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Pantelleria, Entelechia ’03 della Tenuta Rekale

6 Maggio 2012

Entelechia, per dirla con Aristotele, è la sostanza che ha perfettamente attuato tutte le sue potenzialità. Bicchiere alla mano, mai nome per un vino fu più azzeccato.

Non v’è molto da aggiungere sull’origine e la produzione del vino, che in fin dei conti richiama una tradizione ormai secolare a Pantelleria, un rito davvero unico. Ma anche del territorio isolano, ormai conosciutissimo ai più e passato ai raggi x in ogni suo minimo anfratto, si è già raccontato il lungo e in largo; i valori assoluti rimangono quelli di sempre: il particolare microclima, la maniacale ricerca della purezza da parte dei vignaioli panteschi nonché l’anima preziosa di un vitigno generoso e tanto trasversale come solo il moscato d’Alessandria, alias zibibbo, sa essere. 

Magari val bene spendere due righe, appena due, sull’azienda; quella Miceli che nonostante le mille e più difficoltà ed il continuo peregrinare nel rinnovamento degli ultimi anni, almeno sui vini della splendida Tenuta Rekale a Pantelleria non ha mai smesso di garantire investimenti e qualità assoluta, talvolta inarrivabile. Così mentre l’Yrnm, sin dalla sua vendemmia nel 1998 continua a rimanere l’unico riferimento seriamente attendibile del moscato secco, l’Entelechia è, assieme a pochissimi altri sull’isola, quel “nec plus ultra” imperdibile della denominazione in versione dolce. 

E’ puro nettare quindi, e si intuisce sin da subito. Il colore ha certamente perso un poco di smalto, e brillantezza, nove anni sono in verità sempre nove anni anche per un campione della meditazione come questo. Adesso il timbro è quasi “ruggine”, rimane però il fascino delle sfumature ancora ambra sull’unghia del vino nel bicchiere. Il naso è ricco e finissimo ed offre un ventaglio di aromi e sentori preziosissimi. C’è il varietale, con quella sferzata di agrumi canditi e albicocca secca, ma c’è molto di più: frutta secca, cioccolato fondente, caramella d’orzo, chiodi di garofano, liquirizia. Ricchezza e concentrazione di aromi sostenuti da un sorso pieno e vellutato, naturalmente dolce, mieloso eppure non affatto stucchevole grazie anche alle sfumature accorse grazie alla lenta maturazione in legno e gli ultimi anni in bottiglia. Diciamo pure però che l’abbiamo “preso per i capelli” come si suol dire, da bersi subito quindi, mo’ mo’!

T’amo o t’odio, così è per il Cerdeña ’08 Argiolas

5 Maggio 2012

L’etichetta è a mio avviso una delle più belle in circolazione, rappresenta l´isola di Sardegna, Cerdeña in catalano, presa da una vecchia carta contenuta nell´Atlante nautico isolano del 1375, detto di Re Carlo V di Francia. La zona interna dell´isola, segnalata con il colore marrone quasi a sottolinearne la sua vocazione montuosa, è decorata da finissimi arabeschi multicolori.

Nasce con l’intento di valorizzare al massimo il vermentino pur accompagnandosi con altre varietà autoctone locali tra le quali il prezioso nasco; ha, anche per questo, una impronta gusto olfattiva molto particolare. Prodotto per la prima volta nel 2000, anche per il Cerdeña come per tanti vini passati in barriques nati a cavallo tra gli anni novanta e duemila si è dovuto faticare non poco prima di centrare appieno il giusto equilibrio con il legno; rimane il bianco di punta della produzione della famiglia Argiolas, un vino che all’approccio ricorda alcune delle più felici versioni secche di un’altro particolare classico bianco isolano italiano, il moscato di Pantelleria, dal naso intriso di fragranti dolcezze mediterranee ed un sorso invece asciutto e salino, talvolta spiazzante.

Il colore porta con se tutto il sole di Sardegna, il naso gode di una timbrica impressionante, è ampio e tremendamente persistente. L’attacco è quasi pungente, decisamente esotico, dalla miriade di fiori passiti si vira immediatamente su profumi più netti e distintivi di frutta secca, miele e burro con sfumature speziate ed eteree quantomeno originali; un ventaglio davvero particolare, unico, dove le note di mallo di noce e mandorla fanno il paio con finissimi sentori di zenzero candito e zafferano in polvere. Il gusto è intenso, in bocca è asciutto e di buona persistenza, ha struttura e buona tensione acida, nonostante l’alcol, chiude quindi particolarmente sapido con un ritorno molto piacevole di profusa dolcezza retro olfattiva. Non è certo a buon mercato, siamo infatti decisamente sopra i 30 euro in enoteca, però penso che almeno una volta si può provarlo. E amarlo, ma anche no!

Aloxe, Aloxe-Corton 2006 Joseph Drouhin

4 Maggio 2012

Con i suoi 73 ettari il Domaine Joseph Drouhin è una delle realtà più importanti di tutta la Borgogna. Un Négociant col tempo divenuto un riferimento assoluto tanto che oggi possiede vigne praticamente in tutta la regione: 39 ettari a Chablis, 30 in Côte de Nuits e Côte de Beaune, 3 ettari nello Chalonnaise e tutti perlopiù Premier e Grand Crus.

Dei vini di Drouhin oltre alla precisa espressività delle varie appellations ho sempre apprezzato anzitutto il loro rapporto prezzo-qualità, penso quasi mai al di sotto delle aspettative, soprattutto sui bianchi di Chablis. Poi che dire, un suo pinot noir Village è già un approccio raccomandabile oltre ogni ragionevole dubbio, ma quando si cominciano a stappare le prime bottiglie di appellations communales di maggiore rilevanza si intuisce subito quanto conti, soprattutto per i neofiti, poter contare su un riferimento del genere.

Aloxe è un suggestivo borgo situato a nord di Beaune, si distende appena sotto la collina imponente di Corton dove insistono come è noto diversi vigneti Grands Crus sia a chardonnay – quel Corton Charlemagne lì nella foto vi ricorda qualcosa? – che a pinot noir (l’omonimo Corton o i meno famosi Grèves e Pougets, giusto per citarne alcuni).

Il terreno qui è calcareo con una grande concentrazione di ossido di ferro, la terra è infatti rossastra ed i vini che ne vengono fuori un carattere talvolta davvero inconfondibile. Tanti gli ettari di proprietà, ma si lavorano anche uve in mano a conferitori di lunga data con i quali esistono talvolta intese ultraventennali che riescono così a garantire una qualità costante nel tempo nonostante i numeri.

Questo Aloxe-Corton 2006 ha fatto circa tre settimane di fermentazione ed affinamento su lieviti indigeni, in acciaio, poi finisce in piéces per circa 18 mesi. Il vino mostra un colore splendido, una pennellata di vivace rosso rubino, trasparente ma con una luminosità assai avvincente. Il naso è fulgido, imponente, il ventaglio olfattivo si apre con note di frutta candita e sentori muschiati, subito dopo arrivano spezie fini e nuances più eteree, di pietra minerale, cuoio e pellame conciato. Il sorso è asciutto, di fine tessitura, piacevolissima la nerbatura acida che ne accompagna la beva, del tannino invece solo una caratteristica carezza sul finale di bocca.

In poscritto: delle regole di servire certi vini alla giusta temperatura ne sono pieni i manuali, però mai come in questo caso val bene rimanere intorno ai quattordici gradi per riuscire a godere al meglio di tutte, proprie tutte le invitanti sfumature che questo vino saprà regalare; e anche il gusto, vedrete, ne guadagnerà senz’altro!

1 Maggio, Ottantuno rose per mia madre

1 Maggio 2012

La forza,
il coraggio,
l’amore,
gli anni, 81 oggi, nulla hanno cambiato.
 
Avrai fatto anche tu bellissimi sogni,
avrai avuto anche tu dei grandi desideri,
avrai avuto anche tu delle speranze,
 
tutto, proprio tutto, messo via da qualche parte per i figli,
solo e sempre per la famiglia.
 
Oggi è per te,
Buon compleanno mamma!
 

Stop al TCA, c’è un tappo contro il “sentore di tappo” anche per le migliori bollicine d’autore!

27 aprile 2012

Roba da non credere! E’ quasi un anno che volevo segnalarvi sta cosa, poi tra un post e l’altro mi era proprio sfuggita; fortuna ha voluto che mi sono nuovamente imbattuto in una delle bollicine che più mi piacciono…

Il tappo nella foto è quello di un Brut Rosé Collezione 2005 di Cavalleri, splendido Franciacorta da pinot nero e chardonnay di cui avrò tempo di raccontarvi. Ciò che mi ha subito incuriosito invece è quella guarnizione di gomma incastonata proprio al centro dell’ultima lamella di sughero, quella a contatto con il vino: funge praticamente da barriera contro la contaminazione da tricloroanisolo, quella sostanza cioè che conferisce al vino il cosiddetto “sentore di tappo”.

Il rischio naturalmente non è del tutto azzerato, ma l’azienda mi ha confermato che da quando vengono usate queste guarnizioni il fenomeno si è fortemente ridotto, soprattutto per quei prodotti – come le riserve – destinati solitamente ad elevazioni prolungate a contatto col sughero. Cavalleri lo ha sperimentato per la prima volta otto anni fa e lo ha adottato definitivamente su tutti i suoi “Collezione” a partire dal millesimo 2004 (in vendita dal 2009).

