Archivio dell'autore

Featuring, così cresce un territorio

17 luglio 2019

Con collaborazione musicale (identificata anche con il termine inglese featuring), si indica nell’industria musicale la collaborazione di un artista in una canzone solitamente eseguita da altri. Tale collaborazione può essere più o meno estesa e riguardare il solo ritornello o porzioni più ampie del brano.

Generazione Vulture

Prendendo spunto da alcuni riuscitissimi, tra gli ultimi ricordiamo l’accoppiata Rovazzi-Morandi che ha riscosso davvero un grande successo, che bello sarebbe raccontare di vino mettendo assieme due o più anime di un territorio pur caratterizzate tra loro da identità e storie diverse.

Di recente, qualcosa del genere nel vino accade ad esempio con Generazione Vulture, in Basilicata, ed il messaggio ci pare estremamente positivo per il futuro non solo dei vini di quella regione ma anche e soprattutto per i vini del sud. Ci sono state, e ci sono ancora in giro, diverse iniziative e prestigiose collaborazioni di vini fatti ”insieme”, ma iniziative corali come queste, dove ognuno conserva sì la propria unicità ma mette a disposizione degli altri e del suo territorio la propria storia e l’esperienza, riescono secondo noi a veicolare meglio il messaggio che non vuole e non deve essere esclusivamente di carattere commerciale ma bensì di promozione vera di tutto un areale nel suo insieme.

Che bello sarebbe, ad esempio, che anche in certi luoghi qui in Campania, in particolare in certe denominazioni spesso caratterizzate da piccole produzioni si potesse fare la stessa cosa. Solo così, forse, cresce meglio un territorio.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Dire, fare, solfitare. Con coscienza e conoscenza è meglio…

25 giugno 2019

L’anidride solforosa è uno degli elementi chimici più discussi in enologia e bistrattati dalla critica enologica, uno tra i tanti additivi utilizzati ma anche il più comune, se non il più importante e decisivo. Qui¤, su queste pagine, ne abbiamo già scritto qualche tempo fa ma ci ritorniamo volentieri su con una più ampia disamina tecnica con la speranza di fugare ogni dubbio e mantenere alta l’attenzione su una tematica sempre molto cara agli appassionati e i professionisti del vino: la salubrità di quello che beviamo.

Cos’è? E’ sostanzialmente un gas incolore, dall’odore pungente e acre, viene utilizzato in enologia per le sue importanti azioni antiossidanti, conservanti e antisettiche, attività indispensabili per la qualità, salute e stabilità del vino. Ma non solo, l’SO2, questa la sua formula chimica, è di fatto uno dei più comuni conservanti utilizzati in tutta l’industria alimentare e delle bevande. Vi sono però delle regole ferree da rispettare, l’Unione Europea infatti ne identifica e codifica il suo utilizzo con delle sigle numeriche precise precedute dalla lettera “E” che devono essere opportunamente riportate nell’elenco degli ingredienti. Tra queste, quelle sigle comprese fra E220 ed E229 sono classificate come “solfuri” – esempio l’anidride solforosa (E220) e il metabisolfito di potassio (E224) – con proprietà conservanti, antisettiche e antiossidanti, evidenza necessaria perché queste sostanze possono provocare eventuali reazioni allergiche in quelle persone sensibili e/o predisposte.

Qual è il suo utilizzo in enologia? Viene utilizzata, dicevamo, anzitutto per le sue azioni antiossidanti e antisettiche. Il suo impiego viene regolamentato da apposite leggi in vigore in ogni paese, per l’Unione Europea, i limiti massimi consentiti sono di 160mg/l per i vini rossi e di 210mg/l per i vini bianchi e rosati. Sono inoltre previste delle deroghe che consentono a taluni di alzare questo valore fino a un massimo di 40mg/l in annate particolarmente sfavorevoli. E’ bene ricordare che l’utilizzo massiccio di anidride solforosa, seppur nei limiti previsti dalla legge, può provocare in quei soggetti predisposti e sensibili emicranie così come incentivare o accelerare altri disturbi correlabili. Anche per questo ci sentiamo di suggerire, almeno quale accorgimento di massima, provare ad ossigenare i vini prima del loro consumo, questa pratica consente di solito di liberare fino al 40% dell’anidride solforosa libera contenuta nel vino.

Saper gestire l’anidride solforosa in enologia, misurare cioè con giudizio il suo utilizzo non è e non deve avvenire solo per motivi salutistici o etici, l’eccessivo utilizzo di additivi chimici infatti compromette generalmente la qualità del vino, in alcuni casi in maniera definitiva. Quantità eccessive di anidride solforosa possono infatti conferire al vino gusti e aromi sgradevoli o favorire il suo intorbidimento nel tempo. L’anidride solforosa non è presente allo stato naturale nell’uva, tuttavia questa può essere prodotta spontaneamente da alcuni ceppi di lieviti naturalmente presenti nel mosto – talvolta finanche 50mg/l – e considerata quindi come un sottoprodotto naturale del vino. Anche per questo spesso sentiamo parlare dell’importanza dell’utilizzo di lieviti selezionati, poiché in questo modo si riesce ad assicurare un processo di fermentazione regolare tale da ridurre al minimo il rischio di sviluppare elementi negativi tali da compromettere la qualità organolettica e la stabilità del vino.

SO2 combinata, libera, totale. In enologia, l’anidride solforosa è utilizzata sin dalle primissime fasi della produzione del vino, a partire dal mosto fino all’imbottigliamento. Nell’usare l’anidride solforosa, è opportuno sapere che una parte di questo gas si combina con alcuni componenti del mosto o del vino, tra questi l’acetaldeide, che lo stesso lievito produce (in condizione di stress nutrizionale, termico, carenza di ossigeno etc..) e gli zuccheri residuali che, nel caso di alcune tipologie di vini, per tale ragione, richiedono un forte utilizzo di SO2, mentre la restante parte resta libera, cioè non combinata. Ed è proprio la parte libera che svolge gli importanti effetti antiossidanti e antisettici, ed è per tale ragione che si ritiene indispensabile che l’anidride solforosa vada a combinarsi il meno possibile. La quantità di anidride solforosa libera sommata alla quantità combinata determina la quantità di anidride solforosa totale.

L’utilizzo di anidride solforosa è dunque indispensabile, anzitutto per i mosti dei vini bianchi, così da evitare l’avviamento della fermentazione alcolica consentendo la decantazione delle parti solide, prima dell’inizio della fermentazione alcolica con lo scopo di selezionare i lieviti e, nel caso dei vini rossi, per favorire una migliore estrazione del colore e dei tannini dalle bucce, quindi in tutte quelle operazioni che prevedono il contatto del vino con l’aria – come travasi, chiarificazioni, filtrazioni e imbottigliamento – evitando quindi l’ossidazione e lo sviluppo di batteri o lieviti indesiderati.

Quali sono gli effetti sul vino dell’Anidride Solforosa? Se ne possono indicare almeno quattro di primaria importanza: antiossidante, stabilizzante, solvente e modificatore del gusto. Nel mosto e nel vino sono presenti diverse sostanze che tendono più o meno repentinamente a ossidarsi, con ovvie ricadute sull’aspetto e sul gusto. L’anidride solforosa previene l’ossidazione di queste sostanze e in particolare delle sostanze coloranti, dei tannini, degli aromi, dell’alcol e del ferro. I rischi dell’ossidazione durante le fasi produttive del vino sono sempre alti, sin dal momento in cui il grappolo viene raccolto in vigna e quando viene condotto in cantina. Inoltre, in tutte quelle operazioni di gestione delle masse in cantina, dove la possibilità di contatti con l’ossigeno è sempre molto elevata, un rischio che aumenta, talvolta in maniera esponenziale, in caso di vini passiti naturali e muffati.

L’anidride solforosa infatti distrugge o blocca momentaneamente lo sviluppo dei batteri della fermentazione malolattica e quelli che provocano malattie gravi del vino, come l’acescenza e lo spunto lattico. Importante è inoltre l’azione selettiva svolta dall’anidride solforosa nei ceppi dei lieviti naturalmente presenti nel mosto. Ogni tipo di lievito risponde a delle caratteristiche proprie e si comporta in modo diverso durante la fermentazione. Con lo scopo di assicurare una migliore e più omogenea fermentazione, l’anidride solforosa risulta utile anche in questo caso. Alcuni lieviti e molti batteri sono particolarmente sensibili agli effetti dell’anidride solforosa che svolgerà quindi un’opportuna operazione di selezione.

Durante la fermentazione alcuni ceppi di lieviti possono produrre sostanze secondarie indesiderate ai fini della qualità del vino, ma sono fortunatamente più sensibili agli effetti dell’anidride solforosa, mentre altri che svolgono un’azione favorevole, come i Saccharomyces Cerevisiae, sono più resistenti. E’ quindi grazie all’anidride solforosa che è possibile intervenire eliminando i lieviti e i batteri indesiderati, conservando invece quelli considerati positivi ai fini della fermentazione alcolica.

L’anidride solforosa svolge inoltre un effetto solvente favorendo quindi l’estrazione di alcune sostanze presenti sulla buccia dell’uva durante la macerazione, pensiamo ai vini rossi, al colore e i tannini. Per questo motivo gli enologi vietano il solfitaggio delle uve bianche prima della sgrondatura, cioè la separazione della parte solida da quella liquida, poiché questo comporterebbe l’ingiallimento del mosto e un arricchimento di tannini che non serve. Fra gli altri effetti solventi, l’anidride solforosa favorisce l’estrazione delle sostanze minerali e degli acidi.

L’anidride solforosa svolge anche un’azione positiva sul gusto e sugli aromi del vino. Dal punto di vista organolettico, evita l’ossidazione degli aromi, in particolare quelli fruttati tipici nei vini giovani, elimina il cosiddetto gusto di svanito, attenua i gusti di marcio e di muffa. Per ottenere questi effetti positivi, l’anidride solforosa deve essere aggiunta quando la fermentazione alcolica è terminata completamente. Qualora si aggiunga troppo presto rispetto alla fine della fermentazione, cioè quando la temperatura del vino è ancora troppo elevata, si possono sviluppare aromi e gusti sgradevoli di anidride solforosa, di mercaptano e di uova marce.

L’anidride solforosa svolge infine una blanda azione chiarificante, poiché favorisce la coagulazione delle sostanze colloidali presenti nel vino e nel mosto, favorendo quindi la spontanea precipitazione delle fecce. L’anidride solforosa, aggiunta in quantità elevate nel mosto, è utilizzata per ottenere il cosiddetto mosto muto, cioè non fermentescibile, a causa del blocco dell’attività dei lieviti.

Nonostante gli effetti dell’anidride solforosa in enologia siano indispensabili e importanti, è comunque sempre opportuno limitare il suo uso e impiegare le dosi minori possibili, soprattutto per limitare gli effetti sulla salute dei soggetti particolarmente sensibili a questo elemento. Di certo ci ritroviamo spesso di fronte a prodotti alimentari con un contenuto di SO2 totale ben più alto del contenuto di uno o due bicchieri di vino ma di fatto non ce ne rendiamo conto chiaramente. Tant’è l’attenzione e la precauzione è particolarmente importante nella produzione di vini, in particolare in quelli che richiedono dosi elevate di anidride solforica, come i passiti, i vini dolci o comunque con un residuo zuccherino importante, vini nei quali si possono utilizzare, anche secondo i termini di legge, quantità maggiori di SO2 con la speranza che il ”dopo” non rovini e maledica del tutto il piacere del ”prima”.

© L’Arcante – riproduzione riservata

A Beaune si va di Nuits-Saint-Georges blanc 2018 di Philippe Pacalet

7 giugno 2019

E’ senza ombra di dubbio tra i produttori di più grande talento venuto fuori negli ultimi 20 anni in Borgogna dove, con grande e inaspettata rapidità ha saputo imporsi come un fine interprete di vini e terroir differenti tra loro tirandone fuori rappresentazioni di stupefacente espressione territoriale.

Enologo di esperienza, négociànt avveduto, vigneron tout court Philippe Pacalet può contare oggi su circa 10 ettari di vigna disseminati in Côte de Nuits, Côte de Beaune e l’areale di Chablis da cui tira fuori mediamente 50.000 bottiglie l’anno. Tra i cosiddetti vini naturali d’oltralpe le sue selezioni sono tra le più ricercate ed ambite.

I suoi rossi hanno generalmente bisogno di un po’ di tempo per emergere e rivelarsi del tutto ma non è assolutamente trascurabile la loro finezza sin dalla giovane età, in particolar modo in alcune appellation per così dire ”minori” – vedi ad esempio Chénas e Moulin-à-Vent, Qui – dove riesce veramente a sorprendere. Talvolta sono un vero e proprio manifesto dell’annata in tutto e per tutto. E i vini bianchi straordinariamente puliti, integri, espressivi, su tutti vanno menzionati Chassagne-Montrachet, Puligny-Montrachet e, rarità assoluta, Corton-Charlemagne. Ai quali s’aggiungono alcune perle come questo Nuits-Saint-Georges blanc.

Viene prodotto da un piccolo appezzamento di circa 1 ettaro piantato prevalentemente con uve Pinot bianco, la vigna qui ha una età media di circa 25 anni; vi è da dire che la varietà è stata spesso confusa con lo Chardonnay, al quale somiglia parecchio, ed è forse anche questa la ragione per la quale non si fa a fatica a trovarne in giro da queste parti. Contrariamente allo Chardonnay il Pinot bianco ha minori capacità di adattamento e viene considerata varietà precoce, possiede inoltre una buccia più sottile e dà vini con caratteristiche organolettiche ben diverse ma quando trova terreni ricchi di materia minerale ed un buon interprete, sa esprimere prodotti capaci di sorprendere e conquistare anche i palati più attenti. 

