vita ad una bellissima realtà, scegliendo di vinificare sin dal principio solo uve di proprietà, prevalentemente Aglianico, coltivate su terreni argillosi calcarei, con esposizioni ottimali sino a raggiungere in alcuni punti i 450 metri s.l.m., che si avvantaggiano anche del benefico effetto delle acque del fiume Calore a valle; tutto questo con una bella cantina funzionale, sempre aperta alle visite, dove oltre a dei buonissimi vini, come questo Magis duemilaquindici, sono capaci di tirare fuori dal cilindro anche alcuni prodotti molto particolari come l’Amarenico, un suggestivo liquore a base di Aglianico e foglie di amarene davvero delizioso (una sorta di Ratafià).
Leggi anche San Mango sul Calore, il Taurasi di Antico Castello Qui.
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9 luglio 2020
Non è possibile raccontare questo vino senza averlo vissuto sino in fondo, non solo sino all’ultimo coinvolgente sorso nel bicchiere, le due ultime dita nella bottiglia, bensì ritornando alla sua nascita, ripercorrendo questi anni.

Bisognerebbe quindi cominciare da là, tornando indietro nel tempo, a quell’anno, provare per quanto possibile a riavvolgere il nastro della nostra vita e ricordarlo quel tempo, quei mesi, certi giorni, alcuni momenti in particolare.
E’ stato un anno importante il duemilanove, segnato da cambiamenti epocali, per la storia del mondo e in qualche maniera, a piccoli sorsi, per chi scrive: a gennaio Barack Obama giurava da 44º Presidente degli Stati Uniti, davanti a più di due milioni di persone che avevano letteralmente invaso Washington DC per assistere al giuramento del primo Presidente americano di colore; il 6 Aprile invece l’Italia è sottoshock: alle 3:32 una scossa di terremoto di magnitudo 6.3 fa tremare la Provincia dell’Aquila (e non solo) causando vittime, feriti, sfollati e il crollo di molti edifici. Una tragedia immane che ha risvegliato in molti italiani paure e traumi mai spariti del tutto, ma anche orgoglio e dignità.
Qualche settimana più tardi, una scossa più o meno della stessa intensità scuoterà invece la mia vita professionale, provavo a rimettermi profondamente in discussione approdando a Capri (Leggi Qui). Ad ogni modo, fatte ovvie le giuste proporzioni, fu quello un anno particolarmente intenso!
Proprio a novembre di quell’anno, a fine stagione, torno a Masseria Felicia, a Carano, in località S. Terenzano, una piccola frazione di Sessa Aurunca, il primo comune per estensione della provincia di Caserta (e della Campania) per ritrovare Maria Felicia e i suoi splendidi Falerno del Massico. Una casa dei primi del novecento che il nonno rilevò nel dopoguerra, vi era stato per tanti anni colono ed unico conduttore dei terreni, così il papà di Maria Felicia, Alessandro Brini, si convinse che era venuto il tempo di riscattare la storia di quegli anni e consegnarla nelle mani della giovane figlia; il susseguirsi delle stagioni, con i suoi ritmi, ha poi tracciato lentamente il solco famigliare sino ai giorni nostri.
Maria Felicia fa sostanzialmente un solo vino, il Falerno del Massico, che assume varie anime nella rincorsa alla natura di questo territorio straordinario, Bianco perchè tratteggiato con i colori della Falanghina, Rosso quando animato dall’Aglianico e dal Piedirosso, nella versione giovane (e sfrontato) col nome Ariapetrina, mentre diviene irreprensibile e immortale con l’Etichetta Bronzo¤. Oltre questi qua, nulla di stravagante, poche, pochissime bottiglie di altro ma giusto per dare libero sfogo ad uno studio approfondito sul potenziale delle tre varietà impiantate in azienda, un esercizio tecnico sul tema autoctono che conduce talvolta a utili micro vinificazioni, colmate dalla passione, per esempio del Piedirosso in purezza, anche qui capace di ritagliarsi, di tanto in tanto, il suo piccolo ruolo da solista.
Eccola invece la forza evocativa di questo Ariapetrina duemilanove, lo scugnizzo di casa per Maria Felicia; il rosso giovane e sfrontato che a sentirlo oggi, a distanza di quasi 11 anni, pare proprio non temerlo il tempo, le stagioni, i suoi ritmi, ci arriva così nel bicchiere maturo ma sicuro di sé, della sua storia, della sua stoffa, del suo talento capace di attraversare le insidie degli anni migliorandosi. Non è mera celebrazione, tutto sembra scorrere chiaramente in ogni bicchiere, riempiendo i calici di frutta e sensazioni odorose delle più ampie ed eteree, con sorsi asciutti e caldi, con ancora tanta piacevole freschezza gustativa, tratto distintivo di tutti i vini di Masseria Felicia, con quella spalla acido-tannico utile per abbracciare abbinamenti con molti piatti della nostra cucina tradizionale regionale, con la certezza di ritrovare ad ogni sorso almeno un pezzo di noi stessi, di averla vissuta proprio tutta la nostra storia di questi anni, ma che bello rivederla!
Leggi anche Falerno del Massico Etichetta Bronzo 2013 Qui.
Leggi anche Piccola Guida ragionata al Falerno del Massico Qui.
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7 luglio 2020
Non è difficile comprendere perché queste terre, questi luoghi, già in epoca antica, sin dai Romani, fossero così ricercati e apprezzati. Non da meno oggi, grazie a chi con visione e lungimiranza non smette di credere che il Vesuvio sia molto, molto di più di un semplice tratto di paesaggio da incorniciare in una cartolina.

Ci piace quello che abbiamo incontrato sulla nostra strada qualche settimana fa, ci piace il lavoro che Maurizio Russo, patròn vulcanico – è proprio il caso di dirlo! – di Cantine del Vesuvio sta portando avanti qui a Trecase, in provincia di Napoli, in un paesino di appena 9000 abitanti alle falde del Vesuvio, sul versante sud del vulcano, letteralmente affacciato sul mare del Golfo: che posto bellissimo questo, unico e meraviglioso!, da qui Sorrento e Capri sembrano ad un tiro di schioppo, ‘A Muntagna ci sovrasta alle spalle, qui la vite, il vino, rappresentano da sempre valori preziosissimi, da un punto di vista storico, culturale e sociale.
È il 1948 quando appena dopo la seconda Guerra Mondiale Giovanni Russo si mette in proprio mettendo su una piccola azienda vinicola, all’epoca impegnata perlopiù nella compravendita dell’uva e del vino buoni per la Tràfeca – Leggi Qui. -, il commercio del vino all’ingrosso che si trasportava a bordo di carri trainati da cavalli sino a Napoli, dove poi i piccoli commercianti al dettaglio lo rivendevano alle botteghe e alle cantine in città. Il vino del Vesuvio ha sempre avuto grandi estimatori! Maurizio inizia così ad aiutare il padre nella sua attività sino a quando però non decide di prendere la sua strada.
Pochi o nessun riferimento davanti ma obiettivi concreti sui quali costruire un’idea di vino precisa e dal forte richiamo territoriale: nei vini di Cantina del Vesuvio c’è dentro la storia, il vulcano, le sue uve tradizionali raccolte dal suo terreno lavico che qui, a differenza del versante più interno (Boscoreale, Terzigno, ad esempio) si fa più chiaro, sciolto e sabbioso; 16 splendidi ettari di vigna, tutti a conduzione biologica dal 1996, dove si colgono forme di allevamento tradizionali ma anche innovative, piante che circondano tutto intorno la piccola cantina dove prendono vita ogni anno poco più di 60.000 bottiglie vendute praticamente tutte agli avventori appassionati di passaggio qui sul Vesuvio, sempre più numerosi.

Una produzione di qualità incentrata ovviamente sul Lacryma Christi, sulla valorizzazione di questo straordinario vino campano con una lunga storia alle spalle ed un grande futuro davanti. Caprettone per il Lacryma bianco – di cui scriveremo dettagliatamente più in là -, Piedirosso per il Lacryma rosso Superiore e, con l’Aglianico, per il rosso Riserva.
Sul Piedirosso si sta facendo un gran lavoro, da qualche anno qui viene allevato con il Sylvoz, un metodo di coltivazione e potatura francese, utilizzato prevalentemente al nord per la sua maggiore captazione della luce e, di conseguenza, una maggiore vigoria che qui però si traduce nel tenere testa al varietale che ha obiettivamente necessità di sviluppare più gemme e tanto legno e fogliame per rendere buoni frutti da spremere. Un sistema che abbiamo già avuto modo di incontrare, ad esempio, nell’Agro aversano dove viene utilizzato per la coltivazione bassa dell’Asprinio¤.
Tutta questa attenzione sul Piedirosso ci rende ovviamente felici, rimane un varietale dal grande potenziale quello già decantato da Plinio e Columella, coltivato da queste parti da millenni ormai; riportarlo a forme di coltivazione più congeniali secondo l’esperienza locale, ha certamente lo scopo di ottenere il miglior risultato possibile tenendo conto della grande qualità dei terreni, del clima, dell’umidità, dell’esposizione alla luce solare e della persistente ventilazione di questi luoghi baciati da Dio.
Il risultato è ben chiaro nel bicchiere, ci arriva un Lacryma rosso duemiladiciotto dal bel colore rubino e dal sentore vinoso, floreale e marcato di frutta rossa polposa; il sorso non tradisce l’anima terragna, è secco, caldo e morbido con un finale di bocca sapido e rinfrancante. Bere il territorio, è proprio il caso di dirlo, un gesto che dona ancora più valore al camminare questa terra viva, stringere mani forti, promettersi rispetto ad oltranza.
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5 luglio 2020
E’ un Fiano di Avellino tra i più buoni da sempre, profondo, minerale, incalzante quello di Clelia Romano, con quei sentori che tutti ormai conosciamo come markers identitari del Fiano di queste terre lapiane, li abbiamo studiati per anni, cercati e fissati nella memoria bevendo anzitutto Colli di Lapio, non necessariamente inseguendo bottiglie ”vecchie” o mature, tutt’altro.