Per la cronaca, si tratta di un brevetto francese dell’azienda Barangé, utilizzato tra l’altro da oltre un decennio anche da note maison della Champagne.

Alezio, Spumante Brut Rosè Rosa del Golfo

16 aprile 2012

Ci siamo riempiti la bocca coi rosati della famiglia Calò di Alezio, senza dubbio tra le più valide aziende vitivinicole pugliesi e tra le più brillanti sulla tipologia da almeno 40 anni.

Il Salento, il negroamaro, un territorio collinare di particolare vocazione intriso di argilla e ferro, il clima temperato, le vigne storiche: tutti elementi che fanno la differenza e che, all’unisono, si sentono tutti nel Rosa del Golfo come nello splendido Vigna Mazzì, i due rosati tra i più amati dagli italiani (cit.); ma anche, sorpresa delle sorprese, in questo nuovo delizioso spumante rosé per il quale si rischia davvero la dipendenza.

Realizzato secondo il metodo classico, con la seconda fermentazione che avviene quindi in bottiglia, rimane sui lieviti per almeno 24 mesi. La liqueur è preparata col vino base del Vigna Mazzì, il loro negroamaro rosato affinato in legno. Il prodotto finale non subisce dosaggio, magari solo un rabbocco dopo la sboccatura. Il risultato? Molto invitante, già dal colore, rosa tenue ma assai brillante. Il perlage non gode di particolare intensità però è piuttosto fine e di buona insistenza. Così anche la spuma. Il naso è molto delicato, soffre inizialmente del classico “effetto primordiale”, sa cioè di crosta di pane e ancora minimamente di lievito, ma tutto svanisce in poco più di un attimo; arrivano quindi sentori di petali di rosa, lampone e mora, chiaramente riconoscibili già al primo naso e caratteristici del varietale predominante, il negroamaro appunto (il saldo è chardonnay). In bocca è secco ma invita a sorsi copiosi, non impone carattere richiamando particolare serbevolezza ma bensì bevibilità e morbidezza estrema. Tiene molto bene diversi abbinamenti, in particolar modo con carpacci o crudi di pesce più in generale; ha tra l’altro un tenore alcolico nella media della tipologia, pertanto in due la bottiglia scivola via che nemmeno te ne accorgi. O quasi.

Montevetrano, Turandea 2007 Tiziana Marino

10 aprile 2012

L’anno scorso ne avevo comprato qualche bottiglia – duemilasette e duemilaotto -, lasciandole però in cantina a riposare, “en vieillissement” (o élevage) come dicono i francesi. Le avevo messe lì con la promessa di metterle in carta quest’altro anno; così è stato. Che bella rivelazione.

Poco più di due ettari di vigna sotto il Castello di Montevetrano, tutti ad aglianico. Sì, avete letto bene, siamo proprio lì a due passi da quella splendida azienda che tutto il mondo già conosce e ci invidia da tempo, Montevetrano di Silvia Imparato. E tutto cominciò un po’ così, seguendo proprio le tracce della “Silvia nazionale”, con l’idea però di rinunciare all’ormai noto blend internazional-regionale perseguendo invece la valorizzazione del solo autoctono aglianico.

Così le vigne sono state lentamente convertite: via la barbera, via il montepulciano, mentre la conduzione è rimasta sempre la stessa, fedele all’idea di una agricoltura sana e naturale già patrimonio della famiglia Marino da almeno un paio di generazioni. In cantina arriva Fortunato Sebastiano, l’enologo paladino della vigna viva che dopo la prima vinificazione del 2006 ha sin da subito la sensazione di trovarsi tra le mani qualcosa di veramente interessante; difficile che sia un caso con tanta cernita in pianta, vinificazione accorta, fermentazioni lunghe e legni grandi di 7 e 5 ettolitri. Niente filtrazioni e bassissimo contenuto di solfiti. Questo è Turandea 2007, il nuovo grande rosso campano da non perdere.

Bellissimo vino, già il colore ti conquista per vivacità e luminosità. Poi il naso: intenso, sferzante con quei sentori di visciola, mora di rovo e arancia rossa che si rafforzano con la sinuosità di sottili note balsamiche, pepe nero e nuances dolci di tostatura e legno di sandalo. Un tutt’uno di una freschezza e di una eleganza davvero ammirevoli. Il sorso è di rara piacevolezza, succoso, teso, deliziosamente fresco e gratificante, con un continuo ritorno di frutto che sospinge freneticamente a riprenderne il calice tra le dita. Un rosso, quello di Tiziana, appena sbocciato ma con ancora parecchio tempo davanti, che rifugge sovrastrutture e cose incomprensibili del genere e conferma l’enorme potenzialità di questo pezzo di terra continuamente da scoprire e raccontare.

La Dolce Vite del Ristorante L’Olivo del Capri Palace Hotel, tutti gli appuntamenti del 2012

7 aprile 2012

Come ogni anno si rinnova la tradizione degli eventi enogastronomici al Capri Palace Hotel&Spa di Anacapri; anche quest’anno vogliamo stupire e crescere, così non ci faremo mancare proprio nulla, emozioni comprese!

Si apre il 18 maggio, come sempre con un’azienda campana e Feudi di San Gregorio ci è sembrata una scelta di assoluto valore. Poi si fa un passaggio in langa, dal Piemonte arriverà una storica verticale di Barolo Borgogno; quindi un tuffo nel meraviglioso mondo delle bollicine d’autore con la Maison Pommery di Reims e una carrellata di cuvée e millesimi da non credere. E con un ospite d’eccezione, Annie Feolde dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze!

Poi un salto nel profondo Sud, con Tasca d’Almerita e il sole di Sicilia, mentre per la chiusura di stagione s’è pensato ad un altro gioiello della viticoltura regionale campana: l’azienda Terredora della famiglia Mastroberardino.  Questo in sintesi il programma, seguiranno naturalmente gli opportuni aggiornamenti: 

  • Venerdi’ 18 maggio 2012
  • Feudi di San Gregorio – Sorbo Serpico, Campania.
  • Chef: Paolo Barrale del Marennà di Sorbo Serpico, Avellino.
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  • Venerdì 15 Giugno 2012
  • Borgogno – Barolo, Piemonte. 
  • Chef: Ugo Alciati del Ristorante Guido a Pollenzo, Cuneo.
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  • Venerdì 13 Luglio 2012
  • Pommery – Reims, Champagne. 
  • Chef: Annie Feolde, Ristorante Enoteca Pinchiorri, Firenze.
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  • Venerdì 14 settembre 2012
  • Tasca d’Almerita – Sclafani Bagni, Sicilia.
  •  Chef: Riccardo Di Giacinto, Ristorante All’Oro, Roma.
  • Venerdì 5 Ottobre 2012
  • Terredora – Montefalcione, Campania.

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Per informazioni dettagliate e prenotazioni:
Capri Palace Hotel & Spa
Ristorante L’OLivo
Via Capodimonte, 14
80071 Anacapri – Isola di Capri – ITALIA
Phone: (+39)081 978 0225
Fax: (+39) 081 978 0593
www.capripalace.com
olivo@capripalace.com
 

Sui vini naturali, convenzionali, i consumi

6 aprile 2012

Un paio di settimane fa, un giornalista, caro amico e fine connoisseur, mi chiedeva cosa avessi da dire sull’argomento vino naturale-biodinamico-convenzionale e, più in generale, sulla comunicazione, dandogli magari indicazioni della reale percezione dei clienti a riguardo.

Frattanto c’è stato Vinitaly – un successo, mi dicono -, dove al suo interno, per la prima volta, si proponeva ViViT, il primo salone delle produzioni enologiche da agricoltura biologica e biodinamica: si racconta sia stato un successone (qui)!

Ebbene, sono ormai anni che si parla dell’argomento, di contrapposizioni tra produttori “convenzionali” e quelli cosiddetti “naturali” e/o biodinamici; la mia opinione è che ancora oggi, nonostante ne siano passati di vini nei calici, insiste ancora troppa approssimazione e le tante, numerose sigle che fanno da corollario al movimento non aiutano certo a chiarire bene la faccenda. Tutt’altro (leggi qui).

Anzitutto non è certo con l’estremizzazione delle idee produttive – della serie questo è, se vi pare! -, che si fa il bene del consumatore, ancora lontano dal sapersi orientare. E poi basta, ormai si assiste a un continuo nascere di comitati, movimenti, associazioni, talvolta senza capo ne coda, uno straccio di codifiche, men che meno certificate, e che nell’idea di unire le forze, le idee, lentamente stanno dividendo l’Italia del vino in un puzzle sempre più complicato da cogliere, comporre, comprendere.

Personalmente sono convinto che questioni come la salvaguardia della terra, dell’ecosistema, della naturalità di certi prodotti, quindi anche il vino, siano argomenti cari a molti, non solo ai vinoveristi o giù di lì, così la mia carta dei vini si racconta da sola, proponendone sì svariati punti di vista ma senza necessariamente schierarsi; ché, secondo me, risulterebbe tanto banale quanto controproducente. Oltre che inutile.