Questo duemiladiciotto è in bottiglia solo da qualche settimana, ha certamente necessità di distendersi ancora un po’ ma si presenta anzitutto come un bianco profondamente diverso dagli altri di Pacalet, anche per questo particolarmente originale. Il colore è paglierino tenue, al naso ricorda subito frutta a polpa bianca, agrumi e macchia mediterranea: vi si coglie mela, pera e pompelmo rosa, ancora uva spina e mentuccia. Il sorso è caratterizzato da una sottile e persistente fresca vivacità, la vera arma letale in fatto di bevibilità, ma viene poi fuori sostanzialmente sapido e definito. Al netto di un prezzo non proprio alla portata di tutti, on-line è reperibile intorno ai 115 euro, è da considerarsi un bianco immediato, di medio corpo e privo di velleità iper-aromatiche, però preciso, puntuto e dal quadro organolettico impeccabile. Decisamente una bella scoperta!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Una straordinaria verticale storica dell’Alsace Grand Cru Pfingstberg di Valentin Zusslin

4 giugno 2019

Fondato nel 1691 è tra i Domaine più antichi d’Alsazia, Valentin Zusslin riunisce oggi almeno due generazioni di viticoltori che continuano a sorprendere con vini di straordinaria profondità. Siamo a Orschwihr, paese con poco più di mille anime a sud di Colmar, alle pendici del Bollenberg, e questo che vi raccontiamo è il loro Riesling di punta, il Grand Cru Pfingstberg, nelle annate dal 2015 al 2009. Il Domaine dal 1997 è gestito secondo i principi della cultura biodinamica.

Il vigneto alsaziano conta all’incirca 15.500 ettari votati alle Aoc collocati prevalentemente tra i 200 e i 400 metri s.l.m., è senza dubbio uno dei territori vitivinicoli più settentrionali di Francia nonché del continente europeo. La sua estensione copre circa 120 chilometri da nord a sud, da Marlenheim a Strasburgo nel Basso Reno, proseguendo poi verso sud da Colmar sino a Thann, nell’Alto Reno. Qui la barriera naturale dei Vosgi contribuisce notevolmente a limitare le influenze oceaniche rafforzando così la presenza di un clima continentale con estati calde e inverni freddi e asciutti che consentono generalmente uno sviluppo sostenibile della vigna. Ci troviamo di fronte a territori con una conformazione geologica particolarmente complessa che ha naturalmente permesso la creazione di terroir molto caratteristici, in più casi davvero unici.

Zusslin, come detto, coltiva il vigneto in regime Biologico certificato, aderisce ai protocolli biodinamici di Demeter¤ e fa parte di Byodivin¤, nonché dell’International Biodynamic Wine Growers Association¤. La produzione media è di circa 90.000 bottiglie l’anno, provenienti dai 16 ettari di proprietà dove vengono coltivate un po’ tutte le varietà tradizionali alsaziane Muscat, Sylvaner, Gewürztraminer, Pinot Gris, ancora Pinot Noir e, ovviamente, il Riesling; da quest’ultimo, con il Grand Cru Pfingstberg si prova a tirare fuori un vino tra le più alte espressioni prodotte qui in Alsazia. In cantina si utilizzano perlopiù legni grandi. Di questo vino se ne producono mediamente 3.500 bottiglie l’anno.

Alsace Grand Cru Pfingstberg Riesling 2015. E’ la prima annata vestita con la nuova bottiglia disegnata apposta per il Domaine Zusslin, non più una classica renana ma ispirata ad una borgognotta dal collo un po’ più allungato. Nel bicchiere il colore paglierino carico è splendido, luminoso, invitante. Il naso ha bisogno di tempo per aprirsi del tutto, dissolte le particolari sensazioni idrocarburiche viene fuori agrumato, floreale e speziato. Nessuna nota rimanda al legno grande utilizzato. Sa anzitutto di cedro e bergamotto, poi di fiori ed erbe di montagna. Il sorso è secco, teso e serrato, dal gran finale di bocca vibrante, asciutto e caldo. 

Alsace Grand Cru Pfingstberg Riesling 2014. Nessun accenno a note o sfumature che facciano pensare ad un vino ”vecchio” di cinque anni, anzi, bellissimo il colore paglierino/oro luminoso e affascinante. Le sensazioni olfattive sono intriganti e fini, con richiami di pesca matura e ancora agrumi, un po’ più in evidenza altri toni tipicamente varietali e minerali, in particolar modo cherosene, poi dissolto, e grafite. Il legno è del tutto digerito, il sorso è secco, la tessitura ben serrata nonostante una beva compiuta ed equilibrata, di quei bianchi da spendere con soddisfazione su Tartare (anche di carne) anche aromatizzate, se non su tranci di pesce appena scottati.

Alsace Grand Cru Pfingstberg Riesling 2013. Annata ricordata da queste parti come particolarmente calda e siccitosa, vino di grande equilibrio gustativo, l’unico della batteria con un residuo zuccherino sensibilmente più alto (2gr/lt). Il colore paglierino è lievemente più carico, ancora luminoso, oro sull’unghia del vino nel bicchiere. Qui il naso accenna solo le caratteristiche sensazioni idrocarburiche, viene subito fuori invece dolce, speziato, invitante. Sa di mango, cedro candito, zenzero. Il sorso è secco e morbido, al palato scivola via fresco e avvolgente, un grande bianco a tutto pasto, di quelli su cui ”giocare” anche con le temperature di servizio.

Alsace Grand Cru Pfingstberg Riesling 2012. Il quadro organolettico nell’insieme sembra esprimere in questo momento un vino apparentemente sospeso: il colore oro è lucente, il naso sembra però concentrico sulle sensazioni idrocarburiche che a fatica lasciano intravedere lo splendido bouquet sino a questo momento apprezzato. In bocca è secco, di buona struttura e appagante. È comunque un vino di grande personalità, ha tanti sapori di pietra focaia e grafite, un’acidità intrigante e tanta persistenza. Di quelli da poter spendere anche su formaggi erborinati a pasta molle o finanche cremosi.

Qui l’areale, in particolare il sub-strato di questo Gran Cru, è sostanzialmente argilloso-calcareo con una massiccia presenza di roccia arenaria e conglomerati di origine torrentizia in alcune parcelle e addirittura di origine marina in alcune altre (versante orientale). E’ curioso tra l’altro immaginare che una delle emergenze più sentite negli ultimi anni qui ad Orschwihr, e più in generale in tutta l’Alsazia, è la mancanza di precipitazioni bastevoli a raggiungere medie stagionali e annuali soddisfacenti. Non a caso è questa la collina tra le più aride del territorio nonostante non manchi un ecosistema di flora e fauna ancora in grado di fornire suggestioni straordinarie.

Alsace Grand Cru Pfingstberg Riesling 2011. Lontano, per distacco, dal precedente duemiladodici. E’ particolarmente invitante sin dal colore oro luminoso, cristallino. Il naso è particolarmente intenso e ampio, oltre alle classiche note ”rieslingheggianti” sa essere finemente speziato e fruttato. L’incipit caratteristico non copre infatti le gradevoli sensazioni di frutta candita e zenzero, cui s’aggiungono un abbrivio gessoso e altri toni minerali ed aromatici che conducono ad un sorso sapido, pieno ed armonioso, di spessore e dalla profondità invidiabile. Non necessariamente il migliore della batteria ma senz’altro quello più capace di tirarne le fila in questo preciso momento.

Alsace Grand Cru Pfingstberg Riesling 2009. E’ in perfetto stato di grazia, sin dal colore oro cangiante, ha un naso empireumatico e un sorso corroborante, tonificante; volendogli trovare una qualche mancanza potremmo coglierla solo in un naso (forse) poco slanciato, più orizzontale che verticale ma in tutta onestà staremmo solo a cercare un pelino nell’uovo. Questa bottiglia è una bella istantanea di cui godere a pieno. Aggiungiamo invece che questo passaggio in sei annate – e quasi dieci anni – in casa Zusslin¤ ci ha regalato una meravigliosa esperienza e ci affidato ancora nuove chiavi di lettura di uno straordinario terroir e di uno tra i più coinvolgenti vini in circolazione. 

Domaine Valentin Zusslin è distribuito in Italia da Balan.

© L’Arcante – riproduzione riservata

La Francia possibile, Chénas e Moulin à Vent, ecco come Philippe Pacalet ti legge Beaujolais!

23 Maggio 2019

Philippe Pacalet è uno dei più apprezzati produttori di Borgogna, si muove con destrezza tra Pommard, Gevrey-Chambertin, Meursault, Chambolle-Musigny, Puligny-Montrachet, Vosne-Romanée, Nuits-Saint-Georges dove si è scelto con cura alcune piccole particelle dove mettere le mani, talvolta accontentandosi addirittura di pochi filari. Da queste ci fa almeno 25 vini diversi, starci dietro può essere davvero un’impresa, anche se molto piacevole.

Con questi presupposti i suoi sono generalmente piccoli capolavori di finezza ed equilibrio, ne abbiamo le prove e ci torneremo su a breve. Questi invece sono due vini certamente poco conosciuti qui in Italia, se non delle vere e proprie rarità, comunque da considerarsi due splendidi rossi provenienti dalle Aoc Chénas e Moulin-à-Vent, due dei 10 Crus del Beaujolais ai quali Pacalet, a suo modo, ha voluto dare degna interpretazione. Chénas è la più piccola tra le denominazioni di questo pezzo di Borgogna con i suoi 227 ettari, appellation per la verità un po’ disattesa perché i vini qui prodotti possono essere generalmente rivendicati anche sotto la più nota – e redditizia, ndr – Aoc Moulin-à-Vent.

Qui la terra è di origine granitica e i terreni sono perlopiù caratterizzati da argille e sabbie. Il vino è prodotto al 100% con uve Pinot Nero, ha un bellissimo colore rubino intenso, il naso è piacevolissimo, intriso di note floreali e frutti rossi  e neri, ciliegia, uva spina, mirtilli, more. Il sorso è gradevolissimo, sottile e di grande equilibrio gustativo, in particolare quando servito intorno ai 14°, fresco rivela pienamente tutto il suo fascino evocativo. Lo Chénas duemiladiciassette di Philippe Pacalet è una piacevolissima sorpresa!

Un passo avanti, per struttura e complessità è il Moulin-à-Vent pari annata prodotto però con 100% da uve Gamay. L’Aoc qui copre poco più di 640 ettari, anche da queste parti i terreni sono costituiti perlopiù da suolo granitico ricoperto da sabbie di origine alluvionali, sono quindi terreni magri e ben drenanti. L’Aoc prevede inoltre la distinzione di 15 particelle, i cosiddetti lieux-dits che possono talvolta essere riportate in etichetta: Les Carquelins, Les Rouchaux, Champ de cour, En Morperay, Les Burdelines, La Roche, La Delatte, Les Bois maréchaux, La Pierre, Les Joies, Rochegrès, La Rochelle, Champagne, Les Caves, Les Vérillats.

Anche in questo caso ci ritroviamo nel bicchiere un bel rosso dal colore rubino luminosissimo, con sfumature violacee, dal naso molto intenso e ampio, si coglie anzitutto violetta, con ancora i frutti rossi e neri maturi a prevalere: ciliegia, ribes a cui si aggiungono sentori speziati e balsami. In bocca ha chiaramente una marcia in più, ha struttura invitante e un po’ più carnosa, eppure di grande bevibilità, avvolge il palato con tanto frutto e una trama tannica sottile, ben tesa e fine, il sorso è vellutato e gaudente. Imperdibile! 

Leggi anche Corton-Charlemagne 2010 di Philippe Pacalet Qui.

Philippe Pacalet¤ è distribuito in Italia da Balan.

© L’Arcante – riproduzione riservata

All’Osteria Bottega si sta da Dio, come una volta

10 Maggio 2019

C’è un po’ ovunque un ritorno particolarmente sentito a certe atmosfere tipiche delle trattorie e delle osterie tradizionali, almeno nelle intenzioni. In alcune città, sommerse da format stereotipati del tipo Risto-Pub-Pizza-Lounge-Bar, il più delle volte più banali che senz’anima, certi posti come l’Osteria Bottega, semplici ed immediati, che non hanno smarrito le radici e le tradizioni, che si propongono di far mangiare bene in tutta tranquillità piatti tradizionali, rappresentano a nostro avviso, dei piccoli tesori da raccontare e salvaguardare.

L’ingresso da via Santa Caterina

Eccoci quindi qui a Bologna, All’Osteria Bottega, un locale dal cuore popolare in pieno centro. Non a caso, da più voci, definita la migliore in città! Il patròn è Daniele Minarelli, un vero apripista qui in città che 14 anni fa ha aperto questa piccola osteria dopo la straordinaria esperienza al ”Dandy”, locale rinomato e tra i primi ristoranti Stellati emiliani per circa un ventennio.

Il luogo è suggestivo, sin da subito hai l’impressione di certe atmosfere rarefatte d’un tempo: si trova proprio sotto i portici di via S. Caterina, con due piccole sale, quando è bel tempo qualche tavolino fuori, un grande banco dietro al quale si fa un po’ di tutto a vista, con una cucina piccola ma molto ben organizzata (visti i numeri), ma soprattutto un ottimo servizio di sala, gestito con grande verve ed esperienza, con i tempi giusti e tanto savoir faire dallo stesso patròn aiutato da alcuni validi collaboratori.

Il Salame di casa Minarelli

Il benvenuto non sfugge da una logica imperdibile, quella dei splendidi salumi selezionati dal patròn: c’è quindi la Mortadella Bologna del Salumificio Felsineo, a seguire un salame tradizionale preparato qui in casa proprio dai Minarelli, poi la salsiccia cruda al pepe nero che da sola varrebbe il viaggio, da far girare la testa. Ma siamo solo all’inizio!

Le animelle

Scegliamo di seguire l’Oste in tutto e per tutto, anche nella scelta del vino, un freschissimo Lambrusco Grasparossa. Frattanto si continua quindi con alcuni autentici capolavori della tradizione: le Animelle di vitello in crosta di pane, cacio, pepe, fave e piselli, poi il Rognone con ovoli e crema Parmentier. Il primo è un omaggio alla semplicità, al contempo un contrasto in perfetta armonia. Nel secondo vi è tutta la maestria nel saper lavorare con attenzione una materia prima povera di prima qualità altamente nobilitata da tecnica sopraffina.

Il Rognone

Il primo colpo al cuore arriva in tavola con il Brodo di cappone della domenica e i tortellini; il segreto, ci tiene a precisare Daniele, è il doppio brodo, vi è infatti quello nel quale vengono portati alla giusta cottura il tortellini e quello limpido e delicatissimo nel quale invece vengono poi serviti in tavola. Buoni i Rigatoni al torchio con frattaglie di cortile tagliate al coltello, interiora ed ovarine, un piatto che dalle nostre parti definiremmo ”particolarmente verace”!

oasteria-della-bottega-ravioli-al-doppio-brodo-foto-a.-di-costanzo-e1557328563499.jpg

Il brodo di Cappone e i Tortellini

E’ una splendida serata nella quale tutto gira alla perfezione, la sala è piena ma di tanto in tanto uno scambio di battute con il padrone di casa ci aiuta a capire qualche sfumatura in più e a ricevere qualche conferma.  Si arriva così al secondo coup de coeur, Il Piccione di nido con cotture differenziate, petto rosato, coscette e ali croccanti con il suo fondo di cottura, spinacini brasati e funghi primavera, meraviglioso!, tra i più buoni mai provati, anche ripensando alle esperienze gastronomiche più alte degli ultimi vent’anni, davvero magistrale, per tecnica di cotture, accostamento e rifinitura del piatto.

