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Charchigné, Poiré Granit 2011 Eric Bordelet

18 agosto 2012

Di tante bottiglie che mi passano tra le mani ogni anno mi piace conservare sempre un buon ricordo di quelle insolite, soprattutto quando, come in questo caso, il nettare servito – che hai provato, scelto tu di mettere in carta e vivaddìo pure finito! – fa la sua bella figura nei calici dei tuoi avventori.

Questa era una delle novità di questa stagione, si chiama Poiré Granit ma non è un vino. Invero è difficile convincermi che oltre il vino in senso stretto ci sia qualcos’altro di sorprendente da poter mettere in carta al ristorante da offrire ai clienti; per dirne una, non sono mai stato per esempio un fan della Carta delle Birre, men che meno di quelle Artigianali che hanno bisogno di un palcoscenico sensibilmente diverso e di una proposta culinaria molto più specifica e caratterizzante per esaltarsi. Aggiungo, birre di 8 barra 9 o 10 gradi in alcol sono ben altra cosa di ciò che le nostre papille gustative sono in grado di riconoscere come una “bionda o rossa” o giù di lì. Pertanto lasciamo divertire nei loro garage con i kit preconfezionati i più di cento mastri birrai venuti fuori negli ultimi anni in Italia e guardiamo ad altro, per il momento.

Ritornando a noi, questo tizio si chiama Eric Bordelet, è stato per tanti anni sommelier a L’Arpège, poi ad un certo punto della sua vita ha dato un taglio netto a tutto ed è ritornato alle origini riprendendo in mano le sorti dell’azienda di famiglia nel sud della Normandia, dove coltiva frutti, mele e pere anzitutto.

In poche righe, Poirè Granit è una bevanda ottenuta da fermentazione naturale del succo di pera, in questo caso circa una ventina di varietà diverse tipiche dell’areale; allo Chateau Hauteville, che dista pochi chilometri da Charchigné, il suolo è praticamente granitico come fosse un prolungamento della falda che caratterizza il massiccio Armoricano; qui la piantagione di frutta ne trae un forte beneficio e la poduzione di Sidre e Poiré di Bordolet ne riesce a condensare parecchia conservando una timbrica gustativa molto particolare. Tra l’altro quasi tutte le piante qui hanno in media oltre trecento anni, ed altezze ragguardevoli sino a 20 metri, il ché la dice lunga sulla storicità e la tradizione di queste coltivazioni. In più Eric Bordolét, per chi ne avesse suggestione, è anche uno dei maggiori portavoce dell’Unions de Gens de Metiérs (qui).

Il Granit 2011 ha un gradevole colore paglierino, una spuma consistente e molto invitante. Il primo naso è subito caratterizzato da note fermentative e agrumate frammiste però alla tipicità fruttata dolce della pera appena frullata, ma anche deliziose nuances moscate, di fieno e zafferano in polvere. Il sorso è sorprendente, la vivacità e la temperatura ne accentuano sin da subito la freschezza, avvenente direi, rinfrescante, con un finale sì dolce ma per niente stucchevole; sa naturalmente di succo di pera ma si colgono con una certa piacevolezza diverse sfumature che vanno dallo zucchero grezzo di canna ad un retrogusto un po’ speziato.

In definitiva, più del Sidre Brut che ho trovato un tantino imbrigliato nelle note ossidative e che chiude un po’ troppo amaro, il Poiré Granit vi conquisterà definitivamente per la sua grazia. Ha appena 4% in alcol, così se appare scontato proporlo come fine pasto (uso Moscato d’Asti, ndr) su dessert cremosi pensatelo invece come un fresco e leggero aperitivo agostano da bere ghiacciato.

Farra d’Isonzo, Pinot Nero 2006 Bressan. Non è mai troppo tardi ricordare di aver dimenticato

14 agosto 2012

Ne hanno già parlato praticamente tutti, così eccomi in coda per aggiungere la mia su questo bellissimo pinot nero insolito e gustoso come pochi e questa bella “novità” di mercato per noi comuni mortali.

Lo dipingono come un tipo difficile Fulvio Bressan¤ e con molta probabilità non si sbagliano, ma se uno poi fa vini così buoni non è che ci stai troppo a pensare; magari ne parlerai poco con lui, saprai già come approcciarti al suo banchetto alle (poche) fiere dove lo trovi, ma quantomeno ne guadagni attaccandoti alle sue bottiglie.

Ha una bellissima forgia il Pinot Nero 2006, un colore acceso e invitante ed un naso scalpitante e polposo; ci trovi dentro di tutto, dal garofano passito alle amarene nere dolci e succose, dai piccoli mirtilli dalla buccia pruinosa alle note di sottobosco, china e ancora sentori balsamici e note ferrose. Ma è in bocca che diviene travolgente, debordante oserei dire, ha frutta e tutto quanto il resto da vendere. Il sorso è fresco e pungente, il vino avvolge il palato con intensità e voluttà scivolando poi via dalle papille con energia e gusto. Esecuzione impeccabile, non v’è da dire altro!

Conservatelo in fresco prima di servirlo, se ci riuscite cercate di tenerlo costantemente intorno ai 14 gradi, magari anche un po’ meno in questi giorni agostani, vedrete che ne farete il vostro rosso per l’estate!

Un sommelier ha 10 certezze assolute in testa, tutto il resto sono solo sogni che scalpitano…

13 agosto 2012

Da domani ritorno a raccontare di vini – domani o più in là vediamo, incalza Ferragosto -, ho saggiato infatti diverse cose parecchio interessanti in quest’ultima settimana che varrebbe la pena segnalarvi. Stamattina però mi sono svegliato con un grillo per la testa…

Eh sì, anch’io avevo le mie aspettative una volta finita la scuola, ancor più dopo i primi passi al ristorante. Poi le prime incertezze – ma chi me lo fa fare?, ti chiedi mentre gli amici vanno al mare -, salvato da certi sogni da inseguire, progetti da realizzare, con al centro il lavoro che diventa ogni giorno più tuo, fare il sommelier. Con tutti gli annessi e connessi del caso. Possibilmente senza rimpianti (o quasi).

Così mi sono venuti alla mente una decina di punti, chiamateli pure “passaggi obbligati” se volete, l’ordine temporale decidetelo voi, se ne può certamente discutere ma non passarci sopra. Eccoli…

1. Trovare un lavoro capace di dare soddisfazioni.

2. Lavorare in un posto dove con altri si possano condividere esperienze e crescita professionale.

3. Stappare finalmente “la bottiglia”, una di quelle che fa sospirare ed esclamare: “cazzo, allora esistono per davvero sti’ vini!”.

4. Lasciare quel lavoro dopo un giusto tempo di maturazione per trovarne un altro ancor più soddisfacente in termini professionali ma anche economici. O aprire una propria attività, che non è proprio lo stesso ma va bene comunque.

5. Concorsi, riconoscimenti, cotillons: eppure ripartire sempre con grande slancio con la convinzione che il traguardo raggiunto sia solo una linea di partenza e non un punto di arrivo.

6. Fare del proprio meglio – sempre! – per dare piena soddisfazione al cliente e accontentarsi di riceverne poco meno della metà. Quando accade.

7. Stappare un La Tache del ’90 di Romanée Conti e un Mouton Rothschild dell’82 e coglierne al volo le primarie differenze (fazzoletto alla mano). Parliamo di fenomeni!

8. Come qualsiasi vino, senza la propria terra, una storia di valore, soprattutto credibile, non si va da nessuna parte. Quindi non sarà mai una cattiva idea studiare per diventarne l’ambasciatore.

9. Mettersi in discussione, sempre. Anche quando si pensa di essere il numero 1 (!).

10. Sorridere, che è la cosa più saporita della vita.

Reims, Champagne Cristal 2004 Louis Roederer

5 agosto 2012

Anche se non sempre sono esperienze rassicuranti e ristrutturanti, il ricordo di certe bottiglie, per quanto storicamente significative, galleggia sempre tra la sufficienza e il mediocre; e pare che a molti tanto basta per essere certi della propria idea.

Del Cristal di Louis Roederer è tuttavia un giudizio positivo quello che mi porto dietro, pur nella necessità di doverlo rinnovare periodicamente per evitare che il senso della conoscenza, il sapere stesso di questa etichetta si affievolisca; poi può anche succedere di ridursi in una memoria talmente labile da rischiare di trasformarsi, nel bene e nel male – il più delle volte nel male, non necessariamente con malizia -, in un giudizio definitivo quanto più insindacabile. Così una grande bottiglia rischia di esserlo per la storia, per il blasone, per il mercato ma non sempre per il palato.

E’ un bene dunque che anche il Cristal, da grande Champagne qual è, sappia di tanto in tanto meritarsi, bicchiere alla mano, i galloni che la cronaca, il blasone e la storia ci impongono. Eccola la mia riprova, così chiara che non serve aggiungerci molto di più: statene certi, il 2004 è buono, buono per davvero!

Intervallo. Risotto con nervetti di vitella, gli scampi e la liquirizia di Annie Féolde e Italo Bassi

4 agosto 2012

Non è un piatto qualunque, è il Risotto con nervetti di vitella, scampi e liquirizia di Annie Féolde e Italo Bassi dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze.

