Archive for the ‘I LUOGHI DEL GUSTO’ Category

L’Astice con pomodori cuore di bue, rucola e cipollotti con Campania Pedirosa ’10 La Sibilla

10 giugno 2012

Intervallo. Aperitivo in terrazza con Gambero con guanciale, piselli e zabaglione e Dubl Greco 2009

26 Maggio 2012

Intervallo. Pane e pummarole

25 novembre 2011

Roma, Ristorante Oliver Glowig

28 ottobre 2011

Siamo in una delle aree più esclusive del centro di Roma, tra Villa Giulia e la Galleria Borghese. L’Aldrovandi Palace non è un albergo qualunque, gode di fortissime tradizioni, nonché di nobilissime origini che ne fanno meta preziosa di una clientela, italiana ed internazionale, particolarmente esigente. L’albergo ha camere elegantissime, talune suites decisamente lussuose – vi è una Royal Suite di 120 metri quadrati (!), non so se mi spiego – e, tra i mille e più servizi offerti, c’è anche un ristorante gurmé.

Chiusa l’esperienza con il Baby affidato per diverso tempo alla famiglia Iaccarino del Don Alfonso 1890, il ristorante è stato consegnato lo scorso aprile nelle mani di Oliver Glowig, un nome, una garanzia si direbbe, di ritorno dalla breve esperienza montalcinese in quel di Poggio Antico (qui); con gli amici e colleghi di tutta la brigata de L’Olivo, in vena di una “rimpatriata”, vi abbiamo fatto un salto lo scorso martedì, per “festeggiare” diciamo così, la nostra chiusura stagionale a Capri. Questo che segue il racconto dello splendido pranzo servitoci a due passi dal bellissimo giardino che da sulla piscina dell’albergo.

Non sono mancati rituali a noi cari: qui “i tre tenori” che si ritrovano, ovvero Oliver Glowig con Fabio Raucci (oggi nostro F&B Manager al Capri Palace) e Francesco Mussinelli (da qualche mese passato all’Hassler proprio qui a Roma). Una triade questa, cresciuta tra grandi intese, rara professionalità e infinita disponibilità con la quale ho avuto la fortuna di condividere due splendide stagioni di lavoro.

I pani, con i grissini, vengono tutti fatti “in casa” dal giovane e bravo Domenico Iavarone, ancora al suo fianco anche in questa nuova avventura romana all’Aldrovandi Palace. Notevole il “cornetto bianco”, insolito e buonissimo quello ai semi di zucca.

Dopo un piccolo benvenuto accompagnato dall’ottimo Champagne “della casa”, si comincia con Lumache alla mentuccia con fagioli di Controne e caffè. Oliver non abbandona in nessun caso le “sue” radici campane. La scoperta e la valorizzazione di tanti piccoli prodotti straordinari della nostra terra non mancano nella “vetrina” romana dello chef tedesco cresciuto e maturato sull’isola azzurra.

Forse il piatto più riuscito, anzi no, quello che più ci è piaciuto in assoluto: un trionfo di sapori; Eliche cacio e pepe con ricci di mare, ovvero come muoversi da equilibrista sulla fune senza colpo perire! Oliver in questo è sempre stato un maestro, l’ultilizzo di formaggi infatti, anche negli accostamenti più insoliti, rimane un segno distintivo della sua cucina, franca e precisa come poche e senza nessun ammiccamento a mode, tentazioni o salti nel buio; insomma, una rivisitazione più che rispettosa.

Pasta e fagioli al profumo di mare; si può senz’altro affermare sia diventato ormai un classico nella carta dei primi di Glowig: la pasta mischiata è cotta perfettamente al dente, e la sempre criptica sapidità del condimento solo accenata, poi tanta, ma tanta piacevolezza da vendere.

Il Baccalà con carciofi in salsa di uova. Mi è piaciuto molto, un piatto invitante, puritano ma al contempo intrigante e persuasivo. Il pesce è pura scioglievolezza, la trippa di Baccalà (battuta e poi fritta) non è una semplice decorazione ma un elemento di brio, di una croccantezza importante, e la salsa di uova debitamente avvolgente ma non stucchevole.

Lombo di coniglio con zucca. Esecuzione da manuale: la carne è avvolta in una foglia di borragine, cottura rare – proprio come piace allo chef -, e accompagnata da una passatina di zucca (impreziosita con pochi suoi semi, secchi) e cipolla rossa di Tropea.

Comincia qui la carrellata dei desserts, che strizzano ancora l’occhio alla lunga estate appena alle spalle, vista l’importante presenza di gelato nelle varie composizioni portateci in tavola (un vecchio pallino dello chef): si comincia con Arancia speziata al melograno con gelato di lenticchie gialle. Fresco e dalle sfumature candite e amarognole; ben mantecato il gelato.

Quindi la Meringa morbida in salsa di ananas, imperdibile per gli appassionati. Tra l’altro il dessert risulta molto più leggero di quanto in verità appaia così citato in carta. Da riprovare senz’altro.

Poi il Gelato di prugne con composta di frutta secca: un vero piacere per gli occhi – la preparazione è assai apprezzabile -, con il gelato molto saporito ed un vero e proprio viaggio tra decise sensazioni speziate/amare sia con le cialde di cioccolato che con la composta di frutta secca che invita a nozze un vecchio Madeira Malmsey o, per gli appassionati alle gradazioni più forti, uno dei più apprezzati rhum in circolazione, tipo un Demerara.

Con i deliziosi petit fours, praticamente divorati, anche le immancabili zeppoline di patata,  fritte al momento e servite “al tovagliolo”, col ripieno di calda crema pasticcera a suggellare un pranzo decisamente da ricordare.

In chiusura due appunti di degustazione sui vini, proposti da una carta essenziale che non mancherà di crescere nel tempo, ci dicono. Anzitutto l’ottimo Champagne offertoci all’arrivo, “firmato” dallo stesso Glowig, di cui però, avute le debite notizie, racconterò in maniera più esaustiva in un prossimo post.

Molto apprezzati comunque tutti i vini scelti per l’abbinamento: il laziale Bellone bianco 2009 di Cincinnato (cant. cooperativa di Cori), piuttosto intenso, profumato di glicine e miele di millefiori, in bocca voluminoso e di spessore; buonissimo invece (non pensavo fosse così bbuono il 2009!) il Derthona bianco di Walter Massa, che mi ha subito messo “in pace” col timorasso, dopo un poco (o per niente!) convincente assaggio di quello de La Colombera. Poi, il Merlot 2009 della Cantina Produttori Santa Maddalena, un classico altoatesino, buono per tutte le stagioni, anch’esso franco e piuttosto pronunciato al naso, e ben gradito dai colleghi, non solo sul coniglio. Sul finale dolce invece, il Passirò 2007 da uve roscetto di Falesco (mentre io – ça va sans dire -, ho continuato per tutto il tempo a finirmi tutto quello che c’era ancora in giro di Derthona).

Bene Oliver, anzi benissimo, ancora una volta allora in bocca al lupo amico mio e… Ad Maiora! (ché però me lo dai il numero di telefono dello chef de cave che ti ha selezionato questa meravigliosa cuvée?).

Le foto di questa recensione sono di Enrico Moschella, riproduzione riservata.

Guide ai ristoranti d’Italia 2012, il Gambero Rosso

19 ottobre 2011

 

Punteggio: 87due forchette
Cucina: 52
Cantina: 16
Servizio: 18
Bonus: 1

Lo sapete, questo è uno degli alberghi più belli d’Italia. Il suo “Olivo” è di conseguenza un posto splendido (bonus), curato nei minimi dettagli, di grandissimo fascino e confortevole come pochi. Servizio attento, cortese e professionale, carta dei vini molto assortita e cantina da vedere. In cucina ora c’è  Andrea Migliaccio, mano felice ed equilibrata, inventiva ben dosata e miscelata con la cucina regionale, per un risultato notevole nei piatti assaggiati. Trilogia di cotto e crudo di mare (gamberi, cappesante e palamita), carpaccio di cefalo e tartare di scampi con caviale e cuore di bue alla colatura, risotto al limone con gamberi rossi e bisque, spaghetti ai ricci, maialino croccante con scarola e zuppa forte, babà con zabaione, frutti di bosco e Ratafià. Tutti piatti esenti da critiche, che risultano soddisfacenti e meritevoli di una cena, come tutto il complesso che ritorna meritatamente nei punteggi alti dell nostra Guida. Sulla terrazza da quest’anno troverete il Bistrot Ragù, con vista magnifica sul mare, che offre la possibilità di fare una sosta più informale, sempre in questa incantevole, e impagabile cornice. (da I Ristoranti d’Italia 2012 del Gambero Rosso)

Alba, di Montanaro e della grappa dell’Alchimista

18 ottobre 2011

“S’ci l’è foll!”. Questo è un matto, per dirla alla maniera albese. E a pensarci bene Giulio Bongiovanni non fa proprio niente per smentirsi, per apparire alla mano, anche più di quanto in realtà lascerebbe intuire d’essere. “L’è così, prendere o lasciare!”. Noi, naturalmente, prendiamo…

La grappa, o “il sole d’uva imbottigliato” per dirla con Paolo Monelli, ha avuto in Alba il suo più autorevole precursore in Francesco Trussoni, maestro di alambicchi, detto l’alchimista, che nel 1885 si mise in testa di fare la prima grappa di Barolo, la prima monovitigno della storia. Una storia proseguita negli anni trenta sotto l’egida di Mario Montanaro, suo genero, che contribuì in maniera sostanziale a delineare l’attuale fama di cui gode la distilleria di Gallo d’Alba, nel cuore delle Langhe. Da poco più di un ventennio la Distilleria Montanaro è passata nelle mani di Giulio Bongiovanni, altro maestro artigiano langarolo di primissimo piano. Un gran personaggio!

Le vinacce arrivano in distilleria, quindi selezionate tra quelle ritenute di pregio, adatte quindi agli standards di casa, e quelle meno funzionali destinate magari a lavorazioni di tipo industriale, del tipo per tirarne fuori alcol puro o utilizzate come combustibile bionaturale. Ma la materia prima non è altro che un mezzo per arrivare al cuore della lavorazione, l’ispirazione necessaria per godere di tutti i segreti di una distillazione che conserva un’arte antica e mistica, infinatamente preziosa. Vengono quindi stoccate in silos di cemento da dove man mano vengono confluite, attraverso un nastro trasportatore, alle caldaie in rame.

Le “cotte” durano all’incirca un ora, e le caldaie, praticamente, si autoalimentano grazie alla pressione e al vapore da loro stesse prodotti. Sono infatti collegate tra loro due a due, alimentandosi a vicenda; esauritasi una “cotta”, attraverso l’apertura/chiusura di determinate valvole se ne fa entrare in funzione una seconda coppia, e così via sistematicamente. L’impianto è rimasto praticamante immutato, salvo piccoli ammodernamenti, sin dalla sua creazione nel 1927.