Il Piccione

Degno compagno di tutta la serata il Lambrusco Grasparossa Corleto 2017 di Villa di Corlo, bel rosso vivace, leggero ma capace di regalare davvero una piacevole bevuta in accompagnamento a tutto il pasto, specialmente se servito ben fresco. Il colore è porpora e ben temprato, ha spuma evanescente e un naso intenso e fragrante, invitante, corredato perlopiù da piccoli frutti rossi; invitante è pure il sorso, scorrevole, giustamente frizzante, rifugge dalle solite dolcezze per questo dalla beva estremamente piacevole, mai stucchevole.

Oasteria della Bottega, Lambrusco Grasparossa di castelvetro Villa di Corlo - foto A. Di Costanzo

Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Corleto

L’Osteria Bottega è uno di quei posti da visitare assolutamente a Bologna, consigliato e raccomandato anche a coloro i quali che per mestiere somministrano cibi e bevande, fanno gli Chef o sono Maestri di sala, fosse solo come percorso gastro-culturale e ”protoprofessionale”, un passaggio nello spazio-tempo del lavoro più bello del mondo, quello di far da mangiare (anche) cose semplici che ti fanno stare da Dio come una volta e servire e rendere felici i propri avventori, quali che siano. Non a caso ci è parso di capire che questo posto qui è sempre pieno. Conto medio sui 50 euro, vini esclusi.

Osteria Bottega, Via S. Caterina, 51 – Bologna – Tel. +39 051.585111

© L’Arcante – riproduzione riservata

La pizza 4 Stagioni di Ciro Pellone a Fuorigrotta

30 aprile 2019

Alla Loggetta, più o meno una trentina d’anni fa, ci venivamo a giocare a pallone con i compagni di scuola dopo aver fatto ”filone” a scuola: era una tappa obbligata dopo il passaggio al Bowling Oltremare e l’affacciata al San Paolo dove alla domenica furoreggiava Maradona…

Dietro al grande successo della pizza napoletana¤ in città ci sono tanti protagonisti di assoluto valore¤, alcuni nomi storici, molti di grido, anche giovani, e tanti locali di qualità sparsi qua e là tra i suggestivi quartieri del Decumano ma soprattutto tra Mergellina, Chiaia e il ”lungomare liberato”.

Grande merito però va riconosciuto anche alle pizzerie di quartiere come questa della famiglia Ciro Pellone sopra via Mario Gigante, rione Loggetta, tra le tante capaci di mantenere viva la forte vocazione popolare della pizza da asporto, anche con consegna a domicilio, affiancandovi però un servizio al tavolo essenziale ma ben curato, giustamente misurato e in un’ambientazione familiare di grande disponibilità. 

Lontana dai riflettori della città, defilato dal caos di Fuorigrotta, non ci capiti certo per caso da queste parti, eppure, dalla famiglia Pellone ci ritorni con gran piacere. Tra le varie, la proposta ci è sembrata ampia e ben strutturata, da bere c’è Menabrea alla spina, qualche buona bottiglia di vino in carta, un fritto tradizionale e saporito. La nostra 4 Stagioni è con Pomodoro e Fior di latte di Agerola, Salame irpino, Prosciutto cotto, Melanzane a funghetto, Olio extravergine di oliva, Basilico e Parmigiano Reggiano, a € 7,50 in menu, ben spesi.

Pizzeria Ciro Pellone – Via Mario Gigante, 112 – Napoli (NA) – Tel. 081 5934104

© L’Arcante – riproduzione riservata

Comfort Wines, Lugana Campo Argilla 2017 I Campi

19 aprile 2019

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Lugana Campo Argilla 2017 I Campi - foto A. Di Costanzo

Questo che andiamo a raccontarvi non è certo un vino che segue le ultime tendenze che sembrano convergere sempre più su vini bianchi dalla verve per così dire ”acidina”, purtuttavia si tratta di una bella espressione di una tipologia, il Lugana, che ci ha tenuti ”attaccati” al bicchiere con grande piacere di beva.

Nasce da uve trebbiano provenienti dalla riva bresciana del Lago di Garda. E’ un vino franco e immediato, con un naso ben centrato, fruttato e floreale, caratterizzato da sensazioni di agrumi e fiori bianchi, cedro e  limonella. Il sorso è morbido, delicato e avvolgente, dal finale di bocca gradevole e ammiccante.

Dell’azienda veronese I Campi ne abbiamo già parlato in questo articolo¤ in occasione della degustazione del Soave Campo Vulcano. L’impressione è di trovarci nuovamente davanti ad un calice di vino pienamente rappresentativo della denominazione di appartenenza, gran merito va riconosciuto anzitutto al lavoro di selezione in vigna, alla profonda conoscenza del territorio¤ nonché per la maniacale attenzione a tutto il processo produttivo.

© L’Arcante – riproduzione riservata

10 anni di Blog

3 marzo 2019

L’idea ci venne in mente una sera di primavera poco dopo il servizio di uno dei tanti appuntamenti con gli Amici di Bevute¤; era necessario lasciare traccia di quanto condiviso, degli appunti di degustazione, delle storie e delle persone¤, dei cibi e dei vini che ci piacevano e che andavamo a scoprire. Un diario enogastronomico vero e proprio, un po’ per ricordare, un po’ per guardare indietro e vedere da dove venivamo, come eravamo ma soprattutto se tutto quanto fatto avesse poi il senso che desideravamo.

Sono così trascorsi i primi dieci anni: c’è di tutto su queste pagine, ci sono ovviamente soprattutto gioie, qualche dolore, sorprese e speranze, le pause, tutte esperienze che ci hanno accompagnato con i sorrisi, le passioni, la grande voglia di raccontare che non abbiamo mai smesso di coltivare, quello spirito libero che ci aiuta a vivere questo nostro (piccolo) mondo che ogni giorno ci appare più circoscritto eppure l’unico che abbiamo da salvare, per salvare noi stessi. E quello che di buono c’è da mangiare e berci su.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Comfort Wines, Chianti Classico 2017 Castellare di Castellina

1 marzo 2019

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Chianti Classico 2017 Il Castellare di Castellina - foto L'Arcante

Vi è un legame passionale fortissimo che periodicamente ci riporta all’amata terra toscana su quelle strade tanto camminate negli ultimi decenni quanto non scoperte del tutto. Non smetteremmo mai di bere e raccontare di certi posti, di taluni vini, così autentici.

La proprietà Castellare a Castellina in Chianti si estende per oltre 80 ettari, di cui 20 a uliveto e oltre 33 di vigna esposte perlopiù a sud-est, con un’altitudine media di 370 metri sul livello del mare. Per noi questo è uno di quei luoghi della memoria che ogni appassionato, piccolo o grande, non può far mancare tra le sue esperienze, cuore di quel Domini Castellare¤ del gruppo di Paolo Panerai che comprende altre perle italiche nella vicina Bolgheri (Rocca di Frassinello¤) e in Sicilia (Feudi del Pisciotto¤ e Gurra di Mare¤).

Tant’è, senza scomodare l’ingombrante vessillo Sodi di S. Niccolò ci godiamo questo splendido sorso dal sapore conservativo e dalla memoria storica più che viva. Un Chianti Classico di solo Sangioveto, come ci tengono a precisare da queste parti con un saldo di Canaiolo. Di colore rubino brillante con vividi riflessi porpora ha un bellissimo naso dal fascino anzitutto floreale, sa di viola e sprigiona un intenso aroma di frutti di bosco, lamponi e ciliegia. Il sorso è assai piacevole, asciutto, teso, puntuto, caldo con un finale di bocca sapido e avvenente, da metterci di fianco carni arrosto o zuppe maritate .

© L’Arcante – riproduzione riservata

Si deve a Gennaro Martusciello molto più di un ricordo

21 febbraio 2019

Ci siamo tutti sentiti un po’ più vuoti quel giorno d’inverno di sette anni fa, era il 21 Febbraio del 2012, avevamo un nodo in gola, come non potevamo, eravamo dispiaciuti, commossi, tristi per la scomparsa di una persona così cara e stimata che tanto ha fatto e ha dato per i nostri Campi Flegrei.

Si chiudeva un’epoca: quella dei pionieri, di coloro i quali avevano come riferimento del mestiere praticamente solo se stessi, il più delle volte costretti, loro malgrado, solo a sognarlo ciò che avrebbero veramente desiderato fare in cantina, dei loro vini; più semplicemente, era necessario fare ciò che andava fatto e nel miglior modo possibile, senza troppi grilli per la testa.

Eh sì, perché quando più o meno venticinque anni fa, fuori dai confini regionali, a malapena si erano affacciati il Greco di Tufo di Mastroberardino, qualche volta il Taurasi, a Quarto e a Pozzuoli si cominciava a ragionare anche sulla Falanghina e il Piedirosso dei Campi Flegrei: “poveri, ma belli” venivano chiamati (e forse un po’ lo sono tutt’ora). Senza contare i primi, incontenibili successi commerciali del rilanciato Gragnano¤ della Penisola Sorrentina o dell’Asprinio d’Aversa¤, fermo e spumante. L’avremo letto centinaia di volte in articoli, guide, post, qui come altrove, un leit motiv quasi stancante, che però pare non bastare mai per ricordare  quanta strada sia stata fatta: “la famiglia Martusciello, che tanto ha contribuito al rilancio vitivinicolo regionale e alla valorizzazione dei vitigni autoctoni campani”. Gennaro Martusciello in tutto questo, e in molto altro, ha avuto un ruolo cruciale, fondamentale, fosse solo per questo che oggi gli si deve molto più di un semplice ricordo.

E’ stata una persona stimatissima nell’ambiente don Gennaro, abbiamo sempre avuto la sensazione come fosse un uomo in tutto e per tutto calato ostinatamente nella sua dimensione: un grande talento, finissimo tecnico e profondo conoscitore della materia, imbrigliato forse da una realtà produttiva difficilissima e complicata, misconosciuta, talvolta talmente cruda che solo la malattia che l’affliggeva riusciva ad essere più desolante.

E’ stato un uomo vulcanico zio Gennaro¤, proprio come la sua terra, costretto nella morsa di un malessere che l’ha accompagnato praticamente tutta la vita, segnandolo sì profondamente nel fisico ma non nella testa, con un’invidiabile talento professionale che ne ha fatto un uomo del sud che ha dovuto faticare il doppio, anzi il triplo per emergere, affermarsi. Sì, perché Gennaro Martusciello un riferimento lo è diventato lo stesso, un esempio per tanti che l’hanno seguito, emulato, un riferimento assoluto per giovani e vecchie leve di enologi, ma anche di produttori, non solo in Campania che ne conservano molto più di un semplice ricordo.

Leggi anche l’Extra Brut ancestrale di Grotta del Sole Qui.

Leggi anche Campi Flegrei Piedirosso Riserva Montegauro Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Poi ti capita di bere Le Pergole Torte 2013 di Montevertine e… apriti cielo!

14 febbraio 2019

La storia di Montevertine è forse tra le più belle e desiderate per chi si è appassionato così tanto nel fare vino da decidere un giorno di abbandonare tutto, quale che fosse il precedente lavoro, per dedicarsi completamente alla vigna e alla produzione di vini. Certo le colline chiantigiane, Radda in Chianti, quei tempi, hanno avuto la loro indiscutibile influenza sulle scelte di Sergio Manetti.

Toscana igt Le Pergole Torte 2013 Montevertine - foto L'Arcante

Montevertine fu acquistata da Manetti nel 1967, allora Sergio era un industriale siderurgico abbastanza conosciuto, ne fece un casa di vacanza. Come tanti qui in zona tra le prime cose vi impiantò subito un paio di ettari di vigna con l’idea di produrre un po’ di vino per i suoi amici e clienti. Ne venne fuori nel ’71 una prima discreta annata, tanto buona a parer suo da spingerlo di mandarne alcune bottiglie al Vinitaly di Verona tramite la Camera di Commercio di Siena. Gli annali riportano che tale fu il successo di quelle bottiglie che la cosa diede il là a tutto quanto poi ci ha consegnato la storia dei successivi 50 anni di questo straordinario vino.

Abbiamo goduto di uno tra i migliori Sangiovese mai bevuti negli ultimi anni, una bevuta di grande soddisfazione perfetta incarnazione di quanto questo vino rappresenta per la storia e la cultura chiantigiana. C’è dentro questa bottiglia una moltitudine di storie di una terra magnifica, della gente che ha contribuito ha scriverla e a raccontarla, che l’ha difesa strenuamente, con battaglie anche clamorose, sino a condurla ai giorni nostri: Sergio Manetti, Giulio Gambelli e Bruno Bini, per dire.

Le Pergole Torte ha sempre dato dimostrazione di come un Sangiovese possa vivere fuori dal tempo, cavalcandolo senza rimanervi imbrigliato, un vino mai urlato, un quadro autentico, senza sovrastrutture inutili, da aspettare e da godere. Ci è piaciuto tanto questo duemilatredici, forte la connotazione territoriale, con quel filo di frutta continuamente in evidenza, con l’erbaceo e il balsamico a fare da sottofondo, appena speziato; il sorso è gradevolissimo, s’accende giustamente acido, con un tannino sottile e perfettamente integrato, sottile ma affilato, che sul finale di bocca regala un ritorno gustativo piacevolmente corroborante.

Vi è su queste pagine traccia di altre bevute di questo vino, qualcuna anche interlocutoria, qualche altra memorabile. Non abbiamo mai smesso, quando ci è stato possibile, di lasciarne una testimonianza poiché Montevertine, come ama spesso ribadire anche Martino Manetti, il figlio di Sergio che continua la tradizione famigliare nella conduzione dell’azienda dopo la scomparsa del padre, non ha mai ceduto alle lusinghe di vitigni internazionali o altre varietà puntando esclusivamente sui tradizionali Sangiovese, Canaiolo e Colorino, così Le Pergole Torte, tra l’altro prodotto con solo Sangiovese, rappresenta con pochissime altre etichette qui in Toscana quel vino icona di riferimento proprio grazie a questa impronta fortemente identitaria di questi luoghi.