C’è dentro equilibrio e sapienza, il mare e la terra, v’è soave dolcezza e puntuta speziatura, delicata consistenza e al tempo stesso leggerezza, profumi antichi e nuovi riveduti con esecuzione magistrale di un piatto border line tra tradizione e creatività.

Chiacchiere sotto l’ombrellone, tra sconosciuti

2 agosto 2012

Capita una mattina di ritrovarsi sotto l’ombrellone a fare due chiacchiere sulla sera prima: l’aperitivo al tramonto, l’atmosfera unica al Faro di Anacapri, le grasse risate per quel vassoio rovesciato – l’imbarazzo della cameriera per aver rovinato quel vestito di Prada è impensabile! -, ma soprattutto l’ottima cena e, immancabili, le buone bottiglie bevute. Bottiglie per una volta sconosciute. E sorprendenti…

Quando si ha una idea precisa di cosa sia o cosa possa divenire nel tempo uno Champagne, anche un assaggio controverso può rivelarsi invece una bella scoperta da appuntare subito sul taccuino, ovvero mettere subito in rete. Sconosciuta e sorprendente era l’etichetta Prestige Brut 2003 di Jacques Picard, récoltantmanipulant a Berru, un paesino di poche anime appena fuori Reims; i protagonisti, ancor più sconosciuti, sono José Lievens e sua moglie Corinne Picard, che dalle loro migliori vigne tirano via uva per circa 8.000 bottiglie di questo ottimo haut de gamme, una piccolissima fetta di quella immensa torta che è il mercato dello Champagne, una fetta però dolcissima e imperdibile.

Ecco perché ci ritornerò su volentieri, non appena possibile; per adesso val bene segnalarvi che trattasi di una bella storia d’amore sbocciata tra le vigne, di agricoltura sostenibile e di uno stile champenois tagliente e implacabile – controverso, appunto – e di prezzi vivaddìo più che umani.

E sconosciuta era la bottiglia di Vita Menia 2011, rosato da piedirosso e aglianico prodotto nelle vigne a Raito, minuscola frazione sopra la costiera amalfitana, sopra il mare di Vietri per intenderci. Panorama mozzafiato, la vigna qui è tutta a conduzione biologica. Di questo sottile e profumato rosato se ne fanno appena seicento bottiglie l’anno, Patrizia Malanga ha voluto mandarmene qualcuna; un pensiero prezioso, almeno quanto il vino saggiato.

Bello e invitante il colore cerasuolo, il naso è ciliegioso ma anche un po’ marino, mentre il sorso è secco, leggiadro e sapido. Il frutto ritorna perentorio in bocca, aggraziando il palato sollazzato da una beva fresca e gradevole. Andatela a trovare Patrizia, siete ancora in tempo per sposare il mare alla vigna che lì, dalle quelle parti mi dicono essere entrambi bellissimi. 🙂

Intervallo. Nocciole croccanti e crema al limone

29 luglio 2012

Professione Sommelier, ci sono capsule e capsule

28 luglio 2012

Eh sì, l’argomento torna perentorio ogni qualvolta la sera prima si corre il rischio di rimanerci fregato. Un paio di settimane fa, dopo aver scritto questo post (leggi qui) ho avuto il piacere di fare quattro chiacchiere con alcuni “tecnici del settore” ma anche e soprattutto con alcuni produttori di vino evidentemente sollecitati dall’argomento. Loro mi hanno detto la loro, che più o meno provo a sintetizzare, poi io ci metto ancora del mio…

La capsula in PVC = competitività. La parola d’ordine per chi sceglie questo tipo di chiusura è la competitività; difficile infatti trovare equilibrio fra estetica e controllo dei costi, soprattutto quando ci si deve confrontare con i canali della GDO dove il giusto rapporto qualità-prezzo è di fondamentale importanza.

Le capsule termoretraibili vengono realizzate a partire dalla materia prima acquistata in bobine, vengono poi verniciate sulle linee rotocalco dove si effettua la verniciatura del fondo e una prima personalizzazione che si ottiene attraverso cilindri di stampa disposti su tutta la larghezza della rotocalco. Il semilavorato, una volta verniciato e tagliato viene avviato nelle linee di formatura, dove le capsule vengono modellate attraverso un processo di termoretrazione su appositi mandrini conici. Anche in questo caso, nelle macchine di formatura, le capsule possono essere ulteriormente personalizzate con stampe a caldo e punzonature, sia sulla testa che sulla parete.

Tecnicamente facili da approcciare possono creare una qualche difficoltà quando il pvc non è di altissima rifinitura, strappandosi letterelmante sotto il coltellino del cavatappi. Con mano ferma però ed un po’ di esperienza l’apertura è regolare ed abbastanza veloce. (A.D.)

La capsula in Polilaminato, viva la modernità e l’eleganza. Le capsule in polilaminato sono essenzialmente costituite da un sandwich di Alluminio – Polietilene – Alluminio. Sia l’alluminio che il polietilene, vengono acquistati in bobine che vengono lavorate all’accoppiatrice, capace di produrre fino a 250 metri/min di materiale. Il semilavorato viene poi verniciato con dei colori di fondo ed eventualmente personalizzato con le grafiche richieste nelle linee rotocalco. Grazie al connubio fra la forza dell’alluminio e l’elasticità del polietilene, si ottiene una gamma di prodotti particolarmente adatti per tutti quei vini che devono, comunque, distinguersi anche a livello di packaging.

Se ti capita tra le mani una brochure promozionale di una qualche azienda non è raro trovare descrizioni del genere: “durante la fase di apertura, la sua eccezionale duttilità esalta al massimo questo importantissimo momento”. Bene, ma è davvero così? Non sempre, e di sicuro c’è da starci seriamente attenti; perché anche qui c’è Polilaminato e Polilaminato. Il più delle volte ti capitano capsule pessime, sottilissime, che hanno lo stesso potenziale letale di un Boker Magnum 02RB3 (qui); diciamola tutta, ne faremmo davvero a meno!

L’impressione è che sono sì facili da approcciare ma proprio qui rimani fregato. Il coltellino del cavatappi gli scivola intorno velocemente ma la dentatura spesso ne trattiene qualche briciola rendendo la capsula praticamente un’arma letale anche solo sfiorandola con le dita. Bisogna metterci molta attenzione, e 1 a 10 un paio di dita rischi sempre di rimettercele. (A.D.)

La capsula in stagno, un po’ amarcord e un po’ tradizione. Con i moderni impianti e materiali selezionati si ottiene di sovente un prodotto capace di adattarsi perfettamente al collo di ogni bottiglia. Nelle fasi di verniciatura, serigrafia e timbratura, vengono poi eseguiti i più svariati lavori di decoro e personalizzazione indispensabili per completare l’abbigliamento delle bottiglie destinate a contenere vini di grande pregio riservate alla clientela più attenta ed esigente.

Risultano un po’ “pesanti” da aprire e non sempre il taglio è lineare e scorrevole tant’è che spesso capita di doverci ritornare ancora una volta su per effettuare un taglio più decisivo e funzionale. Meglio procurarsi un cavatappi veramente dei migliori o una levacapsule piuttosto efficace. (A.D.)

Finger food a 5 stelle & Champagne Pommery

25 luglio 2012

Scrivi finger food ed è capace che ti ritrovi di tutto passato per tale, dai più comuni salatini ai bocconcini di salsicce su stuzzicadenti, o formaggi e olive (sempre su stuzzicadenti), ali di pollo, involtini primavera, quiche, patate fritte, vol au vent e arancini di riso. Ci sono poi altri cibi che possono talvolta essere considerati finger food, la pizza ad esempio, o gli hot dog, la frutta servita in un certo modo ma anche il pane. E se provassimo a pensare che c’è ancora di meglio…

Davvero interressante e particolare la proposta della Bruschetta liquida di Annie Feolde & Italo Bassi dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze assaggiata due settimane fa durante l’evento Pommery qui al Capri Palace. E’ un’idea sicuramente originale per riproporre uno dei fingers più comuni della nostra cucina italiana; da godere tutto in un sorso, magari ad occhi chiusi. Qui ci vuole una bollicina leggera e il Summertime Blanc de Blancs di Pommery fa la sua figura. 🙂

Ancora dal cilindro di Annie Feolde & Italo Bassi dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze ecco il Bon Bon con basilico e cetriolo. Uno stuzzichino… quasi dissetante, sicuramente di buona intensità balsamica, una overture pregevolissima dove un assaggino tira l’altro. E non bastano fiumi dello splendido Les Clos Pompadour…

E sempre dalle cucine del Tristellato fiorentino di via Ghibellina ecco il Croccantino di Pollo con yogurt liofilizzato. Qui è la tradizione a tirare le fila di questo gustoso appetizer nobilitato per l’occasione da una tecnica esecutiva minuziosa e centrata al milligrammo. Saporitissimo! Aah, quel Gran Cru Millésimé del ’90… 

Non si può che chiudere col Gelato alla Pastiera Napoletana di Andrea Migliaccio. E’ spesso (e richiestissimo) tra i nostri predessert a L’Olivo. Servito così va via in appena un paio di bocconi, ma non certo il sapore e la memoria, che restano molto, molto a lungo. Provare per credere (e c’è ancora il Gran Cru del ’90 nel bicchiere!).