Lapio terra del grano, Lapio terra del tabacco, Lapio terra del Fiano di Avellino. Non tutti sanno però che queste terre, oggi gettonatissime per questo splendido varietale bianco campano, un tempo erano perlopiù votate alla coltivazione dell’Aglianico che qui ne ricopriva buona parte della superficie vitata generalmente strappata alle altre colture di sussistenza del tempo, anzitutto grano e tabacco, prima di venire lentamente soppiantato, a partire dalla prima metà degli anni ’70, dalla piantagione di Fiano, vino che aveva, con il ”gemello” Greco di Tufo, già grande appeal commerciale, soprattutto sul vicino mercato napoletano, da sempre principale sbocco economico dei vini irpini.
Lapio terra di Taurasi quindi. L’altitudine, il suolo argilloso, le escursioni termiche, elementi fondamentali che uniti alla tradizione familiare e alla capacità di un grande enologo esperto come Angelo Pizzi hanno consegnato agli annali sempre buonissime bottiglie di rosso prodotte qui in casa Romano: vini austeri, da aspettare, caratterizzati da grande tensione gustativa più che immediata piacevolezza del frutto; per questo, forse, un po’ fuori dal tempo, soprattutto con certe mode e tendenze contemporanee di quegli anni. Anche questo ha influito non poco, facendo sì che il Fiano di Avellino prendesse sempre più il sopravvento sul territorio, contribuendo però a far nascere anzitutto il fenomeno Colli di Lapio ma anche a consegnare alla storia del vino italiano lei, Clelia Romano, per tutti, non da oggi e con pieno merito, Nostra Signora del Fiano!

Non se ne trovano molte in giro di foto sue, men che meno in posa (rubata!), perciò ne facciamo gran tesoro, vieppiù per la straordinaria accoglienza riservataci quel giorno con accanto i figli Carmela e Federico Cieri, davanti ad una straordinaria batteria di vini. Colli di Lapio è in contrada Arianiello, produce tutti i suoi vini con uve provenienti esclusivamente da vigne di proprietà, sono poco più di 10 gli ettari oggi in produzione, con appena una manciata di filari ad Aglianico, quasi a testimonianza storica; vigne dove ci mette le mani anzitutto Carmela, con l’aiuto naturalmente di più componenti della famiglia, mentre in cantina, con Federico – che fa tanto altro ancora! – c’è da sempre Angelo Pizzi, uno dei riferimenti assoluti dell’enologia campana e straordinario interprete di numerosi territori e varietali autoctoni regionali. Qui, questo vino, anche grazie al suo lavoro raggiunge vette incredibili, con una costanza impressionante.
****/* Fiano di Avellino Colli di Lapio 2019. Impressiona per l’ampiezza olfattiva, quella nota balsamica che ne accentua l’anima di montagna e prepara il palato a tanta sostanza. Il colore tradisce leggerezza, il sorso nemmeno si accorge del 13,5% di alcol in volume in etichetta, tant’è che la bottiglia finisce in men che non si dica. Annata complessa, la duemiladiciannove, con un raccolto infinito, protratto sino a metà novembre, fortunatamente qui a Lapio meno problematica che altrove.
****/* Fiano di Avellino Colli di Lapio 2018. Sono circa 80.000 le bottiglie tirate fuori ogni anno, nessuna sbavatura per resa e capacità espressiva. Il colore è preciso, di un paglia luminoso, vivissimo. Il naso è invitante, fruttato e mentolato, rimanda a sentori di erbette in fiore e frutta a guscio, in particolare tiglio, camomilla, citronella; il sorso è pieno di freschezza, il finale di bocca lunghissimo, con un ritorno balsamico assai piacevole. Riporta 13,5% di alcol in volume, pare avviato in rampa di lancio.
**** Fiano di Avellino Colli di Lapio 2017 Annata a dir poco difficile, qui a queste latitudini ci si difende sempre, siamo tra i 550 e 600 metri, il vino è estremamente piacevole ma pare rilassarsi sul finale di bocca concedendosi a pochi guizzi. Il colore accentua una tonalità appena matura pur mantenendo piena luminosità. Il sorso è morbido, caldo e avvolgente, resta fresco e abbastanza persistente al palato, ancora 13,5% di alcol in volume in etichetta. In perfetta armonia.
***** Fiano di Avellino Colli di Lapio 2016. Probabilmente il Campione che emerge perentorio sopra tutti nella batteria, in splendida forma. Impressiona soprattutto per la verticalità e l’ampiezza olfattiva, con quella nota balsamica che qui si fa più complessa, vengono fuori anche muschio e citronella, la nocciola, addirittura accenni fumé; in bocca non si fa fatica a coglierne l’essenza, un dono di franchezza che si ripete puntualmente ad ogni sorso, asciutto e severo, con un gustoso e lunghissimo finale di bocca.

In anteprima assoluta invece, lasciamo traccia di quello che con ogni probabilità sarà il primo Cru aziendale che la famiglia Romano-Cieri ha (finalmente!) deciso di produrre, viene fuori da una selezione in pianta di grappoli di Fiano di Avellino raccolti tardivamente nella vigna più alta della proprietà, collocata ad oltre 600 metri s.l.m., situata sempre in contrada Arianiello. Un filo pregiato per un ricamo di antica tradizione.
Si tratta per il momento di una minuscola produzione di poco più di un migliaio di bottiglie, si chiamerà ”Clelia”, doveroso omaggio alla Nostra Signora del Fiano ma soprattutto, immaginiamo, per segnare il tempo con la quarta generazione della famiglia Romano-Cieri che ben presto troverà il suo spazio nello smanettare in cantina. Noi la nostra idea ce la siamo fatta e senza tirare le fila a giudizi affrettati ne abbiamo parlato con loro apertamente, a voi non resta che andare in cantina per provarlo!
****/* Fiano di Avellino Clelia 2019. Vendemmiato praticamente e metà novembre dopo una lunga ed estenuante cernita tra i filari che ha tenuto Carmela col fiato sospeso sino all’ultima cassettina portata in cantina. Bellissimo il colore paglia lievemente dorato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è davvero impressionante, variopinto, verticale, ricco di piccole sfumature e note olfattive di grande fascino e suggestione. Ne cogliamo nitidamente tiglio e acacia, camomilla e crema di nocciola, tant’è che sorge il dubbio (anche) di un parziale uso del legno ma Federico e Carmela si smarcano immediatamente al solo pensiero, di legno sui bianchi qui non ne vogliono sentir parlare! E allora non possiamo che rimanerne ancor più impressionati per la profondità espressiva. Il sorso è decisamente invitante, sostenuto da decisa freschezza con un gusto amplificato da pienezza e sapidità ad ogni assaggio. Ci appare un quadro dipinto, Fiano su tela!
**** Fiano di Avellino Clelia 2018. E’ decisamente buono, in perfetto stato di grazia, forse solo un po’ avanti nella sua pienezza espressiva rispetto al duemiladiciannove appena descritto; il colore si arricchisce di una maggiore venatura oro sull’unghia del vino nel bicchiere, possiede un ventaglio olfattivo ricchissimo di frutta e fiori di campo, ancora di miele e piccola pasticceria, il sorso anche qui è pieno di sostanza ma ricco di tensione gustativa, il finale di bocca piacevolissimo. Finito di vendemmiare il 14 novembre, il vino prodotto fa solo acciaio e bottiglia.
***** Eccellente **** Ottimo *** Buono ** Suffic. * Mediocre
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Tag:aglianico, clelia, colli di lapio, contrada arianiello, fiano di avellino, lapio, romano clelia, taurasi, vigna andrea
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23 giugno 2020
L’indulgenza, il perdono dei peccati. C’è stato un tempo in cui bastava pagare moneta sonante per riceverla, per essere sicuri di andare dritto in paradiso. Era quello il tempo in cui i predicatori facevano credere al popolo che non servivano la fede e le buone opere, bastava infatti pagare per ottenere il perdono.

A quel tempo, per fortuna, in molti non la pensavano allo stesso modo, tra questi un monaco, colto e profondamente devoto, un certo Martin Lutero. Senza scomodare Papa Leone X, che pure aveva le sue ragioni per avallare una politica quantomeno bizzarra applicata al perdono dei peccati, – serviva per pagare la costruzione della basilica di San Pietro a Roma, perciò decise di vendere le indulgenze in tutta la Germania -, né lagnarsi dello scandaloso comportamento di alcuni predicatori che si spinsero tanto oltre da condurre alla nascita del Protestantesimo, ci piace l’idea che anche a parlar di vino, del nostro Piedirosso dei Campi Flegrei, coltivare il dubbio – è proprio il caso di ribadirlo con fermezza – abbia contribuito a convertire molti appassionati dalle loro convinzioni davanti a certe belle bottiglie come questa di Cantine Astroni.
Anche da queste parti ne abbiamo viste tante, bevute di più, abbiamo a lungo assistito ad una rincorsa piena di incertezze, qualche scorciatoia e tante mezze misure talvolta senza senso, non senza errori; poi finalmente la verità: proprio come per Lutero, verrebbe da dire, per diversi produttori flegrei c’è stato un tempo tormentato a cui ha posto fine un fulmine, la riscoperta del Credo, di certi valori antichi, del territorio, valorizzandone pienamente il patrimonio vitivinicolo per mezzo di un atto di fede capace di tracciarne una nuova via di successo.
Colle Rotondella duemiladiciannove proviene in larga parte da vigne dell’areale dei Camaldoli, da quel vigneto di circa tre ettari piantato perlopiù con Piedirosso dei Campi Flegrei che si affaccia proprio sulla popolosa periferia napoletana, da dove viene fuori anche questo vino delizioso, caratterizzato da una sfrontata giovinezza, con un colore avvenente, profumi seducenti e ruffiani, una beva scorrevole e furba, non priva però del giusto carattere. Annata tormentata quella appena trascorsa, la pioggia di settembre ha provato a rovinare la vendemmia, la forza di saper aspettare il sole di ottobre ne ha riscritto segnatamente il destino dei vini.
E’ un rosso contemporaneo quello che ci arriva nei bicchieri, prova a regalare un piacevolissimo gioco dei sensi a chi si avvicina alla tipologia per la prima volta, con quel colore rubino dalle vivaci sfumature quasi porpora; possiede un ventaglio olfattivo estremamente varietale, è vinoso, floreale di gerani e di piccoli frutti rossi e neri maturi. Un corredo aromatico arricchito da lievi sfumature officinali e da una fresca tessitura gustativa, abilmente tenute assieme dal manico di Gerardo Vernazzaro, proprio grazie alla sua lunga esperienza di studio del territorio e del varietale. Il sorso è secco e morbido, infonde piacere di beva e grazia ricevuta, una sorsata ne richiama subito un’altra, sfrontata, agile, calda e avvolgente.
Leggi anche Piedirosso Colle Rotondella 2018 di cantine Astroni Qui.
Leggi anche Piedirosso Riserva Tenuta Camaldoli 2011 di cantine Astroni Qui.
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Tag:atto di fede, campi flegrei, cantine astroni, colle rotondella, gerardo vernazzaro, martin lutero, papa leone X, piedirosso, Protestantesimo
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18 giugno 2020
Ci lega a questi vini e a certe persone un legame affettivo solido, di quelli con una forte persistenza, lo ammettiamo; un attaccamento capace di superare il tempo e le difficoltà, grazie a radici profonde e l’orgoglio di appartenere a una terra perennemente sospesa, talvolta avara di prospettive ma pur sempre generosa e matrigna…