Leggi anche Le Pergole Torte 1995 Qui.

Leggi anche Le Pergole Torte 2000 Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Savigny-Lès-Beaune 1er Cru Cuvée Arthur Girard 2005 Hospices de Beaune

8 febbraio 2019

Questi luoghi possiedono un fascino incredibile e quando ci metti piede te ne porti via con te un pezzettino che conservi gelosamente per sempre. Qui, all’Hôtel-Dieu¤, ogni anno, da quasi 160 anni, a novembre, va in scena l’asta dei vini che contribuisce in maniera decisiva all’economia dell’Hospices, fondato nel 1443 dal cancelliere del duca di Borgogna, Nicolas Rolin nonché a sostenere tante altre iniziative benefiche sparse nel mondo.

Savigny-Les-Beaune Cuvée Arthur Girard 2005 Hospices de Beaune - Foto L'Arcante

A Savigny-Lès-Beaune di vino se ne fa tanto, il villaggio infatti sembrerebbe essere terzo solo a Mersault (che fa essenzialmente bianchi) e Gevrey Chambertin (rossi) per le quantità di vino negoziate ogni anno. L’appellation inoltre trae senz’altro giovamento anche dal più ampio e riconosciuto successo dei nobili vicini, pur garantendo Pinot Noir sempre abbastanza netti, ancorché sgraziati, ma molto vicini alla qualità dei più ricercati rossi di Beaune, con a favore un rapporto prezzo-qualità davvero affidabile, almeno nel 80-90% dei casi.

L’etichetta che vi raccontiamo richiama la memoria di Arthur Girard che alla sua morte, nel 1936, donò una parte dei suoi beni di proprietà all’Hôtel-Dieu, tra questi i terreni a Savigny-lès-Beaune les Guettottes, les Peuillets, les Hauts Marconnets e Bas Marconnets, les Lavières, les Charnières, les Champs Charbons e Aux Fourches. La Cuvée che porta il suo nome viene generalmente prodotta con le uve provenienti principlamente dai due Premiers Cru les Bas Marconnets e les Peuillets proprio a ridosso di Savigny.

L’impronta di questo duemilacinque è importante, è una piacevolissima esperienza sensoriale, il colore è splendido, una pennellata di vivace rosso rubino, trasparente e luminoso. Il naso è ampio e intenso, sa di frutti rossi ben maturi, amarena e susina, note di sottobosco, poi cuoio, tabacco biondo e pietra bagnata, infine spezie fini. Il sorso è vibrante, il vino ha una tessitura fine e buon nerbo, non ha la profondità dei grandi vini di Borgogna ma il tannino è vivido e chiude con una carezza il finale di bocca. Come tutti i vini provenienti da questo areale e con questa etichetta anche questa bottiglia è un buon affare che coniuga al meglio la suggestione dell’istituzione con una buona sostanziale rappresentazione territoriale.

Leggi anche Viaggio in Borgogna, Vosne-Romanée Qui.

Leggi anche Viaggio in Borgogna, Gevrey-Chambertin Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

My name is Tannino

4 febbraio 2019

La lunga esperienza professionale e le molte bevute alle spalle ci hanno lasciato scoprire e apprezzare nel tempo tanti vini tratteggiati e caratterizzati talvolta in maniera decisiva dal tannino, bottiglie che in qualche maniera abbiamo poi imparato ad amare oppure deciso di lasciar perdere perché (troppo) lontane dal nostro gusto. Di vini ‘’tannici’’ ve ne sono in giro per l’Italia molti, alcuni memorabili, altri meno ma in larga parte caratteristici e coinvolgenti.

Si pensi ad esempio ai grandi Nebbiolo di Barolo¤ e della Valtellina o ai più classici Sangiovese che danno vita a certi Brunello di Montalcino o Nobile di Montepulciano. Qualcuno ha mai provato un Pignolo o un Tazzelenghe¤ friulani? O un Sagrantino di Montefalco¤? Invero, già nella nostra amata Campania Felix vini con ‘’tannino da vendere’’ ne abbiamo eccome, basti pensare all’Aglianico, o al Tintore¤ di Tramonti per citarne giusto un paio.

Ma cosa sono i tannini? Ebbene, appartengono alla famiglia dei polifenoli e sono i principali responsabili del carattere astringente dei vini; sono suddivisi in tannini condensati (propri dell’uva), tannini idrolizzabili o ellagici (derivanti principalmente dal legno). Sono generalmente presenti nel raspo, nei vinaccioli e nella buccia dell’uva e sono diversi i fattori che concorrono alla sua forma e sostanza.

Raspo. Sono generalmente ricchi di composti fenolici più o meno polimerizzati e a forte potere astringente.

Vinaccioli. Sono fonte importante di composti polifenolici per quanto concerne la vinificazione in rosso; contengono dal 20 al 55% dei polifenoli totali dell’acino, in funzione della varietà. Nel corso della maturazione aumenta il loro livello di polimerizzazione. I vinaccioli raggiungono la loro dimensione definitiva prima dell’invaiatura, momento in cui raggiungono la loro maturità fisiologica. Osservare e assaggiare i vinaccioli nelle fasi finali del ciclo della vite è fondamentale per determinare anche empiricamente la maturità fenolica dell’ uva.

Quando l’uva non è sufficientemente matura, i vinaccioli sono verdi e ancora ricoperti da sostanze pectiche o mucillaginose (come una sorta di placenta a protezione dell’embrione), all’assaggio sono amarissimi e provocano decisa astringenza; in questa fase i tannini hanno un basso grado di polimerizzazione e sono pertanto molto reattivi e presentando carica elettrica negativa, reagiscono facilmente con le glicoproteine della saliva, caricate positivamente, facendoci percepire la sensazione gustativa amaro-astringente.

Quando l’uva è mediamente matura, presenta vinaccioli che dal verde virano al marrone, lo strato protettivo inizia a staccarsi, all’assaggio sono mediamente astringenti e amari ma non eccessivamente, in quanto in questa fase i tannini presentano un grado di polimerizzazione intermedio e la reattività con le proteine inizia a diminuire.

Quando l’uva è matura, i chicchi presentano vinaccioli che da marrone tendono al nero, si svuotano all’ interno, i tannini hanno un alto grado di polimerizzazione e pertanto la loro reattività è quasi o del tutto nulla con le glicoproteine della saliva.

Per dirla con parole semplici e non entrare oltremodo in meccanismi biochimici complessi e difficili da comprendere, possiamo affermare che nel frutto immaturo i tannini sono scarsamente polimerizzati e con il progredire della maturazione la polimerizzazione aumenta per cui il sapore tannico, quella sensazione allappante, si attenua fino a scomparire a fine maturazione.

Per capire meglio i tannini e le sostanze polifenoliche in generale, dobbiamo sempre tener presente che la vite non porta avanti la maturazione del frutto e quindi del vinacciolo per farci fare il vino buono, ma per un concetto spesso sottovalutato o per niente considerato ovvero la sua riproduzione, per la continuità della specie. Non a caso quando l’uva non è matura è anche acida, ha poco zucchero e le sostanze fenoliche hanno un ruolo perlopiù di difesa e di repellenza, per scoraggiare cioè gli uccelli a magiare l’uva rendendola quindi sgradevole all’assaggio, in quanto il seme non è ancora maturo.

Non è così a fine ciclo, quando l’uva diviene dolce, quindi poco acida, la repellenza pertanto svanisce (si abbassano le difese) per invitare gli uccelli a beccare gli acini e portare i semi in giro attraverso le loro deiezioni, appunto con l’obiettivo della riproduzione. In buona sostanza volendo non è necessario il rifrattometro, o il mostimetro, analisi particolari per avere l’idea della maturità dell’uva, talvolta basterebbe osservare il colore dei vinaccioli e un assaggio per coglierne la maturità, con l’aiuto poi di api e uccelli che quando iniziano a mangiare gli acini ci danno indicazione che siamo (quasi) pronti per raccogliere.

Buccia. I composti fenolici presenti si ripartiscono nelle cellule dell’epidermide e nei primi strati della sotto epidermide. I tannini presentano strutture complesse ma il loro grado di polimerizzazione varia poco durante la maturazione e il loro potere astringente tende man mano a diminuire; essi sono molecole con proprietà colloidali a differenza dei tannini di raspo e vinaccioli. E’ risaputo che i tannini delle bucce sono meno astringenti di quelli dei vinaccioli causa probabilmente di un loro maggior grado di polimerizzazione (circa 15 unità rispetto a un media inferiore a 10 unità per quelli dei vinaccioli) oltre al fatto che essi sono spesso presenti in forma di complessi tannini-polisaccaridi e tannini-proteine che conferiscono morbidezza al vino.

La quantità e qualità di questi composti sopraccitati dipende sia dalla varietà sia dalle tecniche colturali utilizzate in campo, sia dalla scelta dell’epoca di raccolta ed anche dalle tecniche di ammostamento e vinificazione.

Diraspatura e Pigiatura. Da studi (Ribereau-Gayon) emerge che la presenza di raspi aumenta i polifenoli totali (tannini compresi ovviamente) ma diminuisce l’intensità colorante e questo pare dovuto a un effetto adsorbente da parte dei raspi nei confronti degli antociani. Considerando l’evoluzione del colore grazie anche alla copigmentazione si è osservato come vini non sottoposti a diraspatura diano nel tempo vini più colorati, anche se inizialmente l’effetto è esattamente opposto.

In primis, arrivata in cantina, l’uva è sottoposta spesso a una pigia-diraspatura o viceversa a una diraspa-pigiatura. Considerando che i tannini localizzati nei raspi sono a forte potere astringente e quindi i meno nobili, l’utilizzo di pigiadiraspatrice ha come rischio principale quello che i raspi siano schiacciati e quindi rilascino succo vacuolare amaro e astringente. Compiendo invece una diraspa-pigiatura non s’incorre in questo spiacevole inconveniente ma si rischia di aver una minor resa causata da una perdita di prodotto in fase di diraspatura; ovviamente non è condizione del tutto necessaria e difatti in alcuni casi questo passaggio viene eliminato come ad esempio quando s’intende effettuare una macerazione carbonica, in cui l’integrità del grappolo è fondamentale.

Macerazione. Operazione di dissoluzione nella parte liquida dei composti localizzati nelle parti solide dell’uva ottenuta per rottura degli acini durante la pigiatura. La fase fondamentale di una vinificazione in rosso è la cosiddetta macerazione; essa apporta fondamentalmente composti fenolici per struttura e colore del nostro prodotto finale oltre che per quanto riguarda la componente aromatica e altre importanti sostanze. Come abbiamo visto in precedenza nel grappolo si ha una vasta gamma di tannini ognuno con un “sapore” proprio, i quali si localizzano in determinati siti. Lo scopo della macerazione è quindi quello di far si che vengano estratti i componenti migliori per aroma, sapore e struttura cercando di non far passare nel prodotto sostanza con nota vegetale, amara, erbacea ecc.

I Fattori coinvolti sono molteplici: il tempo, maggiore è il tempo di contatto, maggiore è l’estrazione; la temperatura, più è alta, più si contribuisce all’estrazione; il contatto liquido-solido, più lungo è il contatto, piu alta è l’estrazione; l’anidride solforosa, dosi eccessive decolorano, dosi mirate hanno azione estrattiva; l’alcol, più siamo in presenza di alcol e maggiore sarà l’estrazione tannica in quanto l’alcol è per natura un solvente; infine l’enzimaggio, termine un po’ curioso ma che in sostanza ci suggerisce che con l’aggiunta di enzimi macerativi si aumenta l’estrazione del colore e dei tannini.

Ci sono varie tecniche di macerazione che si differenziano sostanzialmente per epoca (pre-fermentativa, fermentativa, post-fermentativa), temperatura, durata che contribuiscono all’estrazione del tannino. Tra queste è bene ricordare:

Macerazione Pre-Fermentativa a freddo (MPF). Questa tecnica consiste nel ritardare l’avvio della fermentazione dei mosti rossi per un tempo variabile dall’una alle due settimane. Essa si basa sul principio di raffreddamento del pigiato (una forma più elaborata prevede il raffreddamento attraverso CO2 liquida o neve carbonica) in modo tale da favorire, attraverso lo choc termico, la rottura delle cellule e la liberazione di succo molto tintoreo. Si ottiene quindi un’estrazione che privilegia il colore attenuando l’estrazione della componente tannica. Dopo questo primo periodo di estrazione a freddo la temperatura viene riportata a livelli idonei per l’inizio della classica fermentazione in rosso.

Macerazione Post-Fermentativa. E’ di solito riservata ai vini destinati a un lungo invecchiamento poiché ha lo scopo di estrarre i tannini dei vinaccioli che andranno con il tempo a interagire con altre sostanze contribuendo alla rotondità del vino. La macerazione è accompagnata spesso da rimontaggi che favoriscono l’aerazione del mezzo e un continuo contatto tra vinacce e parte liquida omogeneizzando la massa.

Macerazione Carbonica. Viene utilizzata frequentemente per vini di pronta beva come i Novelli ma non solo, favorisce la degradazione dei tessuti vegetali; i composti fenolici, antociani e sostanze azotate diffondono più velocemente dalla buccia. L’estrazione di tannini e dei pigmenti polimerici è minore rispetto alla vinificazione classica; ne consegue un vino con minore intensità colorante ma con una componente aromatica imponente. Le caratteristiche di questi vini sono generalmente:
• Colore vivace, non molto intenso;
• Profumo intenso e particolare (fruttato) di durata limitata;
• Tannicità e acidità fissa contenuta;
• Estratto secco non elevato;
• Morbidezza e rotondità di gusto.

Fase di affinamento in legno. In questa fase entrano in gioco un altro tipo di tannini, i tannini idrolizzabili, derivanti dal legno (botti o surrogati). Essi possiedono molti gruppi ossidrilici (OH) suscettibili a essere ossidati e quindi hanno un forte potere antiossidante nei confronti di altri composti presenti nel mezzo. Fanno parte di questa categoria i tannini ellagici e i tannini gallici poiché idrolizzati liberano rispettivamente acido ellagico e gallico. I tannini svolgono anche varie funzioni secondarie tra le quali:
– Combinazione con le proteine;
– Combinazione con i polisaccaridi: questo legame comporta una diminuzione dell’aggressività dei tannini interferendo nel legame sopraccitato tannini-proteine salivari e conferendo quindi una maggior morbidezza al prodotto;
– Polimerizzazione;
– Chelazione dei metalli eliminandoli dal mezzo;
– Condensazione: uno dei fenomeni più complessi a cui partecipano i tannini è la condensazione con gli antociani (frazione colorante).