Da un argomento all’altro. Il dato allarmante piuttosto, quello che dovrebbe far riflettere profondamente, è che oggi il vino in Italia si consuma sempre meno, ed è su questo calo dei consumi che tutti dovremmo darci una mossa e cercare di capire come rimediare; è vero, la crisi ha un peso enorme, ma è indubbio che negli ultimi vent’anni siano stati commessi errori enormi, in qualche caso disastrosi che hanno recato solo danno al comparto vitivinicolo: uno fra i tanti è che si produce tanto, troppo e non sempre con giusta coscienza, sia essa convenzionale o non (di cose imbevibili in giro ci sono dell’una e dell’altra parte). In Italia, nel mondo, ormai si fa vino ovunque, lo fa chiunque e praticamente con qualsiasi cosa fermenti e produca un liquido di un qualche colore.

Per non parlare poi di quanto se ne parla: decisamente tanto, tantissimo ma sempre più spesso con un linguaggio “chiuso”, fatto da e per pochi eletti maestri degustatori. Un gran parlare, un giro virtuoso di penne talvolta finissime, in preda al “celolunghismo” acuto, che non si capisce mai se scrivono per la gente che sperano di incuriosire o più semplicemente per compiacere il proprio collega, se non addirittura l’antagonista, con scritti talvolta di una ricercatezza stilistica impeccabile, d’altri tempi, dall’effetto assicurato ma proprio per questo, secondo me, sempre una spanna lontani dalla realtà che viviamo, da un sistema che è lì che annaspa ma che continua a pensare, ad esser convinto che ancor oggi basta comprare una pagina sul quotidiano nazionale per far preferire il proprio Chianti tra le centinaia di etichette in giro.

Montemarano, Campi Taurasini Malambruno 2008 Amarano: l’aglianico sopra tutto!

26 marzo 2012

Chi segue le vicende aglianiciste avrà notato quanto fossero trasversali – per non dire contrastanti – diversi giudizi sui Taurasi passati in rassegna durante la scorsa edizione di “Taurasi Vendemmia 2008”. Una delle voci critiche più ricorrenti nei giorni a seguire le varie degustazioni sottolineava quanto certi vini soffrissero ahimè ancora troppo l’incidenza – leggi uso eccessivo – del legno. Ecco, l’incidenza del legno.

Così durante i miei giri da quelle parti ho pescato qua e là un po’ di bottiglie duemilaotto non Taurasi, denominate Campi Taurasini o tuttalpiù prodotte in quelle zone da chi certamente non lesina qualità sui suoi secondi vini, garantendo, pur con etichette sostanzialmente di ricaduta, una qualità assoluta di materia prima e serietà produttiva.

Lo scopo? Verificare quanto con una minore “contaminazione” del legno (generalmente 9-12 mesi al massimo) si potesse avere del millesimo un quadro organolettico ancor più chiaro e prospettico. Debbo dire che non sono mancate delle belle sorprese, e con un po’ di pazienza spero di potervele raccontare tutte, soprattutto in virtù di quanto vini come questo Malambruno 2008 di Amarano riescono ad offrire, a prezzi estremamente onesti ed alla portata praticamente di tutti, delle gran belle esperienze degustative; quantomeno per chi va alla ricerca di una certa specificità di gusto ed armonia di beva. Qui, quasi impagabile.

Giusto per chi non lo sapesse, l’areale Campi Taurasini indicato su certe bottiglie come sottozona della doc Irpinia rientra praticamente, fatte salve alcune poche altre località, nell’intero territorio protagonista della stessa docg Taurasi: quindi Bonito, Castelfranci, Castelvetere sul Calore, Fontanarosa, Lapio, Luogosano, Mirabella Eclano, Montefalcione, Montemarano, Montemiletto, Paternopoli, Pietradefusi, San Mango sul Calore, Sant’Angelo all’Esca, Taurasi, Torre le Nocelle, Venticano con in più Chiusano San Domenico, Grottaminarda, Gesualdo, Nusco, Melito Irpino, Torella dei Lombardi e Villamaina. E come detto, chi decide di farlo, sa di dover garantire massima espressività, talvolta nemmeno tanto lontana da certi Taurasi.

Dell’azienda ne ho già raccontato ampiamente qui, conquistato dai suoi Taurasi nerboruti e sapidi, così vado sottolineandovi ancora solo quanto valga la pena stappare quest’altro loro rosso. Ricco il colore, rubino limpido e vivace, e ricco il quadro olfattivo, ampio ed insistente su deliziose note di frutta matura: amarena, mora di rovo, prugna; poi lievi note tabaccose e di cioccolato. Il sorso è invitante, succoso, asciutto, sapido e persistente, centrato sul frutto, una sottile venatura tannica e sostenuto di giustezza dai 13 gradi d’alcol. Del legno nessuna traccia, perfettamente “digerito”, con il millesimo che si conferma in grande spolvero e ci consegna un rosso davvero imperdibile, quadrato e di gran valore: appena 6 euro e cinquanta franco cantina. Un affarone!  

Vinitaly, di qua e di là dello stand. Immagina, puoi!

19 marzo 2012

Approccio, con nonchalance.

Di là: “Buongiorno. Salve, è possibile..?”
Di qua: “Ma certo: ha qualche preferenza? Cosa preferisce assaggiare…”
Di là: “Guardi personalmente vi seguo da sempre, mi piace da impazzire il vostro bianco di punta…”
Di qua: “Grazie, grazie. Cosa dice, vuole provare anche qualcos’altro o le servo direttamente quello?”
Di là: “Guardi, va bene, proviamoli. Ma solo i bianchi. Sa, sto facendo il giro dei bianchi adesso, ho appena finito con le bollicine. Non vorrei appesantire il palato.”

Preamboli, con determinazione. 

Di qua: “Bene, ecco questo è il nostro vino base. Lei già ci conosce quindi, è mai stato dalle nostre parti?”
Di là: “Mmm, si, si, m…mm. Beh no, proprio dalle vostre parti no, però conosco bene il territorio. Sa, ai corsi l’abbiamo studiato per bene.”
Di qua: “Ah, perché lei è sommelier?”
Di là: “Eh si, secondo livello Ais. A Roma, ha presente?”
Di qua: “(Caspita!) Cosa ne pensa? Non perché sia mio, ma sa, io a questo vino ci sono proprio affezionata, lo trovo molto fine, fresco e di gran lunga sapido. Magari avrà letto, ha avuto un sacco di buone recensioni.”
Di là: “Beh, ecco, in effetti c’ha ragione: fine è abbastanza fine. Abbastanza fresco. E lo trovo anch’io abbastanza minerale!” “Ma fa legno grande, tonneau?”
Di qua: “No, no. Questo fa solo acciaio. Preferiamo esaltare la freschezza.”
Di là: “Ah, strano. Mi pareva avere qualcosa, una certa nota, un sentore di…”
Di qua: “Eh si, è vero, ce lo dicono in molti, ma quello è il varietale; lì da noi è molto espressivo!”
Di là: “Complimenti! Non lo facevo così complesso…”.

Approfondimenti. 

Di qua: “Grazie. Qui invece facciamo un lavoro diverso, adesso sentirà: vendemmiamo un po’ più tardi, sgrondando acino su acino e il vino fa fermentazione…”.
Di là: “Legno piccolo immagino, barriques. In effetti c’ha proprio un bel naso, qui si sente proprio che c’ha un marcia in più.”
Di qua: “Non per sottolinearlo, ma quello che facciamo noi in zona non lo fa nessuno. Anche perché nessuno ha le vigne come le nostre. Come lei saprà da noi è tutto naturale. Poi noi usciamo dopo quasi due anni con questa etichetta. Non sa che sacrificio, nessun’ altro lo fa! Non le dico certe recensioni, i giornalisti sono impazziti per questo vino.”
Di là: “Immagino. Anche qui c’è una bella mineralità. Sarà il terreno che è proprio minerale da quelle parti? E poi la barriques… Io lo sento proprio armonico.”
Di qua: “Beh, sì. E pensi che questo deve ancora finire in bottiglia. Il nostro enologo poi è molto bravo. Lui sa bene come fare a preservarla. Conosce  molto bene il territorio.”
Di là: “Ah bene”.

Ebbrezza.

Di qua: “Questo qui invece è…”
Di là: “Non me lo dica: e lui?”
Di qua: “Eh sì, è proprio lui: ci sta dando grosse soddisfazioni. L’hanno premiato persino a Berlino e in Canada. Qui cerchiamo davvero di esaltare al meglio le caratteristiche del vitigno, del territorio, della tradizione.”
Di là: “E’ lui, è lui. Gran bouquet e… m..mm. Che mineralità, che armonia! Qua sempre legno grande vero?”
Di qua: “Come lei ben saprà parte in acciaio e parte in barriques, di media tostatura e di secondo passaggio.”
Di là: “Ma certo, certo. Era che, quasi mi confondevo. L’ho detto, è il mio preferito.”  

Distacco, esalazioni, promesse.

Di qua: “Bene. Che dice, le faccio assaggiare anche altro? Vuole provare i nostri due rossi?”
Di là: “No guardi, lascio spazio agli altri. Tornerò più tardi. Sa, non vorrei appesantire il palato. Complimenti davvero, bella linea di prodotti!”
Di qua: “Ma si figuri. E se viene giù dalle nostre parti ci venga a trovare…”
Di là: “Senz’altro.”
Di qua: “Ci conto.”
 