Lo diciamo senza timore di essere smentiti: è tempo che anche Salvatore Martusciello torni al centro dei Campi Flegrei. Con Gilda, sua moglie, hanno ripreso il filo della lunga storia famigliare e dopo la ripartenza con il Gragnano e l’Asprinio sono tornati a produrre i vini flegrei, il Piedirosso e la Falanghina, entrambi con l’etichetta Settevulcani.
Proprio il comprensorio puteolano della denominazione vive un grande momento di rilancio vitivinicolo, dalle coste del vallone di Toiano¤ e del Lago d’Averno¤ alle colline di Cigliano¤ e dello Scalandrone¤, ricche di lapilli dove emergono stupende vigne rigogliose, baciate dal sole, così suggestive da rimanerci a bocca aperta, consegnateci da una tradizione millenaria e da una vocazione unica e rara finalmente interpretate con sapienza e rispetto. Senza dimenticare le coste di Agnano¤, a ridosso del vulcano Solfatara, Monterusciello¤ e Cuma dove, proprio all’interno del Parco Archeologico dei Campi Flegrei e poco più in là, verso l’interno, Salvatore coltiva e produce le uve che danno vita ai suoi vini persistenti e vulcanici!
Non smetteremo mai di ricordare che ci troviamo all’interno di una immensa caldera in stato di quiescenza con numerosi crateri e vulcani sparsi su tutto territorio, a nord-ovest di Napoli. Qui, su questi terreni bruni e largamente sabbiosi le vigne conservano ancora il piede franco*, una vera rarità per il vigneto italico; la fillossera, l’afide che distrusse l’intera viticoltura europea tra la fine del ‘800 e l’inizio del ‘900 del secolo scorso, qui muore per asfissia, quindi le viti sono allevate, si può dire, praticamente come duemila anni fa, cioè sulle proprie radici (franco di piede, di dice) contrariamente a gran parte del resto d’Italia e d’Europa dove precauzionalmente invece è necessario innestarle su una radice americana resistente alla fillossera.
Del valore assoluto di queste peculiarità, della bontà dei frutti di questa terra ne abbiamo avuto ancora una significativa conferma davanti a questa splendida Falanghina Settevulcani duemiladiciotto, caratterizzata da grande spontaneità e tratteggiata da una invidiabile freschezza gustativa, un bianco dalle spiccate virtù minerali ed estremamente versatile a tavola.
Nel bicchiere ci è arrivato un vino dal colore paglierino tenue, con un profilo olfattivo subito invitante, dapprima floreale, poi sostenuto da frutta appena matura, dai fiori di agrumi alla ginestra, dall’albicocca al cedro. Dal sorso asciutto e sinuoso, agile e fedelissimo alla tipologia, tipicamente territoriale e dal finale di bocca tonico e piacevolmente sapido, senza alcuna ostentazione se non la spiccata acidità e quella sensazione salina che tanto serve sulla buona cucina territoriale!
Leggi anche Piccola Guida Ragionata ai vini dei Campi Flegrei Qui.
Leggi anche Si deve a Gennaro Martusciello molto più di un ricordo Qui.
(*) Piede franco, non innestata su vite americana Qui.
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Tag:campi flegrei, falanghina, gilda guida, grotta del sole, piede franco, piedirosso, salvatore martusciello, settevulcani, vini di persistenza
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15 giugno 2020
Il Montepulciano d’Abruzzo rimane una delle varietà rosse più versatili dello straordinario patrimonio ampelografico italiano, protagonista assoluto in alcuni territori in particolar modo, senza dubbio tra le più bistrattate in alcuni altri.

Certo non qui a Torano Nuovo, nelle mani di Emidio Pepe che ci regala ancora una volta una grande bevuta con questo suo duemiladiciassette, forse non tra le migliori bottiglie di sempre uscite dalla storica cantina abruzzese ma senz’altro un rosso di assoluto valore emozionale.
Annata assai difficile da queste parti, dove non sono mancati disastri qua e là in regione, non qui, dove si fa un grande lavoro in vigna prima che in cantina, riuscendo a tirare fuori, evidentemente, ancora un Montepulciano d’Abruzzo di spessore e larghezza, già per sua natura proiettato a lunga vita. Un territorio unico questo, dove la natura incontaminata gode di un microclima particolare, con la terra argillosa e calcarea che si avvantaggia dell’influenza del mare e delle fredde correnti del vicino Gran Sasso; il resto lo fanno le vecchie vigne coltivate in larga parte ancora a pergola, in regime biologico e biodinamico, i primi 50 anni di vendemmie alle spalle, la manualità e la sapienza dell’uomo, unite al rispetto dei tempi lunghi.
Il colore è splendido, di quel rubino con appena degli accenni granato sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso chiede e merita un po’ di tempo, non tradisce una certa matrice fruttata e speziata, intrisa di un sottofondo balsamico dolce e sottile, ma è il frutto al centro del disegno olfattivo: franco, polposo il giusto, saporito. Il sorso è quasi prepotente, come solo un grande vino sa regalare, è generoso, con stoffa e misurata sostanza, la giusta tensione gustativa e quella avvolgenza gustosa che ti invita a riportare subito il bicchiere alle labbra, a ripetere quel gesto di sottile seduzione, necessario e piacevolissimo da condurre con certe bottiglie prive di sovrastrutture inutili e pregne di una sobrietà quasi travolgente.
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11 giugno 2020
Ogni tanto torniamo da queste parti, con gran piacere, poiché è quantomeno apprezzabile che un’azienda, nonostante faccia registrare volumi produttivi importanti – sono ormai circa 3.000.000 le bottiglie prodotte qui a Bolognano ogni anno -, sappia conservare un altissimo profilo qualitativo sul primo come per l’ultimo vino che passa dalla sua cantina.

Il Tralcetto di Zaccagnini è certamente il vino della memoria, le origini di quel legame indissolubile con la Terra Madre, qui nella sua versione Cerasuolo d’Abruzzo duemiladiciannove è tenue nel colore e sottile nel piacere della beva, con quel timbro rosa cerasuolo bello, luminoso e invitante.
Non è di quei vini dove ricercare ampiezze e verticalità, anzi, è di quei rosati da bere giovane, or ora e tutto d’un sorso, lasciandosi confortare da quelle sue deliziose sfumature floreali e fruttate che ne accompagnano la secca bevuta, la sottile e fresca scorrevolezza al palato. Un vino semplicemente buono, rinfrancante!
Leggi anche Myosotis, il Cerasuolo d’Abruzzo di Zaccagnini Qui.
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8 giugno 2020
Un grande Sancerre questo di Alphonse Mellot, di quelli che ti rimangono dentro come una grande esperienza, guai a lasciarla andare via senza dedicargli almeno due righe, soprattutto quando si tratta di raccontare di una terra dove, si racconta, si nasconde ancora l’anima più arcaica e selvaggia del Blanc fumé Loirenne.

La Moussière duemiladiciotto prende vita da un assemblaggio delle uve raccolte tra i filari più o meno giovani degli oltre 30 ettari piantati a Sauvignon del Domaine, perlopiù su terreni caratterizzati da calcare e marne e vigne condotte in ossequio dei più rigidi protocolli di agricoltura biologica e biodinamica; rappresenta forse l’anima più autentica dei fratelli Alphonse Jr ed Emmanuelle Mellot e continua ad essere uno dei miei bianchi preferiti in assoluto di questo territorio, nonostante sia solo il terzo vino dopo “Génération XIX” e la “Cuvée Edmond¤” prodotto qui.
E’ un vino luminoso, con un bel colore paglia intenso, con un naso subito verticale, dal sorso tremendamente asciutto eppure tanto invitante quanto complesso e ricco. Ha spessore, agilità, pienezza; per un cinquanta per cento della massa che fa fermentazione in legno grande vi è l’altro cinquanta che passa solo in acciaio. Poi, una volta deciso il blend, finisce una manciata di mesi in bottiglia, il tempo necessario per ritrovare equilibrio, ricomporsi e consolidare quella verve che ne caratterizza in maniera incisiva, dal primo all’ultimo sorso l’esperienza gustativa.
Ci trovi dentro un corredo aromatico dei più classici (agrumi, litchi, frutto della passione, timo) ma anche note più intense, vibranti e quasi pungenti, di polvere di gesso e pietra bagnata. A piccoli sorsi ci ritrovi anche tanta sapidità, con quel sapore deciso, forse un po’ concentrico sul varietale ma con quelle increspature agrumate e minerali che man mano ne alleggeriscono la profonda tipicità del frutto senza però sovrastarlo, come solo certe grandi bottiglie sono in grado di fare!
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4 giugno 2020
Furono probabilmente i greci, sempre loro, a piantare per primi la vite sulle pendici dei Monti Lattari, in Penisola Sorrentina, in provincia di Napoli e ad insegnare ”come si fa” agli Oschi, gli antichi abitanti di queste zone interne impervie e brulle ma fertilissime per via delle eruzioni vulcaniche.