Tannini aggiunti. Oggigiorno esistono in commercio innumerevoli preparati di tannini ognuno con uno scopo preciso, in base alla composizione (siano essi tannini di vinaccioli, bucce, ellagici, di quercia, castagno, di the, di limone, da mimosa, di tara, di galla, di quebracho, di frutti rossi, di rovere, ecc) e al momento in cui questi vengono aggiunti al vino.

In linea del tutto generale si può dire che sia per la stabilizzazione proteica sia per la protezione del colore siano preferibili i tannini proantocianidinici mentre per quanto concerne il loro potere antiossidante siano più indicati i tannini idrolizzabili.

In conclusione, ripensando alla componente polifenolica del vino che viene condizionata da fattori quali il vitigno, le caratteristiche pedoclimatiche del luogo di coltivazione e le tecniche di coltivazione, vinificazione, invecchiamento e/o conservazione applicate ci viene da fare un’ultima considerazione: che senso ha eliminare i vinaccioli dalla macerazione e poi dopo aggiungere tannini da vinacciolo di un’altra varietà? Che senso ha la pressatura soffice per eliminare immediatamente le bucce e poi dopo aggiungere tannini di buccia estratti da vinacce fresche, ad esempio di Chardonnay? Che senso ha quindi aggiungere, più in generale, se la miglior cosa da fare appare essere togliere?

Togliere e non mettere quindi, questo dovrebbe essere il motto, o meglio lavorare con i buoni propositi di preservare quanto di meglio ci sta nel frutto, a partire da una materia prima sana ed eccellente, figlia di una viticoltura di precisione, per grazia di Dio di una buona annata e di un’enologia non necessariamente sottrattiva a causa di chiarifiche o filtrazioni spinte, senz’altro non additiva ma bensì conservativa di tutto quanto di buono naturale vi è nell’uva e che dovremmo ritrovarci poi nel nostro bicchiere di vino!

di Gerardo Vernazzaro, Viticoltore ed Enologo¤.

Con la collaborazione di Angelo Di Costanzo¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Elogio della bevibilità

28 gennaio 2019

Vi è negli ultimi anni una ricorrente deriva acidistica¤ a cui molti tra appassionati e bevitori esperti continuano a strizzare l’occhio certificandola come una sorta di avanguardia enoica non più trascurabile, anzi, quasi una tendenza irrefrenabile mentre il mercato, quello che rappresenta una buona fetta delle movimentazioni di vino in tutti canali distributivi, continua ad apprezzare e a preferire le morbidezze e le dolcezze.

‘’Leggerezza” e “bevibilità”, termini sino a qualche tempo fa appannaggio di vini di basso profilo o comunque di secondo e terzo piano, sembrano invece ritornare parole di un certo spessore nel vocabolario tecnico-descrittivo anche degli esperti più ascoltati. Pensandoci, questo tipo di vini sono sempre stati parte della cultura italiana del vino ed in particolar modo di quella partenopea, c’è una immagine che non possiamo scordare, ben fissa nella memoria di tutti noi, quella del vino rosso bevuto fresco, se non freddo, talvolta con le percoche e quando troppo “tosto” (tannico, alcolico) con l’aggiunta di ghiaccio e gassosa per diluirne la struttura ed aumentarne la bevibilità.

Erano i tempi in cui il capo famiglia, seduto a capotavola, alla domenica, gestiva da sé la damigianella da 5 litri di fianco al tavolo facendo da coppiere distribuendo il vino ai commensali, indicando a tizio e a caio quando e perché fosse necessario un tot di diluizione. Possiamo quindi affermare senza ombra di dubbio che la tendenza è sempre stata a favore dei vini leggeri, caratterizzati da bassa gradazione alcolica e più o meno scarichi di colore in relazione al vitigno o agli assemblaggi di provenienza, di certo poco tannici.

Si arrivava a certi vini per vie traverse, anzitutto a causa le rese altissime per ettaro, le macerazioni brevi (quando non brevissime), l’assenza di tecniche enologiche capaci di garantire maggiori estrazioni (oggi si lavora anche con enzimi macerativi, attenzione alle temperature, i rimontaggi), soprattutto perché tranne in rari casi i legni di rovere francese e americano non si usavano affatto, quindi i tannini presenti nei vini erano pochi e perlopiù provenienti dall’uva e non rilasciati al vino tramite il contatto con il legno o altro.

La necessità di leggerezza è quindi una eco che arriva da molto lontano, non è una moda contemporanea o una tendenza lanciata dai nuovi intenditori; la ricerca, la voglia, il desiderio di vini oggi considerati moderni perché leggeri, luminosi perché (talvolta) trasparenti, godibilissimi perché caratterizzati da grande bevibilità, equilibrati e non pesanti, addirittura da bere freschi mettono proprio tutti d’accordo, appassionati, fini esperti degustatori e bevitori comuni. Restano forse figli di un Bacco minore, come erano considerati fino a dieci, vent’anni fa questa tipologia di ‘’vinelli’’, se paragonati ai grandi vini internazionali o ai Super qualchecosa, perchè concentrati, scuri, fitti, impenetrabili, alcolici, suadenti, voluttuosi e ricchi, quasi sempre affinati in legno pregiato, anzi, barriccati.

Stiamo pertanto assistendo ad un lento ma inesorabile cambiamento del fronte, ora la situazione si è praticamente ribaltata, assistiamo cioè ad una inversione di tendenza laddove alla potenza, la concentrazione e le alte gradazioni alcoliche di pesi massimi vengono preferiti la finezza, l’eleganza e la bevibilità di pesi medi-leggeri, dalle gradazioni alcoliche contenute; per dirla con parole dinamiche non più vini centometristi ma maratoneti, vini ossuti più che muscolosi, vieppiù quando identitari e di spiccata personalità varietale e territoriale.

Non ce ne vorranno alcuni ma riteniamo una fortuna questa decisiva virata, una variazione sul tema che consegna una idea quantomeno diversa del ’’vino modello’’ cui ispirarsi e al quale molti produttori tendevano spesso più per inerzia che per intuizione, talvolta ‘’conciando’’ i loro vini – proponendo cioè tagli con vini più tannici, intervenendo sulla gradazione alcolica, aggiungendovi varietà tintorie, o tannini esogeni, trucioli, gomma arabica, per dire -, al fine di renderli appetibili dal mercato perché simili a, somiglianti a, poiché la critica era massivamente orientata proprio a prediligere vini così fatti, concentrati e alcolici, in qualche maniera ‘’costruiti’’.

Un cambio di rotta che lentamente spinge oggi taluni esperti addirittura a storcere il naso davanti a questi vini quasi sempre uguali a se stessi e lontani anni luce dalla quotidianità dei comuni bevitori.

Questo passaggio epocale è merito di molti e un po’, diciamocelo, una piccola vittoria per quella realtà tanto sollecitata dai tanti movimenti naturali, bio e biodinamici che per quanto divisivi e contrastanti – talvolta incomprensibili – hanno però avuto il merito di stimolare anche i produttori cosiddetti convenzionali nel rivedere le loro scelte agronomiche e di vinificazione, rivolgendosi ad un modo di fare il vino in maniera più semplice, accorciando la filiera e gli interventi in vigna come in cantina; appare quindi fondamentale oggi più che mai mettere in bottiglia un vino sincero, identitario, una sorta di cartina tornasole del vitigno in relazione alle condizioni pedoclimatiche del territorio di provenienza, senza ricorrere necessariamente a maquillage eccessivi, ad una sorta di chirurgia plastica con il rischio di ritrovarci nel bicchiere vini talvolta caricaturali.

In natura ci sono vitigni che hanno queste caratteristiche, il Pinot Nero, il Gamay, il Piedirosso, il Rossese di Dolceacqua, la Schiava, per citarni alcuni tra i più comuni in Francia e in Italia. Anche se oggi non è poi così difficile trovare sul mercato dei Merlot, dei Cabernet Franc che sono stati messi, per così dire, a dieta per rispondere alle esigenze di un consumatore più attento alla bevibilità che alla sostanza, così aumentando le rese in vigna (meno zucchero, quindi meno alcol e meno tannino), anticipando il raccolto per ottenere un’acidità totale più alta e un ph più basso, abbandonando il legno non avendo più necessità di un effetto distensore per la parte tannica preferendovi una tecnica enologica più immediata che contribuisce ad ‘’alleggerire’’ i vini, come le macerazioni più brevi, a temperature al di sotto dei 22-24 gradi, macerazioni pre-fermentative a freddo o la macerazione carbonica delle uve totale o parziale.

Insomma, possiamo dire che se prima si faceva di tutto per estrarre quanta più sostanza possibile da certi vini, tannini compresi, oggi la tendenza è di estrarre il meno possibile, o quanto meno il giusto necessario per godere di vini territoriali, identitari e di carattere ma agili e vibranti, finanche serbevoli talvolta, vini che quando sono pienamente centrati rappresentano un vero elogio della bevibilità di cui non possiamo che continuare a parlarne un gran bene.

di Gerardo Vernazzaro, Viticoltore ed Enologo¤.

Con la collaborazione di Angelo Di Costanzo¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Comfort Wines, ad esempio il Fidelis di Cantina del Taburno e il Rubrato di Feudi di San Gregorio

22 gennaio 2019

Come per i ”Comfort Foods” ovvero quei cibi a cui ricorriamo talvolta per soddisfare un bisogno emotivo alla ricerca di sapori consolatori, stimolanti e spesso nostalgici, così vi sono i ”Comfort Wines”, vale a dire bottiglie sicure, di solito appaganti, vini che continuano ad essere tra i più venduti sul mercato e consumati in Osterie, Wine Bar, Ristoranti e ultimamente finanche in Pizzerie, con grande successo soprattutto al calice.

Irpinia Aglianico Rubrato 2017 Feudi di San Gregorio - foto l'Arcante

Ne abbiamo già scritto qui, sono generalmente considerati economici e percepiti come semplici, immediati, che non richiedono particolari attenzioni oppure conoscenze specifiche in materia di degustazione per essere spiegati e apprezzati sin dal primo sorso. Vi sono, tra questi, alcuni vini che lentamente, anno dopo anno, sono letteralmente entrati a far parte della vita quotidiana di appassionati e non. 

Due esempi a noi molto cari sono il Rubrato di Feudi di San Gregorio e il Fidelis di Cantina del Taburno, entrati con pieno merito nella quotidianità dell’appassionato che oggi fa la spesa al supermercato, domani magari va ospite a pranzo a casa di amici, al sabato sera gli tocca scegliere il vino al Wine Bar oppure al Ristorante. Due nomi che vanno ben oltre la rappresentazione dell’azienda stessa che li produce, qualcuno lo ricorderà ma non di rado sono stati percepiti addirittura come una denominazione a se stante mentre per molti, possiamo dirlo senza temere smentita, continuano ad essere un investimento sicuro, moneta sonante per far girare velocemente la cantina.  

Il Rubrato viene prodotto ininterrottamente dal 1994, un Best Seller che ha pochi eguali in Campania dove continua a registrare i numeri più importanti tanto sul mercato Ho.Re.Ca quanto su quello della Grande Distribuzione Organizzata, oggi ribattezzata ”Canale Moderno”. Un rosso da uve Aglianico sempre all’avanguardia, dal colore vivace, franco ed espressivo al naso come al palato, dal sorso preciso e immediato come questo duemiladiciassette, un classico passpartout per entrare nelle corde di chi volge i primi passi con il vino, l’abbinamento cibo-vino o mostra le prime attenzioni ai varietali tradizionali dell’entroterra campano rifuggendo però dalle astringenze classiche dell’Aglianico.     

Aglianico del Taburno Fidelis 2015 Cantina del Taburno - foto l'Arcante

Alla stessa maniera dobbiamo dire del Fidelis di Cantina del Taburno, altro campione di vendite che ci accompagna praticamente da sempre. Se ne imbottigliano mediamente circa 150.000 bottiglie l’anno, anche qui Aglianico ma di provenienza dell’areale del Taburno; il vino base fa fermentazione malolattica in botti grandi da 50 e 100hl e quindi viene lasciato affinare in barriques generalmente di secondo e terzo passaggio. Venduto in larga parte in GDO non manca però quasi mai nelle migliori carte dei vini di Ristoranti e locali che hanno a cuore una scelta mirata di vini da proporre soprattutto al bicchiere.

Siamo rimasti piacevolmente soddisfatti da questo duemilaquindici, un rosso dal colore rubino e dai profumi gradevolissimi di piccoli frutti neri, dal naso ampio che ricorda toni scuri di grafite e sottobosco, finanche di tabacco. Il sorso è asciutto e profondo, il lungo percorso di affinamento lo alleggerisce dalle austerità caratteristiche dell’aglianico di queste terre beneventane consegnandogli però buon equilibrio e tipicità, unite a vivacità gustativa e piacevole persistenza.

Leggi anche Comfort Wines, most unwanted Qui.

Leggi anche Quattro grandi classici italiani da non perdere mai di vista Qui.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Stanno tutti bene ma non tutto va bene

4 gennaio 2019

Nelle ultime settimane abbiamo passato in rassegna un bel po’ di assaggi delle ultime annate prodotte dalle nostre parti qui nei Campi Flegrei, dobbiamo dire in larga parte tutti i vini si sono rivelati davvero molto interessanti e proiettati nel futuro con l’approccio giusto per franchezza, freschezza e leggerezza  espressiva. Non mancano certo piccoli capolavori¤, ma questi solo il tempo li rivelerà del tutto. E’ proprio il caso di dire che stanno tutti bene.

Di alcuni ve ne abbiamo già dato conto¤, e non può che farci piacere notare come certi nomi¤ apparentemente sottovalutati negli ultimi anni, vadano rapidamente recuperando lustro e ritornino in mente anche alla critica più gettonata, ne siamo molto felici, ciò non può che fare bene al racconto di un territorio straordinario che ultimamente pare però un po’ avaro di nuovi protagonisti.