Giulio Bongiovanni, come detto è da poco più di vent’anni proprietario della distilleria Mario Montanaro. Qui è un’istituzione, lo dipingono come uno tosto e dal carattere ruspante, “ruvido”; a me è sembrato un tizio che la sa davvero lunga, un piacere ascoltare i suoi aneddoti, e poi, quel suo bianco Montanaro poi…

Dalle caldaie, attraverso una serie innumerevole di tubi e tubicini, il primo fiore distillato fa un giro piuttosto virtuoso spostandosi in tre diversi locali della distilleria, passando dallo stato liquido a quello gassoso almeno un paio di volte durante il suo “cammino”, così da liberarsi anche del benché minimo residuo sgradevole allo scopo di ottenere acqueviti o grappe purissime.

Il ragno invece, è un complesso sistema di tubicini e microfiltri che s’incrociano apparentemente caotici in una piccola caldaietta che sembra essere la destinazione finale del nettare dell’alchimista. Qui tutto è in rame: poco prima, in una caldaia poco più grande (se ne scorge uno scorcio nella foto, in alto a destra) il liquido viene “intiepidito” e “valorizzato” prima di venire fuori, purissimo, a circa 80 gradi. Praticamente una bomba. Da qui, la raccolta del distillato, tutto sigillato secondo normativa dalle punzonature della Guardia di Finanza; poco dopo il via libera, dritto all’infernot.

Qui riposa il meglio della produzione, dove vi rimane per almeno una dozzina d’anni prima di finire nelle bottiglie di acqueviti o grappe Montanaro. Qui però vi è anche dell’altro, infatti in alcune di queste botti giacciono anche acqueviti e grappe di almeno quarant’anni che concorrono al patrimonio aziendale, che è davvero importante, con alcune partite che arrivano sino al 1960. Non so voi, ma il fascino dell’alchimista mi attira non poco…

Distilleria Dott. Mario Montanaro
Via Garibaldi, 6
12051 Alba Fraz. Gallo (CN)
Tel. 0173/262.014
Fax: 0173/231.378
www.distilleriamontanaro.com
distilleriamontanaro@distilleriamontanaro.com
 

Pollenzo, Ristorante da Guido

17 ottobre 2011

Quindici anni fa, più o meno, ne seguivo le fortunate vicende dalle pagine del Gambero Rosso. Talvolta anche sul “channel”, soprattutto la rincorsa alle ricette tradizionali piemontesi che la Signora Lidia non ha mai fatto mancare ai suoi avventori.

E’ Guido da Costigliole, nome da dipolamatico per un ristorante che da Santo Stefano Belbo è entrato a pieno titolo nella storia dell’ enogastronomia italiana. Sobrio ed essenziale, oggi il ristorante “Guido” è a Pollenzo, presso l’Agenzia voluta da Slow Food che ospita, tra le altre cose, l’Università del Gusto e la Banca del Vino. Nasce dalla riuscita unione di due storiche prestigiose realtà della costumanza gastronomica piemontese, Guido da Costigliole d’Asti appunto e La Noce di Volpiano della famiglia Mongelli.

Padrone di casa stasera è Piero Alciati che, con il fratello Ugo ai fornelli – e qua e la una comparsa della mammissima Lidia -, continuano a proporre piatti tradizionali e tipici della cucina piemontese, accompagnati come detto in questa nuova, suggestiva avventura, dalla famiglia Mongelli. Ma veniamo alla cruda cronaca di una serata piacevole e rilassata a poco più di due passi dalle Langhe.

E’, con il gelato, forse il piatto più riuscito della serata, il benvenuto dello chef, uno gnocco di zucca con ragù di salsiccia e tartufo bianco d’Alba: un trionfo di profumi, netti, distinti avvolgenti ma al tempo stesso calibratissimi, e che non mancano di fondersi in tutt’uno e regalare un’esplosione di sapore unico.

Sono da poco passate le otto e mezza e il locale è già bello pieno. La grande sala, un tempo scuderie del comprensorio “albertino” che ospita l’Agenzia di Pollenzo, ha una dozzina di tavoli distribuiti in un ambiente piuttosto ampio, che in senso verticale – a dirla tutta -, risulta un tantino enorme per decretare quell’atmosfera intima e misurata che appare suggerita ad ogni passaggio in tavola, ma che invero si fa fatica a cogliere nell’aria di uno spazio così dilatato.

Non poteva mancare la Fassona, qui in carpaccio su una fresca insalatina e ancora un passaggio di tartufo bianco (per acclamazione). L’animale si sa è tra le razze più apprezzate, la fibra è tonica e muscolosa: pelle fine ed elastica, ossatura leggera e scarse quantità di grasso sottocutaneo tra l’altro ben amalgamato con la polpa senza mai stravolgerne particolarmente il sapore; la carne infatti è tenerissima, anche perché non è fibrosa, infatti, a dispetto dei muscoli, numerosi e sviluppati, non ha grande quantità di fibre e, come detto, di grasso. Conserva piuttosto un’altissima qualità nutrizionale grazie al ricco contenuto di amminoacidi, vitamina B e minerali di varia natura come il potassio, il selenio, magnesio, calcio, ferro e zinco. Conta molto invece la frollatura, che trasforma il muscolo in carne e, come in questo caso, è quanto mai importante saper offrire un taglio pronto e una preparazione appropriata.

Quindi gli Agnolotti al Plin di mamma Lidia, un piatto di tale disarmante semplicità quanto infinita è la bontà e il sapore che sprigiona; vengono serviti appena saltati in padella con un sugo ristretto di arrosto. E non mancano quelli “al tovagliolo”, semplicemente fritti, e se vogliamo ancora più buoni, che ci vengono portati in centro tavola appena un attimo dopo!

Si chiude con un gustoso Agnello al forno cotto a bassa temperatura: fragrante di aromi dolcissimi, sugoso, pura scioglievolezza in netto contrasto con i carciofi crudi e cotti che svolgono al meglio la loro funzione di contorno e di sgrassatura del palato, infondendo piacevole equilibrio gustativo.

In cantina ci sarebbe da perdersi, non a caso le carte dei vini che ci arrivano in tavola sono addirittura tre: una incentrata sui “vini bianchi”, quel poco che serve a stimolare la curiosità, una “extraregionale e internazionale” e  una “territoriale”, dove mi appare quasi inutile soffermarmi sulla profondità e la complessità dell’offerta, molto più che esaustiva (e a tratti emozionante), lasciando quindi scegliere ai commensali dove andare a parare; in verità alla fine sceglierà Piero, rendendo omaggio alla nostra splendia giornata in langa e proponendoci un immortale e infinito Barolo Riserva 1988 di Borgogno.

Davvero una bella esperienza questa cena da Guido, senza dubbio uno dei luoghi che continuerà a segnare e scandire al meglio il tempo dell’alta ospitalità piemontese; cos’altro aggiungere… ah sì, il gelato al Fiordilatte: beh, che dire… semplicemente commovente!

 
Ristorante da Guido
Via Fossano, 19 12060 Pollenzo (CN)
Tel. +39 0172.458422
www.guidoristorante.it
info@guidoristorante.it
Apertura a cena dal martedi al sabato
 

Mirabella Eclano, Ristorante Morabianca del Radici Resort della famiglia Mastroberardino

7 ottobre 2011

Diciamolo subito, questa non è una recensione come le altre e, probabilmente, nemmeno tanto attendibile :-). Per due validi motivi: il primo è che ormai è così tanta la stima riposta in Francesco che mai un mio giudizio sul suo fine lavoro al Morabianca del Radici Resort della famiglia Mastroberardino potrebbe essere meno entusiasta di quanto già meriti di suo. Il secondo è che chi viene qui rischia con molta probabilità di lasciarci anche un pezzo dell’anima: il luogo, tutt’intorno, l’immenso verde che lo circonda, contribuisce non poco a rassenerare lo spirito, a prepararti al meglio, a stemperare insomma anche quell’ultimo cipiglio critico…

E in verità, più che una “recensione” fine a se stessa mi stuzzicava l’idea di “raccontare” a voi, nostri lettori, un pranzo davvero memorabile; se vogliamo essenziale, “territoriale” come si usa dire di solito per rincarare la dose sulla proposta gastronomica locale, senza alcuna sbavatura e valorizzata tra l’altro da un servizio sinceramente impeccabile coordinato in sala da Rocco Platì. Ecco, uno di quei pranzi che meritano di rimanere nella memoria.

Si comincia con un piccolo appetizer con salsiccia rustica tagliata “a coltello” e un assaggio di Podolico servitoci appena arrivati, sotto al gazebo a due passi dalla terrazza che da immediatamente sulla vigna. Tra le mani, un fresco calice di Lacrimarosa 2010, il rosato da uve aglianico di casa Mastroberardino; poi, poco dopo, a tavola, ci arriva una polpettina di melanzane fritta adagiata su del sugo al pomodoro: fragrante e delicatamente croccante. Via in un sol boccone…

E’ sempre un tantino complicato gestire il Baccalà come portata d’ingresso, questa Trilogia però offre di sé una lettura decisamente ammiccante e per niente banale: in tempura, con una passatina di ceci e pomodoro confit, impanato e fritto, su brunoise di verdurine e, infine, con una delicatissima crema di patate impreziosita da una grattugiata di Tartufo nero di Bagnoli Irpino.

I pani, come gli ottimi grissini, sono naturalmente fatti in casa. Non ho fatto in tempo ad immortalare quello al latte, sparito via come niente fosse anche al secondo servizio: davvero superlativo per elasticità, sofficità e masticabilità. Ottimo comunque anche questo all’acciuga, naturalmente da centellinare per la sua accentuata sapidità.

Ecco poi uno dei must di tutta l’Irpinia che Francesco non fa certo mancare nella sua proposta: Ricotta fritta di Montella con Soppressata della vicina Venticano; qui il salume è preferito servito con un taglio a julienne, la quenelle di ricotta è perfettamente calibrata e la tempura senza un filo d’olio residuo di frittura. E’ qui che il Fiano di Avellino Radici 2010 si esprime al meglio, in tutta la sua franchezza, giocata di fino su intensità e rotonda persistenza gustolfattiva. 

Cavatelli acqua e farina con pomodorini del Vesuvio e Pecorino, aggiungere una sola parola in più sarebbe davvero troppo; aah! se il web potesse farvi arrivare il profumo di questo piatto! Da qui cominciamo a sorseggiare il giovane e fresco Aglianico RediMore 2009, prodotto proprio nella vigna su cui affaccia il ristorante qui a Mirabella Eclano.