Le foto dei piatti sono di Umberto D’aniello © 2012.

La vie en rosé, l’articolo su FOOD&BEVERAGE

22 luglio 2012

Sulla rivista Food&Beverage di Luglio-Agosto è appena stato pubblicato un articolo a cura di Paolo Becarelli sui vini rosati italiani, dove, tra le altre cose, viene sottolineata la nostra proposta in carta al Capri Palace. Questo il mio breve pensiero sull’argomento che come ormai saprete mi sta particolarmente a cuore…

[…] Se alcuni anni fa i rosé erano spesso dei completamenti di gamma o realizzati per ovviare a problemi di vendemmie di rossi, ora hanno cambiato decisamente passo. Ne è certo anche Angelo Di Costanzo, sommelier del Capri Palace di Anacapri, hotel che ospita ristoranti raffinati come L’Olivo e Il Riccio. “Chi si avvicina a un vino rosato oggi riesce finalmente a cogliere il senso di bere rosa. Ossia, la leggerezza e la piacevolezza, ma trova anche il piacere di scoprire rosati diversi, come quelli d’annata o di piccoli produttori. Senza contare le nuove possibilità di abbinamento. Il rosato è infatti un vino molto versatile che lascia infinite possibilità sia a chi lo ordina, sia a chi lo propone”, spiega Di Costanzo che solo di rosati in carta ne ha ben 36, oltre a una trentina di referenze fra bollicine francesi e italiane.

“Poiché l’hotel è in Campania abbiamo un occhio di riguardo per i rosati di Campi Flegrei, Irpinia e Cilento, ma non mancano etichette sia delle zone più vocate, sia di altre regioni italiane. Ci sono anche i rosati d’annata: vini particolari, richiesti soprattutto da intenditori perché rinunciano a un po’ della tipica freschezza dei vini giovani per acquistare maggiore complessità. […]

Tratto da FOOD&BEVERAGE di Luglio-Agosto 2012, pag. 52.

Capsule in polilaminato, maneggiare con cura!

18 luglio 2012

Iersera, ancora una volta, mi sono quasi troncato due dita. Ok, è conclamato che lo sprovveduto sono io, probabilmente anche un poco incapace; aiutatemi allora a capire se e come si può guarire dalla dabbenaggine acuta che mi assale, pare, ogni qualvolta mi capita tra le mani una bottiglia di vino con una maledetta capsula in polilaminato.

Sempre di più le bottiglie di vino che ne hanno una e generalmente anche chi produce distillati, liquore, olio, aceto, birra comincia a preferirle. E’ notorio che esistono essenzialmente due tipologie di capsule: quelle in pvc – sono queste capsule termoretraibili, utilizzate molto frequentemente – e in polilaminato – talvolta anche capsuloni, come quelli applicati alle bottiglie di vino frizzante o spumante – che sembrano prendere sempre più mercato negli ultimi tempi poiché offrono, oltre a quell’effetto stagno che piace tanto a molti produttori, anche e soprattutto una certa facilità di personalizzazione; su queste infatti, più che su quelle in pvc, si possono ricreare diciture e loghi aziendali con stampe a caldo e con colori in tonalità varie: lucide e mattate, addirittura perlate; e più sono sottili più sono belle a vedersi, sinuose quasi.

Rimane però quella sola, implacabile, fottutissima controindicazione: sono taglienti un accidenti! Quindi, cari sommelier, che ne dite, ce lo facciamo un pensierino (al guanto d’acciaio)?

E’ lei, è Annie Féolde, il mito a portata di mano

16 luglio 2012

La storia, il ”blasone enogastronomico”, forse un po’ anche il look, possono pesare tanto, creare pregiudizio; ti aspetti infatti una donna cui l’anticipa il “personaggio”, apparentemente un po’ distante, per qualcuno con la puzza sotto il naso, la grande chef scesa a Capri a fare passerella, riverita dalla grande Maison e dalla stampa tutta. E’ pur sempre, non dimentichiamocelo, l’artefice del “3 stelle Michelin” italiano più conosciuto al mondo. 

E invece no. Che straordinaria persona è invece Annie Féolde, che esempio di umiltà e disponibilità professionale. L’abbiamo capito subito, quando ce la siamo ritrovata, così d’emblé, all’ingresso delle cucine dell’albergo, con al suo fianco il fidato Italo Bassi intenti a scaricare i prodotti che han voluto portarsi dietro dalla Toscana per preparare i piatti della serata dell’indomani. Era un po’ provata Annie, accaldata ma con un bel sorriso smagliante stampato in faccia, e quando io le accenno un inchino ed il baciamano d’ordinanza, lei quasi vorrebbe darmi un pizzicotto per l’eccessiva riverenza: benvenuta al Capri Palace, Madame La Cuisine! Risata generale, abbiamo rotto gli indugi.

Questo giorno era scritto che dovesse arrivare, prima o poi; sin da quando, verso fine anni novanta m’era scattata la fissa del vino e della cucina. Lei, proprio lei e Giorgio Pinchiorri (G i o r g i o  P i n c h i o r r i!) i primi riferimenti in assoluto, il primo ristorante da non perdere negli anni a venire, il primo libro di cucina comprato (nel 2004), divorato ogni giorno con quelle splendide ricette tutte da provare a replicare, magari vicine anche lontanamente! Poi il fascino del successo ogni anno sempre più fragoroso, con l’Enoteca Pinchiorri che assurge a icona assoluta ed un fatto quantomeno curioso, incredibile ma vero: lei francese, protagonista assoluta della scena mondiale della cucina made in Italy e lui, italiano, tra i più stimati e corteggiati sommelier del pianeta e grandissimo conoscitore e collezionista di bottiglie francesi (e non solo). Insomma, tanta roba pe’ i posteri.

Ho cercato così di cogliere l’occasione per farci quattro chiacchiere, almeno con lei, raccogliere di persona un po’ di riscontri storici, di esperienze personali, di vedute, prospettive. E Annie Feolde, garbatissima e disponibile, si racconta; e non basta certo un post, ma vanno bene queste poche righe per raccontarvi almeno l’emozione e il piacere dell’incontro.

Ci ha raccontato del suo arrivo a Firenze nel 1969, in verità per studiare l’italiano non certo per cucinare, ma conoscere Giorgio qualche tempo dopo le ha completamente stravolto i progetti di vita. Così nel ’72, con lui appena diplomato sommelier rilevano l’antica cantina del palazzo lì in via Ghibellina, dove cominciano come enoteca e dove lentamente, ma in crescendo, si vira su qualcosa che ci mette davvero poco a diventare un riferimento assoluto per l’intera città. I primi piatti cucinati arrivano nel ’74, con l’aiuto prezioso della madre di Giorgio in cucina, poi gli antipasti e i dolci a cura proprio di Annie. “Tutto secondo il proprio istinto, da perfetta autodidatta, con orgoglio e senza pregiudizio, traendo qua e là ispirazioni ma con il chiodo fisso della primaria qualità degli ingredienti, made in Italy e toscani anzitutto”.

Sembra che fare di testa propria allora sia stato un’intuizione decisiva, eh sì perché di là c’erano – ci sono – le origini francesi, la nouvelle cuisine che impazzava, mentre di qua una terra di adozione straordinaria, come la sua Francia ricca di storia ma soprattutto di una cucina tradizionale, soprattutto quella povera, ancora vivissima; quella cucina popolare che Oltralpe già la rivoluzione francese aveva praticamente spazzato via d’un colpo. Un eccidio continuato negli anni, si pensi ad esempio a quell’elemento che da sempre divide i due paesi in cucina: il burro di là, l’olio extravergine d’oliva di qua. Abbastanza facile scegliere, no?, sussurra. “E poi ci sono le verdure, le mille ricette sul tema, il pomodoro, l’Aceto Balsamico Tradizionale, il Parmigiano Reggiano”. Insomma, sulla varietà e qualità della materia prima non c’è storia, anche se bisogna sempre tenere bene a mente, sottolinea, che la scuola francese rimane un caposaldo per tecnica ed esecuzione.

Tanto curiosa M.me Féolde che l’indomani ci ha onorato della sua presenza durante tutto il briefing di pre-servizio serale: aveva piacere di stare con noi, condividere sino in fondo l’evento messo su in collaborazione con la Maison Vranken-Pommery (vedi qui) di cui è oggi Ambasciatrice in cucina. E come è stato splendido, a fine serata, fare le due del mattino in terrazza a continuare la bella chiacchierata, riprendere dove s’era interrotto. E quando s’è alzata per andar via, visibilmente stanca, c’ha tenuto a salutare e stringere le mani – uno ad uno – a tutto lo staff del ristorante riunito lì per un brindisi finale. Ineccepibile, Annie Féolde.