Poi ci hanno pensato i Romani a darne slancio, grandi estimatori del vino prodotto da queste parti sui Lattari, allora parte integrante dell’Ager Stabianus, dove nelle numerose ville rustiche riportate alla luce la coltivazione della vite era la principale attività. Il vino di queste terre è sempre stato ricercato per la sua immediatezza e bontà, gradito per la freschezza gustativa, assai apprezzato per la bevibilità, così quando a metà del ‘900 i commercianti napoletani e in particolar modo i Massari gragnanesi impeganti nella “trafica del vino*“, ovvero l’acquisto del vino novello portato poi a Napoli nelle botti su grandi carri, cominciarono a farne vanto commerciale il successo fu incredibile e popolare, una fortuna che a fase alterne possiamo dire continua tutt’oggi.
Pochi possono vantare una conoscenza di questo territorio, dei siti, delle uve, dei vignaioli come la famiglia di Salvatore Martusciello, da oltre trent’anni impegnata nella coltivazione, produzione e commercializzazione di vini dei Campi Flegrei, dell’Agro aversano e di qui, provenienti da questo splendido areale della Penisola Sorrentina dove hanno certamente contribuito in maniera decisiva alla riscoperta, la salvaguardia e la valorizzazione di un patrimonio vitivinicolo così unico, un impegno che oggi Salvatore continua a portare avanti con maggiore determinazione e grande devozione con la moglie Gilda.
L’area geografica vocata alla produzione del vino doc Penisola Sorrentina si estende in una zona circoscritta dell’Appennino Campano lungo le pendici dei Monti Lattari, partendo da Castellammare di Stabia e tutto intorno sino a Punta Campanella, abbracciando praticamente tutta l’area della costa Sorrentina e il suo ”interno” in provincia di Napoli, attraversando diversi comuni come Gragnano¤ – città conosciuta in tutto il mondo per la pasta ma anche patria del famoso vino frizzante celebrato da Totò in ”Miseria e Nobiltà” -, Pimonte e, per la sottozona Lettere, i territori dei comuni di Lettere, Casola di Napoli e, in parte, il territorio di Sant’Antonio Abate, un’area dove vengono coltivate principalmente Aglianico, Piedirosso, Sciascinoso (Olivella) ed altre numerose varietà locali a bacca rossa e bianca che entrano a pieno titolo nella produzione dei vini di queste zone.
Il Lettere Ottouve duemidiciannove di Salvatore Martusciello è davvero un inno alla gioia a tavola, con quel colore porpora e la sua spuma violacea così stuzzicanti, con un ventaglio di profumi deliziosi ed invitanti di piccoli frutti rossi e neri carnosi, la piacevolissima freschezza del sorso come manifesto della convivialità, una vivacità gustativa intensa e tratteggiata in punta di rosso a grandi caratteri, per restare ben impressa ma solo per il tempo necessario, capace di donare ad ogni sorso un raggio di sole, una sferzata di gusto, la piena soddisfazione!
*Leggi di più sulla ”trafica del vino” Qui.
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Tag:aglianico, campi flegrei, gilda guida, gragnano, lettere, ottouve, penisola Sorrentina, piedirosso, Salvatore Martusciello Wines, sciascinoso
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19 Maggio 2020
Ci avviciniamo a questo delizioso rosso a distanza di qualche mese dalla sua primissima uscita sul mercato, Terra di Rosso è un vino prodotto con solo uve Piedirosso provenienti da una delle splendide vigne di San Carlo di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, di proprietà dell’azienda, nel pieno della sua maturità espressiva.

”I Galardi” – se così possiamo permetterci di sintetizzare il fortunato incrocio di passioni e devozione per questo meraviglioso pezzo di Terra di Lavoro dei cugini Roberto Selvaggi, la moglie Maria Luisa Murena, Arturo e Dora Celentano e Francesco Catello -, con questa nuova etichetta inaugurano un nuovo corso produttivo, non più appannaggio del solo Terra di Lavoro¤, peraltro conosciuto e già molto apprezzato in tutto il mondo per la sua costanza qualitativa, sdoganando l’idea di un secondo vino che non sia però una seconda scelta, bensì un progetto del tutto dedicato specificatamente al Piedirosso.
Una varietà a cui siamo notoriamente molto affezionati, per lungo tempo lasciata al suo destino di figlio di un Bacco minore ma che, come abbiamo avuto modo di cogliere più volte negli ultimi anni su queste pagine, resta capace, in certi luoghi, nelle mani giuste, di venire fuori con vini di grande personalità, finanche di raffinata eleganza, non più banalizzato a causa di alcuni difetti cronici di interpretazione ma esaltato per delle sue peculiarità specifiche.
Il Piedirosso ama le sabbie e i terreni vulcanici, non disdegna temperature fresche, non a caso due caratteristiche specifiche del territorio di San Carlo di Sessa Aurunca, alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina. A queste vi si aggiungano l’età delle piante, in media sopra i 20 anni e quindi nel pieno della loro maturità produttiva e, ancora, l’esperienza dell’azienda lanciatissima verso il suo primo trentennio di vita, capace quindi di leggere ed interpretare perfettamente il territorio e il vigneto, l’umore dei frutti che ne vengono fuori, la giusta misura del legno e del manico in cantina.
La discesa in campo dell’azienda di Roccamonfina sul tema Piedirosso trova non pochi consensi nella storia vitivinicola regionale e ne avalla peraltro l’apologia manifesta degli ultimi anni. Alla base di questo momento fortunato ci sono però radici storiche forti, troppe volte negate, si pensi solo al suo impiego già previsto nel primo disciplinare del Taurasi¤ doc, anno 1970, dove vi entrava in uvaggio con l’Aglianico, come pure in diversi altri disciplinari regionali che ne fanno da sempre, in certi territori, il varietale in larga parte più diffuso, se non il protagonista assoluto, come ad esempio accade nei Campi Flegrei o a Ischia e in certe zone del Beneventano.
Assistiamo tra l’altro negli ultimi anni ad un lento ma inesorabile cambiamento di fronte sul piano gustativo; un tempo si ricercavano prevalentemente vini opulenti e comunque di grande struttura, ora la situazione si va praticamente ribaltando, almeno in certi contesti. E’ in atto una costante inversione di tendenza laddove alla potenza, la concentrazione e le alte gradazioni alcoliche di pesi massimi vengono preferiti la finezza, l’eleganza e la bevibilità di pesi medi-leggeri, anche quando tratteggiati da gradazioni alcoliche non necessariamente contenute. Non più, quindi, vini centometristi ma maratoneti, vini ossuti più che muscolosi, vieppiù quando identitari e di spiccata personalità varietale e territoriale.
Terra di Rosso duemiladiciassette si va collocando a nostro parere proprio nel mezzo di questa storia, se da un lato dà il via ad una nuova stimolante sfida per Galardi, valorizzandone un pezzo di vigna di proprietà, un nuovo percorso stimolante, dall’altro saprà contribuire grazie al suo successo, la sua affermazione internazionale, di cui siamo certi, nel dare maggiore lustro al territorio di Roccamonfina e a questo vitigno che qui ci ha trovato senz’altro un ambiente favorevole e particolarmente vocato.
I presupposti, già con questa ”Prima”, sembrano esserci tutti: nel bicchiere ci arriva un vino dallo splendido colore rubino con vivaci riflessi violacei, di media concentrazione; il naso è subito fruttato e floreale, elegante e raffinato, profuma di rosa e violetta, di melograno e ciliegia, presto ne siamo certi svestirà anche quelle ultime nuances tostate regalate dal passaggio in legno nuovo, lasciando così spazio alla franchezza e alla bontà del frutto che ritroviamo scrocchiante e polposo, persistente sin dal primo sorso, è un rosso di buon corpo e tratteggiato da tannino lieve e morbido. Decisamente un buon esordio per un debuttante!
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Tag:Campania Piedirosso, caserta, celentano, galardi, San Carlo di Sessa Aurunca, Selvaggi, terra di lavoro, terra di rosso
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17 Maggio 2020
Non c’è che dire, abbiamo trovato davvero imperdibili le ”stories” che il Marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga¤ ci ha regalato in queste ultime settimane dal suo profilo Social Facebook per accompagnare gli appassionati del mondo del vino alla scoperta dei suoi vini e del territorio dentro e fuori Tenuta San Leonardo.

Una narrazione periodica precisa, particolareggiata e condotta brillantemente con un linguaggio immediato, contornata da tante piccole pillole di storia antica e contemporanea che hanno reso ogni racconto un nuovo tassello prezioso di cui appropriarsi come tessere di un puzzle da conservare con cura in attesa di metterle assieme nel prossimo bicchiere da condividere.
Tenuta San Leonardo è certamente una delle aziende del vino italiano più conosciute e apprezzate in tutto il mondo, il suo San Leonardo, un rosso composto da Cabernet Sauvignon, Carmenère e Merlot, è un vino di raffinata eleganza ed è senza dubbio, da oltre trent’anni, tra i migliori vini italiani a taglio bordolese in circolazione, capace di giocarsela ad armi pari con diversi dei grandi vini di Bordeaux senza alcuna riserva.
E’ questo il risultato di un lungo cammino imprenditoriale con radici solide che Carlo Guerrieri Gonzaga ha saputo condurre con passione e determinazione per quasi cinquant’anni sino ai giorni nostri, un solco che il figlio Anselmo sembra tratteggiare con passo altrettanto deciso e in piena sintonia con la storia famigliare e quella di un territorio straordinario particolarmente suggestivo. Oggi sono oltre 40 gli ettari di proprietà a vigneto, tutti a regime biologico, mentre la produzione conta circa 270.000 bottiglie di vino l’anno.
Del Vette di San Leonardo ne raccontammo, tra i primi, già nel Giugno 2013 proprio Qui, alla sua prima uscita con l’annata duemiladodici. Deve il suo nome alle imponenti cime che circondano le vigne da cui proviene il Sauvignon blanc di cui è composto al 100%, un vino nuovo per questo territorio ma che rivela tutta la grande freschezza e mineralità di cui è capace questo terroir davvero unico.
Ci siamo tornati su con il duemiladiciotto e ci è nuovamente piaciuto tanto: è un vino insolito ma davvero originale, viene lasciato affinare in acciaio sulle fecce fini per circa 5 mesi prima di finire in bottiglia, uno di quei bianchi da bersi giovane, magari servito ben fresco, capace di regalare tante piacevoli sensazioni varietali ma senza quegli eccessi di personalità del vitigno di origine francese che talvolta possono risultare stucchevoli. Un modo leggero, nuovo e diverso di raccontare in un bicchiere un pezzo di storia e di territorio del Trentino.
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Tag:Anselmo Guerrieri Gonzaga, San Leonardo, Tenuta San Leonardo, trentino, Vette, Vigneti delle Dolomiti
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14 Maggio 2020
A volerci capire qualcosa in più sulla Vernaccia di San Gimignano è necessario armarsi di sana pazienza, di una bella dose di curiosità e notevole passione; non è detto che ci si riesca sino in fondo, la strada da percorrere nelle maglie della storia è tanta, ma almeno potremmo dire di aver imparato qualcosa di nuovo di cui fare senz’altro tesoro.