Quindi, il piatto forse più complesso da gestire in tavola arrivati a questo punto: il pacchero – trafila in bronzo dell’irpino “Pastificio Baronìa” della famiglia De Matteis -, è perfettamente al dente oltreché ben fuso con la crema di fave, che risulta però un tantino spiazzante per la sua prolungata persistenza amarognola. E’ questa l’occasione per far respirare un attimo il palato, un sorso ancora di aglianico e via a rincorrere Letizia a caccia di fiovi e assaggi d’ùa

Prontii, per la ri-partenza… via!: Sedani (sempre Baronìa) con Ragù di cipolla ramata di Montoro, un vero trionfo di sapori, con una decisa virata alla tendenza dolce appena smorzata dall’acidità della fresca mela con cui vengono saltati prima del servizio. Un assaggio intrigante, di territorio, ben eseguito.

E’ arrivato frattanto nel bicchiere il Taurasi Riserva Radici 2005 che tanto accuratamente Rocco aveva scolmato e lasciato aperto per farlo ossigenare. Che dire, negli ultimi anni – parliamo di Taurasi in generale -, è sempre più palese un ritorno (ove mai vi sia stata una partenza!), al gusto di un tempo, a quella rusticità arcaica persa secondo alcuni nella tra le maglie della memoria di una terra troppe volte sopravvissuta a se stessa; un richiamo a quel gusto talvolta rarefatto di sottile ferrosità che in molti ricorderanno, soprattutto negli anni ’90, veniva drasticamente ricacciato indietro perché tacciato di vetusto, superato, fuori tempo.

Ebbene, nell’ultimo decennio, diciamo dal ’99 ad oggi, dopo alcuni anni ancora di seria confusione – il legno, aah il legno!: grande, piccolo, prima l’uno poi l’altro, viceversa boh! –  in molti hanno finalmente colto che strada intraprendere, offrirsi al proprio destino, decidere per la propria visione. Mastroberardino pare invece aver seguitato a condurre sempre il gioco, almeno per quanto riguarda il “Radici” e i “Riserva“: frutto in primo piano ma mai scaduto in banale confettura, “tannino nobile” propriamente detto e mai, in nessun caso invadente e capriccioso, tutt’altro, sempre finissimo e composto al fine di garantire un sorso asciutto ma mai superato o inefficace. Insomma, la tradizione al tempo di facebook!

Ci servono così il secondo: Guancia di Vitello cotta a bassa temperatura con pappa di pere e pistacchi di Bronte (qui la ricetta). La carne si scioglie in bocca, i pistacchi sbriciolati infondono croccantezza mentre la pappa di pere condensa un sapore intriso di dolcezza che lascia venire fuori una delicata sensazione di pienezza e al contempo pulizia del palato. 

Il vezzo, giunti a questo punto, sarebbe quello di chiudere in dolcezza: Tortino al cioccolato con cuore clado. Lo so, c’entra poco o nulla con l’Irpinia e tutta la poesia di cui sopra, ma vuoi mettere una tale scioglievolezza con la ragione? Poco prima tra l’altro avevo notato in dispensa una bottiglina nera che recava una scritta in verticale: “Halconerìa“. Ma cosa sarà mai?

Detto fatto! E’ un nuovo vino di Mastroberardino, concepito (credo nel 2007, ndr) con l’intento di verificare tutto il potenziale dell’aglianico qui a Mirabella Eclano. Halconerìa 2007 è una vendemmia tardiva di aglianico – non un passito, non un muffato -, un rosso da uve stramature che pare faccia tra l’altro un lungo percorso tra legno e bottiglia. In verità vi dico che non c’ho perso la testa: ha un naso incisivo, fluttuante tra la rosa e la viola passita, tra il pepe in grani e i chiodi di garofano, però in bocca si perde quasi subito, scorre via delicato, manifesto, senza particolari sussulti. E’ chiaro che è solo il primo assaggio, ma si sa, talvolta chi ben comincia… vedremo.

La carta del Ristorante Morabianca propone due passaggi gastronomici tradizionali, a 35 e 45 euro, quest’ultimo in un percorso di sette portate. La carta dei vini è essenzialmente incentrata sulla proposta di casa Mastroberardino – dove comunque c’è tanta sostanza, anche in verticali introvabili altrove, ndr – ma non mancano alcune buone referenze italiane delle più classiche. 

Ristorante Morabianca del Radici Resort
Executive chef Francesco Spagnuolo
Contrada Corpo di Cristo
Mirabella Eclano 83036 (Av)
Tel. +39.0825.431537
Fax. +39 0825.431964
e-mail:info@morabianca.com
Chiuso: Domenica sera e Mercoledi
 

Sant’Angelo in Colle, Ristorante il Leccio

11 febbraio 2011

Ci sono certi luoghi che proprio non debbono mancare nel tuo palmarès di buongustaio, e che non puoi fare a meno di raccontare e consigliare. Il Leccio è uno di questi e vi racconto perché.

Montalcino è un luogo culto per il vino, non si fa fatica a pensarlo e nemmeno ad accorgersene non appena una volta che ci hai messo piede; chi però pensa a questi luoghi anche come papabile meta gourmet non abbia a che nutrire aspettative poiché non farà fatica a rendersi conto che si sbagliava, e se gli va male, di grosso! Strano ma vero, un posto dove girano ogni anno centinaia di migliaia di persone che spendono cifre folli per visitare aziende e bere i loro Brunello e nemmeno un buco dove consacrarsi al dio del cibo? Non proprio, ma poco ci manca.

Il centro cittadino è ricco di piacevoli e suggestivi bistrot, enoteche con mescita, trattorie, sicuramente all’altezza di garantire un servizio essenziale ed un pasto decente, ma parecchio distanti da certi canoni che potremmo definire di fine dining che talvolta si ricercano. Il tempo è il grande imputato, si dice che chi vive questi luoghi è gente di passaggio, sono visitatori mordi e fuggi, quindi hanno poco tempo, o sono gruppi organizzati, che di tempo ne hanno ancora meno; ecco allora che l’offerta si adegua alla domanda: veloce, essenziale, seppur non proprio economica, come qualcuno potrebbe presumere.

E’ quindi un turismo particolare, di enomaniaci, che garantisce un flusso di massa debordante in alcuni momenti dell’anno ma che appena dopo la vendemmia va assopendosi sino ad addormentarsi del tutto, sino alla Pasqua successiva. Al quale si è contrapposto quindi una offerta senza troppe variazioni sul tema. Ok, ma gli indigeni, che fanno, non escono mai? Si direbbe di sì, ovvero quando escono non vivono il circondario se non quei due o tre indirizzi sicuri e comunque tendenzialmente preferiscono andare fuori zona. E allora, dove andare a mangiare, per esempio in gennaio? Beh, c’è un solo posto dove assaporare i vecchi e gustosi sapori della cucina tradizionale locale, basta fare un salto a Sant’Angelo in Colle, al ristorante Il Leccio.

Sant’Angelo in Colle è un piccolo gioiello a pochi chilometri da Montalcino, il borgo fortificato è di piccole dimensioni e dall’alto dei suoi 500 metri guarda il panorama circostante in tutte le direzioni: dai fitti boschi di lecci e macchia mediterranea che salgono fino a Montalcino, al possente e selvaggio Monte Amiata fino alla vasta pianura della Maremma. Il piccolo paese, dominato all’ingresso dalla possente torre del cassero, edificato a raggiera, ha strade concentriche con al centro la chiesa principale ed il palazzo dei notabili. E’ ancora perfettamente conservato e la sua piazza è dominata dalla chiesa romanica di San Michele Arcangelo.

Il ristorante di Luca Tognazzi si trova proprio sulla piazza principale del paese, a due passi da uno splendido affaccio sulla Maremma. La famiglia è stata tra l’altro per almeno vent’anni all’antica Fiaschetteria di Montalcino in pieno centro storico, e da qualche anno si è spostata tutta qui a Sant’Angelo in Colle per curare in maniera più adeguata i suoi vecchi clienti.

L’ambiente è molto caldo, arredato con gusto e senza troppi fronzoli; il servizio è cortese, di grande disponibilità ed affabilità, i tavoli, dato lo spazio interno piuttosto limitato non godono di spazi di tranquillità sufficienti, ma anche in una serata abbastanza frequentata non si può certo dire di essere stati male, tutt’altro. La cucina è davvero ottima, abbiamo mangiato sì piatti semplici, ma senza stravaganze empiriche, e di gran sapore ed autenticità, proprio quello di cui eravamo alla ricerca. C’è anche una interessante proposta di primi, che a sentirne i profumi non deve essere male, ma in vena di Brunello di Montalcino Pian dell’Orino abbiamo optato per i piatti di carne. Delicati e finissimi, pur nella loro essenzialità, i dolci.

La carta dei vini è ampia e ben curata, i ricarichi nella norma, naturalmente è incentrata sul territorio – qualche concessione solo al bolgherese ed appena un paio di Chianti – con bottiglie classiche ma anche tante belle chicche e novità che non ci siamo fatto mancare di raccomandare dal padrone di casa. La piccola e suggestiva cantinetta, collocata proprio sotto la cucina, è fornita costantemente dall’enoteca di famiglia posta proprio di fronte al ristorante, dove tra l’altro ci si può divertire parecchio a scoprire tutte le novità del panorama montalcinese con una interessante mescita, contrariamente a quanto si pensi infatti, il comprensorio qui è molto più dinamico di quanto appaia. Il Leccio è un indirizzo da non mancare, e se andate per quelle terre prossimamente, non perdetevelo, è garantito al cento per cento!

Ristorante Il Leccio
S. Angelo in Colle
Via Costa Castellare
Telefono 0577. 844 175
www.trattoriailleccio.it

Pienza, Agricampeggio Podere il Casale

6 febbraio 2011

I “camperisti” hanno regole strette e precise, e la stessa libertà di cui godono nel girare il mondo sanno trasformarla in fermezza e rispetto per le regole. Così non è difficile pensare che chi ami girare in camper sia allo stesso tempo un amante della natura ed uno strenuo difensore delle sue risorse, luoghi e bellezze incontaminate. E se a questo sei capace di avvicendare palato fino e passione per la buona ricerca enogastronomica, allora sei proprio a posto!

Il recente viaggio a Montalcino ci ha riservato, tra una visita e l’altra in diverse cantine, anche piacevoli fuori programma  dettati da quella strenua ricerca di quei sapori tanto pubblicizzati quanto più spesso evidentemente di facciata e di sovente prodotti con materie prime certamente non indigene se non addirittura partoriti altrove per essere in loco solo etichettati, e quando possibile, brevemente stagionati; stiamo parlando naturalmente del Pecorino di Pienza.