Ecco, Signora Anniebasta francesismi, a questo punto-, come si fa a rimanere sulla cresta dell’onda per 40 anni suonati? “E’ semplice, basta non fermarsi mai e cercare sempre di migliorare, non adagiarsi. C’è sempre qualcosa di meglio che si può dare agli ospiti. Ogni giorno”.

Enoteca Pinchiorri
Via Ghibellina 87 50122 Firenze
Tel.+39 055 242757 – +39 055 242777
Fax +39 055 244983

www.enotecapinchiorri.com –
ristorante@enotecapinchiorri.com

Alcuni riconoscimenti tra i più significativi
Dal 2004 ad oggi: Tre Stelle, Guida Michelin.
2004: Primo Ristorante d’Italia, secondo le sette principali Guide ai Ristoranti.
2003: Annie Féolde, Five Star Diamond Award American Academy of Hospitality Sciences.
1995-2003: Due Stelle, Guida Michelin.
1993-1994:Tre Stelle, Guida Michelin.
1992: Primo Ristorante d’Italia, secondo le sette Guide ai Ristoranti principali.
1987: Annie Féolde, Personnalitè de l’Année Distinction Internationale, Paris.
1986: Giorgio Pinchiorri viene nominato Cavaliere all’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.
1983-1992: Due Stelle, Guida Michelin.
1983: ingresso in Relais e Chateaux e Tradition et Qualité.
1982: Una Stella, Guida Michelin.

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Bollicine in tavola a tutto pasto, quattro buone idee che si rifanno ai piatti di Ugo Alciati…

12 luglio 2012

Quattro piatti di Ugo Alciati del Ristorante Guido di Pollenzo che mi piace “rivedere” in abbinamento a 4 bollicine che mi hanno particolarmente colpito in queste ultime settimane e che sento di riproporvi in assaggio. Un gioco di alleggerimento e freschezza sempre opportuno in estate pur senza dimenticare però la tradizione, sempre ben interpretata dal talento di Ugo.

L’Aperitivo. Fingersandwich, la salsiccia fresca. Un omaggio alla sua terra che però vedo bene con una bollicina del profondo sud molto invitante, profumata e leggiadra, qual è il Brut Rosé di Rosa del Golfo da negroamaro e chardonnay: naso delicato, che sa di crosta di pane, petali di rosa, lampone e mora. In bocca scorre via che è un piacere, starci dietro manco a dirlo!

L’Antipasto. Filetto crudo di Vitella Bianca piemontese, alici di Cetara e Parmigiano Reggiano 36 mesi, con Abissi 2009 di Bisson; bollicina suggestiva e puntuta, dal naso curioso, dapprima giocato su note di frutta secca e spezie dolci, poi invece marine, iodate, con un timbro salmastro largamente gradevole, molto particolare e avvincente. Il sorso è asciutto, di spessore, chiede spazio e se lo prende, è vivace, fresco e di buona persistenza, assai sapido.

Il secondo. “Caldo freddo” di Faraona con riduzione al marsala. Mi è subito saltato in mente lo splendido Champagne Cuvée Millésimé 2000 di Alain Thienot, forse nuovo ai più ma senz’altro un piccolo gioiello tra le cosiddette Maison d’Aujourd’hui; 60% chardonnay dalla Cote des Blancs ed il restante 40% pinot noir da Montaigne de Reims. Vino di grande equilibrio degustativo, dal naso ricco, polputo e verticale e dal sorso maturo e avvolgente. Insomma, una grande cuvée da consumare a tutto pasto!

Il dessert. Gelato al fiordilatte con pomodori canditi e basilico fritto. Fortissimamente territorio con il gelato più buono mai mangiato (leggi anche qui) accompagnato per l’occasione da spicchi di pomodorino canditi; così, di slancio, l’accostamento all’ottimo e spumeggiante Asti Galarej 2010 di Fontanafredda. Dolci note moscate messe in riga da un palato sì zuccherino ma mai banale. Controcorrente e fortunato.

Le foto dei piatti sono di Umberto D’aniello © 2012.

Ogni “scarrafone” è bello a mamma soja…

10 luglio 2012

“Guardi, non perché voglia insistere, e nemmeno mi interessa cosa fanno gli altri, ma questo è il nostro capolavoro! Nasce dalla selezione dei migliori grappoli, ci portiamo in cantina appena 30 quintali, tutti raccolti a mano e scelti acino per acino, si potrebbe dire; le nostre vigne poi sono uno spettacolo, di 30 anni e collocate nella zona più vocata del territorio, a circa 300 (!) metri di altitudine con esposizione piena e aperta a sud, dove i terreni sono terribilmente sani e di natura particolarmente adatta al varietale”. 

“Ci facciamo una vinificazione attenta, coscienziosa, senza lieviti selezionati, a temperatura di cantina e senza intervento alcuno con tecnologia del freddo o chimica di sintesi o altro; i travasi sono fatti per caduta, senza forzature meccaniche e ci tengo a precisare che non procediamo a nessun tipo di trattamento, né per chiarificare o stabilizzare. E’ tutto naturale, per dirla! E ci tengo ad aggiungere ancora che in nessuna fase di lavorazione viene utilizzata solforosa o qualsiasi tipo di conservante. Insomma, come viene qua da noi il raboso, mi creda, da nessuna altra parte!” 

In effetti sì, un raboso così mi mancava proprio…

Professione Sommelier, a colpi di sciabola!

5 luglio 2012

Si deve la tradizione a Frate Vincenzo Ferreri che nasce a Valencia, in Spagna, nel 1350 e muore a Vannes, in Bretagna, nel 1419. Una leggenda narra che Dio lo pregò di fare un giro fra i vigneti della Francia e il futuro Santo, degustando l’ottimo vino prodotto in quei luoghi, dimenticò la via per il Paradiso. Per punire la sua distrazione, Dio lo trasformò in una statua.

 

Così San Vincenzo è divenuto il patrono dei vignaioli: viene spesso raffigurato con in mano un grappolo d’uva e con la palma del martirio. Egli viene invocato per la protezione dei campi, delle vigne e dei vignaioli; la ricorrenza cade il 5 di aprile. In tutti i paesi della provincia della Champagne, in particolar modo intorno a Reims, c’è una “Casa delle Feste”: qui ogni anno, nella notte del 5 aprile, tutto il paese festeggia banchettando fino all’alba, con canti e balli. A colpi di sciabola. A dare continuità a questa tradizione ci hanno pensato un gruppo di amici estimatori dello Champagne che nel 1986 decide di dar vita a un club di sciabolatori, La Confrérie du Sabre d’Or, dal 2005 presente con una sua ambasciata anche in Italia.

Io, frattanto, comincio a studiare. Poi si vede. E grazie mille a Stefano!

Brunello di Montalcino Riserva Soldera ’99 Case Basse, o di un bicchiere come elogio all’infinito

2 luglio 2012

Da sempre Gianfranco Soldera e i suoi vini dividono appassionati e critici suscitando, nel bene e nel male, passioni e tensioni più di ogni altro produttore lì a Montalcino.

E’ difficile farsene una idea precisa su quale sia la posizione (o le posizioni) definitive sugli argomenti perennemente in discussione – filosofia, centralità delle colture, esposizioni, naturalità, tipicità ecc… -, e non v’è argomento tra questi che non sia stato messo in cassaforte o, per contro, alla berlina ogni qualvolta si apre una bottiglia di Brunello Riserva Soldera di Case Basse.

Tenendo tra le dita questo ’99 ho ripesato all’infinito e a quanto questo concetto abbia profondamente diviso, lacerato le coscienze di molti fini pensatori della storia, antica e contemporanea. Il suo rifiuto ha origini lontane e nasce dal fatto che già i greci ritenevano conoscibile solo ciò che è determinato, finito; tutto ciò che è indeterminato, infinito e perciò inconoscibile è quindi da rifiutare. Ecco.

Così in molti dicono di conoscere Case Basse e Gianfranco Soldera abbastanza per averne compreso appieno ogni segreto e proposta ideale, tanto dal poter chiaramente decidere da che parte stare. Loro di là, lui di qua. Personalmente non ho ancora deciso del tutto, nonostante nel febbraio dell’anno scorso (leggi qui il reportage) sono andato a trovarlo e cercato di capirci qualcosa, faccia a faccia, camminandoci assieme le vigne e rubando pezzi di storia dalle sue botti. Ognuna con una propria. Di certo vado maturando una convinzione: i suoi vini “vivono” come pochi altri e qualcosa a noi ancora oscuro li rende mutevoli, talvolta imperfetti ma comunque sibillini, altre voltre semplicemente inarrivabili. Infiniti, appunto.

Certo, avrò beccato una bottiglia eccezionale, ma questo ’99 è stata una rivelazione nel vero senso della parola, una delle esperienze degustative più emozionanti di sempre. Un vino straordinario, con un colore a tratti ancora porpora fissato nel tempo; un corollario di sensazioni varietali che poche bottiglie ilcinesi sanno regalare, ancor mai con una tale intensità ed integrità espressiva; asciutto e profondo, la ricchezza espressiva si tramuta in arma letale quando il vino arriva al palato: succoso, dolce, avvolgente, caldo e nerboruto, lunghissimo. Infinito, appunto!