Senza spingerci troppo in là nel tempo, poiché ci sarebbe da arrivare indietro sino alla fine del 1200, quasi 1300, facciamoci bastare di ripartire dalla prima metà del ‘900, da quelle radici sulle quali poggia la rivincita contemporanea di questo straordinario vino bianco italiano, a Denominazione di Origine Controllata e Garantita dal 1993 e tra i pochi a potersi addirittura fregiare anche della menzione Riserva in etichetta.
Tutto rinasce negli anni ’30 quanto si riprende a piantare, inizialmente a macchia di leopardo, l’antico vitigno Vernaccia su tutto il territorio di S. Gimignano, attività che riprenderà in maniera più massiva nel dopoguerra. E’ infatti negli anni ’60 del secolo scorso che il vitigno qui sembra prendere il sopravvento su tutte le altre varietà tradizionali toscane, così da fare di San Gimignano un compound bianchista dove l’uva a bacca bianca ne caratterizza così profondamente la produzione di vino tanto che nel 1966 diviene addirittura il primo vino italiano ad ottenere la Denominazione di Origine Controllata, poi sopravanzata dalla Docg nel 1993.
Il disciplinare prevede che le uve provengano esclusivamente dal territorio comunale di San Gimignano e che il vino sia prodotto con uve provenienti da vigne dove siano presenti per l’85% Vernaccia di San Gimignano e una presenza massima del restante 15% di altri vitigni a bacca bianca non aromatici, autorizzati in Toscana; non sono però consentiti l’impiego dei vitigni Traminer, Muller Thurgau, Moscato Bianco, Malvasia di Candia, Malvasia Istriana, Incrocio Bruni 54 mentre è possibile piantarvi Sauvignon e Riesling, che possono concorrere alla produzione da soli o congiuntamente sino al 10%. La tipologia Riserva prevede una sosta in affinamento di almeno 11 mesi in cantina, più 3 in bottiglia, prima dell’immissione al consumo. Tutti i processi di vinificazione delle uve ed affinamento del vino devono avvenire all’interno dell’area di produzione.
E’ a cavallo degli anni ’80 e ’90 che nasce Panizzi, proprio con questa etichetta qui, tra le prime ad appassionarci a questa tipologia di vino bianco italiano e che, ancora oggi, a distanza di 30 anni, viene prodotta con le uve Vernaccia di San Gimignano e un piccolo saldo del 5-7% di Incrocio Manzoni e Trebbiano, provenienti da tutti i vigneti aziendali di Larniano, Montagnana, Santa Margherita e Lazzeretto. L’azienda conta oggi ben 60 ettari coltivati prevalentemente con Vernaccia, altre varietà bianche da sempre coltivate sul territorio e ancora altri vitigni a bacca rossa, con vecchi e nuovi impianti, come Sangiovese, Merlot, Cabernet Sauvignon destinati ai vini San Gimignano rosso e Chianti Colli Senesi, denominazioni che qui si incrociano su più punti dello stesso territorio.
L’azienda, fondata da Giovanni Panizzi, dal 2004 è passata nelle mani della famiglia Niccolai, può farsi vanto di essere ormai un grande classico di questa denominazione e anzi, rimane forse tra le poche a conservare una certa continuità qualitativa ad ogni vendemmia, capace di mantenere equilibrio e difendere una precisa identità espressiva, proprio come nel caso di questa Vernaccia duemiladiciotto che ne rappresenta al meglio ogni suggestione di merito, un vino fuori dal tempo e dalle mode ma pienamente dentro la storia di questo territorio.
Possiede un bel colore giallo paglia, ben luminoso. Il naso è fine, il profumo è delicato con sentori subito floreali e fruttati in primo piano, vi si colgono gelsomino, tiglio e mela golden, cui s’aggiungono un refolo balsamico e un sentore di polvere di pomice. Il sorso è decisamente asciutto, armonico, sapido, con un finale di bocca che sa lievemente di mandorla amara. Non è difficile immaginarne progressione e capacità di affinamento, possiede struttura, ampiezza e buona persistenza gustativa, l’abbiamo senz’altro colto in piena gioventù ma siamo certi che a dimenticarne qualche bottiglia in cantina, fosse anche per una decina di anni, non mancherebbe mai il suo appuntamento con la storia, presto o tardi che arrivi.
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Tag:panizzi, prima doc italiana, toscana, Vernaccia, vernaccia di san gimignano
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12 Maggio 2020
Petilia, l’azienda dei fratelli Roberto e Teresa Bruno si è appena messo alle spalle il suo primo ventennale dalla nascita, impegnata su più fronti irpini, coltiva Greco di Tufo, Fiano di Avellino, Aglianico e Falanghina su circa 20 ettari di vigneto, tutti dislocati in aree di particolare vocazione e pregio.

E’ questo un Greco di Tufo duemiladiciotto che ci appassiona per la sua classicità, proveniente dalle vigne di Chianche, più precisamente in località di Sant’Andrea, là dove la terra è argillosa, di carattere vulcanico e ricca di minerali, dove il sottosuolo conserva perenne una particolare connotazione sulfurea.
Proviene da una vigna ben esposta a Sud-Est che in alcuni punti raggiunge i 600mt s.l.m., un vigneto piantato proprio circa 20 anni fa, vigoroso e ben ventilato. Il vino che ne viene fuori fa solo acciaio e bottiglia, con solo il tempo a misurarne l’evoluzione.
Nel bicchiere ci ritroviamo un bianco dai tratti classici, dicevamo, con un bel colore paglia appena dorato sull’unghia del vino nel bicchiere, al naso vi si colgono profumi di fiori di acacia e biancospino, ginestra, poi ancora agrumi, mela cotogna ed erbette di campo. Il sorso è leggiadro ma pieno di carattere, con 12% in volume di alcol ma tanta freschezza e armonia nella beva. Di quei Greco piacevolissimi da bere in riva al mare, davanti ai tramonti dell’isola di Procida.
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Tag:Chianche, greco di tufo, irpinia, Petilia, Roberto Bruno, Teresa Bruno
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10 Maggio 2020
E’ certamente una storia piena di romanticismo quella di Mario Corrado e Ida Budetta con la loro splendida azienda agricola San Giovanni a Punta Tresino, a Castellabate, in Cilento, ma anche carica di forza e determinazione, di passione pura.

Per rendere chiara l’idea da cui muove tutto, non poteva esservi rappresentazione migliore dell’etichetta di questo vino, il loro Tresinus, un Fiano di cui proviamo a lasciare traccia su queste pagine con colpevole ritardo, nonostante sia di diritto uno dei vini cilentani del cuore da almeno un decennio.
Sono evidentemente confini del tutto immaginari, agli occhi più attenti quelle linee sono solo apparenti, frontiere di uno spazio enorme inquadrato tra la madre terra, il mare e il cielo dentro al quale Mario e Ida si muovono con energia sin dai loro primi passi qui a Punta Tresino, risalenti ai primi anni ’90. E dire che più delle difficoltà di avviare l’impresa eccezionale di mettere su un’azienda agricola, praticamente dal niente, poté scuoterli l’enorme diffidenza, le difficoltà a portare avanti il riscatto di un luogo che passasse dai principi e dai valori della salvaguardia dell’ambiente, del territorio, la sua piena rivalutazione, anzitutto agli occhi di una comunità quasi arrendevole per via dell’isolamento atavico di questi luoghi e, peggio, arroccata dietro una chiusura mentale addirittura autolesionista in certi casi, che poco lasciava intravedere il futuro.
Eppure, proprio da queste parti, non mancavano esempi da seguire: Luigi Maffini muoveva i suoi passi a Castellabate in maniera sempre più decisa, con lui Alfonso Rotolo a Rutino, i De Conciliis a Prignano, per citarne solo alcuni tra i pionieri più apprezzati già in quegli anni. Così il desiderio di Mario Corrado e Ida Budetta poteva prendere il largo con ancora maggiore determinazione, in effetti così è stato.
Quella vigna così suggestiva e ben rappresentata in etichetta esiste per davvero, non è solo una raffigurazione artistica, è forse la vigna di Fiano più prossima al mare del Cilento, in cui sembra letteralmente tuffarsi, incosciente, dopo aver fatto un salto di almeno trenta metri lanciandosi nel cielo di Punta Tresino. Questa è una terra straordinaria, va camminata a lungo e vissuta profondamente, alcuni luoghi per certi versi conservano atmosfere finanche troppo austere, ostinatamente ancestrali, altri invece sembrano anticipare slanci incredibili verso l’infinito.
Vi sono poi vini che riescono a coniugare entrambe queste visioni, sono questi vini autentici, più unici che rari, non solo per questo territorio, questo ci pare il Tresinus duemiladiciotto di San Giovanni; ci arriva nel bicchiere un vino dal bellissimo colore paglia oro, luminoso, con un corredo aromatico merlettato: vi si colgono note di agrumi, fiori gialli, erbette aromatiche, odore di salsedine, balsami. Il sorso mostra subito consistenza e stoffa, finissima tessitura, persistenza gustativa, misurata sapidità, è certamente uno di quei bianchi da bere con piacere già oggi ma che anticipa una certa capacità di maturare ed evolvere in bottiglia, di quelli che verrebbe voglia addirittura di incorniciare.
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Tag:agricola san giovanni, castellabate, fiano, ida budetta, mario corrado, paestum, Punta Tresino, Tresinus
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8 Maggio 2020
E’ un comprensorio vitivinicolo tanto particolare quello della Costa d’Amalfi, millemila terrazzamenti dove è molto complicato e disagevole spostarsi, figuriamoci lavorarci; talvolta anche dentro una stessa vigna, può capitare di passare da un’altitudine all’altra con salti finanche di 100 metri, dentro contesti micro-climatici davvero molto caratteristici.