Così mossi dalla irrenefrenabile voglia di camminare le campagne di Pienza, al nostro capitano di ventura Nando Salemme è venuta la brillante idea di andare a trovare una sua vecchia conoscenza, Ulisse, svizzero-tedesco che più o meno vent’anni fa, dopo l’ennesima rottura di coglioni al paese suo, ha mollato tutto per trasferirsi con la moglie nelle campagne senesi ad allevare animali e coltivare la terra; ed io di certo non potevo non raccontarvi di questa piacevole scoperta.

l’Azienda è completamente votata all’agricoltura biologica, certificata AIAB, ed una estensione di circa 60 ettari suddivisa tra vigne, oliveti, bosco, pascoli, e campi coltivati a grano duro, orzo, avena oltre che un grande orto. “L’orzo e l’avena raccolti servono esclusivamente per l’alimentazione degli animali”, ci dice Ulisse, “pensate che qui contiamo un gregge di circa 150 pecore sarde, capre, maiali – quelli della vecchia razza cinta senese, ndr che vengono allevati liberi nel bosco, e poi galline ovaiole, un Pony di nome Serena e tre asini, Beatrice, Gino e Alibabà”.

Il grano duro (4 ettari dedicati all’anno) viene macinato in un mulino biologico di alcuni amici vicino a Torgiano (PG) e con la semola ottenuta, il pastaio abruzzese Zaccagno produce per loro spaghetti, linguine, rigatoni e fusilli ecc che è possibile acquistare in loco. L’Azienda ha di recente anche allestito una piazzola di sosta – ben fornita – per i camperisti, svolge anche attività di fattoria didattica con visite guidate per scuole e gruppi. Su prenotazione si può anche mangiare, in uno dei locali del casale, spartano ma caldo, una cucina che definire autentica e rustica è dir poco.

Per raggiungere Podere il Casale da Pienza in direzione Montepulciano, girare a destra all’altezza della località Palazzo Massaini mentre da Montepulciano in direzione Pienza, girare a sinistra all’altezza della località Il Borghetto (fago), non vi sbaglierete, forse.                      

Azienda Agricola Biologica
Podere Il Casale
Agricampeggio – Caseificio – Allevamento
Produzione propria e vendita diretta
pecorino – caprino – ricotta
Località Podere il Casale
www.podereilcasale.com
Tel. e fax 0578 755109
Ulisse cell. 333 445 1621

Torre del Greco, Ristorante Il Poeta Vesuviano

6 novembre 2010

Quando il ricordare è gradito, i sensi tutti fanno a gara nell’esercizio della memoria. Il più discreto è l’olfatto. Chiudo gli occhi ed aspiro profondamente, e ritorno dov’ero una volta.

Girovagando sul web ho trovato questo breve passo scritto da Salvatore Argenziano, poeta nato a Torre del Greco, il località abbasciammare, nel 1933. Colpito dall’efficacia di tali semplici parole ho continuato la ricerca su questo autore, nella speranza potesse aiutarmi ove carpire stralci di cultura torrese, o più semplicemente dove pescare un riferimento, anche astratto, per il bel nome scelto da Carmine Mazza per il suo ristorante aperto appena tre anni fa in terra natìa. In verità non ho trovato ciò che cercavo, ovvero tesi molto frammentarie di storie, alcune anche molto interessanti, caratterizzate però da parecchi addii e molti pochi ritorni. Mi accontento però di aver invece constatato come la mia piacevole sensazione di una cultura locale, come altre partorite nella periferia napoletana, sia fortemente legata ad un istinto identitario particolarmente forte, tanto presente nelle opere di Argenziano, autore addirittura di un ricercatissimo dizionario torrese-italiano, quanto nella cucina del “nostro” di poeta vesuviano Carmine Mazza, sobria e lineare nei piatti di mare quanto accesa e profumata in quei piatti che traggono ispirazione dal vicino Vesuvio.

Il ristorante si trova lungo la strada litoranea di Torre del Greco, e seguendo le specifiche indicazioni riportate, risulta molto più facile da raggiungere di quanto si pensi. L’ambiente è sobrio, arredato con cura, i tavoli più o meno una decina, ben distanziati ed apparecchiati con una mise en place impeccabile. Ci accoglie Amalia, la giovane compagna di Carmine, che si rivelerà un’ottima padrona di casa, efficace e puntuale sul servizio come nel dispensare sorrisi al momento giusto. Stare a tavola con questi presupposti è un vero piacere, e quando si ha il piacere di una scoperta che conferma le aspettative è ancora maggiore. Prendete queste parole per buone, questi ragazzi meritano fiducia e soprattutto essere seguiti, portatori sani di una cultura del fare bene il proprio lavoro di cui si ha una gran necessità da queste parti, più in generale negli ultimi tempi.

I piatti rappresentano appieno il percorso formativo, pur breve, del loro autore; Un passaggio tra i fornelli nella cucina dell’amico Oliver Glowig al Capri Palace Hotel&Spa, una esperienza ancor più pregnante in quel di Sant’Agata sui due golfi da Don Alfonso 1890, stagione che Carmine non risparmia di incorniciare (nel vero senso della parola) come la sua più bella ed entusiasmante esperienza professionale, che pare lo abbia letteralmente folgorato tanto da spingerlo, appena ventitreenne, ad azzardare l’apertura di un locale tutto suo per mettersi subito in gioco. Si passano la scena piatti intrisi di un concetto legato fortemente alla qualità eccelsa della materia prima, e quando questi viene espresso attraverso l’uso di aromi o spezie dalla forti connotazioni, non mancano spunti di riflessioni sulla bravura dello chef nel tarare perfettamente equilibri e sensazioni. Ecco la zuppetta di zucca “vivace” con calameretti, o gli ottimi gamberi in pastella di alghe su scarola, un connubio secondo me riuscitissimo.

Tra i primi molto buono lo gnocchetto al limone con vongole e calameretti, dove l’impasto acqua e farina rimane bello turgido e capace di integrarsi perfettamente col limone – opportunamente sbiancato – e quindi dosato alla perfezione. Come buono, forse solo un tantino troppo asciutto, il dentice scottato con patate e funghi porcini, piatto tra l’altro eccellentemente esaltato anche dall’ottimo Lacryma Christi rosso Brigante 2008 di Terre di Sylva Mala bevuto a tutto pasto ma qui davvero superbo. I prodotti utilizzati, ci viene detto, sono praticamente “a chilometri zero”, e noi ci crediamo; Le erbe, le spezie e tutto ciò che serve a latere nelle preprazioni sono quasi tutti dell’orto di famiglia se non “importati” direttamente dal Cilento, terra natìa di Amalia. Tutto il resto è buona tecnica e tanta tanta passione, che sprizza da tutti i pori di un luogo che consiglio vivamente di visitare, almeno una volta! Conto sui 70 euro, per 2 menu degustazione di 6 portate – il che mi sembra straordinario! – escluso il vino, scelto da una carta discreta, con buone referenze campane, solo alcune italiane. Bonus l’intelligente proposta di vini del Vesuvio.

Concludo permettendomi. Si è assistito per molto tempo negli ultimi anni ad un’aspra ed accesa rincorsa a lustrini e paillettes formato guide ai ristoranti d’Italia, laddove, a malincuore, pareva vincere quasi sempre la forma sulla sostanza e dove gli chef, sempre più ambìti, più che armeggiare con cucchiai e pentole sembravano sfornati dalla scuola di arte drammatica, stando alle ore spese davanti alle telecamere piuttosto che nella calura di una cucina. Ecco invece un bell’esempio di gioventù sbocciata, e di una cucina, sia chiaro, decisamente workinprogress, ma con basi solide ed un progetto serio, protesa a scommetterci la pelle per il solo piacere di deliziare gli avventori, qui al Poeta Vesuviano, mai spettatori passivi!

Ristorante Il Poeta Vesuviano
di Carmine Mazza
Viale Europa, 42
80059 – Torre del Greco (NA)
Info & Prenotazioni:
Telefono: 081 883 26 73
Cell.: 328 831 66 23
prenota@ilpoetavesuviano.it
oppure
info@ilpoetavesuviano.it
c.mazza@ilpoetavesuviano.it

In breve: uscire dall’autostrada A3 Napoli-Salerno al casello di Torre Annunziata Nord, all’incrocio proseguire a destra in direzione Torre del Greco quindi percorrere via Nazionale fino a raggiungere la Chiesa del Buon Consiglio (che troverete sulla vostra destra). Svoltare quindi a sinistra su Viale Europa in direzione Litoranea, dopo 500 metri troverete alla vostra destra Il Poeta Vesuviano.

Dolce frutto della mia terra, la Mela Annurca

7 settembre 2010

Ci sono alcuni profumi dell’infanzia che ti rimangono fissati nella memoria come un incisione sul marmo. In inverno, con i primi freddi ed i primi rossori, il decotto di mela annurca veniva come manna dal cielo, la pozione magica a cura di ogni malanno da raffreddore e dintorni.

La Mela Annurca: è da sempre un prodotto straordinario, sorprendentemente unico. Oggi è coltivata in tutte le provincie campane anche se le aree tradizionalmente legate alla sua produzione rimangono i Campi Flegrei e soprattutto, negli ultimi anni, il casertano e le valli Caudina e Telesina nel beneventano, dove si concentra gran parte della produzione attuale dell’Annurca tradizionale: con 90.000 tonnellate medie annue, l’Annurca rappresenta oltre il 50% della produzione regionale di mele e il 5% circa di quella nazionale. Le qualità di questa mela, fino ad oggi apprezzate particolarmente dai consumatori campani e laziali, stanno progressivamente conquistando sempre maggiori spazi anche nei mercati dell’Italia centro – settentrionale, grazie anche all’ingresso nei canali della grande distribuzione organizzata.

Le origini: per la sua storica provenienza da Pozzuoli, anticamente identificata da Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia come la porta per la discesa agli “Inferi”, la Mala Orcula (poi annorcola) ha mutato il nome nel corso dei secoli sino a divenire Mela Annurca. La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano ed in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l’antichissimo legame con la Campania Felix.

Caratteristiche: La polpa è croccante e compatta, gradevolmente acidula e succosa, aromatica e profumata. Uno degli elementi che ne caratterizzano la produzione, è l’arrossamento a terra, nei cosiddetti melai, dove viene lasciata maturare per un certo periodo prima della commercializzazione, è proprio in questa fase che l’Annurca acquisisce il tipico colore rosso. L’elevato contenuto di vitamine B (B1, B2) PP e C, unitamente ad elementi minerali ne fa un eccellente antiossidante. La ricchezza in fibra poi, la rende particolarmente adatta a ripulire le arterie dal colesterolo e quindi nella prevenzione delle malattie cardiovascolari.