Intervallo. Solide radici

18 marzo 2012

Ci risiamo, voi là, io di qua…

15 marzo 2012

Se ne parla già da un po’, molti amici produttori si sono premurati di sapere se ci fossi o meno. Altri, come spesso accade, non hanno fatto mancare un invito, una telefonata, anche giusto per un saluto. Purtroppo, dico purtroppo, anche quest’anno si passa la mano, il lavoro, per fortuna, incombe… 

In giro, come sempre d’altronde, se ne leggono di tutti i colori: giornalisti offesi, qualcuno addirittura sceriffo, blogger snobbati, produttori impettiti, vignaioli-diversamente-produttori preoccupati dalla svolta (anche)naturista della fiera, e ancora sommelier spaesati, appassionati bistrattati, prodi degustatori che lisciano i bicchieri. Che fare, quindi?

Beh, al Vinitaly val sempre la pena andarci, almeno sino a quando non ne puoi proprio più. Mi spiego meglio. Con l’entusiasmo del novizio quei giorni di fiera sono come aprire il rubinetto di casa e scegliere di bere traminer, cococciola, fiano o guarnaccia, o meglio ancora Barolo, Taurasi, Nero d’Avola o Brunello di Montalcino. Insomma, un po’ come fare zapping al gargarozzo col telecomando. Però poi passano gli anni: uno, due, tre, cinque, dieci Vinitaly, magari un anno sì e un anno no. Ogni anno alla ricerca di qualcosa di nuovo, magari diverso, che non sempre trovi; così quel rubinetto pensi vada cambiato, anche perché nel frattempo hai imparato a girarla davvero l’Italia del vino, scovare cantine, conoscere persone, bere tanto altro insomma, e può capitare quindi di trovare addirittura stancante persino prenderlo solo in mano quel telecomando.

Allora, consigli? No, non ne ho, la fiera del vino di Verona è lì, dal 25 al 28 Marzo. Ci sono, mi dicono, tante belle novità, c’è per esempio OperaWine, o ViViT, il padiglione che racchiude le produzioni enologiche da agricoltura biologica e biodinamica. Tanta carne al fuoco insomma. Poi mi raccomando, fatelo un salto in Campania, saggiatene più che potrete. Dove? Chi? No, non vi faccio il nome di questo o quello, vale quasi sempre la pena, talvolta di più. Anzi, fossi in voi almeno una giornata, dico una giornata da spendere in Campania (o inseguendo le aziende campane sparse qua e là) la spenderei. Non ve ne pentirete, statene certi. Bon voyage…

Muffin

11 marzo 2012

Ingredienti:

  •  300 gr farina “00”
  • 150 gr zucchero
  • 150 gr latte intero
  • 60 gr burro
  • 2 uova
  • 1 bustina di lievito per dolci
  • un pizzico di sale
  • marmellata di albicocche o del cioccolato fondente al 60% in gocce
  • una dozzina di pirottini

Preparazione:  riscaldate a parte il latte e nel frattempo, in una boule di acciaio, con una frusta  lavorate il burro con lo zucchero e le due uova intere; aggiungetevi adesso il latte tiepido, quindi la farina ed il pizzico di sale, infine la bustina di lievito, continuando a rimestare energicamente sino ad ottenere un impasto denso ed omogeneo.

Riempite i pirottini con un cucchiaio abbondante di impasto – vanno bene anche degli stampi classici in alluminio, purché imburrati e infarinati per bene -, ponetevi al centro un cucchiaino della farcia desiderata, della marmellata di albicocche o del cioccolato in gocce per esempio, quindi ricoprite con un altro cucchiaio di impasto e così via. Lasciate riposare qualche minuto e mettete poi in forno già caldo a 180° per circa 20 minuti.

Carta canta

10 marzo 2012

Prendo spunto dal post di Jacopo sul suo Enoiche Illusioni. Me l’ero perso, ma solo perché ero in giro a bere aglianico qua e là, in cerca di persone, conferme, buone nuove, cose del genere insomma.

Non che ci sia da stupirsi più tanto – o forse si? -, però è indubbio che non mi capitava da tempo vederne una così. E non è che frequenti solo posti infiocchettati. Diciamocelo una volta per tutte: la carta dei vini o ce l’hai oppure lascia stare. E non mi dite che siamo alle solite, che siamo noi a menarla, non è che vi si chiede un lavoro certosino, quello va bene lasciarlo ai fissati, come me per esempio. Però cavolo, un po’ di attenzione!

Non è necessario metterci per forza tutto: la foto dell’etichetta, la denominazione, quando c’è la sottozona o il cru, il nome del vino, l’azienda, i vitigni, l’annata, magari indicazioni tipo “organic wine” o quando, in caso di verticali, sia nel frattempo cambiato qualcosa (uvaggi, denominazioni ecc.). Queste sono cose complicate, talvolta addirittura pesanti se non opportunamente supportate.

Basta riportare in carta – semplicemente – ciò che c’è scritto in etichetta: denominazione, quando c’è il nome del vino, l’azienda, annata e prezzo. Possibilmente scritti correttamente.

San Mango sul Calore, Taurasi ’08 Antico Castello

7 marzo 2012

Questa dei Romano è una storia moderna, scritta con la ferma volontà di creare praticamente da zero un’impresa vitivinicola che potesse dare lustro alle proprie origini agricole ma soprattutto al proprio territorio.

Un modello di fare vino, viticultura, se vogliamo abbastanza comune negli ultimi anni, molto contemporaneo e non sempre a buon fine; eppure, se tanto mi da tanto, che ben vengano storie come queste. Del resto poi, per come hanno ridotto “il sistema” negli ultimi vent’anni, fare vino pare diventato davvero un’impresa per pochi, altro che poesia della terra e due cuori e una capanna, qui bisogna saperci fare, e bene.

Ma il mondo del vino continua ad avere il suo fascino infinito, che si sa essere molto altro ancora, così sempre nuovi protagonisti vi si affacciano con grande entusiasmo e voglia di fare. E’ per questo che mi ha fatto molto piacere conoscere Francesco, un giovane ingegnere che con la sorella Chiara ed il supporto della famiglia tutta si sono messi in testa di fare vino – e che vino! -, a San Mango sul Calore. Dove, vi starete chiedendo? Eh si, è vero, negli ultimi 15/20 anni abbiamo a fatica imparato – perché l’abbiamo imparato, non è vero? -, dove sta Taurasi e cosa sia un Taurasi. Poi, dopo anni di croniche incomprensioni si è cominciati finalmente a cogliere addirittura certune differenze e – guarda un po’ – che non era mica tutto solo Mastroberardino e Feudi di San Gregorio, c’era dell’altro, e talvolta anche di più buoni. Sicché adesso tocca imparare pure dove sta San Mango sul Calore e, non crederete alle vostre orecchie, della ridente località Poppano, dove stanno vigneti e cantina di Antico Castello.

Tutto ha avuto inizio nei primissimi anni novanta, con appena due ettari di vigna in località S. Agata, poi pian piano la cosa s’è fatta seria e si è arrivati agli 8 ettari di oggi, di cui 5 ad aglianico. Nel 2006 invece la realizzazione della cantina: a misura d’uomo, accorta, funzionale, tecnologica affidata nelle mani di Carmine Valentino; nel 2008 la scelta di piantare fiano e greco, nelle immediatezze dell’azienda, rinunciando sì alle docg (Lapio, per esempio, è a pochissimi chilometri da qui, ndr) ma confidando di valorizzarne una possibile originalità territoriale; i 2011 appena nelle vasche, ci diranno quanto vale questa scelta, voluta fortemente anziché continuare a comprarne da terzi.

Personalmente ne seguivo le vicende da circa tre anni. Ho bevuto il loro primo vino all’Anteprima Irpinia a Taurasi, nel 2010; poi l’anno dopo, sempre al Castello Marchionale, il 2007; lo scorso gennaio invece, a Montemiletto, l’ultimo presentato, questo, un 2008 davvero splendido. Un crescendo assoluto. Era doveroso quindi capire, fargli visita, magari raccontarne. Inutile stare a sottolineare che il progetto è serio ed ambizioso, e ancor più inutile sarebbe rifarsi ostinatamente a radici antiche o storiche vocazioni: qua prima di Antico Castello c’era solo un posto di merito nella docg, null’altro, e manco una goccia di Taurasi s’era mossa prima da San Mango. Oggi c’è invece una bella realtà, che tira fuori da queste terre un vino di spiccata personalità, dal naso estremamente varietale, elegante e dal sapore asciutto, austero, fitto, marcato da una mineralità incredibile e prospettive evolutive enormi. A 10 euro franco cantina!

Antico Castello è un fenomeno da tenere d’occhio, per qualcuno anche inspiegabile essendo fuori dalle solite rotte, eppure è lì, nel bicchiere che chiede solo di essere saggiato. Poi aggiornare il navigatore verrà naturale, perché vorrete anche voi capire, cercare, raccontare.

Ciambella allo yogurt con gocce di cioccolato

4 marzo 2012

Ingredienti:

  • 4 uova
  • 300gr farina “00”
  • 100gr frumina (farina di frumento)
  • 250gr yogurt bianco dolce
  • 250gr zucchero
  • un pizzico di sale
  • 100gr di cioccolato a gocce
  • 150ml olio di semi di girasole
  • 1 bustina di lievito per dolci
  • zucchero al velo

In una boule d’acciaio apritevi le quattro uova intere, unitevi lo zucchero, il pizzico di sale e rimestate energicamente sino ad ottenere un composto ben amalgamato, quasi spumoso. Aggiungete a questo punto, lentamente e continuando a rimestare, tutti gli altri ingredienti: l’olio di semi, lo yogurt bianco, entrambe le farine. Solo in ultimo la bustina di lievito ed infine le gocce di cioccolato.