Non a caso si parla di Vini Estremi¤. Poi ci sono i varietali, taluni assolutamente unici, altri rinvigoriti proprio da questo terroir così straordinario, basti pensare ad esempio ai bianchi Fenile, Ginestra e Pepella.
Il primo, allevato generalmente a pergola, è un vitigno abbastanza neutro che dona però struttura ai vini e che riesce a raggiungere, con un breve affinamento, vette di rara eleganza, pur avendo necessità di cure maniacali in vigna a causa della sua particolare sensibilità alle muffe. La Ginestra, spesso confusa ed associata alla più conosciuta Falanghina per la sua abbondanza colturale, è invece da considerare più vicina alla varietà Biancolella, molto diffusa anche da queste parti in Costa d’Amalfi, dove sembra acquisire una particolare integrità olfattiva dal profumo, appunto, di fiori di ginestra, contribuisce a dare vini freschi e agili nella beva. La Pepella, infine, rappresenta la memoria storica di questo territorio: sono poche vigne, si contano poco più di tre ettari in tutto, generalmente vecchi ceppi con una resa bassissima in uva anche per via della naturale propensione all’acinellatura dei grappoli; ne viene fuori però un nettare rarissimo ma di estrema funzionalità nell’assemblaggio finale dei vini, a cui dona particolare complessità.
Poi ci sono i rossi, c’è anzitutto il Piedirosso o Per’ e palummo, così chiamato dal rosso dei pedicelli degli acini che richiama il colore vivo delle zampette dei colombi. Sappiamo bene come va col vitigno (leggi qui), eppure certi vini qui in Costa d’Amalfi prendono caratteri davvero incredibili. Vale la pena poi ricordare lo Sciascinoso, o il Tintore di cui spesso abbiamo già raccontato su queste pagine (ad esempio qui) e del Tronto, altra varietà locale spesso però sovrapposta al più tradizionale Aglianico.
Sono tutti vini parecchio evocativi quelli di Marisa Cuomo e Andrea Ferraioli, vini che si fanno apprezzare ancora di più proprio per il forte magnetismo di questi territori straordinari, con queste vigne patrimonio inestimabile, in certi luoghi letteralmente arrampicate sulle rocce a picco sul mare di Furore e Ravello. Non mancano certo appassionati al Fiorduva, il loro bianco di punta pluripremiato ad ogni uscita, ma nemmeno chi, talvolta, in certe annate in particolare, gli preferisce il Furore bianco ”base” da Falanghina e Biancolella. E’ un duemiladiciotto riuscitissimo questo, dal grazioso colore paglia e un naso delicato e verticale, profuma di ginestra e biancospino, di agrumi e macchia mediterranea mentre il sorso è piacevole ed equilibrato, stuzzicante e persistente, non senza acuti di freschezza sul finale di bocca ben sapido.
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Tag:andrea ferraioli, costa d'amalfi, fenile, furore, ginestra, gran furor divina costiera, marisa cuomo, marisa cuomo gran furore divina costiera, pepella
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5 Maggio 2020
Non sono tantissimi i vini bianchi italiani capaci di resistere al tempo senza subirne in maniera decisiva il peso degli anni, tra questi, di certo, è abbastanza improbabile trovarci menzione di una Falanghina dei Campi Flegrei.

Eppure non vi è territorio in Campania più dei Campi Flegrei che riesce a stupire e sa di potersela giocare ad armi pari con chiunque in questo preciso momento storico per il vino italiano, capace di tirare fuori vini sempre più autentici, snelli e agili nella beva ma anche ricchi di spiccata personalità, ancor più con qualche anno di bottiglia alle spalle. Grande merito va ad alcuni produttori che da anni lavorano duramente per migliorarsi, capaci di scrollarsi di dosso limiti colturali e vizi tecnici azzerando così stereotipi, errori e falsi miti.
Abbiamo alle spalle anni di visite, chiacchiere, approfondimenti, ripetuti assaggi, ci viene così d’obbligo avanzare l’idea che proprio la vendemmia duemilasedici da queste parti a Pozzuoli, Bacoli, Monte di Procida, Marano e sulle colline più prossime a Napoli ha per certi versi delineato uno spartiacque, una sorta di punto e a capo, una linea temporale dalla quale si è ripartiti spediti dopodiché nulla può essere più come prima, con i pro e i contro necessari, un’assunzione di piena responsabilità senza più sconti, nessuna scusa.
Un cambio di passo che qualcuno ha saputo anticipare, arduo e faticoso ma ormai ben avviato, indispensabile per non continuare a dilapidare un patrimonio vitivinicolo unico e irripetibile che aveva bisogno solo di essere approcciato con maggiore rispetto, conoscenza e capacità tecniche, dopo (troppi) anni di discontinuità e disattenzioni.
Una strada che la famiglia Di Meo cammina da tempo con grande senso di responsabilità, con Luigi ormai pienamente votato alla vigna e i figli Mattia, Salvatore e Vincenzo man mano avviati nella gestione della cantina, quest’ultimo tra i più giovani enologi campani in campo ma già con una decina di vendemmia alle spalle che gli hanno consentito di anno in anno di ”leggere” e comprendere sempre meglio tutto il potenziale delle sue vigne flegree.
Ne abbiamo piena testimonianza con un po’ tutte le etichette di La Sibilla, alcune delle quali vanno esprimendo vini flegrei tra i più buoni di sempre mai bevuti, tra queste senz’altro c’è il Cruna DeLago duemilasedici¤, verosimilmente tra i più costanti negli ultimi anni, avviato a marcare un benchmark ormai chiaro per tutto il territorio, risultato di un percorso lungo e ben definito oggi nei suoi obiettivi. Ci arriva così nel bicchiere un bianco dal colore oro cristallino, radioso, dal naso anzitutto orizzontale e complesso, pieno di sensazioni floreali e fruttate, sfumature eteree, lungamente salmastro, un corredo aromatico che richiama vento di mare e terra ardente, capace di regalare sapori che risuonano energia, un sorso puntuto e sapido, fresco e minerale, un autentico richiamo al territorio flegreo.
Leggi anche Piedirosso Campi Flegrei Vigna Madre 2013 La Sibilla Qui.
Leggi anche Falanghina Campi Flegrei 2018 La Sibilla Qui.
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Tag:bacoli, cruna delago, falanghina campi flegrei, i vini della sibilla, la sibilla, luigi di meo, vincenzo di meo
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1 Maggio 2020
Sono trascorsi poco più di dieci anni da quando nel 2009 la parola “Prosecco” è divenuta identificativa di un vino a denominazione di origine e non più della varietà di uva con la quale veniva prodotto, mentre quest’ultima ha ripreso di fatto il nome Glera, suo antesignano originario del Friuli.

E’ bene ricordare infatti che da quel preciso momento storico è vino Prosecco quello che proviene esclusivamente da un’area di produzione geograficamente collocata nel nord-est italiano, lungo i territori che attraversano diverse province a cavallo delle regioni Veneto e Friuli, all’interno dei quali insistono, a livello piramidale, più denominazioni di origine che ne certificano la qualità: alla base di questa piramide c’è la Doc Prosecco, cui segue la Doc Prosecco Treviso, la Docg Asolo Prosecco che ancor più ne circoscrive la produzione in un’area specifica di 19 comuni attorno ad Asolo, nel trevigiano, sino ad arrivare alla Docg Conegliano Valdobbiadene Superiore che identifica i vini prodotti nei 15 comuni dell’area storica del Prosecco al cui apice c’è la Docg Valdobbiadene Superiore di Cartizze.
Seppure a molti appaia complicato questo giro di denominazioni è abbastanza chiaro coglierne l’intento del legislatore: fintanto che “Prosecco” indicava un vitigno e non una zona di produzione, sarebbe stata inefficace qualsiasi prova di tutela (vedi la diatriba tra Tokaji ungherese – denominazione – e Tocai Friulano – vitigno), vi era quindi la necessità di salvaguardare il prezioso aspetto storico e culturale delle aree più vocate – oggi le colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene sono Patrimonio dell’Umanità Unesco -, senza però trascurare il valore economico delle grandi estensioni produttive di pianura che hanno di fatto contribuito a rendere il Prosecco una delle produzioni enologiche italiane più famose nel mondo, tanto da entrare di diritto anche nel vocabolario Merriam-Webster’s Collegiate Dictionary¤, uno dei più importanti vocabolari ufficiali degli Stati Uniti.
Tra i tanti protagonisti di questa lunga cavalcata c’è sicuramente Giuliano Bortolomiol, tra i primi nel secondo dopoguerra a raccogliere l’eredità dei pionieri, ad intuire il valore di spumantizzare un Prosecco brut e sin dal principio convinto sostenitore dell’utilizzo del metodo Charmat nella produzione dei suoi vini. L’azienda, fondata nel 1949, è guidata oggi dalle figlie Maria Elena, Elvira, Luisa e Giuliana che sin dal 2001, sono passati quasi vent’anni, hanno avviato una progressiva conversione vitivinicola e una profonda ristrutturazione aziendale con al centro il ”Parco della Filandetta”, una splendida area ricavata dal restauro di un’antica filanda nel cuore di Valdobbiadene che riunisce al suo interno la cantina di vinificazione, spazi per la degustazione ed un vigneto biologico. Uno scatto verso il futuro nel segno della memoria e dei valori storici del territorio.
Un segno distintivo di questo percorso di qualità ci è parso l’Audax Zero.3, vino della Collezione Tradizionali, millesimo duemiladiciannove; nel bicchiere ci arriva un Prosecco molto interessante, dal colore giallo verdolino brillante, con bolle mediamente fini e dal profumo invitante e delicato. Prodotto con uve Glera in purezza, 12% di alcol in volume in etichetta, ha un naso lievemente aromatico, un po’ ”verde”, va sull’erbaceo ma è capace di consegnare anche delicati sentori di fiori d’arancio e frutta a polpa bianca; in bocca è secco, il contenuto zuccherino è infatti ai minimi, ma nessuna forzatura eccessiva, è certamente armonico per la tipologia e anzi, pare garantire tanta piacevole freschezza, un extra brut che ci regala un sorso di autentica leggerezza.
Leggi anche Il Prosecco biologico Ius Naturae di Bortolomiol Qui.
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Tag:bortolomiol, cartizze, giuliano bortolomiol, glera, le colline del prosecco patrimonio unesco, prosecco, valdobbiadene
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28 aprile 2020
Sono in dirittura di arrivo con le nuove etichette, il vino era pronto da qualche mese e dopo i ripetuti assaggi di queste settimane ci sentiamo di affermare che è buono come e più di prima; la nuova veste delle bottiglie è una ventata di freschezza che potrà solo fare bene alla piccola realtà montese di Alessandra e Gennaro Schiano.