Negli ultimi anni si è ripreso a considerare l’Annurca come base di frutta per torte e dessert di vario genere, anche in alta gastronomia.

Marina del Cantone, La Taverna del Capitano #2

13 agosto 2010

“Ci sono scrigni in Campania che aspettano solo di essere rivelati, tesori celati, lontani dal clamore del tam tam voyeristico dei molti per rimanere appannaggio dei pochi in cerca di rifarsi con la propria anima.” Così il 9 novembre scorso esordivo nel raccontare la bella giornata trascorsa in Costiera, in verità la cronaca era di un viaggio precedente – di alcuni mesi prima – che avevo avuto già modo di raccontare altrove ma che non poteva mancare, a memoria storica, sul neonato diario di un sommelier (qui l’articolo completo). Così invece, lo scorso 31 Luglio…

La Taverna del Capitano rimane un riferimento assoluto della buona tavola campana, e la famiglia Caputo con la loro locanda, una garanzia della sana e cordiale ospitalità familiare, senza se e senza ma. Marina del Cantone però nel frattempo è cresciuta, più che altro è cresciuto il caos, o anche solo la sua percezione, in più i ristoranti sono diventati nel tempo almeno undici, qualcuno più qualcuno meno (di ristorante nel vero senso della parola, intendo) in appena cinquecento metri (!) tanto che non è difficile rimanerne praticamente imbrigliati; Ma non si può fare di tutta un’erba un fascio e soprattutto chi viene alla Locanda, quindi alla Taverna, sa bene cosa cerca e cosa trova, certo di non confondersi. 

La cucina di Alfonso conserva il segno indelebile di mamma Grazia, quella linea retta tracciata nel dna che trova la sua origine direttamente nella memoria storica della famiglia e che si lancia nel futuro in maniera instancabile, perpetua, ogni giorno protesa ad una nuova emozione cullando nella semplicità, nella purezza degli ingredienti, una esplosione di profumi e sapori indentitari unici, inconfondibili, straordinari. Prendete ad esempio “O’ Cuoccio” – la zuppa di pesce secondo Alfonso – un piatto incredibile, che eccelle in tutto e per tutto per la sua infinita lunghezza gustolfattiva, il suo sapore sembrerà non lasciarvi mai, nemmeno dopo il secondo bicchiere di vino; Ho provato, quest’anno, lo stesso godimento palatale solo al cospetto della Minestra di pasta di Gragnano di Gennaro Esposito, a conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che le origini, per chi fa cucina a certi livelli “gurmè” rappresentano una grande opportunità e non un intralcio al successo globale, come qualcuno, più di una volta, ha voluto far passare come messaggio negli ultimi tempi.

Sono quindi profumi e sapori inconfondibili quelli che accompagnano tutti i piatti presenti in carta alla Taverna, e non si fanno sconti, né sulla qualità della materia prima e nemmeno su quello che io percepisco e definisco col termine “ricerca-non ricerca” di rimanere legati al proprio territorio, che sia esso il mare che s’infrange sulla battigia sotto la terrazza o la terra che si arrampica, in maniera tortuosa, viscerale, su per le montagne che sovrastano Marina del Cantone. Un piatto dalla semplicità disarmante è per esempio il Fusillo acqua e farina con uova di pesce e ricci di mare, i primi sono tirati a mano praticamente al momentoforgiati alla vecchia maniera, col ferretto, il piatto nell’insieme si presenta di buona pasta e risulta oltretutto ben legato, paga però una esecuzione un po sotto tono, un tantino troppo sapido per conciliare il bel vedere con il sano gusto; Di buon appeal anche gli Spaghetti bianchi e neri con zucchine, che con il Filetto di Pesce azzurro e melenzane sono ancora un richiamo, fortissimo, al territorio, a quel legame terra-mare che qui, in questa conca stretta tra Punta Campanella ed il Golfo di Salerno pare ineludibile, un po’ come accade per chi ama, da sempre, crogiolarsi in riva al mare cristallino della baia di Ieranto, che per arrivarci non può esimersi dal sorbirsi almeno 50 minuti di sentiero sterrato. 

Pensereste mai di mangiare il piatto di carne più buono dell’anno, in riva al mare? Beh, direi che non è poi così difficile, soprattutto se sei in un due stelle Michelin, ma quantomeno può capitare inaspettato. Ecco presentarsi al nostro cospetto l’ottimo agnello di razza Laticauda, servito in tavola ancora scoppiettante, in un piatto enorme, sopra un sasso di mare rovente con tanto di foglie di alloro e patate stufate, altro che profumi d’alta quota…

La chiusura è affidata al più classico dei dessert regionali, il Babà, servito però con una bagna a base di rhum agricole che gli conferisce un po di carattere e un po meno suggestione, che arriva invece con il plateau delle piccole leccornie di fine cena: tanti piccoli assaggi di gustose gelatine di frutta e scorzette di arance e limoni (del posto) candite.  Un paio di considerazioni, infine, sull’ambiente e sul servizio: vivere certi luoghi ti fa apprezzare, attraverso le persone che li animano, il legame, forte, che ti tiene stretto alla tua terra.

L’amenità di gran parte dell’anno, la dedizione – non necessariamente maniacale – al singolo particolare, la disponibilità tout court potrebbero nel tempo, risultare un lento procedere monotono e stancante, da cui sperare di prima o poi di allontanarsi. Così non è stato per la famiglia Caputo, che ha saputo nel tempo rinnovarsi e crescere rimanendo sempre fedele a se stessa, una famiglia come una ricetta – si potrebbe dire – delle più tradizionali ma capace allo stesso modo di sfidare il tempo  ed i suoi interpreti. Una ricetta prelibata, nel quale elenco degli ingredienti non possono mancare la cordialità e la professionalità che mettono in campo Claudio e la stessa Mariella, quest’ultima tra gli altri nota sommelier della prima ora, sempre capaci di offrirvi un sorriso ed un giusto consiglio: insomma, otterrete sicuramente un bel risultato su cui puntare per la vostra prossima tappa gurmè in Campania.

Taverna del Capitano
& Locanda del Capitano
Piazza delle Sirene 10/11
Località Marina del Cantone
80061 Massalubrense (Na)
Telefono 081 808 10 28
Fax 081 808 18 92

La Bussière-sur-Ouche, l’Abbaye de La Bussière

18 luglio 2010

Due minuti per un pensiero, per fissare una immagine piuttosto suggestiva: ecco, mi viene in mente un paesaggio favoloso, di metà settecento; un parco infinito, rigoglioso, con un piccolo lago privato dove starnazzano le anatre, dove i cigni riflettono la propria immagine nell’acqua limpida solcata da piccole imbarcazioni a remi di legno antico. Le vedi scostare il vecchio pontile in legno per allungarsi alla frescura dell’isoletta al centro del lago, dove le querce secolari offrono riparo dal sole tiepido e dove cespugli ben curati, alcuni sbucano direttamente dall’acqua, celano sguardi indiscreti.

A qualche metro di distanza alcune persone, sedute comodamente, giocano a scacchi. Qualcun’altro, alle prese con bambini piuttosto vivaci, rincorre creste biondissime tentando invano di tacciare urla di felicità con la paura che possano destare un qualche disturbo: invero qui il silenzio, la pace, la tranquillità sembrano non soffrire di questi piccoli sussulti più di tanto. Non è un pensiero campato in aria, è il benvenuto a L’Abbaye de La Bussière, sur-Ouche.

Siamo in Francia, a La Bussière, 45 chilometri da Vosne-Romanée¤, quanranticinque km di curve e saliscendi tra i boschi di querce e distese di grano e pascolo interrotti solo dal canale che scorre parallelo all’Ouche, dal quale ruba le acque da offrire alle genti che popolano i piccoli borghi lungo le sue rive, apparentemente inanimati, così perfettamente integrati nel paesaggio. La storia del luogo e dell’Abbazia in particolare conservano un fascino straordinario e un valore talmente prezioso che è impossibile racchiudere in poche righe, pertanto chi ne abbia voglia può trovare¤ tutte le informazioni possibili su questo meraviglioso luogo del gusto oggi di proprietà della famiglia Cummings, originaria del Sussex (UK) che rimanendo stregata da questa terra fantastica ha deciso, nel 2004, di vendere il Relais-Chateau di proprietà in Gran Bretagna per trasferirsi immantinente a La Bussiere.

Queesta la cronaca di una bella esperienza gourmet, condivisa con i sommeliers dell’ Ais Campania capitanata per l’occasione dal presidentissimo Antonio Del Franco durante il nostro recente¤ viaggio dello scorso giugno.

Al ristorante, a condurre i giochi in sala c’è un giovane italiano, Fabio Rambaldi da Torino che dopo un lungo vagare per le terre di Francia ha deciso di piantare qui nuove radici, svolgendo a mio parere un ottimo lavoro di coordinamento e formazione: il servizio, seppur rallentato dal numero di coperti del tavolo (siamo in sedici) non soffre di attese particolarmente snervanti, complice a dire il vero anche la piacevole atmosfera di convivialità. Un appunto però sulla sommellerie è d’obbligo, mi ci sarebbe piaciuto da parte del sommelier, un tantino di loquacità in più, ma ci accontentiamo dell’ottimo Rully servito, da una carta non ampissima ma ben strutturata.

In cucina, a tirare le redini dei fornelli, un astro nascente della cucina francese, Emmanuel Hébrard che ci è sembrato molto motivato, e nonostante gran parte dei piatti in carta ruotino su ingredienti e sapori tipicamente borgognoni, anche piuttosto intraprendente, lasciando intuire sprazzi di tecnica professionale finissima e vocazione a grande aspettative future. Tra i piatti seerviti, quelli che più mi hanno colpito sono essenzialmente “l’amuse bouche de saison” (nella foto sopra), il benvenuto dello chef a tema uova di quaglia, fois gras e pesce persico: bella la presentazione e dai sapori nitidissimi.  

Il “finto filetto di boeuf Charolais” si dimostra una esplosione di sapori, dalla cottura fenomenale, di aromaticità intensa e gradevolissima, senza contare il magistrale accostamento (davvero prelibato) ad un gioco di piccoli e gustosi assaggi di carciofo marinato ripieno del suo cuore, finferli scottati, finocchio caramellato e patate farcite di cremosa purea.

Il formaggio secondo Emmanuel Hébrard, “Le Pierre qui vire affiné” ovvero una preparazione intelligente per servire un delizioso formaggio vaccino, cremosissimo, dal sapore intenso e persistente accompagnato da un biscotto ripieno di spuma dello stesso formaggio e ciliegie che tendono a stemperare il sapore deciso riconducendo quindi il palato ad un giusto equilibrio prima del dessert. 