Versate l’impasto in uno stampo per ciambella, opportunamente imburrato e infarinato. Portate il forno a 180° – deve essere ben caldo -, quindi infornate. Per una cottura ottimale serviranno circa 40 minuti. Appena un paio di giri di lancette d’orologio invece per vederlo sparire dalla tavola! 

Chianti Classico Riserva La Selvanella 2003 Melini

4 marzo 2012

145 ettari di proprietà, cinquanta dei quali nel comune di Radda in Chianti, uno dei migliori cru della zona classica. Dieci sono dedicati esclusivamente a questo vino, tra i primi Chianti a portare in etichetta la menzione della vigna, una felice intuizione seguita poi negli anni da tanti altri.

E’ vero, Melini è un colosso di quelli che tirano fuori dalle proprie cantine milionate di bottiglie, ciononostante però non manca di una solida tradizione e qualche buona chicca come, quando esce, un Vin Santo Occhio di Pernice sui livelli dei migliori e questa Riserva, che non perde un colpo nemmeno con le cannonate, etichetta storica di sicuro approdo per chi desideri saggiare, senza svenarsi, un grande Chianti Classico. 

Ne conservo, da vero afeçionado come sono, diverse bottiglie di più annate, nonché ancora alcuni magnum. E proprio tra questi ultimi mi è capitato finalmente di tirarne il collo a qualcuno: uno sfortunato ‘95, ahimè di tappo, e un 2003, oggetto di questa recensione, rivelatosi invece vino davvero splendido, e in ottima forma. Colore rubino con appena accennate sfumature granato e ben luminoso; il naso è lento a svelarsi, ma non disattende i buoni propositi, con sentori di viola passita, ciliegia matura, tabacco.

Dopo qualche tempo in caraffa l’intensità olfattiva regala anche sentori più intriganti di grafite, cacao, caffé appena tostato e cuoio bagnato. Un ventaglio maturo ed affascinante. In bocca mostra ancora buonissima stoffa, una certa freschezza, con tannini ancora insidiosi ed un sorso gradevole che chiude morbido e sapido. E’ sempre piacevole trovare conferme nonostante i tanti anni, quasi dieci, di questa etichetta, che rimane, come detto, un porto sicuro dove riparare nel mare magnum dei Chianti Classico.

Guudniùs, Barbaresco Cascina Roccalini ’07 e ’08

2 marzo 2012

Trovo interessante segnalarvi questo vino, che ad esser buono è buono, di gran materia, con un bel naso “dolce” e verticale ed un sorso di un certo spessore, a tutto tondo; però stateci attenti, “à consommer avec modération” dicono i francesi: 14 gradi e mezzo in alcol il 2007 e 15 (!) il 2008, non so se mi spiego…

Leggo che Cascina Roccalini ha sempre conferito le uve a Bruno Giacosa, almeno fino al 2004, quando Paolo Veglio cominciò a pensare che era arrivato il momento di andare per la sua strada ed iniziare a vinificare in proprio. Già questo la dice abbastanza lunga sulla qualità, sia delle uve che della vigna. La cantina, distribuita in Italia da Les Caves de Pyrene, è molto piccola e con una produzione media che non arriva alle diecimila bottiglie l’anno. Chi l’ha conosciuto, dice che Paolo Veglio è uno di quelli decisi a fare le cose per bene, profondamente innamorato di quello che fa e dal futuro sicuramente luminoso. Prendiamoci tutto per buono e vediamo, di qui a qualche anno, cosa ne viene ancora fuori.

Il Barbaresco Roccalini 2007 ha gran stoffa, un bel colore rubino, vivace e un naso piuttosto fine, elegante, pure variopinto. In bocca è asciutto, nerboruto, con buona tessitura ed una sana corrispondenza del frutto; come anticipato in apertura è un rosso di gran corpo, che si giova di una buona acidità e di un sorso abbastanza sapido. Un pelino più fitto il 2008, dal colore leggermente più carico ma anch’esso luminoso ed invitante. Il primo naso soffre ancora di una certa insistenza del legno, ma grosso modo non manca di centrare il varietale, e con discreta eleganza; Il sorso è copioso, ha spessore e si sente, qui però forse un po’ troppo. La bocca infatti è come ammantata dal vino, e dopo il secondo bicchiere si fa quasi fatica a digerirne la carica alcolica, così vigorosa e prorompente nonostante una buonissima acidità ed una carica tannica invidiabile.

Non ci resta che attendere fiduciosi che il tempo ci consegni altre annate da saggiare, confrontare ed un po’ più di esperienza a Paolo per inquadrare meglio quale strada vorrà perseguire. Per il momento però val la pena e come provarli i suoi vini, non fosse altro per il prezzo, qui più o meno sui 20 euro in enoteca. Quasi un affare!

Un piatto, il suo vino. Fatene il vostro gioco…

29 febbraio 2012

Da un lato un piatto, un bel piatto di pasta che concettualmente si potrebbe tranquillamente definire trasversale: povero ma ricco, appetibile e pieno di sostanza, profumato, fresco, alleggerito, saporito il giusto. L’intuizione è terragna, che più semplice non potrebbe essere, coi porri e la salsiccia “pezzente”; un connubio pensato bene, riuscito e mantecato meglio, ingentilito con giustezza da quel richiamo al mare, che sa di fasolari, ma non necessariamente. Buono a sapersi, tra i piatti cult in carta a Sud come probabilmente lo diventeranno anche questi nuovi appena segnalati sul suo sito da Luciano Pignataro, tra i quali consiglio vivamente di non mancare il cous cous di soffritto su crema di cipolla, yogurt e paprika.

Nel bicchiere invece il primo Nastro Rosa* doc per i Campi Flegrei. Il primo rosato 2011 bevuto, s’intende, provato giustappunto l’altra sera a cena da Pino e Marianna. Un piedirosso dal bel colore rosa tenue, luminoso e vivace, col “naso” evidentemente ancora imbrigliato dallo stress da vasca ma un sapore, asciutto, vivido, minerale, sapido, già determinato a conquistarsi tutti i palati più gentili, sbarazzini, assetati di territorio; “senza pensarci troppo su però – come ci tiene a sottolineare l’amico Gerardo Vernazzaro, enologo a Cantine Astroni -, le chiacchiere conserviamocele per altri vini, magari proprio per quelli di cui tra l’altro tanto più si parla e sempre meno se ne bevono”.

Allora, questi gli elementi, accontentiamoci e fatene pure il vostro prossimo gioco di abbinamento cibo-vino, senza esagerare naturalmente, tanto ci sarà sempre uno che ne saprà più di voi! 

* non avendo ancora scelto un nome definitivo – il vino tra l’altro uscirà solo a metà aprile prossimo -, mi sono permesso, con “Nastro Rosa”, di avanzare un mio piccolo suggerimento agli amici Gerardo ed Emanuela per il loro primo rosato doc Campi Flegrei firmato Cantine Astroni. 

Un ricordo di Gennaro Martusciello, e un sorso di Falanghina Coste di Cuma 2010 Grotta del Sole

27 febbraio 2012

Avevo un nodo in gola, e come non potevo: dispiaciuto, commosso, rattristito per la scomparsa di una persona così cara e stimata. Avevo però necessità di rifletterci un po’ su, capire se fosse realmente importante ch’io scrivessi due righe, un pensiero. Così quasi senza pensarci mi son ritrovato a bere nuovamente questo splendido bianco flegreo.

Bene ha fatto qui Luciano Pignataro a riprenderne, in poche chiare righe, la specchiata figura umana e professionale; aggiungo che con la scomparsa di Gennaro Martusciello si chiude dalle nostri parti davvero un’epoca: quella dei pionieri, di coloro i quali avevano come riferimento del mestiere praticamente solo se stessi, il più delle volte costretti, loro malgrado, solo a sognarlo ciò che avrebbero veramente desiderato fare in cantina, dei loro vini; più semplicemente, era necessario fare ciò che andava fatto e nel miglior modo possibile, senza troppi grilli per la testa.

Eh sì, perché quando più o meno vent’anni fa, fuori dai confini regionali, a malapena si era affacciato il greco di Tufo di Mastroberardino, qualche volta il Taurasi, a Quarto si cominciava a ragionare anche sulla falanghina e il piedirosso dei Campi Flegrei: “poveri, ma belli” venivano chiamati (e forse lo sono tutt’ora). Senza contare i primi, incontenibili successi commerciali del rilanciato Gragnano della Penisola Sorrentina o dell’Asprinio d’Aversa fermo e spumante. L’avrete letto centinaia di volte, qui come altrove, un leit motiv pedissequo, quasi stancante, che però pare non bastare mai: “la famiglia Martusciello, che tanto ha contribuito al rilancio vitivinicolo regionale e alla valorizzazione dei vitigni autoctoni campani”. Certo, nei fatti però, non a chiacchiere. E senza dover rincorrere etichette evocative, battaglie bioqualchecosa, sintomatologie naturali. E Gennaro Martusciello in tutto questo, e in molto altro, ha avuto un ruolo cruciale, fondamentale.