L’Olivo DiVino, il 13 Luglio il Gran Galà Pommery

1 luglio 2012

“Le avevo lasciato ancora due dita di Champagne, perché potesse bagnarsi le labbra, a piccoli sorsi, come amava fare dopo aver fatto l’amore”. (A. D.)

L’Olivo DiVino

Storie di vino e di alta gastronomia nello stile de La Dolce Vite

Venerdì 13 Luglio ancora un evento imperdibile della stagione 2012 di appuntamenti enogastronomici de La Dolce Vite, la cantina del Capri Palace Hotel & Spa di Anacapri che propone un ciclo di incontri imperdibili dedicati ai grandi nomi della cucina e dell’enologia nazionale ed internazionale. Incontri e confronti tra vignaioli e grandi chef. Un format esclusivo che inizia negli ambienti suggestivi de La Dolce Vite e prosegue poi a L’Olivo, il ristorante Due Stelle Michelin del Capri Palace.

In quest’occasione, l’evento avrà inizio alle ore 20.00 con un aperitivo di benvenuto sulla terrazza panoramica del Bistrò Ragù con, in degustazione, l’esclusivo Clos de Pompadour della maison di Reims. Durante la cena gourmet invece, realizzata a quattro mani dall’Executive Chef Andrea Migliaccio ed Annie Feolde, chef e Patronne della rinomata Enoteca Pinchiorri di Firenze – Tre Stelle Michelin -, verranno proposti il Cuvée Louise 1999 e 1990 ed i Grand Cru Millésimé 1999 e 1990. Questo nel dettaglio il menu:

Aperitivo: Ostriche Perla Nera & Jamón Ibérico de Bellota, Bruschetta liquida, Croccantino di pollo con yogurt liofilizzato, Bon Bon basilico e cetrioli

(Annie Féolde e Andrea Migliaccio)

Con Champagne Les Clos Pompadour

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Gamberetti con crema di cocco, asparagi di mare, alici alla colatura e farfalle (Andrea Migliaccio)

Con Champagne Cuvée Louise 1999

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Risotto con nervetti di vitella, scampi e liquirizia (Annie Féolde)

Con Champagne Grand Cru Millésimé 1999

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Triglia con ricotta affumicata, olive, broccoli al tartufo e crema di cavolfiori alla vaniglia (Andrea Migliaccio)

Con Champagne Cuvée Louise 1990

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Pane, olio, sale e cioccolato (Annie Féolde)

Con Champagne Grand Cru Millésimé 1990

 
Per informazioni e prenotazioni:
Ristorante L’Olivo – Due Stelle Michelin
Capri Palace Hotel & Spa
Via Capodimonte 14 Anacapri
Tel. 081 978 0560
olivo@capripalace.com
www.capripalace.com
 

Marlborough, Sauvignon 2011 Cloudy Bay (!) (!!)

30 giugno 2012

Di una bottiglia vorremmo sapere tutto, del terreno da dove nasce, delle piante, dei chicchi e dell’ambiente dove maturano le uve. Per non parlare di quanto sia indispensabile sapere cosa accade in cantina: inoculi, fermentazioni, macerazioni (anche quelle più spinte, quando ci sono), chimica e assemblaggi, affinamenti e passaggi vari.

E magari che pure l’etichetta sia gradita, meglio se non troppo appariscente, kitsch, però nemmeno troppo desueta. E ci crediamo tanto, talmente tanto che proviamo a starci dietro a tutto questo pur di raccontare le cose come stanno. Ci piace, e come.

In verità però – suvvia, diciamocelo -, capita talvolta che non ce ne può fregar di meno. E quasi sempre a ragione, come in questo caso. Eh sì, perché vale tanto sapere dell’insolita vendemmia in Marzo, della maniacale cura della forma di allevamento e della meticolosa raccolta da vigne vecchie 20 anni, della cantina iper tecnologica e anche dell’idea che molti hanno dei vini di questo pezzo di nuovo mondo – che in parte è anche la mia, cioè vini “costruiti” e certe volte anche molto poco “significativi” da un punto di vista “territoriale”; provate però a mettere nel bicchiere questo sauvignon neozelandese…

New Zealand, Cloudy Bay

Marlborough dove, vi chiederete? Nuova Zelanda, può essere? Beh, il sauvignon di Cloudy Bay è un gran bel bere, piaccia o no ha una timbrica impressionante, una spinta gustativa sferzante e pure avvenente anche per i palati meno allenati.

Ha colore paglierino pallido ma uno spettro olfattivo incredibilmente variopinto, che va dall’impronta balsamica al frutto croccante con la stessa velocità con la quale graffia il palato e scorre via, imprendibile, in bocca. Gratificante. Profuma (come nessun altro vino mai così espressivo) di frutto della passione, di kumquat, burro di nocciole e bergamotto, ma anche di foglia di pomodoro e mentuccia. Il sapore è citrino e sapido, sferzante come detto, coinvolgente e dissetante, insolito e rinfrancante.

Costruito? Oggi mi va bene così, desideravo proprio bere un vino fatto apposta per me, per questo momento di ricercata spensieratezza!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Intervallo. L’Olivo, vista mare al tramonto

24 giugno 2012

Lui, lei e il “tappo”, questo sconosciuto…

24 giugno 2012

Esterno sera, quel tavolo là in prima fila, per quattro. Si parla del più e del meno per rompere il ghiaccio, cose del tipo “come andata la giornata sull’isola?” oppure “avete già fatto un giro dell’isola?”. Poi arriva il momento di servirgli il vino…

“Dovete sapere che l’anno scorso siamo stati a cena in un ristorante importante ad Ischia”. Ci servirono un rosso, uno buono del 2003, di quelli toscani, ma sapeva brutto. Così ce ne servirono una seconda bottiglia, ma anche quella aveva un sapore strano, come di legno, di sughero. Sapete quando si dice che sa di tappo? Ecco, proprio quello”.

“Bene, lo facemmo subito notare e alla fine rinunciammo… e prendemmo un bianco locale d’Ischia. Del 2010. Quello sì che era buono! Poi venne il direttore dell’albergo assieme con il direttore di questo ristorante di Ischia: ci fecero tante scuse e ci dissero che effettivamente quell’annata aveva avuto dei problemi, che molti vini di quell’anno uscivano di tappo. Era l’annata che non era uscita bene secondo me. E loro ce lo confermarono. A volte capitano annate che i vini sanno quasi tutti di tappo.

“Scusate, Angelo, che annata è questo Taurasi che ci avete consigliato?”.

“Taurasi Riserva Radici, Signora, del 2003! Incrociamo le dita…”.

Interview with Angelo Di Costanzo, Head Sommelier of the prestigious Capri Palace Hotel

12 giugno 2012

Qualche settimana fa ho rilasciato questa intervista al sito “Cellar Tours” che si occupa, tra le altre cose, di organizzare tours esclusivi in tutto il mondo per i grandi appassionati del vino. Se vi va dategli una occhiata…

The youngest of 7 brothers, Angelo was born in Pozzuoli in 1975, he attended hotel school and, after working in several local restaurants, he became a certified AIS sommelier in 2001.

In 2008 he was awarded “Best Sommelier in Campania” (leggi qui) and “Silver Pin – Charme Sommelier of Italy”. From 2002 to 2009, he run a great wine shop in Pozzuoli, L’Arcante, which is also the name of his fantastic food and wine blog, L´Arcante.

Sipping a glass of Falanghina dei Campi Flegrei Cruna De Lago 2007*, we began our chat… continua a leggerla su cellartours.com 🙂

*la foto dell’ultima bottiglia di Cruna DeLago dei Di Meo è di Sara Marte (che linko) ripresa dal blog di Luciano Pignataro.

Montalcino, Bramante 2005 Podere Sanlorenzo, o di quando le trasparenze si fanno finissima luce

9 giugno 2012

L’aquilotto ha lasciato il nido, adesso vola determinato per le valli dell’Orcia. Il suo nome compare ormai ovunque si parli di futuro del sangiovese e di quanto di nuovo e di buono c’è a Montalcino.

Blogs, riviste on line, guide, tutti, nel tempo hanno assaporato quanto siano espressivi, autentici, reali i vini di Luciano Cilofi¤. E tutti (!) hanno avuto le conferme che cercavano dagli assaggi ripetuti nel tempo: a Sanlorenzo vengon fuori dei gran vini!

Il Bramante 2005 ha maturato un colore granato dal fascino antico, con tutte le trasparenze del Brunello più tradizionale di Montalcino: è luminoso, invitante, concede un variegato ventaglio olfattivo che frattanto si è fatto fine, ancora più sottile ed elegante dei primi assaggi, che snocciola frutto e richiama la terra ad ogni sorso. Ha sapore asciutto il Brunello di Luciano, è austero, retto, distante da certi cliché eppure succoso, nerboruto, fresco, quasi dissetante. Sarebbe una bottiglia da conservare nel tempo, gelosamente, per la memoria e per la storia, memoria e storia che vogliono però rinnovarsi troppo in fretta. A ragione.