Rivelazione questa di un gioco, un contrasto di sapori che vanno superandosi in una rincorsa che poco si addice alla nostra cultura “dolciaria”, ma che non manca certo del suo effetto impatto gustativo positivo: sono piccole ganache di cioccolato fondente Guanaja con percentuale di cacaco amaro all’80% abbinate a grandissimi-bellissimi-buonissimi lamponi, una crema ghiacciata di formaggio e basilico e piccoli fogli di argento alimentare.

Post-cena: per gli appassionati di turno un discreto fumoir arredato di tutto punto li attende al primo piano; per gli innamorati di tutte le età invece, è d’obbligo una passeggiata notturna lungo i viali illuminati di questo meraviglioso luogo d’incanto, una comoda panchina, ogni venti metri più o meno, attende loro per lasciargli aprire gli occhi sul meraviglioso cielo stellato di Borgogna ed al cuore impavido dell’amato amore.

 
Abbaye de La Bussière
Relais&Chateaux
Loc. La Bussière-sur-Ouche
21360 Dijon
Tel. +33 (0) 3 80 49 02 29
Fax +33 (0) 3 80 49 05 23
www.abbaye-dela-bussiere.com
info@abbaye-dela-bussiere.com

Krug in Capri, Oliver Glowig presenta il Fusilloro Verrigni al nero di seppia con ostriche e oro

16 luglio 2010

 

In attesa dell’evento dell’anno “Krug in Capri“, praticamente già sold out, presentiamo in anteprima una delle ricette, a firma di Oliver Glowig,che sarà protagonista alla cena di gala, cogliendo l’occasione per presentarvi anche uno storico artigiano della pasta italiana, l’Antico Pastificio Rosetano Verrigni ed il suo innovativo ed esclusivo Fusilloro, la pasta prodotta con trafila in oro al 100%. 

Tutto ha inizio nel 1898, quando Luigi Verrigni divenne fornitore delle nobili famiglie di Rosburgo, l’attuale Roseto degli Abruzzi, che molto apprezzavano una pasta di qualità superiore, ottenuta dalla macinatura dei grani con macine a pietra, impastata con l’acqua del Gran Sasso ed essiccata all’aria, appesa alle canne di bambù. Gaetano Verrigni, figlio di Luigi, convinto di poter migliorare ulteriormente la qualità raggiunta, si spinse a sperimentare diversi metodi di essiccazione tra cui l’utilizzo di speciali “camerini”, dotati di ventilatori a corrente e di fonti di calore necessarie a creare una temperatura costante.

Oggi è un altro Gaetano Verrigni a proseguire un’attività che ha alla base la selezione dei migliori grani duri, parte dei quali coltivati e raccolti in Abruzzo nell’azienda agricola di proprietà della moglie Francesca. Dopo aver preso forma attraverso le trafile in bronzo ed oro a seconda dei formati, la pasta viene fatta essiccare all’interno di camerini mobili, lentamente e a bassa temperatura tra 45 e 50° C, con una durata che può arrivare sino a tre giorni a seconda dei formati secondo l’antica tecnica del “preincarto” così da non alterare le caratteristiche della materia prima, da rispettare i naturali processi di fermentazione e da donare alla pasta Verrigni il suo inconfondibile sapore.

Ingredienti: per 4 persone

  • 240 gr Fusilloro Verrigni
  • 400 gr di fumetto di pesce
  • 60 gr di nero di seppie
  • Olio extra vergine d’oliva
  • 8 Ostriche “Gillardeau”
  • 4 filetti di pomodori secchi sott’olio
  • Oro alimentare

Preparazione: in una pentola bassa sciogliere il nero di seppia nel fumetto di pesce, lasciando lentamente uniformare la salsa; A parte cuocete in acqua bollente e precedentemente salata i Fusilloro: 9 minuti vi garantiranno una cottura ideale prima di terminarla per ulteriori 2 minuti nella salsa al nero di seppia. Mantecare infine con olio extra vergine d’oliva.

Per il servizio: Utile un bel piatto bianco che lascerà esaltare le colorazioni della preparazione: adagiare la pasta al centro del piatto, tagliare ogni ostrica a tre pezzi e riporle sulla pasta, aggiungere quindi i pomodori secchi tagliati a dadi, terminare la decorazione con brillanti foglie d’oro alimentare.

Ricetta e piatto di Oliver Glowig del Ristorante L’Olivo del Capri Palace Hotel&Spa, per l’occasione abbinato a Krug Vintage 1998.

Il Pain d’Epices de Bourgogne, et voilà…

14 luglio 2010

Camminando per le vie di Digione, oltre che affascinato dal centralissimo mercato generale, affollatissimo ogni mattina e ricchissimo di colori e profumi provenienti da tutta la Borgogna, per non dire della Francia, sono rimasto profondamente colpito dalla grandissima qualità dell’offerta gastronomica di ogni bottega cittadina: dallo charcutiere che del maiale non butta veramente niente e ne fa, con le verdure di stagione, trionfo di aspic e sformati vari, allo stesso fruttarolo, che non si fa mancare proprio nulla, escargots comprese. A Beaune per la verità avevo già avuto gustose “rappresaglie” di finissima gastronomia, pasticceria in testa, che mi hanno fatto piombare per un attimo piuttosto lungo nello sconforto della gola (della serie …e adesso da dove comincio?); Non solo cioccolato però, lavorato da finissimi maitre chocolatiere, ma anche straordinari macarons, dalla fragranza unica e tante varianti di piccola pasticceria subliminale, esempi di tecnica eccelsa, manualità ineccepible ed equilibrio perfetto nell’utilizzo degli ingredienti: dolci opere d’arte dolciarie di ineguagliabile valore.

Ma come spesso accade, alla fine di un giro nel vortice della perdizione, ciò che mi ha incuriosito e conquistato particolarmente è stato un dolce tipicamente francese borgognone, particolarmente leggero ma corroborante, e seguendo ricette tradizionali, privo addirittura di grassi, a base di farina di segale, spezie e miele: il Pain d’Epices, in uso abituale nel servizio delle colazioni, ma non di rado manna dal cielo per bambini capricciosi ad ogni ora.

Ho consegnato nelle mani della nostra Ledichef diverse ricette, compreso l’abecedario di Mulot et Petitjean di Beaune (con Magazzini e Produzione in Digione), storicamente riconosciuti i conservatori della storia del Pain d’Epices de Bourgogne, oltre che quelle scovate qua e là nei vari luoghi dove è stato possibile carpirne utili indicazioni; Questo è il risultato, perfettibile naturalmente, di alcune prove di cucina contemporanea di una delle più antiche ricette d’oltralpe, datata primi del settecento.

ingredienti per 6/8 porzioni:

  • 300gr di farina bianca;
  • 200gr di farina integrale;
  • 500g miele liquido (es. castagno);
  • 25 cl di latte;
  • 1 cucchiaino di lievito per dolci;
  • le quattro “epices”, cioè spezie, ovvero: cannella, zenzero, anice, chiodi di garofano;
  • semi di finocchio;
  • 2 cucchiai di acqua di fiori d’arancio;
  • un pizzico di sale;
  • 2 cucchiai di granella di zucchero;

Per la preparazione: scaldare il forno a 180°, nel mentre portare il latte ad ebollizione a fuoco basso, aggiungervi il miele e mescolare finché il miele non si sia completamente sciolto ed uniformato al liquido. Versare le farine, setacciate, in una ciotola capiente, unirvi il lievito ed il sale. A questo punto aggiungere le spezie, il latte ancora caldo e l’acqua di fiori d’arancio. Rimestare il tutto sino ad ottenere un’impasto omogeneo. A parte preparate una teglia da plum cake avendo cura di predisporre al suo interno la carta da forno. Versarci l’impasto e livellare, distribuire la granella in superficie e infornare per circa un’ora finché il pain d’épices non si sarà ben dorato.

Nota a margine: E’ possibile aggiungere a questa ricetta base tante varianti come granella di cioccolato, scorzette di arancia (come nella foto) o canditi di ogni genere, o per esempio aromatizzare l’impasto con vino o liquore, o servire il tutto con creme e salse varie, ma l’origine semplice (povera) della ricetta ci invita a realizzarne la versione più autentica per poter godere al meglio dei profumi e dei sapori di Borgogna. E se vi trovate in zona, non mancate una visita al negozio storico di Mulot et Petitjean nel centro storico di Beaune. 

Pain d’Epices
Mulot et Petitjean
13 Place Bossuet
21000 Dijon – France
Tel. 03 80 30 07 10
www.mulotpetitjean.fr

Vougeot, Chateau de La Tour

27 giugno 2010

Vougeot, 17 Giugno 2010. Il tempo continua nell’essere inclemente, il cielo rifugge ancora i raggi del sole, che pure sorride, l’aria è frescolina a tal punto dal sembrare più un annuncio dell’autunno che uno spiraglio alle porte dell’estate. Ma è Borgogna e noi siamo qui, a camminare le vigne di una terra incredibile, tanto semplice quanto preziosa, tanto ricercata quanto famosa, letteralmente sulla bocca di tutti, eppure terra austera, assolutamente spoglia di quel glamour che tutto il mondo tenta di affibiargli, vestita di una ruralità incredibilmente unica, disarmante: fermo nel cuore del Clos de Vougeot mi giro intorno, il verde tutto mi appare immobile, eppure sento nell’aria una vivacità incredibile!

Vougeot è senza dubbio, dopo Vosne-Romanée, uno dei vigneti più belli del mondo, 50 ettari perlopiù a Pinot Noir (la piantagione a Chardonnay è davvero risicata) frazionati  in oltre centottanta parcelle in mano a ben oltre novanta proprietari, il che la dice lunga sull’enorme valore patrimoniale di anche uno solo dei filari, di ogni singola pianta, dei suoi preziosissimi frutti. Chi arriva qui, conoscendo l’alto numero dei “proprietaires” della vigna si aspetta una concentrazione massiccia di piccole cantine sul posto, ma in realtà l’unico indizio che si può avere nel riconoscere i vari appezzamenti sono le piccole pietre di confine o per chi ne ha fatto l’uso, di piccoli cancelli ornamentali, posizionati lungo il margine della Route des Grands Crus. 