Nelle prossime settimane ne racconteremo delle belle, frattanto invece, tronfi di averci messo le mani tra i primi e certi di non aver mai smesso si sostenere, spronare, scrivere di tutti i produttori coinvolti ci viene quasi spontaneo far notare – lo sappiamo è un fatto di una banalità unica – come l’apprezzamento quasi unanime dei vini dei Campi Flegrei¤ non vada suscitando in nessun modo almeno un pizzico di orgoglio per le Amministrazioni e gli Enti Locali che poco o nulla fanno per la salvaguardia delle aree vocate e dei luoghi in prossimità di vigneti e cantine. Posti che dovrebbero richiamare enoturisti a frotte o quantomeno suscitare un certo rispetto ambientale ma che invece versano il più delle volte nel totale degrado ed abbandono, come dire Coscienza Ambientalista zero!

Condurre qui degli appassionati, un gruppo qualsiasi di enostrippati per alcuni è diventata una partita persa a tavolino, senza nominare tutte le difficoltà di chi deve accogliere clienti, importatori, giornalisti non senza disagio. Un territorio ampio e complesso quello flegreo, ne riconosciamo le difficoltà, il più delle volte definito odiosamente da molti “un conurbio suburbano”, cela però anche  bellezze e paesaggi suggestivi e struggenti, spesso misconosciute persino da chi ci vive figuriamoci cosa ne possa sapere chi lo visita e ne subisce superficialità e disinteresse pubblico. Peggio è, talvolta, intorno a quelle cosiddette ”vigne metropolitane” che dovrebbero rappresentare oasi di cultura e valori da preservare ad ogni costo, degli avamposti a salvaguardia di un patrimonio dal valore inestimabile ma che, ahinoi, rischiano di divenire spot di propaganda e niente di più. Questo non va per niente bene!

Senza andare troppo in là sognando modelli tipo “La Strada del Vino dell’Alto Adige¤” ci sentiamo in dovere di ricordare a questi signori Amministratori e rappresentanti di Enti Locali che ci sono voluti oltre vent’anni di grandi sacrifici in vigna e in cantina per portare in bottiglia vini degni di raccontare una storia credibile, dalle origini fortissime e uniche, i protagonisti di questa lunga maratona li conosciamo tutti, dalla famiglia Martusciello¤ ai vari Varchetta, Babbo, Farro, dai Palumbo ai Quaranta, Zasso o i Carputo sino agli ultimi Moccia¤, Di Meo¤, Schiano e Fortunato, ecco non lasciamoli soli, mai più soli. 

© L’Arcante – riproduzione riservata

Brunello di Montalcino 2004 Pian dell’Orino

17 dicembre 2018

Ci sono storie, vini e persone che rimangono per sempre. Abbiamo a lungo raccontato di loro qui su queste pagine, Caroline e Jan Endrik ne hanno passate tante per strappare qui in Toscana quel minimo sindacale di credibilità che si deve a chi ha stravolto la propria vita pur di inseguire un sogno.

Forse anche per questo i loro vini, il loro Brunello anzitutto, sono diventati in pochi anni dei riferimenti assoluti di questo pezzo di storia del vino naturale italiano, vieppiú per chi va alla ricerca di piccole grandi storie dentro e fuori una bottiglia.

Pian dell’Orino è collocata in uno dei posti più suggestivi di Montalcino, praticamente con vista sulla Tenuta Greppo dei Biondi Santi¤ ma ciò che rende unica questa etichetta è quell’imprinting che Caroline e Jan hanno deciso di dare ai loro vini, definitivamente puri, vivi, inconfondibili. L’ideale li tiene strettamente confinati ai rigidi protocolli naturali, in vigna la cura biologica della piantagione è maniacale, assumendo un ruolo centrale, mentre in cantina, con una manualità essenziale e moderna al tempo stesso si riesce a garantire vini che oltre ad una loro spiccata autenticità riescono, tanto il Brunello quanto i loro vini cosiddetti minori come il Piandorino e il Rosso di Montalcino, ad esprimere una integrità di quelle che rimangono ben fisse nell’immaginario tanto da regalare bevute indimenticabili.

Solo per questo di tanto in tanto vale la pena tornarci su e lasciare traccia dei loro vini, un grande esercizio per chi ama queste terre e i rossi qui prodotti che consegnano sempre esperienze di grande valore emozionale. Per questo ci siamo privati dell’ultima bottiglia di Brunello di Montalcino 2004 in cantina ma senza alcun rimorso, questi vini continuano a tracciare un solco incredibile tra i pregiudizi sul biodinamico e la perfezione stilistica dipinta da molti come irraggiungibile per i cosiddetti vini naturali. Ad avercene per farne lezione.

Un Brunello questo duemilaquattro a dir poco straordinario, l’impronta è incredibilmente vivida ed espressiva, il colore rubino non ha alcun cedimento se non una limpida trasparenza appena aranciata sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso, a quasi tre lustri di distanza è rimasto profondamente varietale con note tostate appena accennate e terziari che vengono fuori solo alla distanza, tra l’altro senza incidere particolarmente, disegnandone così un quadro olfattivo chiaro e didascalico che gli rende fascino, suggestione, notevole complessità. Il frutto ha conservato tutta la sua polposità, il sorso impressiona per equilibrio e sapidità, lunghezza ed ampiezza, nel bicchiere ritroviamo insomma una bevuta di rara autenticità.

Leggi anche Pian dell’Orino, il grande Brunello a Montalcino¤.
Leggi anche Brunello di Montalcino 2002¤.
Leggi anche Brunello di Montalcino 2003¤.
Leggi anche Brunello di Montalcino 2006¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Messina, Faro 2015 Bonavita

12 dicembre 2018

I produttori di questa doc siciliana si contano perlopiù sulle dita di una mano, Giovanni Scarfone con i suoi 7 ettari di proprietà di cui due e mezzo vitati si è guadagnato negli ultimi 10 anni una posizione di primissimo livello con i suoi vini, annata dopo annata sempre precisi e pienamente espressivi del terroir messinese di provenienza.

L’areale del Faro doc si estende sulle colline e lungo le coste che si affacciano sullo Stretto di Messina, in un territorio ventilato, luminoso e particolarmente vocato per le varietà Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio, Nocera prevalentemente utilizzate negli assemblaggi, alle quali eventualmente si possono aggiungere Nero d’Avola (Calabrese), Gaglioppo e Sangiovese, da soli o congiuntamente. I vini qui prodotti richiamano alla mente quelli del vicino comprensorio dell’Etna, sono forse talvolta meno profondi e complessi di questi ma hanno eleganza da vendere.

Il Faro di Bonavita viene fuori da una vigna ad alberello con alcuni ceppi che arrivano a 60 anni, piantata su suoli ricchi di argilla e tufi calcarei. Il vino matura generalmente per un anno e mezzo in tini troncoconici di rovere da 30 hl, poi una volta in bottiglia vi rimane almeno sei mesi prima di arrivare sul mercato.

Questo duemilaquindici è una gran bella versione, è stato davvero avvincente l’approccio al bicchiere poiché ci siamo ritrovati praticamente lanciati in una degustazione alla cieca e l’abbiamo colto quasi al primo colpo, così affascinante il colore, così franco e caratterizzato da toni scuri il naso, con sentori di prugna e nuances aromatiche di macchia mediterranea. E l’annata calda sembra non aver interferito in alcun modo con il taglio gustativo: il sorso è sottile e invitante, slanciato ed elegante, con un finale di bocca davvero saporito e appagante. Non una sorpresa, di grande soddisfazione!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Comfort Wines, ecco quattro grandi classici italiani da non perdere mai di vista

25 novembre 2018

Sono quattro grandi classici italiani, senza dubbio tra i comfort wines¤ di maggiore successo che non dovrebbero mai mancare nelle carte dei vini di Osterie, Wine Bar e Ristoranti. Valpolicella Ripasso, Rosso di Montalcino, Barbera d’Alba, Langhe Nebbiolo, di queste ecco alcune etichette imperdibili tra gli ultimi assaggi.

Valpolicella Ripassa Superiore Campo Ciotoli 2015 I Campi - foto L'Arcante

Valpolicella Ripasso Superiore Campo Ciotoli 2015 I Campi. Vi abbiamo raccontato qualcosina dell’azienda scrivendo del loro Soave Campo Vulcano¤, lasciamo così traccia anche di quest’altra etichetta secondo noi molto ben riuscita. Da uve Corvina e Corvinone in prevalenza, poi Rondinella e Croatina. Un grande classico da queste parti il Ripasso¤, vino di grande successo di cui un po’ si sono perse le tracce, il Campo Ciotoli 2015 di Flavio Prà ci è parsa una buona espressione dandoci l’impressione di trovarci davanti ad una bottiglia di spessore e ben fatta, dalla discreta personalità e caratterizzazione, con una buona intensità olfattiva, ampiezza dei profumi e tanta piacevolezza di beva, tutto quanto essenziale per i rossi della tipologia. Uno di quei vini ‘’da conversazione’’ che ogni Osteria e Wine Bar non dovrebbero mai farsi mancare in carta, da suggerire e sbicchierare su sformati di verdure e carne, timballi di pasta al forno, taglieri di salumi.

Rosso di Montalcino 2016 Baricci - foto A. Di Costanzo

Rosso di Montalcino 2016 Baricci. Non è proprio il nostro modello di Rosso di Montalcino che generalmente preferiamo meno corpulenti e tendenzialmente più acidi che tannici, ci rendiamo conto però che la buona annata, particolarmente ‘’ricca’’, ha reso la vita difficile un po’ a tutti da queste parti costringendo molti a fare i conti con un millesimo potente e vini sin dai primi assaggi pronti seppur un tantino ‘’carichi’’. Il duemilasedici di Baricci è un Rosso con tanta materia e senza dubbio lunga vita davanti. Ci è parso un vino polposo e gratificante, uno di quei rossi che riempiono la bocca, da spendere principalmente su arrosti impegnativi oppure in abbinamento a caroselli di formaggi a pasta dura¤ (anche erborinati) di lunga stagionatura.

Barbera d'Alba 2015 Rizzi - Foto A. Di Costanzo

Barbera d’Alba 2015 Rizzi. E’ di quelle bottiglie da non far mai mancare in casa, rosso dai profumi e sapori d’un tempo che fu eppure sempre contemporanei nonostante le mode e le fisime del momento. Esprime un bel colore rubino dalla chiara vivacità, ha un naso fruttato e lievemente speziato, richiama alla mente anzitutto sentori di piccoli frutti neri, mora, poi prugna, al palato il sorso è asciutto e vivace, piacevolmente caldo. Con l’autunno, quando le cucine soprattutto alla domenica si riempiono di profumi di carni al sugo o stufate in umido, ecco il vino da berci su.

Langhe Nebbiolo 2016 Giuseppe Cortese - Fptp A. Di Costanzo

Langhe Nebbiolo 2016 Giuseppe Cortese. I vini di Giuseppe Cortese sono sempre un buon affare per chi desidera avvicinarsi ai vini di Langa senza doversi per forza svenare con vari Barolo o Barbaresco, vini questi senz’altro prelibati ma che si sa hanno sempre bisogno di un po’ di anni di affinamento per esprimersi al meglio. E giovani Nebbiolo facili da bere se ne trovano diversi sul mercato anche se talvolta al di là della scritta in etichetta vi è davvero poco in bottiglia che sappia coniugare ed evocare quei territori nella maniera giusta ed originale. Ecco quindi tra le varie etichette raccomandabili una da non farsi scappare assolutamente. Un Nebbiolo di finissima fattura, proveniente dalle vigne più giovani dello storico cru di Barbaresco Rabajà, vino sottile e invitante, dal colore rubino aranciato e dal naso intriso di sensazioni floreali e fruttate, di rosa, arancia rossa e sottobosco, dal sapore asciutto ed efficace, appena astringente sul finale di bocca, davvero un bel vino da non farsi mancare in cantina. Polenta e salsiccia, Schiaffoni con la Genovese, Agnello al forno con patate.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Il vino in pizzeria, ce ne faremo una buona ragione

27 ottobre 2018

Il successo della pizza è inarrestabile, negli ultimi 4/5 anni si è assistito ad un exploit incredibile che sembra portarsi dietro tra gli altri alcuni ”effetti collaterali” molto positivi, tra questi una crescita propulsiva del consumo consapevole del vino che in alcuni nuovi locali diviene addirittura protagonista assoluto scalzando per alto gradimento due storici abbinamenti come birra e cola.

L'Ortolana d'autunno dei F.lli Salvo - foto tratta dal web

L’Ortolana d’autunno dei F.lli Salvo

Si vanno così a delineare nuovi equilibri commerciali nel canale Ho.Re.Ca che nei prossimi anni promettono numeri ancora più importanti. A maggior ragione abbiamo assistito ad un fatto storico non trascurabile: il vino è riuscito dove non è riuscita la birra! Per anni infatti ci si è chiesto perché la birra, in particolar modo quella artigianale, facesse così fatica ad uscire da pub e pizzerie e ”scardinare” le resistenze della ristorazione di qualità, entrare cioè nelle carte dei ristoranti, fossero pure non necessariamente stellati. Ebbene, dopo vani tentativi, nonostante ingenti investimenti la loro presenza è rimasta timida e dimessa. Non è così per il vino in pizzeria che va invece molto forte, ritagliandosi sempre più spazio nonostante richieda investimenti considerevoli visto il più alto costo medio del prodotto, l’indispensabile formazione specifica del personale, una rotazione continua del capitale in cantina. 

Va detto per onestà che il vino in pizzeria c’è sempre stato, difficile smentirlo, vero è che non è mai stato così protagonista come pare diventarlo oggi. Tre anni fa se ne parlò approfonditamente nel libro di Francesco Aiello ”Sorbillo – la pizza di Napoli”¤ dove proprio il nostro Angelo Di Costanzo affrontò con attenzione e profondità l’argomento dell’abbinamento pizza e vino così concludendo: ”le scelte dell’abbinamento ideale vanno sempre studiate e misurate, e non buttate lì a caso giusto per compiacere o compiacersi”. Vino e pizza sono quindi da intendersi un’accoppiata vincente sempre, purché ragionata (!), non fosse altro per quel che rappresentano da un punto di vista storico, culturale e territoriale in Campania, in Italia e nel mondo.

Salvatore Salvo - foto tratta dal web

Salvatore Salvo nella Pizzeria alla Riviera di Chiaia

Anche per questo ci sentiamo quasi in dovere di evidenziare ed apprezzare il grande lavoro portato avanti da Francesco e Salvatore Salvo¤, senza dubbio tra i primi a dare impulso a questa sorta di nouvelle vague che quasi impone in pizzeria una visione diversa e più articolata sull’argomento. Un pensiero seminato e ben coltivato a San Giorgio a Cremano, nella loro prima storica sede ed oggi rilanciato con maggiore impulso nella nuova confortevole dimora di Palazzo Ischitella nel centro di Napoli, alla Riviera di Chiaia.