Saint Estèphe, Cos d’Estournel 2006

7 giugno 2012

Che il 2009 sia stata un’annata stratosferica a Bordeaux è ben noto, tant’è che al momento, con o senza “en primeur”, molte etichette – anche non premier cru -, sono praticamente inavvicinabili.

Volendo, col portafogli comunque bello gonfio, ci si può “consolare” bevendo ancora alcuni duemilasei niente male. Così questo Saint Estèphe potrebbe fare al caso vostro, per chi ama il cabernet sauvignon, con il merlot e un poco di franc. Quelle cose lì insomma. Non per niente, dopo un po’ di anni in chiaroscuro, Cos d’Estournel va costantemente aumentando le sue già ambite quotazioni di mercato e, per quanto nel bicchiere, aggiungerei, non a caso.

Il 2006 è un rosso di gran stoffa, ha forza ma anche tanta finezza, un corpo solido eppure delicato e soave, per quanto possa essere tale un rosso di questa estrazione: ha spina dorsale ma anche tanta frutta in primo piano. Il colore è inchiostro, assai fitto e il naso subito molto franco, verticale, ampio: visciola e mirtillo in primissimo piano ma anche quelle note “vegetali” – qui molto sottili e fini – tipicamente varietali. Il sorso è asciutto, intenso e teso e si distende con autorevolezza regalando ancora frutta polputa mentre sul finale di bocca chiude con una sferzata quasi metallica. Un piccolo fuoriclasse.

Viaggio in Sud Africa, questa è la storia

4 giugno 2012

L’amico Gerardo Vernazzaro, compagno di tante bevute oltre che bravo enologo a Cantine Astroni – e curatore di una rubrica su questo blog -, è stato in Sud Africa per capire cosa succede da quelle parti. Questa è la storia…

Con una tradizione storica di circa 350 anni, in Sud Africa si produceva vino molto prima che in California o in Australia e, tra l’altro, il paese è oggi l’ottavo produttore di vino del mondo. Nonostante il paese mostri un lieve ritardo rispetto agli altri produttori vinicoli del mondo, principalmente dovuto agli avvenimenti politici dello scorso secolo, il Sud Africa si propone al mondo con interessanti vini bianchi e rossi e le premesse per un rapido e importante sviluppo enologico di qualità fanno ben sperare per la produzione futura.

La produzione vinicola è ancora fortemente caratterizzata dalle cooperative, tuttavia si sta registrando, a partire dalla metà degli anni ‘80, un crescente numero di nuovi produttori vinicoli che puntano essenzialmente sui vini di qualità. La zona dove principalmente si produce gran parte del vino è il Capo di Buona Speranza, nella parte più a sud, vicino a Città del Capo.

La storia dell’enologia ha inizio verso la metà del 1600 ad opera di quello che è da tutti considerato come il padre della vitivinicoltura sudafricana: Jan van Riebeeck. Nell’intento di realizzare un punto di ristoro e di sosta per le navi della Compagnia delle Indie Olandesi in rotta verso i paesi dell’estremo oriente, questo giovane chirurgo olandese, che non aveva nessuna nozione né di viticoltura né di pratiche enologiche, intuì tuttavia la necessità di fare trovare vino e distillati agli equipaggi in sosta a Capo di Buona Speranza che avrebbero senz’altro gradito.

Fece quindi arrivare dalla Francia – non è certa l’esatta zona di origine ma con molta probabilità si trattava di chenin blanc e moscato d’Alessandria – alcune viti da piantare e, finalmente, dopo diversi tentativi andati male a causa di incendi appiccati ai vigneti da parte delle popolazioni locali che si aggiunsero agli assalti dei famelici passeri ghiotti di chicchi d’uva, nel 1659 si registra la prima produzione di vino in Sud Africa. Nel diario di Jan van Riebeeck, nella data del 2 febbraio 1659, si trova scritto: «oggi, sia lodato il Signore, per la prima volta abbiamo fatto vino con le uve del Capo».

L’esultanza era certamente comprensibile, tuttavia un cronista dell’epoca ricorda che il vino era incredibilmente astringente, buono solamente per “irritare l’intestino”; non da ultimo, il vino spedito in Olanda veniva spesso rifiutato e rimandato al mittente. Nonostante lo scarso favore e, a quanto pare, i poco incoraggianti risultati dei primi esperimenti, la strada per l’enologia sudafricana era stata tracciata.

Di li a poco, accaddero due avvenimenti significativi che diedero particolare impulso all’enologia locale: il nuovo governatore Simon van der Stel, che arrivò in Sud Africa nel 1679, contrariato dalla forte acidità dei vini locali, decise di fondare nel 1685 la più prestigiosa cantina di tutta la storia del paese: Constantia, la cui fama negli anni arrivò persino a primeggiare con certi vini francesi dell’epoca e con i già celebrati Tokaji ungheresi. Mentre un altro avvenimento che contribuì al miglioramento della qualità del vino in Sud Africa fu l’arrivo, successivamente alla fondazione della cantina Constantia, di circa 200 rifugiati protestanti ugonotti francesi, in fuga dalle persecuzioni religiose dopo la revoca dell’Editto di Nantes, che portarono con loro l’esperienza, senz’altro provvidenziale, delle pratiche enologiche francesi.

I vini di Constantia rappresentarono un caso piuttosto singolare, in quanto erano gli unici del cosiddetto “Nuovo Mondo” a primeggiare, se non a superare, i vini prodotti in Europa e per molti anni preferito dalle Corti Reali d’Europa; lo stesso Napoleone infatti, in esilio all’isola di Sant’Elena, ordinava i vini di Constantia per alleviare il suo tormentoso destino. Erano vini dolci e prodotti nelle versioni rosso e bianco, quest’ultimo più pregiato e ricercato e prodotto perlopiù con Muscat à petit grains a cui veniva probabilmente aggiunto il moscato d’Alessandria e il pontac, un’uva a bacca rossa le cui origini non sono molto certe.

Il declino cominciò dopo l’occupazione delle truppe britanniche, in seguito alle guerre napoleoniche, oltre alla generale debacle di tutto il comparto vinicolo a partire dal 1861. E a rendere ancor più difficoltosa la decadente condizione, come in altri paesi produttori di vino dell’epoca, nel 1886 fece la sua comparsa la temibile fillossera che devastò progressivamente i vigneti del paese. Gli effetti post fillossera si fecero sentire per circa 20 anni e all’inizio del ‘900 i produttori locali ripresero a piantare vigneti, prevalentemente con uva cinsaut (o cinsault), cercando di ridare slancio all’enologia del paese che di fatto, per contro, diede luogo ad una sovrapproduzione che portò nuovamente ad una crisi economica dell’industria enologica del paese. Questa crisi finanziaria portò nel 1918 alla fondazione di una cooperativa di produttori sudafricani, la KWV – Koöperatiewe Wijnbouwers Vereeniging van Zuid Africa (Associazione Cooperativa dei Viticoltori del Sud Africa). 

Lo scopo di questa cooperativa era di fissare dei limiti di produzione, con lo scopo di evitare sovrapproduzioni, e di conseguenza i prezzi minimi del vino. Divenne in breve tempo un potente organismo e nessun vino poteva essere prodotto, venduto o importato in Sud Africa se non per mezzo del KWV. Nonostante questa cooperativa sia ancora attiva e controlli circa il 25% delle esportazioni dei distillati e del vino sudafricano, oggi ha perso molto del suo dominio e attualmente è ristrutturata come un gruppo di compagnie private. Nonostante si debba riconoscere il merito di questa organizzazione per avere contribuito alla stabilizzazione dei prezzi così come alla regolamentazione della produzione vinicola, KWV ha anche lasciato poco spazio alla creatività e all’iniziativa personale dei produttori, determinando, di fatto, un ritardo nelle tecnologie e nella qualità dei vini, che invece negli altri paesi stava procedendo in modo spedito e determinante. Il cambiamento in favore della qualità è iniziato verso la metà degli anni ’80, quando si è assistito ad un cambiamento radicale dell’industria enologica in favore dei piccoli produttori rispetto a quello che era invece la norma fino a quei tempi, cioè le cooperative. 

Le zone di produzione: il centro della produzione vinicola è circoscritto nel cosiddetto “Capo”, nella parte più a sud del paese, in prossimità di Città del Capo e del Capo di Buona Speranza. Le regioni di principale interesse sono certamente Paarl e Stellenbosch, dove si produce anche la maggiore quantità di vino del paese. Qui si producono sia vini bianchi che vini rossi e, non da ultimo, vini fortificati e metodo classico (Cap Classique). Il clima è favorito dalla vicinanza con i due oceani, Atlantico e Indiano, condizioni che consentono la produzione di vini di qualità e, non a caso, i migliori vini del Sud Africa provengono proprio da queste zone. 