Lasciando stare per un attimo la suggestione di trovarsi dinanzi ad un vero e proprio castello (Chateau non a caso, ndr), ci accoglie a Chateau de La Tour, Claire Naigeon, ma prima di lei il suo sorriso, aperto, smagliante, sincero, poi la sua vitalità, la sua voglia di coinvolgerci subito nella scoperta della splendida proprietà oggi condotta dalla vigna alla cantina da Pierre Labet e sua moglie Julie, tra l’altro titolare anche di un domaine a Beaune nonchè di vigne di proprietà a Mersault. Claire è responsabile alle vendite, ma non è solo questo che giustifica la sua discreta conoscenza dell’italiano, va maturando, ci racconta, una crescente passione per l’Italia, per alcuni dei suoi luoghi incantati, in particolare per l’Umbria e l’isoletta di Pantelleria (!), ma non per i vini qui prodotti bensì per gli scenari naturali che propongono; Ci fa accomodare nell’accogliente sala degustazione invitandoci a più riprese a non esitare nel fare domande nonostante tenterà di essere quanto più esaustiva possibile: ci guardiamo finalmente soddisfatti, non è forse questa la Borgogna che ci avevano raccontato? 

La storia del Clos de Vougeot risulta essere piuttosto travagliata, quasi una saga d’altri tempi, tra compravendite fittizie, spartizioni tra eredi e presunti tali, négotiants e “furbetti del quartierino” che tra una zampata e l’altra non hanno mancato di accasarsi nei dintorni al solo fine speculativo, “ogni mondo è paese” si direbbe, Claire nel sorridere ci conferma di aver ben inteso il senso di questa frase; A noi in realtà ci basta registrare che vige un controllo ferreo su tutto quello che si muove in vigna e soprattutto in cantina, del resto siamo qui per una esperienza emozional-sensoriale, non certo per riscrivere la storia! Chateau de La Tour sorge ad un tiro di schioppo dall’omonimo Clos de Vougeot propriamente detto, dal quale lo separa proprio la torre di guardia a cui deve il nome, circondata dalle verdissime vigne di Pinot Noir (il germogliamento risulta in ritardo di almeno tre settimane rispetto all’Italia, ndr), nelle sue fondamenta la cantina ed alcune stanze-caveaux dove conserva oltre che la memoria storica liquida dello Chateau anche dell’intero Clos, si scorgono qua e là almeno un centinaio di vendemmie, alcune delle quali assolutamente rare e perciò preziosissime, sin dalla fine dell’800!

Il vino che più ci ha impresssionato è stato senz’altro il Clos Vougeot, soprattutto in propettiva, ma non sono risultati scontati i due ottimi Beaune Village bevuti, il bianco ed il rosso a marchio Pierre Labet molto freschi e di gran lunga sapidi. Il bianco in particolar modo, che si giova oltretutto dell’augusta veneranda età delle vigne, sui trent’anni, ha mostrato una spalla acida ben espressa, davvero gradevole per non dire ottimo. Altro che Chardonnay… 

Clos Vougeot 2007, l’annata in molte regioni della Francia e del mondo è stata recepita come una annata particolarmente calda, per alcuni, vedi i produttori di Rodano e Provenza in primis addirittura siccitosa; “E pensare che a Vougeot, ci racconta Claire, è capitato non di rado, anche a metà agosto di avere a mezzogiorno 8°”! Il colore è di un rubino granata cristallino, il primo naso è subito ampio e finissimo su note floreali e fruttate mature, addirittura dolcissime sensazioni di caramella al lampone,  e poi spezie, note eteree appena percettibili di cipria e smalto. In bocca è asciutto, è concentrico, con il frutto in primo piano, tutt’intorno il tannino, la glicerina, l’acidità, la mineralità. Bella bevuta, avanscoperta di ben altre grandi bevute future; In effetti di questi vini, in questo stadio di “immaturità” non si può che percepirne il grande potenziale ed accontentarsi dell’impressione positiva di estratto e concentrazione.

Clos Vougeot 2004, ovvero di Pinot Noir straordinario come pochi bevuti prima. Eppure figlio di una annata non felicissima, a fine luglio infatti una fortissima grandinata, praticamente caricata a pallettoni ha distrutto il 30% almeno del raccolto, complicando e non di poco anche il lavoro in cantina. Comunque stupendo il colore rubino, scarico, trasparente, dal primo naso subito affascinante, davvero interessante, ampio, complesso, di quel varietale in grande spolvero e così difficile da replicare. Le note olfattive sono aromatiche, intense e lunghissime, il ventaglio olfattivo fruttato è divenuto succoso, l’etereo sottile profumo di terra asciutta e pietra bianca, la nota di cipria adesso è più evidente, il cassis esplicito, la succulente mineralità una goduria immensa.

Ci è piaciuto, la precisione della tempestica con la quale è stata gestita la visita, e moltissimo l’accoglienza riservataci, a dir poco calorosa.

Particolare curioso: in cantina, da queste parti, gli enotecnici preferiscono il vecchio attempato tastevin al comune calice per la degustazione dei vini in affinamento. 

nei dintorni, da segnare in agenda:

Le Clos de La Vouge. Appena fuori Vougeot, sulla strada per Vosne-Romanée, praticamente all’incrocio con Flagey-Echezeaux c’è questo delizioso Hotel Restaurant; L’ambiente è informale, un po Brasserie, un po Bistrot, il servizio non è dei migliori, lento e a dire il vero anche un tantino impacciato, ma la cucina, tipicamente borgognone, è assolutamente da provare almeno una volta giunti in questa terra. Materie prime eccelse e preparazioni molto sostanziose e saporite, ottimo in particolare l’uovo in camicia in fondue d’Epoisses  (ne parliamo qui) come eccellente il Boef Bourguignonne soprattutto se mangiato come piatto unico.

Hotel – Restaurant – Séminaire
Le Clos de La Vouge
1, rue du moulin
21640 Vougeot
Tel. 0380628965
Fax 0380628314
www.vougeot-hotel.com
closdelavouge@wanadoo.fr

Brochon, di Philippe Charlopin-Parizot e non solo

24 giugno 2010


A pochi chilometri da Morey St Denis, appena lasciato Gevrey-Chambertin verso nord, sempre sulla “Route des Grands Crus”, c’è Brochon, un piccolo borgo di appena 691 anime ma che nasconde nei dintorni, circoscritto alla “zone artisanale” (sarebbe la nostrana zona industriale, ndr) uno scrigno di tesori imperdibili.

Il primo che ci capita a tiro, appena usciti dal centro storico del paese è Gaugry, una delle fromagerie più famose di Borgogna, custode dell’antico formaggio Epoisses ma senza ombra di dubbio il riferimento assoluto di tutti gli allevatori locali vista la capacità di lavorare durante l’anno almeno un milione e settecentomila litri di latte. Oltre al fornitissimo negozio dove è possibile assaggiare gran parte dei formaggi prodotti e distribuiti (700.000 circa!) vi è anche un’area di accesso ai laboratori di lavorazione per i visitatori che possono, due giorni alla settimana, di solito il mercoledì ed il venerdì, visitare il piccolo museo aziendale nonchè ammirare come si producono i famosi formaggi di casa Gaugry.

Proprio alle spalle della Fromagerie vi sono alcuni capannoni scuri, ognuno con un gradevole giardino in fiore all’ingresso ma nessuna insegna, citofono, indicazione. Il primo è il Negoce des Grands Bourgognes, in pratica uno dei più forti distributori del posto, con un catalogo prodotti non profondissimo ma decisamente appetibile. Molti, soprattutto i piccoli Domaine, si affidano a loro anche per la distribuzione locale, e quasi nessuno di questi, scopriremo poi, è propenso alla vendita diretta in azienda, preferisce di gran lunga delegare le cosiddette enoteche locali alla promozione e alla vendita dei loro vini: economia sociale, garanzia della filiera? Ci piace, e non poco, e se fosse replicata anche a casa nostra..?

Proprio di fronte al Negoce des Grands Bourgognes c’è il Domaine Charlopin-Parizot, nulla di trascendentale, suggestivo, emozionale: un capannone, nero, anonimo che Philippe Charlopin ha voluto come casa del suo genio, del suo estro, della sua più totale anarchia pur rimanendo fortemente legato al suo territorio. E’ vero, genio è una parola delle più abusate, spesso utilizzata più per spiegare l’inspiegabile che per altro, eppure in questo personaggio, nerboluto, tarchiato, anche un po’ goffo per come si è presentato dinanzi a noi, in pantofole e camicia “astratta”, con una pettinatura anch’essa quantomeno esotica si coglie una forza incredibile, precisa, non confondibile, e più che dalle sue (poche) parole è dalle idee messe in campo, incredibile “la tratta delle appellations”, (“ogni mio vino nasce come e con un debito, con il territorio e con le banche!”) dai suoi vini superlativi, dai quali si trae l’impressione, il punto di forza di un vero gioiello della viticultura borgognona.

Queste in sintesi le impressioni ricevute a caldo dall’assaggio in cantina dei vini del Domaine Charlopin-Parizot che vanta, oltre che diversi Negoce in quasi tutte le appellations della Cote de Beaune (e più a nord Chablis) anche eccellenti proprietà come nel caso di un bel appezzamento nei Grand Cru Clos di Vougeot e Charmes-Chambertin.

N.B.: per comodità viene replicata solo l’etichetta dello Gevrey-Chambertin Vieilles Vignes di cui abbiamo bevuto il ’08, a tutti gli effetti, nonostante la giovanissima età, il miglior vino assaggiato assieme al Grand Cru Charmes-Chambertin, sempre ’08 di cui però racconteremo in un prossimo post.

Pernand Vergelesses 2007 appellations village che offre vini, innanzitutto bianchi, piuttosto godibili, e rossi come questo più interessanti al palato che puliti al naso, comunque estremamente digeribili. Di colore rubino finissimo, abbastanza vivace, esprime un ventaglio olfattivo maturo e terziario, soprattutto su nuances di catrame e note tostate. In bocca è asciutto, sottile, corroborante, una bella beva fresca e di sostanza. Ideale sui formaggi vaccini, austeri, del luogo.

Morey St Denis 2007, ottimo, arcigno, dal naso complesso di una misticanza di frutti neri e rossi e note tostate e caramellate. Probabilmente tra qualche anno, due, tre minimo, concederà un ventaglio olfattivo più interessante ancora. Al momento si lascia scoprire ma non del tutto, è infatti in bocca che quasi allontana, asciutto, austero, tannico, profondamente minerale: “non dovrei nemmeno farvelo assaggiare, ma siete qui quindi sappiate valutarne il dono”. Impeccabile la schiettezza di Philippe, vera.

Gevrey-Chambertin Vieilles Vigne 2008. Chambertin è certamente il più celebre tra i crus di Gevrey, tredici ettari circa ed un paesaggio mozzafiato che scompare sulle colline delle Hautes Cotes. Un vero e proprio fuoriclasse questo vino, purosangue, sembra parafrasare il suo stesso mentore, tal quale. Il primo naso è sgraziato, offre inizialmente di tutto un po, sovrappone note vinose a note di caffè tostato, cipria ad erbe officinali, poi ancora cassis maturo e polposo: “è il gioco delle parti, la terra bruna, la pietra calcarea, un vitigno autentico, legni dei più diversi, con il tempo, solo il tempo ne definirà l’eleganza”. In bocca è asciutto, secco, la bocca, una volta deglutito, quasi s’incolla, eppure rimane piacevolmente sedotta, avvinghiata ad un piacere sublime, lunghissimo. Un vino per i prossimi trent’anni.