Dopo l’ultimo buonissimo risultato alle prese con un’annata certo non facile da leggere come la duemiladiciassette, Gennaro si è finalmente convinto di dare una precisa identità al vino proveniente dalle sole uve coltivate nello splendido vigneto anfiteatro di Monte di Procida, in località Torre Fumo, sulla via Panoramica del comune flegreo, luogo a dir poco suggestivo dove il mare è praticamente lì, a due passi oltre la scarpata, dove la vigna gode di un microclima eccezionale con venti che spazzano costanti il Canale di Procida contribuendo ad arieggiare il catino di tufo giallo napoletano, sabbia e pomici intorno al quale insistono i terrazzamenti coltivati prevalentemente con Falanghina.
Torrefumo duemiladiciotto nasce proprio qui, come ben rappresenta la nuova bella etichetta d’artista, ha vivacità gustativa da vendere, è un bianco invitante e fine, minerale, senza dubbio tra le migliori interpretazioni di Falanghina tirate fuori da Gennaro negli ultimi anni.
E’ un vino certamente varietale e già ben definito, che regala però suggestioni marine e tratti balsamici molto gradevoli preparandoci ad un assaggio fresco, giustamente puntuto e saporito. Il primo naso è sottile ma già offre chiare sensazioni di frutta e tratti mediterranei molto chiari, profuma di agrumi, sorbe, nespola e biancospino. Il sorso è puntuto, giustamente sapido, sa pienamente di questa terra carezzata dal mare. Qualche tempo ancora in bottiglia gli consentirà solo di ben maturare e mettersi in prima linea per tirare la volata ai piccoli grandi vini già in marcia per il futuro di questo territorio!
Leggi anche Le vigne e il vino di Gennaro Schiano Qui.
Leggi anche Nessuna scusa, niente sarà come prima Qui.
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Tag:anfiteatro, campi flegrei, cantine del mare, falanghina, gennaro schiano, monte di procida, torrefumo
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25 aprile 2020
Di Asprinio d’Aversa se ne parla sempre troppo poco, mentre l’esperienza degli anni passati ci è servita per capire che quel suo gusto così spiccato e originale ha invece una marcia in più, davvero originale, unico e particolare!

Aversa, Carinaro, Casal di Principe, Casaluce, Casapesenna, Cesa, Frignano, Gricignano di Aversa, Lusciano, Orta di Atella, Parete, San Cipriano d’Aversa, San Marcellino, Sant’Arpino, Succivo, Teverola, Trentola – Ducenta, Villa di Briano, Villa Literno in provincia di Caserta e Giugliano, Qualiano e Sant’Antimo in provincia di Napoli sono i 22 comuni dove è possibile produrre l’Asprinio d’Aversa doc, denominazione istituita nel luglio ’93 per disciplinare la produzione di un bianco fermo e ben due tipologie di vino spumante, un metodo Martinotti (charmat lungo) e un Metodo Classico. In etichetta, quando le uve provengono esclusivamente da viti maritate, è ammessa la dicitura “alberata” o “da vigneti ad alberata”, antico e suggestivo metodo di allevamento della vite di orgine etrusca.
Vi sono varie versioni sull’origine di fatto dell’alberata. Di certo c’è l’intuizione degli Etruschi di “maritare” la vite rampicante a dei tutori, in questo caso “vivi”, trattandosi di alberi, in particolare di pioppi. Poi varie annotazioni più o meno certe si sono aggiunte al contorno storico-culturale dell’Agro aversano, a partire dall’assunto che da sempre questi territori, per la loro estensione, erano interessati da una miriade di coltivazioni, nella maggior parte dei casi ben più redditizie dell’uva; tra queste la canapa, che raggiungendo altezze variabili, non ha mai contribuito a creare condizioni favorevoli ad una coltivazione promiscua con la vite se non in maniera limitata.
Inoltre, il notevole frazionamento delle colture presupponeva che l’Asprinio venisse coltivato perlopiù per il fabbisogno familiare resistendo proprio solo grazie alle alberate, poiché sviluppandosi in altezza non sottraeva terreno prezioso ad altre colture stagionali. Colture delle più differenti che nel tempo si avvicendavano nei fondi e che in certi periodi dell’anno traevano beneficio dalla loro presenza in caso di particolari condizioni meteo, si pensi all’ombra in caso di solleone o come difesa dal vento che qui, non avendo particolari rilievi sulla sua strada, arriva forte e deciso dalla vicina costa, distante appena una quindicina di chilometri.
Resta ovvio che in principio se ne ottenesse un vino bianco di sostentamento, spesso sgraziato, dal colore tenue e dal sapore particolarmente aspro, più utile come vino da taglio che a bersi da solo. Un quadro organolettico certamente migliorato grazie ad una maggiore consapevolezza nella gestione dell’alberata, finalmente percepita come un valore da salvaguardare, una testimonianza storica per tutto il territorio, e all’introduzione di nuovi metodi di allevamento della vite, con nuovi impianti, ma soprattutto con l’arrivo nelle cantine della moderna tecnologia, via via capace di ”domare” le asperità più accentuate del varietale senza però disperderne il carattere autentico dei vini.
Così il vino, pur restando di colore tenue, almeno in gioventù, caratterizzato da profumi lievissimi, di fiori gialli, di mela e agrumi, ha saputo conquistarsi un nutrito numero di appassionati alla ricerca di un gusto leggero e fresco, contraddistinto da puntuta acidità, mai appesantita da alcol e sovrastrutture inutili, proprio come sa regalare un sorso di Asprinio, tra i pochi varietali caratterizzati da un’elevata acidità fissa, dovuta al considerevole contenuto di acido malico, che ne fa, oltretutto, un’ottima base anche per la produzione di spumanti di qualità.
Con queste premesse è da lodare il grande lavoro della famiglia Numeroso che ha saputo ben conservare le sue poche alberate, affiancandovi negli anni nuovi impianti sperimentali con sistemi di allevamento alternativi, sino ad individuarne uno, il sylvoz, su cui puntare per dare nuovo slancio alla produzione di Asprinio in terra aversana. Da allora sono trascorsi oltre trent’anni, nel frattempo uno dei cugini Numeroso, l’indimenticato Carlo¤, ci ha prematuramente lasciati nel 2016, ma nelle loro vigne a piede franco appena fuori Lusciano, circa 2 ettari coltivati sul versante napoletano della dop Asprinio d’Aversa, in località Santa Patena, nel comune di Giugliano, fioriscono ogni anno, proprio in questi giorni di primavera, i germogli di uno dei più suggestivi vitigni bianchi campani.
Vite Maritata duemiladiciannove bevuto quest’oggi, in questa giornata particolare, vuole essere proprio un omaggio alla rinascita, un atto di riverenza a quest’antica vocazione, a un territorio che non smetteremo mai di raccontare. E’ un vino bianco dal colore paglia, il naso consegna profumi di fiori bianchi, agrumi, frutta a polpa bianca, macchia mediterranea. Il sorso è invece teso e vibrante, chiaramente sfrontato, tra un paio di mesi saprà essere ancor più godibile, giammai equilibrato ma con un frutto più chiaro e meno scomposto, con quel sapore asciutto, vivace, finanche citrino di cui sa farne ampiamente virtù. Viva l’Asprinio!
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23 aprile 2020
Abbiamo in Italia, da nord a sud, un patrimonio vitivinicolo straordinario e vignaioli capaci di rendere eccezionale ogni singolo sorso di vino, proprio come in questo caso, davanti al Pinot Nero duemilaquindici di Martin e Marlies Abraham¤.

Non è difficile capire perché proprio il Pinot Nero sia la varietà che più affascina certi produttori e sommelier di tutto il mondo, quella che più di ogni altra costituisce motivo di sfida e che in certi luoghi riesce ad esprimere vini capaci di sensazioni davvero uniche, vini talvolta superlativi e immortali.
Non deve essere stato diverso per Martin e Marlies Abraham, giovani viticoltori altoatesini che sin dai loro primi passi nel 2011, hanno subito raccolto il significato più profondo della tradizione famigliare sapendoci costruire sopra il proprio futuro, spingendosi ben oltre il compitino da manuale che pur avrebbero potuto permettersi nella loro Appiano, terra vocatissima per il vino, dove il Pinot Nero viene coltivato da ben oltre 150 anni, su terreni calcareo-argillosi, con cloni molto vicini alle varietà borgognoni con grappoli particolarmente compatti ed acini di piccole dimensioni.
Gli Abraham fanno una viticoltura pienamente sostenibile, impiegando esclusivamente metodi biologici e concimazioni naturali, a cui s’aggiunge tanto lavoro a mano in vigna ed un manico ”purista” in cantina, lasciando ai vini fermentazioni spontanee su propri lieviti ed un lungo tempo di maturazione in legno e in bottiglia prima di presentarsi sul mercato. Questo per i vini bianchi come per i vini rossi.
Il Blauburgunder duemilaquindici ha uno splendido colore rosso rubino trasparente, più ”leggero” sull’unghia del vino nel bicchiere. Al naso è inizialmente scontroso, chiuso, ha necessità del suo tempo per aprirsi, rivelarsi, un po’ come entrare in una stanza lasciata chiusa per qualche periodo che richiede un po’ di tempo per riconsegnarci la sua memoria; ne viene poi fuori, infatti, un quadro olfattivo molto interessante, arrivano sentori di lamponi, amarene ma anche note di sottobosco, spezie fini e pietra focaia. Il sorso è avvincente e pieno, vigoroso e ben tessuto, fresco e appena tannico, di raro equilibrio gustativo nonostante il 14% di alcol in volume in etichetta. E’ senz’altro uno dei migliori assaggi dell’anno!
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15 aprile 2020
Si assiste negli ultimi anni ad un sempre crescente successo dello Champagne in tutto il mondo, i grandi marchi sono stati affiancati nel frattempo da innumerevoli piccole etichette di varia connotazione che in molti casi hanno saputo ben ritagliarsi il proprio spazio sul mercato e in particolar modo tra gli appassionati più attenti.