Una persona, prima che enologo, stimatissima dall’ambiente; e pur non potendo andare oltre, non ho l’età per maggiori elogi personali – c’ho parlato troppe poche volte, molto di più coi suoi vini -, ho sempre avuto la sensazione come fosse un uomo in tutto e per tutto calato ostinatamente nella sua dimensione: un grande talento, finissimo tecnico e profondo conoscitore della materia, imbrigliato però da una realtà produttiva difficilissima e complicata, misconosciuta, sin da subito dura, talvolta talmente cruda che solo la malattia che l’affliggeva riusciva ad essere più desolante. Un uomo vulcanico don Gennaro, come la sua terra, costretto nella morsa di un malessere che l’ha accompagnato praticamente tutta la vita, segnandolo profondamente nel fisico ma non nell’intelletto, nell’invidiabile talento professionale; un uomo del sud che proprio come la sua terra ha dovuto faticare il doppio, anzi il triplo per emergere, affermarsi. Sì, perché Gennaro Martusciello un riferimento lo è diventato lo stesso, lui con tutta l’azienda di famiglia Grotta del Sole; un esempio per tanti, seguito, emulato, contrastato addirittura, ma un riferimento assoluto, per giovani e vecchie leve di enologi, ma anche di produttori, e non solo in Campania.

E così che saggiando questo Coste di Cuma 2010, oltre a saltarmi al naso bellissimi toni primaverili, con ricordi di macchia mediterranea e poi un sapore asciutto e lungamente sapido, mi ritornano perentorie le parole di Salvatore Martusciello che, lo scorso dicembre, quando mi ha dato questa bottiglia per sapere cosa ne pensassi mi fa: “siamo convinti che sia l’inizio di una nuova epoca in Grotta del Sole, questo duemiladieci del Coste pare condensare tanti degli sforzi che abbiamo fatto sulla falanghina dei Campi Flegrei negli ultimi vent’anni”. E bicchiere alla mano ne sono convinto anch’io, con poco o nulla da aggiungere se non che mi piace, con questa convinzione, pensare a quanto potesse essere felice zio Gennaro di sapere finalmente compiuto un percorso così duro lungo quasi vent’anni, grazie al quale, oltre a lui e ai suoi fratelli, nei vini dei Campi Flegrei hanno imparato a crederci in tanti, e a saggiarli, con attenzione e rispetto, in molti di più.

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

Un riso amaro

21 febbraio 2012

Di là: Pronto… Buongiorno…
Di qua: Buongiorno! Mi chiamo Angelo Di Costanzo. Ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere nel venire a farvi visita in cantina. E’ possibile?
Di là: Sì, si, un attimo che vi passo l’interessato… [breve attesa].
 
Di là: Pronto… Buongiorno…
Di qua: Buongiorno a voi, mi chiamo Angelo Di Costanzo. La settimana scorsa ho saggiato alcuni vostri vini e avrei piacere di venirvi a trovare in cantina. E’ possibile?
Di là: Ah, ma voi cercate la cantina? Aspettate un attimo che vedo se ci rispondono… [attesa, non proprio breve].
 
Di là: Pronto Buongiorno… chi è che parla?
Di qua: Sì, salve, buongiorno, mi chiamo Angelo. Di Costanzo. Dicevo… che qualche giorno fa ho assaggiato alcuni vostri vini e così avrei piacere nel venire in visita in cantina per conoscervi meglio. E’ possibile?
Di là: Eh sì, grazie grazie. Sentite, ma voi scrivete? Su qualche giornale, rivista, blogger (che immagino con l’h, ndr)?
Di qua: Per la verità sì, a tempo perso anche, ma…
Di là: No perché se vuole i vini glieli posso spedire: mi manda l’indirizzo e così facciamo prima.
Di qua: In verità le mie intenzioni erano altre. Ci terrei a visitarvi, conoscere l’azienda, e magari saggiarli assieme a voi i vostri vini; guardi è mia intenzione comprarne un po’ per mettervi in carta…
Di là: Ah… allora se è così dobbiamo fare quando ci sta pure l’enologo. Fa tutto lui qui…
Di qua: Bene, se lo preferisce, per me va bene. Quando possiamo?
Di là: Le faccio sapere quando è disponibile.
Di qua: Attendo sue allora, buone cose. Le lascio il mio num…
Di là: Buona giornata.

Ecco, immaginatevi adesso cosa possa essere, significare, e non per un appassionato mentecatto come me, ma per un normalissimo avventore o cliente – manco a pensarlo uno straniero, chennesò americano –, scoprire l’Italia del vino ancor oggi.

Lucera, Cacc’ e Mmitte 2009 Cantina La Marchesa

20 febbraio 2012

Ci sono (quasi) sempre piacevoli sorprese dietro una bottiglia di vino; e più è curiosa, diciamo “particolare”, l’etichetta o la sua storia, più è grande poi il piacere della scoperta e del racconto quando il vino è buono.

Il nome Cacc’ e Mmitte di Lucera fu scelto allorquando si decise per la doc, nel 1975, per i vini prodotti in questo bel pezzo di Puglia. Questa espressione, di chiara origine dialettale locale, ha una storia abbastanza curiosa e questa etichetta non manca di svelarla nella sua retro: dovete sapere che un tempo, qui come in tanti altri luoghi dell’Italia meridionale, la vinificazione avveniva nei cosiddetti “palmenti”, delle arcaiche strutture di produzione agricola, in pietra e calcestruzzo, di notevole rilevanza per l’economia rurale locale e, generalmente, utilizzate da più coltivatori, magari anche dello stesso latifondo. Così, in tempo di vendemmia, capitava che vi fossero tutto un susseguirsi di vari utilizzatori che, una volta portato a termine la propria di vinificazione, dovevano lasciare il “palmento” a disposizione di chi seguiva. Da qui Cacc’ e Mmitte, dove Cacc’ sta pertira fuori” il mosto dal palmento…” e Mmitte per “metti” nel palmento l’uva di chi segue…

La doc qui di per sé non è certo un vanto della produzione vitivinicola, fosse solo perché nel disciplinare, praticamente, non ci si è fatto sfuggire proprio nulla dei varietali più appetiti dagli imbottigliatori di ogni dove degli anni ’60 e ’70, dal nero di Troia al montepulciano, ma anche sangiovese, malvasia nera e bianca, trebbiano, bombino bianco e chi più ne ha, più ne metta, ma non per questo si può dire che manchino esempi di pregevole qualità e seria interpretazione territoriale. Esecuzioni cioè franche e piacevolmente suggestive, proprio come questo Cacc’ e Mmitte di Lucera 2009 di Cantina La Marchesa che, a parte un’etichetta poco felice – giocata ostinatamente sull’oro e il viola, in tutta onestà un tantino kitsch -, mi è parso senza ombra di dubbio un degno e gradito compagno in tavola.

Un rosso interessante, da quel che leggo composto in buona parte proprio da nero di Troia e montepulciano, ma anche, in piccola parte, da bombino bianco. Curioso no? Un vitigno bianco complementare a due rossi, un po’ come accadeva un tempo anche nel Chianti. Cose d’altri tempi insomma. L’assaggio invece rivela una certa vivacità tutta nostra, figlia del nostro tempo; il primo naso non è dei più immediati ma con la giusta attenzione si colgono chiare fresche note di violetta e frutta rossa, polposa, sentori di ciliegia, mirtilli, un bouquet ancora caratterizzato da una certa vinosità. Ben dosato anche il legno, assolutamente non invadente, e affatto banale, che ne tratteggia un corpo solido, rotondo e snello. E la conferma non tarda ad arrivare: il sorso è franco e vigoroso, apparentemente più dei suoi tredici gradi, e secco, caldo, scorrevole, il primo ne richiama subito un’altro. Un buon rosso dal nome sicuramente curioso, se vogliamo uno dei più autentici della mappatura enoica italiana, un souvenir quasi, però di quelli da bere e non da lasciare impolverare su di una mensola.

Trento Riserva del Fondatore Giulio Ferrari ’97

16 febbraio 2012

Se guardi al mondo delle bollicine italiane un pensierino subito a Ferrari lo fai, anzitutto a questo nome, a questo marchio ormai storico, poi anche a tutti gli altri, quelli che ti vengono in mente. E se cerchi, tra i metodo classico italiani, quelli di riferimento, lo spumante ideale, quello assoluto, forse l’unico a giocarsela alla pari con i più grandi Champagne, bene, il Giulio è sempre lì, lassù, tra i migliori, quando non il migliore.

Il Giulio Ferrari è la Riserva del Fondatore, prodotto per la prima volta nel 1972 e avviato sin da subito ad un luminoso futuro. Non è uno spumante qualsiasi, è anzitutto uno chardonnay di gran spessore, poi un finissimo metodo classico – da un punto di vista tecnico di grandissima levatura -, che si giova quindi di una materia prima e di un terroir eccezionali e poi di una pratica di cantina altrettanto unica per esperienza e capacità. E tutto ciò salta subito al naso e al palato, sin da un primo assaggio. Non a caso ci vogliono almeno dieci anni di maturazione sui lieviti per donargli quel carattere distintivo unico ed inequivocabile, siffatto, di una tale opulenza e al tempo stesso finissima eleganza; a parer mio da sempre avanti anni luce a qualsiasi altra bollicina italiana.