La zona di produzione più antica rimane Constantia, nel distretto di Capo di Buona Speranza; un luogo che beneficia sia di un clima fresco sia della vicinanza dell’oceano Atlantico. La zona è famosa per il suo celebre vino dolce, ma si producono anche vini fermi da uve chardonnay e sauvignon blanc, oltre a vini rossi da cabernet sauvignon, cabernet franc e merlot. A circa 45 chilometri ad est di Città del Capo, si trova un’altra celebre zona vinicola del paese, Stellenbosch, prestigiosa città universitaria. Tradizionalmente viene considerata fra le più antiche zone di produzione del paese, dopo Constantia, oltre che fra le più importanti, sia per produzione che per qualità. Il clima di questa zona è piuttosto temperato dalle correnti provenienti dall’oceano Atlantico e le uve coltivate sono il cabernet sauvignon, il merlot, il syrah e il pinotage (pinot nero x cinsault). In questa zona si producono inoltre anche buoni vini fortificati nello stile “Porto” e vini bianchi prodotti con uve chardonnay e sauvignon blanc. Ancora più a nord di Stellenbosch, c’è Paarl. 

Qui oltre a vini bianchi e rossi, ci sono ottime espressioni anche di vini liquorosi, spumanti e brandy. In particolare i vini fortificati sono prodotti con le stesse tecniche con cui si producono i celebri Jerez in Spagna, e spesso la loro qualità viene considerata al loro pari. Le uve prevalentemente coltivate nella zona sono lo chenin blanc, lo chardonnay, il sauvignon blanc, il cabernet sauvignon e il merlot. Un’area molto rinomata di questa regione è Franschoek, originale insediamento degli ugonotti francesi, dove si producono interessanti vini di qualità, in particolare con uve sémillon. Altre zone di interesse sono Hermanus, a sud di Città del Capo, dove si producono interessanti pinot nero e chardonnay, Durbanville, ad ovest di Paarl, dove si producono in prevalenza vini bianchi. Altre zone sono Worcester, Klein Karoo, Mossel Bay, Elgin e Walker Bay.

Qui, sul wineblog di Luciano Pignataro, il bel racconto del viaggio.

Moët Ice, lo champagne col ghiaccio dentro

1 giugno 2012

È chiaramente una (gran) trovata di uno dei più solidi ed intraprendenti gruppi del lusso del mondo e, chiaramente, niente a che spartire con certi tipini – me compreso – che vanno raccontando a destra e a manca di storie immaginifiche su cuvée e terroir champenoise.

L’anno scorso, da quando è stato presentato per la prima volta in Italia, a Milano, in maggio, se n’è fatto continuamente un gran parlare. Eppure, come spesso accade, tra una fisima e n’altra io me ne sono tranquillamente scordato, nonostante l’avessi provato almeno in un paio di occasioni. 

Ma cos’è sto Moët Ice? Uno champagne nato per essere gustato con tanto ghiaccio, magari con qualche fogliolina di menta e una tirata di buccia di lime – dicono -, due aromi che tra l’altro richiamano chiaramente le caratteristiche della cuvée storica di casa Moët&Chandon; che però vale la pena provare, in particolar modo proprio quando l’ultimo dei pensieri è perdersi tra l’attenzione nel cogliere il perlage o le sottili sfumature ancestrali. 

Pinot nero per il 50%, il resto è tutto pinot meunier e chardonnay. Ha buona struttura, e un dosaggio un po’ più deciso, proprio perché pensato diluito con il ghiaccio; il naso è invitante, affascinate, ruffiano, quasi mieloso, poi di zenzero. Il sorso è intenso e di buonissima bevibilità, rinfrancante. Uno ne richiama subito un altro. L’ho provato dapprima da solo, freddissimo – una vera goduria per il gargarozzo, quasi dissetante, sapido -, poi, come consigliato, con menta e lime: ça va sans dire… Riprende in fin dei conti l’antica tradizione dei demi sec, forse un po’ demodè ma sotto questa nuova veste decisamente accattivante e, a quanto pare, anche bello che vincente. Spassionatamente? Provatelo, si può!

Gaiole in Chianti, La Casuccia ’97 Castello di Ama

28 Maggio 2012

Lorenza Sebasti e Marco Pallanti, Castello di Ama. L’Arte, la cultura, il vino, la tradizione del Chianti e quella del Chianti ad Ama, il sangiovese, il merlot, il pinot nero ed altre storie…

Invero non ho nessuna intenzione di perdermi in convenevoli tra conservatori e riformisti, tradizionalisti e innovatori, c’è n’è già tanto in giro; in fin dei conti poi ogni giorno può regalare uno stato d’animo adatto e diverso per un sorso dell’uno o dell’altro. A me, sia chiaro, il sangiovese fa impazzire – quello tirato su come Dio comanda però -, a Gaiole come a Montalcino. Eppure, dinanzi a una bottiglia di L’Apparita 2001 come si fa a chiudere gli occhi? Come non ci si può fermare anche solo un attimo a riflettere…

E La Casuccia 1997? Bene, non saprei se lo è un grande vino ($!), però tradizione o no è un gran bel bere e, dopo 15 anni, assolutamente ancora sugli scudi. Si dice che una immagine, per quanto chiara, possa trarre in inganno; beh, qui il particolare pare non ammettere repliche: la vigna conta poco più di 12 ettari, impiantati tra il ‘64 ed il ’75 su terreni abbastanza uniformi di natura argilloso-calcarea. Sin da subito furono scelte forme di allevamento “innovative” per l’epoca, tra le quali la Spalliera verticale con taglio a Guyot semplice e la Lira Aperta, un sistema, quest’ultimo, mai visto in Italia prima di quegli anni ed importato direttamente dalla Francia, da Bordeaux. Il vigneto è suddiviso in 17 piccole parcelle impiantate per lo più con le varietà tradizionali chiantigiane, su 2 parcelle invece c’è la presenza del merlot che concorre – in questo come in quasi tutti i vini di Ama – a caratterizzarne profondamente lo stile, per qualcuno magari discutibile eppure inequivocabilmente di spessore.

Il colore, nonostante i tre lustri è assolutamente integro, rubino/granato vivace e ancora abbastanza carico. Il naso è subito molto elegante, il frutto non ha perso smalto, anzi, offre una maturità ineccepibile, irreprensibile, con note di confettura di prugna e amarene estremamente invitanti. Ma c’è dell’altro: prima un sottofondo speziato e tabaccoso, e di cuoio, ma anche note balsamiche, liquirizia, china e di finissimo sottobosco. Il sorso è asciutto, copioso, ha materia da vendere e giusta tensione acida, più del tannino che, lentamente, appare avviato a sopirsi. Dal 1985, quando la prima bottiglia ha varcato per la prima volta la cantina di Ama, sono state prodotte meno di dieci annate. E questo la dice abbastanza lunga. 

Greco di Tufo Giallo d’Arles 2009 Quintodecimo!

20 Maggio 2012

Credo avesse dalla sua una possibilità forse unica, concessa solo a pochi eletti, anche se non sempre di immediata comprensione. Poteva, con Laura, decidere di produrre a Mirabella Eclano questo e tutti gli altri vini senza una specifica denominazione territoriale, quel riferimento tanto ricercato da molti, evocativo, talvolta necessario secondo alcuni come fosse dovuto, eppure quante volte l’abbiamo visto depredato per soli fini commerciali.

Ha sbagliato quindi Luigi Moio¤? E chissà che non ci stia ripensando…*

Da un lato ci sono terre e vigne straordinariamente suggestive, e varietali che la dicono lunga. Dall’altro, la mano e il tempo, che consegnano ai bicchieri ogni anno vini finissimi; poi ci sono gli addetti ai lavori, molti non hanno perso tempo nel coglierli, interpretarli, descriverli ognuno a loro piacere. Pro o contro non fa alcuna differenza, certuni han voluto addirittura aggiungere qualcosa, una sfida personale al professore, talvolta nel bene, altre nel male. Però tutti si sono comunque guadagnati il loro quarto d’ora di notorietà (cit.), grazie ai vini di Luigi e Laura.

Eppure qualcosa non mi torna: “fare vini senza avere lacci”, si dice. “La denominazione ci sta spesso stretta”, c’è chi ribadisce. E invece… ma com’è, non dovrebbe essere così anche a Quintodecimo¤? Sappiamo o no tutti di quella precisa timbrica personale, addirittura firmata in calce? Eppure, bicchiere alla mano, bevi sto vino e pensi subito a quelle meravigliose vigne a Santa Paolina baciate dal sole. Massì, è semplicemente un paradosso, uno dei tanti, come spiegarlo altrimenti. Un territorio, un microcosmo, fuori dal mondo!

E se invece oltre il greco di Tufo che conosciamo conoscevamo c’è dell’altro? Il fatto è che con le prime bottiglie del 2006 c’era da scegliere e anziché giocare d’azzardo si preferì lasciarsi individuare, scegliere tra i tanti fiano di Avellino, greco di Tufo, aglianico e Taurasi invece di rimanere più semplicemente unici artefici di un bianco Exultet o Giallo d’Arles piuttosto che un rosso Terra d’Eclano o Vigna Quintodecimo¤: il territorio, abbracciare l’idea dell’insieme, della valorizzazione di un areale, delle denominazioni piuttosto che se stessi, solo se stessi. Quanto è valsa questa scelta?