Abbiamo quindi imparato a ”leggere” e apprezzare etichette di cuvée delle più differenti, i grandi numeri sono certamente rimasti appannaggio delle grandi Maisons che per la verità continuano a fare il bello e cattivo tempo nel mondo ma anche nella stessa regione dove, giusto nel mezzo, cioè tra questi mostri sacri e i tanti cosiddetti ”piccoli” Negociant e/o Manipulànt della new wave, hanno saputo consacrarsi, con grande slancio, anche alcuni nomi non nuovi ma di sicuro affidamento proprio come Alain Thiénot, già stimato e apprezzato commerciante di vini nonché profondo conoscitore dell’area, che nel 1985 ha avviato la sua straordinaria cavalcata tirando su un’azienda tutta sua, affidata poi nelle mani dei figli Stanislas e Garance, oggi tra le più apprezzate della Champagne.
Il suo Blanc de blancs s.a. è l’asso di cuori da giocare nel momento più opportuno, non solo durante i momenti di festa. Si tratta di un vino composto per l’80% di vini Riserva ai quali viene aggiunto un 20% di vini d’annata. Stiamo parlando di Chardonnay provenienti dagli areali maggiormente vocati di Avize e Vertus sul versante sud della Cote des blancs e più a nord da Villers-Marmery, verso la Montagna di Reims, qui dove la famiglia Thiénot, da oltre 30 anni tira fuori grandi vini per le sue cuvée più prestigiose tra le quali il millesimato Vigne aux Gamins e l’assemblaggio di millesimati Cuvée Stanislas.
Uno Champagne sans année davvero notevole, e questo nuovo assaggio lo conferma a pieno: di colore paglierino carico e brillante, una volta nel bicchiere è subito invitante e coinvolgente, con una spuma delicatissima, e bolle fini e regolari, intense, persistenti. Il naso rivela immediatamente tutta la sua anima verticale e aristocratica, è intrigante, vi si colgono sentori finissimi e vibranti di agrumi di limone e pompelmo, emerge nel bicchiere il profumo invitante della primavera, certe caratteristiche note floreali e di fragrante pasticceria. Il sorso è un tripudio di freschezza minerale, asciutto e generoso, teso il giusto, accompagnato nella beva da una carbonica misurata e un finale di bocca citrino e sapido.
Leggi anche Reims, Champagne Cuvée Brut Rosé Alain Thiénot Qui.
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14 aprile 2020
Collocato nel cuore della Borgogna, proprio al centro della Côte de Beaune, tra Volnay a nord e Puligny Montrachet a sud, l’areale di Meursault rappresenta un territorio di grande suggestione dove nascono vini bianchi di spessore e di notevole profilo organolettico, espressi a più livelli qualitativi.

Qui dove lo Chardonnay si prende rapidamente la scena, pur senza Grands Crus da annoverare, non mancano Premiers Crus che hanno saputo segnare la storia territoriale di questi luoghi straordinari, si pensi ad esempio a Climat come Les Perrières, Les Porusots (Poruzots), giusto per citarne alcuni tra i più celebri con Les Genevrières, forse il più rappresentativo tra tutti i vini di Meursault, capace di dare vini superiori per complessità e finezza, in grado di sfidare tranquillamente il tempo, non a caso, in certe annate, paragonati ai grandi vini di Montrachet.
Tutto intorno dei ”lieux-dits” in carico all’appellation communale sempre molto interessanti tra cui senz’altro questo Les Grands Charrons, una vigna appena fuori il centro di Meursault di cui i Bouzereau detengono circa 1 ettaro e mezzo; è un nome abbastanza nuovo quello di Jean-Baptiste Bouzereau sulla scena borgognona, ma che sembra abbia saputo farsi largo a suon di uscite di tutto rispetto, con una produzione medio-piccola, che non supera mai le 60-70.000 bottiglie complessive, ma con uno stile preciso, sempre intrigante e convincente, con il frutto in primo piano e senza sovrastrutture inutili.
L’azienda conta nel complesso circa 12 ettari di cui ben 9 a Chardonnay e Aligoté divisi tra Meursault e Puligny-Montrachet e la restante parte in terra di Pinot Noir tra Volnay e Beaune; quelli di Jean-Baptiste sono vini precisi, fieri e pieni di tensione gustativa, che in qualche caso possono aver bisogno del loro tempo per rivelarsi del tutto, i rossi in particolare, ma non in questo caso: Les Grands Charrons duemiladiciassette è uno Chardonnay in purezza, fermentato con lieviti indigeni, lasciato in barrique per circa un anno e poi finito in acciaio per almeno 4 mesi prima dell’imbottigliamento.
Ne viene fuori un bianco dal colore paglia luminoso, subito invitante al naso con un bel corollario di frutta a polpa gialla e agrumi, sa di pesca, nespola e buccia di limone, ma anche rosa e ginestra e un sentore piacevolmente balsamico. Il sorso è pieno di frutto, asciutto e morbido, sostenuto da una piacevole freschezza gustativa e sul finale di bocca da spiccata sapidità. E’ senza dubbio un bianco di grande piacevolezza, prêt à boire verrebbe da dire, anche se non c’è assolutamente da preoccuparsi laddove capiti, malauguratamente, di dimenticarselo per qualche tempo in cantina.
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10 aprile 2020
Ad Arles van Gogh aveva scoperto la luce, la potenza del sole, l’importanza del giallo capace di esprimere nei suoi dipinti tutta la profondità della sua arte. Ad Arles, nella sua ”La camera di Arles¤” dell’ottobre 1888, Vincent van Gogh allenta finalmente le briglie della sua abilità tecnica lasciando vibrare tutto il suo straordinario talento: niente più puntini, niente più tratteggi, niente, solo colori in armonia. Ed è proprio qui che il suo giallo diviene davvero particolare, un giallo unico, preludio del rosso, il Giallo d’Arles…

Il Greco di Tufo è forse il vino bianco più rappresentativo della Campania, tra i primi, già negli anni ’70 a fregiarsi della doc e a varcare la soglia regionale e sbarcare così in tutto il mondo. Tutto nasce in un territorio abbastanza circoscritto in provincia di Avellino, siamo in Irpinia, dove sono infatti solo 8 i comuni ammessi alla produzione del Greco di Tufo: oltre a Tufo, che dà anche il nome alla denominazione, oggi docg, vi rientrano Altavilla Irpina, Chianche, Montefusco, Prata di Principato Ultra, Petruro Irpino, Santa Paolina e Torrioni.
Il protagonista è quindi il Greco, un vitigno abbastanza complicato da coltivare ma soprattutto di difficile gestione in cantina: ha generalmente un grappolo compatto, buccia sottile, un ciclo vegetativo piuttosto lungo, nulla di più complesso da gestire in vigna soprattutto con le attuali condizioni climatiche estremamente variabili che sembrano promuovere attacchi parassitari, muffe e deficit di maturazione dell’uva. Che poi da molti tecnici viene considerato un rosso vestito di bianco, per la cura e le attenzioni che richiede anche in vinificazione, con mosti sempre molto ricchi, contraddistinti da spiccata acidità, generalmente caratterizzati da un colore cupo che varia tra il bruno e il marrone, peraltro particolarmente sensibili all’ossigeno e alle filtrazioni che già di loro incidono considerevolmente nella piena salvaguardia del patrimonio organolettico di un vino.
Anche per questo molti vini vengono generalmente vinificati e affinati esclusivamente in acciaio, così da limitare le movimentazioni delle masse in cantina e preservarne così, il più a lungo possibile, soprattutto l’integrità aromatica e la freschezza gustativa a discapito forse di operazioni che ne favoriscano la struttura e magari un più ampio potenziale espressivo. Una visione questa che non ci sentiamo certo di condannare, che ha però indubbiamente tenuto a freno per molti anni il reale potenziale di questo vitigno e questo straordinario territorio lasciando nel tempo emergere altre varietà e altri vini bianchi campani che si sono poi velocemente imposti sul mercato.
Pensiamo al successo, a tratti abbagliante, del Fiano di Avellino, vino che ha vissuto con grande slancio due decenni pieni di successi, tra gli anni novanta/duemila e poi, ancora, in quelli successivi il duemiladieci, allargando di parecchio la sua ombra proprio sul Greco, non fosse altro per la contigua provenienza territoriale irpina; più recentemente, per citarne ancora uno di esempio, anche la Falanghina ha saputo ben affermarsi, con i numeri del Sannio e la tipicità dei Campi Flegrei, sottraendo anche in questo caso fette di mercato un po’ a tutti gli altri vini bianchi campani sulla scena.
Ma il Greco sa essere molto altro, se appare infatti timido e dimesso nei suoi primi anni, con buone velleità evolutive per 4/5 anni, diviene praticamente immortale quando viene interpretato al meglio, a partire certo dalla vigna, non senza passare però da una fase di lavorazione che richiede accortezza, conoscenza e mezzi tecnici in cantina affinché a finire in bottiglia ci arrivi solo il meglio, tirando fuori così vini con profumi ampi e suggestivi e un sapore intenso e sempre coinvolgente, dal respiro originale, profondamente gratificante nella beva, proprio come ci ha abituato, tra gli altri, anche Luigi Moio nelle sue raffinate ”letture”, ogni anno sempre più affascinanti e stimolanti.
Questo di Quintodecimo è un vero e proprio Cru prodotto con le uve provenienti dalla tenuta del Giallo d’Arles di Tufo, 12 ettari piantati tutti a Greco, allevati a Guyot, da dove ci sembra venire fuori, con questo duemiladiciotto, una delle più autentiche loro versioni di Greco di Tufo degli ultimi anni; un vino dal colore luminoso e invitante, che sa di pesca gialla e pompelmo, di caprifoglio e citronella, dove emergono perentorie il frutto e il territorio, proprio grazie alle abilità tecniche¤, la profonda conoscenza del territorio e del varietale, l’uso intelligente e misurato del legno, che consentono a Moio di portare in bottiglia tutta l’anima e l’energia di questo pezzo d’Irpinia, intessuti, potremmo dire, senza più puntini, niente più tratteggi, nessuna sovrastruttura ma solo grande armonia, come fossero un lungo e prezioso filo ritorto del bisso!
Leggi anche Quintodecimo, a causa di Laura e Luigi Moio Qui.
Leggi anche Quintodecimo, il 2007 secondo Luigi Moio Qui.
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Tag:arles, giallo d'arles, greco, la camera di arles, la casina gialla, luigi moio, provenza, quintodecimo, tufo, van gogh
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