Il 1997 è stato un millesimo di spessore, e nonostante i quindici anni questo vino si conferma capacissimo di attraversare il tempo senza perdere carattere e verve espressiva: il colore, tendente all’oro, è solo appena più pronunciato di quanto ci si aspetti ma decisamente in forma, luminoso, rinvigorito tra l’altro da un corollario di bollicine che hanno conservato finezza e persistenza. Il naso è chiaramente maturo, però sorprendente e pulito, integro, variopinto di erbe alpine, frutta gialla sciroppata e cioccolato bianco, e che sfuma lentamente su lievi sentori speziati di zenzero candito e frutta secca. Il sorso è asciutto, pieno e caldo, accompagnato da una sobria vivacità ma soprattutto da una avvolgente rotondità gustativa che chiude con un finale di bocca piacevolmente sapido. Un bicchiere tira l’altro. E’ un gran peccato, ma pare che anche i magnum prima o poi finiscono.

Se vi va, qui trovate una più ampia cronistoria del Giulio con annessa una speciale miniverticale di tre annate.

Nutrivo una speranza, o di come si cambia non sempre in meglio: Avvoltore 2006 Moris Farms

15 febbraio 2012

Ricordo una ragazza, conosciuta quasi vent’anni fa, eravamo poco più che adolescenti, lei con un paio d’anni in meno dei miei; era piuttosto alta – “spilungona” usavamo dire -, non certo bellissima, ma aveva un fascino tutto suo, e per noi del gruppo era “la preda”, assai ambita pur se dichiaratamente inarrivabile: aveva linee sinuose e in pieno sviluppo, dei bei capelli castani, talvolta arruffati e occhi cristallini ma sempre incazzati, un caratterino deciso e, puntualmente, sempre un gran da fare.

Strappargli un appuntamento era impossibile: tra la scuola, le lezioni di pianoforte, la pallavolo potevi ritrovarti ad inseguirla per settimane intere; e non era detto che ci uscivi. Insomma, alla fine era chiaro che non l’avrebbe mai mollata a nessuno di noi, però tutti, compreso me che degli aspiranti ero il più spacciato della comitiva, continuavamo a stargli dietro. Era lì, era dei nostri, e assieme ci stavamo bene, passavamo delle belle serate ed era bello desiderarla.

Ci perdemmo di vista, suo padre – onestamente non ho mai capito cosa facesse di preciso – fu trasferito altrove. La rincontrai qualche anno dopo, venne una sera a cena al ristorante dove lavoravo, saranno passati una decina d’anni, anno più anno meno; non la riconobbi subito, in verità ci volle quasi tutta la cena per raccoglierne la familiarità, e fu più lei a riconoscere me che viceversa. L’appariscente fiore giallo che portava nei capelli, adesso chiari e più corti, ne illuminava il profilo, fulgido, ben truccato, non pesante ma finemente tratteggiato.

A fine serata, al momento dei saluti, non mancò uno scambio di battute come ai vecchi tempi, le sue, devo dire, meno originali di quanto m’aspettassi – i miei chili di troppo, l’accento puteolano, cose così -; sembrava insomma tenerci alla conversazione, ma mica più di tanto, infatti quelle stesse parole gliele avevo già sentito dire tante altre volte in passato.

Le mie non furono certo da meno, chiaramente autorizzate dalla sua compagnia di sole donne, altrimenti non mi sarei mai permesso: la trovavo certamente “cresciuta”, parecchio avvenente, era evidente che il lavoro nella moda ne aveva fatto una donna accorta, attenta, forse adesso veramente bella, di quella bellezza di cui tanto si parla in giro e della quale, ahimé, spesso si abusa. Però non so, continuavo a cogliere nelle sue espressioni, nel suo sguardo, una certa distanza, una sorta di stanchezza, quasi il tempo gli avesse strappato via le unghie, oppure, più semplicemente, la voglia o l’interesse a graffiare.

Si parla dell’Avvoltore 2006 Moris Farms, ovvero sangiovese 75%, cabernet sauvignon 20%, syrah 5%. Siamo naturalmente in Toscana, a Massa Marittima in località Poggio all’Avvoltore, su terreni argillosi, ricchi di scheletro, alcalini con esposizione a sud ovest.

Barolo Riserva Gran Bussia ’99 Aldo Conterno Vs Taurasi Riserva Centotrenta ’99 Mastroberardino

10 febbraio 2012

Giusto una settimana fa  (leggi qui) coglievamo l’occasione di un confronto nato così per caso per spendere due parole sull’aglianico, il nebbiolo e l’importanza di una giusta interpretazione che tenda a valorizzarne – nel tempo, non solo sull’immediato – i profili organolettici piuttosto che le velleità commerciali. Sempre per caso, è venuta fuori una quasi seconda puntata delle serie con altri due bei protagonisti…

Monforte d’Alba, località Bussia Soprana, nel bel mezzo del Barolo docg. Alla conta dei numeri Poderi Aldo Conterno mette in campo 25 ettari di vigna, una decina di vini prodotti, i classici langaroli ed una storica profonda attenzione al Re dei vini, alle sue riserve in particolar modo. Gran Bussia nasce nelle vigne Romirasco, Cicala e Colonnello – per la precisione, salvo annate particolari che ne raccomandino una diversa interpretazione, 70% della prima e il restante 30% perfettamente suddiviso tra le altre due -, dove è piantato tutto nebbiolo delle varietà michet e lampia, particolarmente adatte, si dice, al terreno di queste vigne, essenzialmente costituito da strati di sabbia più o meno compatta, di colore grigio-bruno, alternato da marne calcaree bianche e bluastre.

La vinificazione è quella classica, avviene tutta in acciaio, a temperatura controllata con macerazione delle bucce fino a 25-30 giorni, sino a fine fermentazione alcolica. Poi rovere di Slavonia, botti grandi quindi, per almeno 40 mesi. Anche qui non manca l’uso di barriques, ma solo per gli altri vini prodotti, non per i Barolo. Il Riserva Gran Bussia quindi, quando esce, per inciso, è la summa dei migliori nebbiolo raccolti in azienda. Insomma, non uno qualsiasi ma un signor Barolo.

E nei fatti ci godiamo un rosso dal bel colore granato piuttosto vivo, solo sull’unghia del vino nel bicchiere cominciano appena ad intravedersi lievi spunti aranciati. Il primo naso è un manifesto, già intriso di sentori balsamici, di sottobosco, cuoio, humus, chiede tempo soprattutto per smarcarsi da un sentore simil-vinilico, di insistente ceralacca un tantino fastidiosi; il ventaglio olfattivo però sa solo migliorare, non certo in verticale, ma riconoscimenti di pepe, di noce moscata e tabacco confermano, alla fine e nel complesso, un bagaglio varietale di tutto rispetto. Il sorso è asciutto e teso, ancora nerboruto, sapido, manca solo, forse, di quella freschezza capace di fartelo apprezzare a pieno, di quella spinta decisiva a decretarne una definitiva completezza degustativa. Nonostante gli anni. Sì perché una dozzina di anni, per un signor Barolo, non possono già essere troppi.

Centotrenta nasce per celebrare i primi 130 anni di vita commerciale della Mastroberardino; è una riserva, decisamente in linea con lo stile sobrio storicamente riconosciuto ai Taurasi di Mastroberardino, mai sopra le righe, e che raccoglie, tra l’altro, l’occasione di un’ottima annata, la ‘99, severa, acida e senz’altro di buona prospettiva, un riferimento importante per tutta l’Irpinia. Questo Taurasi prende vita dalle vigne della Tenuta di Pastanella in Montemarano, laddove da qualche anno si concentrano molti sforzi economici della storica azienda di Atripalda, e dove si stanno conducendo, proprio sull’aglianico, diverse ricerche e sperimentazioni volte a cogliere tutte le strade percorribili con questo vitigno, non da ultimo vinificazioni di “vendemmie tardive” e addirittura rossi maturi con uve in parte o del tutto botrytizzate.

Come è noto, Montemarano è tra i comuni della docg collocati più in alto, nel Versante Sud – Alta Valle della denominazione, più o meno intorno ai 500 metri, con vigne caratterizzate da terreni tendenzialmente argilloso-calcarei, lapilli vulcanici ed un ambiente pedoclimatico, nell’insieme, particolarmente vocato per l’aglianico. Tant’è, ritornando alle peculiarità del Taurasi Riserva Centotrenta, val la pena prendere nota della vinificazione con prolungata macerazione delle bucce, a temperatura controllata, e l’affinamento speso in questo caso tra barriques di rovere francese e botti, sempre di rovere ma di Slavonia, per un periodo complessivo di almeno 30 mesi. Poi solo bottiglia.

Il colore è di un bel rosso rubino, ancora integro, anche abbastanza vivace, con appena nuances granata. Il naso è lento a venir fuori, ma già dalle prime battute si colgono chiaramente sentori di viola passita, amarena e frutti di bosco in confettura, una sciorinata di soave franchezza che si arricchisce, pur lentamente, di ulteriori interessanti sfumature, note di tabacco e rimandi balsamici anzitutto. Il sorso è asciutto, attacca il palato con precisione, il tannino è ben fuso, affatto persistente, conferma infatti una certa sobrietà degustativa, senza spigolature eccessive, e una trama assai fine e piacevolmente sapida. Il finale di bocca chiude lievemente amaro. A voler cercare “il pelo nell’uovo”, anche qui manca quello slancio emozionale che ti faccia scordare del tempo passato che, nonostante alla cieca appaiano molti di meno, sono lo stesso più di dodici anni suonati.