Per quanto mi riguarda tanto, il sistema ha sempre bisogno di nuovi interpreti capaci di aggiungere qualcosa di nuovo o innovativo, ma anche semplicemente di diverso. E frattanto io non ricordo un greco di Tufo così profondo e pienamente espressivo come questo, che salta al naso e ti riempie la bocca dal primo all’ultimo sorso. Ha una maturità impressionate, stilisticamente inequivocabile eppure di forte, fortissima personalità e persistenza varietale. Una visione territoriale dunque, ma a suo modo unica.

Quello di Van Gogh – dice un recente studio europeo su alcune sue opere – sta progressivamente perdendo brillantezza, si sta spegnendo. Questo invece è un Giallo d’Arles luminoso e cristallino. Il naso, sin da subito comincia a tirare fuori una miriade di sfumature sottili e insistenti, di fiori e frutta gialli ma anche note speziate piacevoli. Ginestra e glicine, poi prugna, pesca ed albicocca mature, cedro, ma anche un soffio di camomilla e zenzero candito. Il sorso è asciutto e avvolgente, largo, fresco e minerale, lungo e persistente, di infinita piacevolezza.

Giuro che vorrei averne ancora, ahimè però non si riesce per davvero a metterne via una che dico una. Anche questo è un paradosso tutto da disvelare: non è certamente a buon mercato, come del resto tutti i vini dell’azienda; dicono addirittura che siano cari, eppure, credetemi, non si riesce a stargli dietro tanto se ne vendono.

*Ci pensavo con in mano le nuove etichette 2010, con la scritta dei nomi dei vini ancora più grande e quella delle denominazioni ancora più piccola.

Sancerre, La Moussière ’10 Alphonse Mellot

16 Maggio 2012

Potremmo stare ore a dibattere su quale sia il migliore sauvignon blanc del mondo. Il vitigno è uno di quelli che o ami o odi, di via traverse non se ne parla manco a scolpirle sulla roccia.

Si sa, son davvero pochi quei vini realmente capaci di mettere d’accordo tutti: certo vi è quello neozelandese, il Cloudy Bay dal naso “fumoso” e dal sorso salato, oppure si, a Pouilly S/Loire nessuno ha ancora dimenticato Didier Dagueneau (ma si può?), che quando hai la fortuna di cogliere certi suoi vini al momento giusto c’è da strapparsi i capelli; poi vabbé, vi sono anche certi italiani, magari ancora troppo “giovani”, però capaci di ottime prestazioni, talvolta pure eleganti e assai profondi (il de La Tour per esempio).

Un grande sauvignon però rimane solo quando è davvero una grande esperienza, e guai a lasciarla andare via senza dedicargli almeno due righe. Soprattutto quando si tratta di un Sancerre, laddove, raccontano, si nasconde ancora quell’anima più arcaica e selvaggia del blanc fumé Loirenne. E La Moussière, 30 ettari piantati su calcare e marne, è un po’ l’anima certa del Domaine Alphonse Mellot, da sempre uno dei miei preferiti in assoluto sull’argomento. E questo 2010, bevuto a distanza di quasi un anno dall’ultimo assaggio, conferma quanto sia incredibilmente sorprendente la cifra stilistica di questo vigneron capace di consegnare agli annali vini di una pulizia e complessità incredibili, talvolta di inarrivabile eleganza.

Un vino meraviglioso insomma, luminoso, verticale e fresco, asciutto all’inverosimile eppure tanto invitante quanto complesso e ricco. Un cinquanta per cento della massa fa fermentazione in legno, grande, l’altro cinquanta passa solo in acciaio. Poi, una volta deciso il blend, finisce una manciata di mesi in bottiglia, per ritrovare equilibrio, ricomporsi ed imprimere quella verve che ne caratterizza l’entusiasmante beva, dal primo all’ultimo sorso.

Annata decisamente fortunata questa e lo si capisce sin da subito: il primo naso è ricco di aromi classici (agrumi, litchi, frutto della passione, timo) ma anche di note più decise, quasi pungenti, come polvere di gesso e pietra bagnata. Il sorso poi è come baciato da una profonda sapidità, dal sapore deciso, concentrico sul frutto ma ricco di sfumature agrumate e minerali che man mano vanno diventando docili e rinfrancanti. Ricordate: Sancerre La Moussiere 2010 Alphonse Mellot, “il” vostro sauvignon!

Termeno, Gewürztraminer Kastelaz ’11 E. Walch

13 Maggio 2012

Non so quanto possa essere durevole il piacere di tutto un pasto accompagnato con un vino di questa struttura e complessità aromatica, tant’è che a parlar di Gewürztraminer sono davvero pochissimi quei vini che sanno esprimere con una tale profondità e vigoria tutta la tipicità del varietale.

Il Kastelaz 2011 di Elena Walch¤ è senza dubbio alcuno un bianco superlativo, c’è ben poco da girarci intorno, assolutamente cristallino nel colore, esagerato quasi nell’intensità aromatica ed estremamente voluttuoso al palato. Veste un giallo paglierino piacevolmente dorato, il naso è praticamente infinito, inarrestabile, indomabile: sa di frutta tropicale, fiori gialli, erbe di montagna e piante officinali, agrumi, spezie e chi più ne ha, più ne metta. Il ventaglio olfattivo è tra i più complessi e variopinti mai proponibili: si colgono nitidi sentori di ananas e litchi, rosa canina e gelsomino, camomilla, mentuccia e finanche dolci note di miele di Millefiori; un continuo divenire di finissima levatura. 

In bocca, al primo sorso, appare anche docile, morbido, sostanzialmente però è carico di materia, quasi grasso, sapido e lungo; e basta giusto un altro sorso per coglierne appieno tutta l’anima più nobile del Gewürztraminer. E’ un bianco di particolare struttura, pervaso però da una giusta tensione acida ma anche caratterizzato da un notevole spessore alcolico (siamo sui 15 gradi!). Non è, per dirla tutta, un bianco per tutti e, aggiungo, nemmeno da spendere su qualsiasi piatto, però se amate il pesce crudo, o una o più variazioni sul tema, avrei anche pensato all’abbinamento giusto da proporvi… (leggi qui¤).

C’è del nuovo a L’Olivo: ecco i Tortelli con crema di piselli, pomodori, menta e basilico

7 Maggio 2012

Come ogni stagione vi è sempre qualcosa di nuovo che ti passa sotto al naso; eccovi quindi uno dei nuovi piatti in carta a L’Olivo del nostro Andrea Migliaccio. Una disarmante esplosione di sapori…

Ingredienti:

Per la pasta fresca:

  • 300 gr farina
  • 200 gr semolino
  • 2 uova
  • 160 gr tuorli 

Preparazione:formate con la farina una fontana ed unitevile due uova, i tuorli e lentamente il semolino. Impastate sino ad ottenere una panetto compatto ed omogeneo. Prima di stendere la sfoglia, che sia davvero sottile, lasciatelo riposare in frigo almeno 20 minuti, magari coperto con della pellicola.

Per il ripieno

  • 200 gr piselli
  • 1 cipolla
  • 70 gr acqua
  • 2 fogli di colla pesce
  • Olio extravergine di oliva 

Preparazione: mettete in acqua fredda i fogli di colla di pesce; frattanto lessate i piselli in abbondante acqua salata per circa un paio di minuti. A parte stufate la cipolla in poco olio e a fuoco basso, unitevi i piselli e lasciate cuocere alzando adesso la fiamma; salate e pepate aggiungendovi un poco d’acqua: passate tutto al frullatore. Per un ripieno particolarmente suggestivo passatelo al setaccio, aiutandosi magari con l’Etamina, il “passino di panno” capace di eliminare del tutto la presenza di fastidiosi grumi; terminate quindi la preparazione emulsionando con dell’olio extravergine d’oliva. Unitevi poi i fogli di colla di pesce, ben strizzati e lasciate raffreddare in frigo. Un sac à poche sarà molto utile per stendere il ripieno dei tortelli.

Il pomodoro:

  • 5 pomodori ben maturi
  • menta
  • basilico
  • sale e pepe
  • Olio extravergine d’oliva 

Preparazione: lessate i pomodori per pochi istanti in acqua bollente salata, raffreddateli quindi in acqua e ghiaccio. Pelateli e toglietegli i bulbi, tagliateli al coltello in maniera sottile e condite con poco sale e del pepe, dell’olio extravergine d’oliva, la menta e il basilico fresco. 

Servizio: cotti per pochissimi minuti in abbondante acqua salata, i Tortelli vanno appena spadellati con del burro prima di portarli nel piatto. Qui, posizionateli uno ad uno su delle piccole “isole” di pomodoro e portateli in tavola con una fondue di Provolone del Monaco* da versare a piacimento e delle foglie di menta e basilico come decorazione. Nella foto, l’effetto fumo viene creato grazie a del ghiaccio secco posto al momento del servizio in tavola nel sottofondo del piatto, a contatto con dell’acqua calda. 

*Prodotta con una “base” di besciamella con poca farina e, quindi, sciogliendovi a fiamma lenta del Provolone del Monaco stagionato.