Un investimento importante che all’occhio più attento non sfugge, figlio di un duro lavoro di meditazione, analisi giuste, scelte oculate tese soprattutto a disinnescare la tentazione di strafare che è là, sempre in agguato pronta a trasformare un’intuizione acuta in un tentativo stucchevole e pretestuoso. Qui tutto ha un senso più compiuto perché cammina pari passo con la loro storia recente, la tradizione di famiglia, la ricerca continua su materie prime, qualità degli impasti, manualità artigianale di chi sta dietro al banco, davanti ai forni e nelle cucine e, non ultimo, in sala in mezzo alla gente. Ecco, così del vino in pizzeria ce ne faremo una buona ragione, tutta da godere.

Pizzeria Francesco&Salvatore Salvo – Riviera di Chiaia, 271 – Napoli – Tel. 081 3599926

© L’Arcante – riproduzione riservata

Il (tuo) vino tra web, social, Influencer

18 ottobre 2018

Vi è una sovrabbondanza di personaggi che vanno peregrinando con velleità da influencer del vino a destra e a manca. Non sono (tutti) giornalisti, né wine blogger, ché tra questi gli scappati di casa si conoscono ormai tutti e sono riconoscibili ad occhi chiusi.

Sapevamo che tecnicamente è influencer quella persona in grado di influenzare scelte d’acquisto, politiche o decisionali di altre persone; gode, pertanto, nella vita reale o in quella virtuale, di autorevolezza ed è riconosciuta come esperta di un determinato argomento.

Queste sono invece generalmente persone che si fanno notare per il loro comportamento singolare, che raccontano come originale e bizzarro e per questo si ritengono seguitissimi. Hanno di solito frequentato o appena terminato qualche livello di corso per sommelier – che mettono ben inciso nel loro profilo -, hanno meno di trent’anni ma si sentono decisamente dei millennials, tendono infatti a mescolarsi tra loro, pare per distinguersi. Mah…

Godono certamente di bella presenza, magari hanno quattro soldi e li spendono tutti per vanità, non hanno problemi a mostrarsi sui loro profili social eleganti, piene di fascino sino all’ammiccante quando indossano certi abitini succinti, oppure aggressive e fatale, a seconda della bottiglia di vino che indossano e che mostrano alla stessa stregua dell’ultima giacca prêt-à-porter duemiladiciassette, di una borsetta griffata, un monile di bigiotteria. Bottiglia rigorosamente tappata. Con giusto tre quattro parole copiate ed incollate dal sito web dell’azienda che gliele ha fornite.

Il vino è senza dubbio altro. Senza scomodare Soldati¤ o Veronelli¤, in una bottiglia c’è la storia di una terra, della sua uva, di coloro i quali ci faticano per raccontarceli. Ci sono anni di duro lavoro, talvolta 10, 50 e passa vendemmie (!), pensieri e patemi, fallimenti e successi. Ci sono insomma emozioni che certi bicchieri di vino non bastano, figuriamoci un selfie. Mi fa rabbrividire solo il pensiero che tutto questo possa sentire il bisogno di questo (nuovo) modo di comunicare, fosse solo anche l’ultimo dei tentativi rimasti per rendere il vino ed il suo consumo più popolare e consapevole.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Un lustro fa

17 ottobre 2018

Mamma mia che giornata memorabile quel 17 Ottobre del 2013! L’avessero voluta scrivere così avvincente la sceneggiatura di una giornata del genere non ci si crederebbe, giuro.

Ad ognuna la sua Leopolda, si potrebbe dire. Ebbene non ci sarei nemmeno dovuto essere là quel giorno e di ragioni ne avremmo avute, almeno una, importantissima. Eppure c’ero, ci siamo stati. Verso mezzogiorno, ad una manciata di minuti di distanza, mentre a Napoli Lilly¤ entrava in sala parto per dare alla luce Alessia, io mettevo piede là su quel palco a Firenze.

C’è da chiederselo, penso anche giustamente, se fosse dovuto andare proprio così:”Ma come, tua moglie entra in sala parto, nasce tua figlia e tu vai, te ne vai alla premiazione de L’Espresso?” Beh, forse sì, non fu per niente semplice scegliere, capire cosa fosse giusto fare in una situazione del genere. Ci pensammo tanto, ragionato e così decidemmo: questione di rispetto!

Si, rispetto, una parola che pare scomparsa dal linguaggio e dal comportamento di molti, soprattutto nel nostro mondo di Cucina e Sala. Quel rispetto che pare mancare a molti ”giovani” scalpitanti che proprio non si capacitano perché non gli venga riconosciuto (subito) quanto sono convinti di valere (secondo loro sempre un punto o due in più di quanto vengono valutati). Già, i punti, sembra che tutto alla fine si riduca a una rincorsa ai puntiai virgola 5, le Stelletelle. Macché…

Ecco, quel giorno a Firenze ci sono andato per rispetto, per chi volle ch’io fossi là quel giorno ma soprattutto per chi aveva permesso in tutti quegli anni di costruire passo dopo passo (anche) quel momento indimenticabile. Rispetto per tutti, a maggior ragione per la mia Lilly che quei passi li aveva tutti camminati con me. E un po’ anche per me stesso che, lasciatemelo dire, m’ero fattoun mazzo grosso così pe’ ll’avé!”¤.

_____________________________

Se vi va qui sotto trovate alcune delle cose uscite qua e là in giro che raccontano quell’evento del 17 Ottobre 2013 alla Stazione Leopolda di Firenze. E per chi è su Facebook, c’è anche un Video (qui il link¤) opera dell’amico del cuore Pino Esposito¤.

L’Espresso ¤ – Luciano Pignataro ¤ – Il Mattino ¤

Gambero Rosso ¤ – Identità Golose ¤ – Dissapore ¤

© L’Arcante – riproduzione riservata

Appiano, Alto Adige Pinot Bianco In der Låmm 2015 Weingut Abraham

8 ottobre 2018

C’è stato un tempo in cui una certa tipologia di vini bianchi scuotevano gli animi di appassionati e professionisti di ogni genere e settore della filiera  enoica coinvolgendoli repentinamente in un turbinio di sensazioni, opinioni e prese di posizioni in qualche caso eccessive; punti di vista talvolta comprensibili, altre meno, da un lato il pensiero libero e dall’altro le barricate tese sostanzialmente ad alzare barriere ideologiche che hanno ottenuto come unico risultato l’allontanamento di molti dal bere vini macerati.

Pinot Bianco 2015 Weingut Abraham

Vi è stata indubbiamente un poco di confusione, alcuni produttori mossi forse dalla troppa voglia di fare, si sono spinti nel seguire pedissequamente protocolli non sempre replicabili dappertutto o comunque non idonei a tutte le varietà menzionate nell’elenco delle uve da vino. Lo abbiamo visto, giusto per restringere il cerchio, anche dalle nostre parti qui in Campania con alcuni bianchi che hanno subìto tentativi talmente velleitari da sfociare in copie caricaturali di se stessi, con vini sostanzialmente sovraestratti, pesanti, addirittura ostici da bere; vini passati per cru quando non “da una vigna unica”, esempio di cosa si potesse fare con il varietale lavorandolo in un certo modo, spingendo in là l’asticella: ecco, ce lo saremmo volentieri risparmiato, una deriva stilistica per fortuna rientrata.

Di tutt’altro respiro questo splendido Pinot Bianco 2015 di Martin e Marlies Abraham prodotto dalle uve provenienti dal vigneto In der Låmm nel comune di Appiano, a circa 500m s.l.m.. Vigneto di circa 60 anni allevato su tradizionali pergole le cui radici affondano in un terreno composto da morene dell’ultima glaciazione, miste a pietrisco vulcanico e ricco di minerali di porfido e quarzo.

Vino di grande sostanza, sin dal colore paglierino carico e tendente all’oro più luminoso. Il naso è carico di piacevoli sensazioni floreali e fruttate, fiori bianchi e mela ben matura, erbette officinali e balsami. Il sorso è pieno e rotondo, appagante e godurioso, la lunga macerazione delle bucce dona grande complessità al frutto senza però sovrastarne qualità e freschezza, nonostante i 14° gradi in etichetta facciano immaginare tutt’altra bevibilità. Non vi è dubbio che vi è dietro questo vino un grande lavoro di selezione in vigna e tanta esperienza e massima attenzione in cantina. Una bella esperienza!

© L’Arcante – Riproduzione riservata

Limoni amari igp

29 settembre 2018

L’allarme è stato lanciato da tempo e molte autorevoli voci ne hanno ripreso le grida cercando di capire le ragioni del sistematico abbandono delle colture con l’intento di spronare e aiutare a confrontarsi per trovare delle soluzioni, una via condivisa per la salvaguardia non solo di un comparto economico ormai in piena crisi ma di un territorio che rischia molto di più di qualche conto corrente in rosso!

limoneti-e1538207015301.jpg

Limoneti in Costa d’Amalfi

Il progressivo abbandono dei limoneti, in particolar modo dei terrazzamenti più fitti e scoscesi comporta sostanzialmente il crollo dei muretti a secco alimentando così il rischio di frane che soprattutto in certi angoli della Costiera Amalfitana può risultare fatale soprattutto durante il lungo inverno con il rischio che pioggia e fango possano avere effetti devastanti per alcune località in particolare.

Le ragioni sono presto spiegate: molti degli agricoltori locali hanno ormai raggiunto un’età media di 60/65 anni e non vi è traccia del tanto agognato ricambio generazionale, ciò non favorisce certo una visione prospettica positiva. I giovani si sa preferiscono andare via in cerca di fortuna e chi resta, per mille ragioni, pare accontentarsi di lavorare nel turismo o nella ristorazione, anche solo come stagionale pur di non levare le tende. A questo, come si è detto, vi si aggiungono tutte le difficoltà evidenti del comparto che di certo non aiutano: il commercio dei limoni è diventato sempre più difficile, depredato del suo valore di autenticità di territorio ed origine a favore delle numerose varietà importate da altre nazioni e per giunta a molto meno.

A conti fatti ”Sfusato di Amalfi¤” e ”Limoni di Sorrento¤” rischiano seriamente di rimanere piacevoli rimandi letterari e nient’altro, tutto infatti sembra prendere un sapore decisamente amaro!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Soave Classico Vigneti di Carbonare 2016 Inama

23 settembre 2018

A parlar di vino quando si pensa ad un suolo vulcanico la mente va immediatamente all’Etna o al Vesuvio, magari qualcuno tra gli appassionati più attenti si ricorda del Vulture e dei nostri Campi Flegrei con le isole del golfo di Napoli, infine, forse, all’areale di Soave¤ nel veronese.

Il tema negli ultimi anni ha assunto grande valore dal punto di vista del racconto e della comunicazione del vino tant’è che proprio da queste parti non se lo sono fatti dire due volte calcando spesso la mano su certe caratteristiche della natura del terreno di quest’area che in qualche maniera contribuiscono a donare ad alcune etichette profili organolettici davvero interessanti.

Anche per questo abbiamo sempre seguito con molta attenzione i vini di Stefano Inama¤, capace di produrre bottiglie ogni volta di grande qualità e spessore: è suo il grande successo del Sauvignon Vulcaia Fumè ma sono molto noti a chi ama bere bene anche i Soave Vigneto du Lot e Foscarino e i rossi ‘’internazionali’’ dei Colli Berici tra cui Bradisismo e il Merlot Campo del Lago.

Non potevamo quindi mancare di provare alla sua prima uscita il ”Vigneti di Carbonare” duemilasedici, probabilmente il Soave Classico che punta ancor più a segnare la distanza siderale tra i suoi vini sempre verticali, sapidi e complessi da quelli prodotti nel resto del territorio del nord-est veneto; non a caso, immaginiamo, si è scelto di produrlo lavorando esclusivamente con acciaio e bottiglia senza passarlo per i legni come invece avviene per i precedenti succitati.

Il vino ha un bel colore paglierino carico, il timbro olfattivo è immediatamente piacevole e fragrante, perlopiù incentrato su frutta a polpa bianca e macchia mediterranea ma non mancano lievi note agrumate e sfumature balsamiche. Il sorso è pieno, fresco e accattivante, gustoso e sapido, l’abbiamo bevuto con gran soddisfazione con la Ventresca di tonno scottato di Pasquale Torrente al Convento di Cetara.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Piccola Guida ragionata ai vini dei Campi Flegrei

21 settembre 2018

‘’Vitigno o Denominazione’’? Il territorio flegreo è da sempre ben inteso come la culla della falanghina e del piedirosso, due varietali autoctoni straordinari che qui assumono caratteristiche e tipicità così uniche tanto dall’essere irripetibili altrove; vitigni per questo giustamente in primo piano anche sulle etichette che tutti abbiamo ormai imparato a conoscere ed apprezzare.

Piccola Guida Ragionata ai vini dei Campi Flegrei

Non vi è dubbio che gran merito del successo di questi vini è anzitutto dei tanti produttori che da anni lavorano duramente per migliorarsi e scrollarsi di dosso stereotipi finalmente superati: nell’immaginario collettivo i vini flegrei erano ”falanghine grevi e facili, bianchi beverini e spesso verdi”, per altri ”piedirosso perennemente in riduzione se non con puzzette addirittura tipiche”; insomma stupidaggini del genere legate perlopiù all’ignoranza e alla superficialità con le quali ci si approcciava e si raccontavano alcuni vini. Ignoranza e superficialità dalle quali non erano esenti talune specie di esperti cronisti e sommelier che a lungo hanno preferito metterli alla berlina prima di assaporare, è proprio il caso di dirlo, l’urgenza di un repentino ritorno sui propri passi evidentemente necessario nel nome di Bacco! E come non chiudere questa breve riflessione ricordando quanto alcuni produttori stessi siano stati per anni ostinatamente impegnati più a commercializzare i fasti del passato greco-romano anziché dedicarsi ed investire tempo e denaro nel migliorare vigna e cantina.