E’ un gioco e spero si capisca, e sinceramente non so nemmeno quanto possa essere rilevante, ma diciamo che a voler tirare fuori un risultato, chiaro, in questa occasione è bene sottolineare che nessuno dei due “contendenti” ha la meglio sull’altro; quindi, per dirla con un telecronista sportivo, un bel pareggio ci sta tutto. Poi però qualcuno si domanderà del prezzo, dell’uno e dell’altro, e così tocca fare pure i conti con quanto costi, pur piccola, un’emozione (nel primo caso non proprio bruscolini).

Tramonti, Monte di Grazia rosso 2009 (e 2007)

7 febbraio 2012

Un breve refrain mi riporta agli appunti di più o meno un paio d’anni fa. Avevamo fatto un salto a Tramonti per avere contezza di quanto di buono si stesse facendo da quelle parti.

Di Monte di Grazia ne scrissi qui, e a più riprese pure in altre occasioni. Per quanto riguarda questo rosso, sul quale torno molto volentieri, ci eravamo lasciati con l’assaggio di un campione preso direttamente dalla vasca, suggestivo ma pur sempre prematuro; ci ritroviamo così intorno a un tavolo, riprovandolo, ancora en primeur, dopo un po’ di tempo in bottiglia. Alfonso Arpino, con Gerardo Vernazzaro che lo segue in questa avventura, stanno ancora pensandoci su per quando metterlo finalmente in circolo, ma frattanto che ci rimuginano, io ne approfitto per registrare ancora uno scatto in avanti di questo bel vino.

La franchezza è quella solita, il tintore si conferma vino di grande spessore e di estrema complessità, trasversale verrebbe da dire: il naso è un crocevia di piacevoli note olfattive, conserva ancora una certa vinosità ma soprattutto l’insistenza di sentori di piccoli frutti neri polposi, aromi di liquirizia, sensazioni appena accennate di sottobosco. Il sorso ne ha guadagnato parecchio, ricomponendosi in maniera efficace e sostenibile. La veemenza acido tannica va lentamente risolvendosi a favore di una tessitura nerboruta, fitta e di sostanza, imperniata però su una materia di primissimo pelo e molto succosa. Comincia ora a farsi bere.

E in attesa di un duemilaundici da leccarsi i baffi, ritorno invece volentieri anche sul 2007, annotando quanto in questo preciso momento mostri un profilo organolettico compiuto e affascinante. Conserva nerbo e fittezza ma il tempo gli ha dato modo di smussare per bene ogni spigolatura. La sontuosità del frutto rimane in primo piano e questi tanti mesi trascorsi dall’ultimo assaggio non fanno altro che confermare quanto ci abbiano visto lungo coloro i quali fanno di questa etichetta il “loro” tintore di Tramonti preferito: espressione talvolta molto schietta, a tratti sfuggente, austera, ma senza dubbio delle più autentiche in circolazione. Sarebbe ora di berlo, a trovarne ancora.

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Falanghina Via del Campo 2009 Quintodecimo

6 febbraio 2012

Via del Campo c’è una graziosa/gli occhi grandi color di foglia/tutta notte sta sulla soglia/vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c’è una bambina/con le labbra color rugiada/gli occhi grigi come la strada/nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c’è una puttana/gli occhi grandi color di foglia/se di amarla ti vien la voglia/basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano/lei ti guarda con un sorriso/non credevi che il paradiso/fosse solo lì al primo piano.

Via del Campo ci va un illuso/a pregarla di maritare/a vederla salir le scale/fino a quando il balcone ha chiuso.

Ama e ridi se amor risponde/piangi forte se non ti sente/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fior/dai diamanti non nasce niente/dal letame nascono i fiori. (1986, © Fabrizio De André).

A parlar di vino, cos’è la falanghina nell’immaginario comune se non quell’uva – come una puttana, cercata e violentata da molti -, procace e disponibile, appariscente, profumata e “pittata” all’evenienza, talvolta ingrassata sino al ridicolo per attirare orde di clienti il più delle volte coscientemente incapaci di coglierne la benché minima emozione, figuriamoci l’anima. Che nemmeno cercano. Il ché rende le cose molto più semplici a tutti.

Ecco, Luigi Moio¤ è un grande anche in questo. Provate a mettere nel bicchiere questo 2009: c’è chi ha timore della semplicità del varietale, di un indemoniato uso del legno, di un trucco pesante e, non ultimo, quanto tutto ciò costi in soldoni. Bene, mettetela nel bicchiere questa falanghina, fatela provare magari a settanta persone tra appassionati, enologi, sommelier, conformisti e anticonformisti compresi: palati fini – certi finissimi -, ma anche palati meno “allenati”, puri, taluni anche grezzi. E poi statele ad ascoltare, provando a raccogliere le loro opinioni.

No, non serve che aggiunga altro, dire del colore fulgido e luminoso, del naso avvincente, fine e verticale, del sapore fitto, memorabile. Del valore: semplicemente prezioso. Non a caso il Professore sulla falanghina ci lavora da più di vent’anni. E non a caso, dopo vent’anni e più di ricerche, studi, prove, vini, la Sua falanghina, a Quintodecimo, si chiama Via del Campo. Certo non a caso, dicono.

Newberg, Estate Pinot Noir ’05 Patricia Green

4 febbraio 2012

Generalmente riesco a farlo con una certa convinzione, non che mi metta a definire un calendario, sia chiaro, sarei un tantino esagerato se lo facessi. Però aspettare, saper aspettare un vino, rimane una di quelle belle cose che donano senz’altro al vino e al suo mondo quell’irresistibile fascino per cui merita d’essere raccontato.

Avevo questa bottiglia da più o meno cinque anni, conservata là, nella cantinetta dei miei coups de coeur; un regalo prezioso ed apprezzato da parte dei miei amici Steve e Tammy, prima della loro partenza definitiva per gli states. Se ne tornavano a casa, o su di lì. E ci tenevano ch’io saggiassi, prima o poi, questa etichetta, che ritenevano tra le più “vere” espressioni del pinot nero in Oregon.“Patty Green fa vini con uno stile ben definito, non è difficile che ad alcune persone non piacciano, ma vale la pena provarli”, mi dissero. Così decisi di tenerla lì per un po’, non senza, lo ammetto, una sana curiosità che già altre volte mi avrebbe tentato nell’aprirla.

Sapevo che Ribbon Ridge è letteralmente un “nastro” collinare lungo il quale si sono insediate negli anni alcune delle migliori aziende produttrici dell’Oregon, fuori dalla Borgogna uno dei luoghi per elezione per il pinot noir; pensate, per dirne una,  che qui viene coltivato con ben oltre 42 selezioni clonali differenti. Un posto dove le particolari condizioni dei suoli, di chiara origine sedimentaria marina, e l’unicità dell’ambiente pedoclimatico con le montagne Chehalem sullo sfondo, conferiscono ai vini qui prodotti molto altro che quel frutto tanto ricercato nei pinots del cosiddetto “nuovo mondo”, che sanno solitamente di rosa, lampone e ciliegia giusto tal quale un succo o una caramella alla frutta.

Questo vino ha poco o nulla per apparire piacione o alla mano, tutt’altro. Il timbro degustativo è senz’altro borgognone, ma di quelli veramente autentici, che non fanno sconti nemmeno a favore dell’eleganza. Il colore infatti è bruno, con già nuances aranciate sull’unghia del vino nel bicchiere, ma vivo e limpido. Il naso è composito, i sentori fruttati sono solo una reminescenza, ciò che lo contraddistingue, profondamente, è il profilo quasi terroso, di sottobosco, macchia mediterranea, china che ne disegna il carattere austero, forse anche monolitico, ma sicuramente inconfondibile. E il sorso ne da subito conferma: ha tessitura fibrosa e minerale, sollazza il palato con insistenza e finisce chiaramente sapido. Per darvi idea della maniacalità con la quale si continua a fare ricerca da queste parti, Patricia Green produce addirittura 12 etichette diverse solo dei suoi pinot nero, talvolta una per ogni singola botte di vino in cantina, una sorta di single vineyard che più espressivo non può essere.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Napoli, il 20 febbario arriva “Il Falerno a Napoli”

3 febbraio 2012

Vi segnalo un appuntamento imperdibile per tutti gli appassionati di vino, Il Falerno a Napoli, messo su nei saloni di Villa Domi, ai Colli Aminei, dalla collega e amica Monica Piscitelli con la collaborazione di Luciano Pignataro e, tra gli altri, della beneamata Confraternita del Falerno.

“Mai il grande vino è stato versato tutto insieme” dice lo slogan della manifestazione. Ebbene, a parlar di Falerno si fa certamente presto a capire di quali gran vini si tratta. E qui, su questo blog, ne abbiamo raccontati davvero tanti. Sono infatti ormai una ventina le aziende che nei 5 comuni dell’areale di produzione, tra Carinola, Cellole, Falciano del Massico, Mondragone e Sessa Aurunca danno vita alla denominazione Falerno del Massico Doc. E sarà questa l’occasione per provarli tutti. Segnate in agenda allora, lunedì 20 febbraio prossimo, a Villa Domi, Salita Scudillo 19/a dalle ore 18,00. Da non perdere i laboratori di degustazione!

Per informazioni:
Luciano Pignataro Wine Blog
Campaniachevai blog Monica Piscitelli  
Per il laboratori
Monica Piscitelli Cell. 3480063619
campaniachevai@gmail.com
Monica Ambrosino di Bruttopilo Cell. 3283316300
Novella Talamo ntalamo@gmail.com