Pozzuoli, Lago d'Averno, Vigneto Storico Mirabella - Piedirosso Campi Flegrei

Pozzuoli, Lago d’Averno

E’ stata fatta tanta strada quindi, in questa ottica ci era parsa una buona idea persino apportare alcune modifiche al disciplinare della doc, già nel 2011¤, con l’intento – ci pare di ricordare – di dare un più ampio respiro a chi avesse voluto cimentarsi in questa nuova strada terroiristica, magari un po’ troppo ambiziosa visto il richiamo alla francese, ma indubbiamente interessante e per molti versi parecchio stimolante. Dispiace constatare però che a distanza di sette anni e quasi otto vendemmie alle spalle non se ne sia ancora fatto nulla: le cantine sembrano quasi aspettarsi a vicenda, in attesa di chi muova il primo passo, eppure proprio in questo momento di grande successo per i vini dei Campi Flegrei ci potrebbero stare un po’ di variazioni sul tema. Suvvia un po’ di coraggio!

Pozzuoli. Qui la vigna è dentro e fuori la città, ha confini apparentemente invisibili e talvolta invalicabili come il vallone tufaceo di Toiano o le colline di Cigliano e dello Scalandrone ricche di lapilli. Vigne stupende, baciate dal sole, vedi quelle nel Lago d’Averno, così suggestive da rimanerci a bocca aperta, consegnateci da una tradizione millenaria e da una vocazione unica e rara. Suggestivi i filari a Spalatrone sulla salita di via Scalandrone che affacciano direttamente sul mare, luogo formidabile per il piedirosso; poi le coste di Agnano a ridosso del vulcano Solfatara e fazzoletti un po’ più allungati a Monterusciello e in zona Cuma-Licola, carezzati dalla brezza marina, in certi casi con piantagioni moderne e allevate con sistemi contemporanei.

Az. Agricola Tenuta Matilde Zasso
Via Vicinale la Schiana 31, Pozzuoli
Tel. 0818555638
http://www.tenutamatildezasso.it
info@tenutamatildezasso.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei, Falanghina dei Campi Flegrei.

Az. Agricola Mario Portolano¤
Via Toiano 12, Pozzuoli
Tel. 0818042974 – 335460637
aziendamarioportolano@virgilio.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei, fuori doc Campania rosso igt Villa Teresa 6″ (Sei Pollici, ndr).

Az. Agricola Monte Spina – Antonio Iovino
Via San Gennaro Agnano 63, Pozzuoli
Tel. 0815206719
iovino.an@tiscali.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei Gruccione.

Az. Vitivinicola Tommaso Babbo¤
Via Scalandrone 22, Pozzuoli
Tel. 3384887522
http://www.cantinebabbo.it
info@cantinebabbo.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei Terracalda, Falanghina dei Campi Flegrei Sintema.

Cantine dell’Averno¤
Rampa Averno snc, Pozzuoli
Tel. 3381260655 – 3484950387
http://www.cantinedellaverno.it
cantine.averno@gmail.com
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei Riserva Pape Satàn, Falanghina dei Campi Flegrei.

Contrada Salandra¤
Via Tre Piccioni 40, Pozzuoli
Tel. 0818541661
Rif. Dolci Qualitá Pozzuoli
dolciqualita@libero.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei, Falanghina dei Campi Flegrei.

Salvatore Martusciello¤
C.so della Repubblica 138, Pozzuoli
Cantina in Via Spinelli 4, Quarto
Tel. 3483809880
http://www.salvatoremartusciello.it
info@salvatoremartusciello.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei Settevulcani, Falanghina dei Campi Flegrei Settevulcani.

Campi Flegrei - foto L'Arcante

Marano e le colline più prossime a Napoli, sino al cratere degli Astroni. L’areale più popoloso, Napoli appena fuori Napoli, ma che, inaspettatamente, cela il futuro più immediato della viticoltura flegrea; luoghi che nascondono un passato distratto che ha visto sacrificare al cemento ettari ed ettari di boschi, colture tipiche e vigne che dominavano la città a 360°, dalle terrazze dei Camaldoli alla piana di Agnano. Qui il vento è cambiato e spinge forte in poppa, l’hanno capito e ci lavorano duro piccoli e grandi viticoltori-produttori che qui vanno investendo sul futuro piantando vigna anziché colare, ancora, cemento. Alcune vigne sono dedite alla coltura biologica o comunque ad una agricoltura maggiormente responsabile e sostenibile!

Agnanum – Raffaele Moccia¤
Contrada Astroni 3, Napoli
Tel. 0813417004
http://www.agnanum.it
info@agnanum.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei Agnanum, Piedirosso dei Campi Flegrei Vigna delle Volpi, Falanghina dei Campi Flegrei Vigna del Pino.

Az. Agricola Quaranta
Via Pietra Spaccata, 4 Marano di Napoli
Tel. 0815875200 – 3388758162
http://www.levigneflegree.com
info@levigneflegree.com
Di particolare pregio: Falanghina dei Campi Flegrei Vigne di Parthenope.

Cantine Astroni¤
Strada Comunale Sartania 48, Loc. Pianura – Napoli
Tel. 0815884182
http://www.cantineastroni.com
info@cantineastroni.com
Di particolare pregio: Falanghina dei Campi Flegrei Colle Imperatrice, Falanghina dei Campi Flegrei Vigna Astroni, Piedirosso dei Campi Flegrei Colle Rotondella, Piedirosso dei Campi Flegrei Riserva Tenuta Camaldoli.

Cantine Federiciane Monteleone
Via Antica Consolare Campana 34, Marano di Napoli
Tel. 0815765294
http://www.federiciane.it
marketing@federiciane.it
Di particolare pregio: Falanghina dei Campi Flegrei, Vsq Metodo Martinotti Flegreo¤.

Belvedere – Loc. Fusaro, Bacoli

Quarto. L’areale ha una vocazione antichissima, qui siamo in piena campagna anche se l’esplosione demografica degli ultimi decenni ha caratterizzato fortemente il territorio con piccoli e grandi insediamenti suburbani, anche per questo rimane forse il terreno meno battuto della denominazione; qui certe estati sono torride e umide, situazione questa che fa letteralmente impazzire i vignaioli di tutta la piana. Chi ha vigne anche di poco più “alte” è costretto a fare tanta selezione in campagna per riuscire a portare a casa il risultato. La collina di Viticella, piantata perlopiù con Falanghina, esprime buoni frutti, da qui infatti provengono i vini di maggiore fragranza e leggerezza e a prezzi naturalmente più che ragionevoli.

Cantine Di Criscio Quartum¤
Via De Falco Giorgio 17/A, Quarto
Tel. 0818765942
http://www.cantinedicriscio.it
info@cantinedicriscio.it
Di particolare pregio: Falanghina dei Campi Flegrei.

Cantine Il Quarto Miglio¤
Via Cesare Pavese 19 – traversa via Trefole, Quarto
Tel. 0818760364
http://www.ilquartomiglio.it
info@ilquartomiglio.it
Di particolare pregio: Falanghina dei Campi Flegrei.

Carputo Vini¤
Via Viticella 93, Quarto
Tel. 0818760526
http://www.carputovini.it
info@carputovini.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei, Falanghina dei Campi Flegrei Collina Viticella.

Vigna Stadio – Monte di Procida

A Bacoli e Monte di Procida. Terrazze e costoni scoscesi con vista mare, la vigna qui è un patrimonio straordinario, regala scenari di un paesaggio di una bellezza unica che lentamente ritorna pienamente alla natura. Resti rupestri e vigne storiche in Via Bellavista, su ai ‘Pozzolani’, ai Fondi di Baia sino in via Panoramica a Monte di Procida con filari a strapiombo sul mare; qui nascono vini bianchi con caratteristiche olfattive decisamente interessanti, con una notevole impronta sapida e capaci, tra l’altro, di attraversare il tempo con discreta disinvoltura.

Cantine Farro¤
Via Virgilio 30-36, Bacoli
Tel. 0818545555
http://www.cantinefarro.it
info@cantinefarro.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei, Falanghina dei Campi Flegrei Le Cigliate.

Cantine del Mare¤
Via Cappella IV traversa 5, Monte di Procida
Tel. 0815233040
http://www.cantinedelmare.it
info@cantinedelmare.it
Di particolare pregio: Falanghina dei Campi Flegrei, Piedirosso dei Campi Flegrei, fuori doc Spumante Brezza Flegrea brut.

Az. Agricola La Sibilla¤
Via Ottaviano Augusto 19, Loc. Fusaro – Bacoli
Tel. 0818688778
info@sibillavini.it
Di particolare pregio: Piedirosso dei Campi Flegrei Vigna Madre, Falanghina dei Campi Flegrei Cruna DeLago.

Az. Agricola Piscina Mirabile¤
via Piscina Mirabile 63, Bacoli
Tel. 0815235174 – 3288068474
http://www.piscinamirabilevini.com
info@piscinamirabilevini.com
Di particolare pregio: Falanghina dei Campi Flegrei Vigna Mirabilis.

________________________________

Leggi anche Le Strade del vino dei Campi Flegrei¤

Leggi anche Doc Campi Flegrei¤

© L’Arcante – riproduzione riservata

Segnalazioni| Storie dal Rione Terra

15 settembre 2018

Il Rione Terra di Pozzuoli è stato nel corso dei secoli teatro di eventi, storici e naturali, apportanti cambiamenti importanti nella stessa morfologia dei Campi Flegrei. Nonostante ciò, esso è sempre rimasto abitato, conservando al suo interno memoria dello scorrere dei secoli.

Storie dal Rione Terra, di Gemma Russo, è una raccolta frutto di un anno di impegno della giornalista flegrea puteolana con la Pro Loco Pozzuoli¤ al Percorso Archeologico del Rione Terra. L’incontro con chi ha vissuto direttamente o indirettamente la rocca tufacea ha dato vita ad una pubblicazione con storie che dipingono la natura bradisismica della terra, l’importanza archeologica e storica, la quotidianità che non c’è più, fatta di usi e i costumi, anche gastronomici.

Storie dal Rione Terra lo puoi acquistare presso il Sedile dei Nobili sul Rione Terra di Pozzuoli il sabato e la domenica dalle ore 9 alle ore 17. Oppure, puoi acquistare una copia chiamando la Pro Loco Pozzuoli al numero di tel. 081 303 2275. Si effettuano spedizioni.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Caro Peppe Mancini ti scrivo

1 settembre 2018

Quanto manca un nuovo Peppe Mancini¤ al panorama enoico campano? Tanto, tantissimo! Persona di grande pragmatismo Peppe, mai una parola fuori posto, eppure non ha mai smesso di coltivare con grande passione ogni sua intuizione, come quella di aver portato gli occhi del mondo su un territorio perlopiù sconosciuto ai più come quello Caiatino.


Uno che alla fine degli anni ’80, da Avvocato e Principe del Foro rimette tutto in discussione e fa della sua casa di campagna a Castel Campagnano, che raggiunge perlopiù nel fine settimana, fucina di un grande progetto di rivalutazione territoriale che ha segnato la storia vitivinicola del nostro tempo.

Sono gli anni dei piccoli passi, del piccolo ‘’giardino di casa’’ piantato a uva e le prime vinificazioni con l’aiuto dei contadini della zona; poi, pian piano, quel ‘’giardino di casa’’ diviene un piccolo vigneto di circa 2 ettari, allevato con il sistema tradizionale della pergola casertana dove ‘’rinascono’’ il casavecchia¤ e la pallarella nera¤ e bianca¤; in realtà sono queste uve che nemmeno risultano negli albi ufficiali poiché spesso confuse con altre varietà autoctone campane già esistenti come, ad esempio, la coda di volpe nera e bianca. Si sta scrivendo la storia ma nessuno ancora lo sa.

Nel 1991 la prima vendemmia degna di questo nome, tutto in damigiane da 54 litri che vanno letteralmente a ruba, nel senso proprio del termine. Che disastro! Lui, Peppe, non si dà pace, anzi, si è convinto definitivamente di stare seguendo la via giusta, così nel 1992, durante una cena dove conosce Angelo Pizzi, allora alla Cantina del Taburno, uno dei più apprezzati enologi in circolazione, gli chiede una mano, dei consigli, suggerimenti per aggiustare il tiro. La Campania del vino da qui a poco dovrà imparare altri nomi da ricordare oltre l’Aglianico, il Fiano, la Falanghina e il Greco di Tufo: Casavecchia e Pallagrello nero e bianco!

Qualche anno più tardi l’incontro con il prof. Luigi Moio¤, siamo nel 1998, siamo già in rampa di lancio e la strada verso il successo è tracciata grazie anche all’incontro, da lì a poco, con la giornalista Manuela Piancastelli, tra le prime specializzate a caccia delle novità enogastronomiche campane e spesso riferimento in regione del buon Gino Veronelli che non lascerà mai più questi luoghi e Peppe Mancini.

Ecco, caro Peppe Mancini ti scrivo: la Campania del vino ha bisogno di tornare a sognare!

L’Arcante – riproduzione riservata ©

Leggi anche Terre del Principe, la favola del Pallagrello¤

Leggi anche Centomoggia, il Casavecchia del Principe¤

Quel che resta non siano briciole

30 dicembre 2016

image

L’intuizione, la creatività, il talento, l’arte di un grande Chef non puoi certo delegarla, un suo piatto però sì. Vi sono mille ragioni per discuterne per giorni, eppure, a pensarci bene, è già così da sempre, in particolar modo nelle cucine cosiddette d’autore o più semplicemente gurmé.

Per contro, il talento, la passione, la personalità, l’arte dell’accoglienza di un Cameriere o di un Sommelier di quelli bravi no, resta affare un tantino più difficile e complesso: in certi casi, quando lui non c’è in sala, si vede e come.

Un mestiere quello di stare in sala in chiara difficoltà, provato da molteplici fattori, la fretta del nostro tempo anzitutto che non concede tregua alcuna. Così siamo profondamente in ritardo e non c’è ricambio generazionale da aspettare. Un mestiere, questo, su cui bisogna tornare ad investire soprattutto del tempo, più che le chiacchiere di molti.

In mezzo al dibattito l’Italia degli ormai mille e più cronisti del gusto, o del food, come amano definirsi ultimamente. Il nostro è un paese dal destino segnato: oltre a Santi, Poeti e Navigatori finirà per avere più cronisti enogastronomici che ristoranti e vini da raccontare. Certo prima o poi il buffet finirà, qualcuno avrà già in serbo un nuovo indirizzo a cui fare visita qualcun altro saprà riadattarsi, campo ce n’è e vi è sempre il mestiere di allenatore che più o meno, è risaputo, è alla portata di tutti. In fondo uno che ti paga per farlo lo trovi sempre [cit.].

L’auspicio è che quel che resta non siano solo briciole, anche perché pure quelle sembra che nessuno più le voglia levare.

© L’Arcante – riproduzione riservata