Clos de Vougeot 2008,  altro cru di gran fascino, ovvero il fascino del Grand Cru!  La storia ci consegna uno dei vigneti più belli e suggestivi della Borgogna, che deve la sua destinazione d’uso ai monaci cirstercensi che qui decisero di piantare vigne piuttosto che patate e ovviamente alle generazione che di lì a qualche centinaio di anni pur modificandone drasticamente la mappatura ne hanno saputo valorizzare, enomermente, la vocazione . Inizialmente di proprietà di Julien-Jules Ouvrard, già proprietario di altri grand crus nella Côte de Nuits tra cui La Romanée Conti, il Clos de Vougeot divenne prima pane di sei commercianti-negotiants e successivamente continuamente frazionato sino agli attuali oltre centottanta parcelle in mano a ben oltre novanta proprietari, tra questi anche Philippe Charlopin-Parizot. Di colore rubino-granata, vestito di una bella vivacità; Naso intrigante, chiuso, sbuffi fruttati concentrici a note quasi animali, si sente per parecchio tempo cuoio, poi una netta sensazione di cipria. In bocca mi sento di definirlo ad oggi ingiudicabile, quantomeno è insostenibile delinearne un profilo gustativo esaustivo, forse tra 5-6 anni, ha tanta materia da lasciar maturare, succosa e nerboluta.

Ci è piaciuto, moltissimo, il paesaggio; Le vigne sono allevate come giardini, tutti i filari si estendono da ovest ad est seguendo il declivio collinare lungo la route des grands crus, quest’ultima mai noiosa nonostante la monotonia del paesaggio che attraversa.

Non ci è piaciuto, non poter assaggiare vini di annate più mature, ma a quanto pare così funziona, nel senso che nemmeno i produttori ne dispongono avendole il più delle volte già tutte vendute, ça va sans dire…

da segnare in agenda: 
– Grands Bourgognes
ZA Le Saule, 21220 Brochon
Tel +33 380792990
Fax +33 380792990
www.grandsbourgognes.com
– Fromagerie Gaugry
RN 74 – BP 40
ZA Le Saule,
21220 Brochon
Tel +33 380340000
www.fromageriegaugry.fr 
 – Au Clos Napoléon
Restaurant Bar à Vin
4 et 6 rue de La Perrière
21220 Fixin
Tel +33 380524563

Chalon-sur-Saone, il mercato di Borgogna

22 giugno 2010

Chalon è costruita sui bordi del fiume Saône, vanta una storia di almeno tremila anni ed è stata sempre un punto di riferimento assoluto per l’economia di tutta la regione borgognona: prima, in antichità, come porto navale militare, poi in tempi più moderni come centro di florido scambio commerciale, centro fieristico di prim’ordine: un mercato continuo.

L’ingresso in città non suscita particolari aspettative, pare attenderci una città come tante lasciate lungo strada sino a qui, un po grigie e goffamente frammiste di una ruralità forzata e quella modernità un tantino datata. Ma bastano appena due curve per ricredersi, basta allontanarsi dai viali di cemento che costeggiano il fiume per entrare d’un colpo nella città vecchia, nel cuore di un borgo in cui il tempo pur tiranno sembra soccombere da una tradizione insopprimibile. E’ domenica, ed è la domenica del mercato, un tripudio di colori e di profumi che si rincorrono lungo i vicoli che da Place de l’Obélisque si diramano sin nell’anima del quartiere vecchio. I negozi di ogni genere che durante tutta una settimana animano Chalon alla domenica lasciano il campo a persone ed intenzioni che sembrano venire da ogni dove con i frutti del loro duro lavoro, della loro antica tradizione, della loro profonda cultura.

L’atmosfera riporta alla mente i nostri mercati, in fondo le voci, le urla, il richiamo che si innalza continuamente nell’aria non è poi così differente da quello dei venditori delle nostre borgate, dei nostri quartieri, delle nostre piazze rionali; i colori dei banchi si alternano dal rosso splendente dei pomodori “cuore di bue” a quello “sangue” delle cerise “stark” croquante, il verde dei carciofi giganti del sud con il bianco dei turioni di asparagi delle campagne circostanti; e poi i profumi, quello dolcissimo dei fiori dai mille splendidi soli e quello pungente delle erbe officinali che qualcuno sta pestando poco più in là, quello inebriante delle pentole e delle caccavelle che sbuffano i vapori delle zuppe di pesce e delle fritturine di verdure in cottura, così a la volèe, una cucina in strada che definirei in maniera disincantata senza cucina ma con tanta storia di strada.

Continuiamo a scorrere i banchi, con essi le facce, gli inviti, le raccomandazioni, le preferenze, le simpatie, la voglia di non perdersi nemmeno un attimo, uno sguardo di questa domenica speciale: Jean Luc ci guarda perplesso, stiamo contrattando per diverse pezzature di buonissimo “Epoisses”, il formaggio più amato e consumato in Borgogna, ma non ci lascia margini di favore, il fratello, Arnauld è più propenso a lasciarci come omaggio una manciata di sostanziosi “saucisson” ma non ne vuole sapere ne sui formaggi ne sul delizioso pane di “campagne”, davvero saporito, superlativo; alla fine, “les italiens…” la spuntano, così ci avviamo sulla strada del ritorno. Qui intorno c’è di tutto, dal robivecchi che per una manciata di euro vende il vecchio soprammobile della nonna al finissimo “patissier” intento a rifinire gli ultimi cioccolatini appena sformati, l’urlatore dei tappeti e dei tendaggi di Tournus¤ al formaggiaro della Savoia che ci tiene a sottolineare che i suoi formaggi sono sì brutti da vedere ma solo perchè desidera che li compri solo il vero appassionato: niente forma, solo sostanza! Ripete in continuazione.

E’ vero, è quello che anche noi ci aspettiamo di incontrare sulla nostra strada nei prossimi giorni, niente o quasi forma, molta, moltissima sostanza! (continua)

da non perdere il museo della fotografia
Musée Nicéphore Niépce
28 Quai des Messageries
71100 Chalon sur Saône
tel.: 03 85 48 41 98
fax: 03 85 48 63 20
Entrata libera
Aperto tutti i giorni, eccetto il martedì e i giorni festivi
dalle ore 9.30 alle ore 11.45
dalle ore 14.00 alle ore 17.45
Luglio – agosto
dalle ore 10.00 alle ore 18.00

Vico Equense, Torre del Saracino: di un gigante della cucina campana e di passeggiate vicane

4 Maggio 2010

Ecco la brezza accarezzarmi il viso, il sole tiepido di fine Aprile scaldarmi l’animo, il profumo di pino aggraziarsi le narici. La mente e la pancia hanno già avuto di che compiacersi, perciò le guardo gli occhi e d’improvviso non ho null’altro di che lamentarmi, le stringo le mani e non ho più parole da pronunciare, adesso tocca al cuore.

Effetto Torre del Saracino? Forse, una cosa è certa, appena usciti dall’isola gastronomica di Gennarino e Vittoria ce n’è di che compiacersi prima di ritornare alla cruda normalità. Forse appare anche inutile spendere parole d’oro o frasi incensate per descrivere una delle più piacevoli esperienze gastronomiche dell’anno, tuttavia il diario enogastronomico non può esimersi dalla cronaca di una splendida giornata spesa a Marina di Equa tra una pur breve passeggiata al sole nonchè una visita alla preziosa tavola del Gennarino nazionale.

L’ambiente è cambiato, non poco, ma non le persone, quelle assolutamente no, e nemmeno lo spirito che anima questo luogo del gusto sin dalla sua fondazione, subito manifesto, sin dall’accoglienza, a misura d’uomo, sfacciatamente familiare; Gli arredamenti sono essenziali ed i colori tenui e gioviali al tempo stesso, la tavola è ben apparecchiata, ognuno gode di buona privacy e di una veduta che in giornate come queste, con il sole in fronte, apre gli occhi su di un Vesuvio come non mai suggestivo ed evocativo; Insomma, ingredienti di una semplicità disarmante, “della nostra tradizione” si direbbe, che si ripetono con lo stesso equilibrio anche nelle proposte del menù, anche in quelle incursioni culinarie apparentemente più moderne ed internazionali come la Scaloppa di Fois Gras servita con olive verdi in una zuppetta di Nettarini di Corbara.

Ci accoglie Giovann Piezzo, sommelier napoletano di lungo corso da circa un lustro qui alla Torre del Saracino: si rivelerà durante il pranzo un professionista attento e costante, che sa bene il fatto suo e come proporsi, con garbo, stile, equilibrio e disponibilità. Proprio con lui, appena dopo il pranzo, una volta giunti nella suggestiva cantina, ho avuto modo di fare una lunga chiacchierata, di mestiere, passioni e speranze, ma questo è argomento di cui tratterò più in là. Ecco invece che ci raggiunge, appena un attimo dopo, Gennaro Esposito; Ci saluta dandoci il benvenuto con particolare calore, rimaniamo subito rapiti dalla sua simpatica avvenenza, lui dalla nostra dolce Letizia che ci ruba per qualche minuto per farle fare, lui in prima persona, un tour per le cucine di casa: se talento avrà, qual miglior battesimo di questo! Noteremo con sommo piacere che proprio con lo stesso calore Gennarino non mancherà di dare il benvenuto a tutti gli ospiti che di lì a poco riempiranno per metà l’accogliente sala che affaccia sul mare di Seiano. 

La proposta è davvero allettante, scegliamo dalla Gran Carta il menù degustazione “Salvatore”, dal nome di uno dei più fidati collaboratori dello chef vicano che lo affianca in cucina sin dagli esordi, non mancando però di puntualizzare dell’esigenza di assaggiare il cosiddetto “piatto dell’anno”, la Minestra di Pasta mista di Gragnano con crostacei e piccoli pesci di scoglio (da manicomio!), non prevista in menù ma assolutamente ineludibile. Così appena dopo un delizioso benvenuto di trancio di Tonno appena scottato su vellutata di fave fresche seguono nell’ordine: Cefalo leggermente affumicato, patata schiacciata e salsa verde, unico piatto al di sotto delle aspettative, fresco e bilanciato ma un po’ scontato, quasi inaspettato, nulla a che vedere con la deliziosa Passata di piselli, gnocchi di ricotta, seppie, raviolino al limone e pomodoro candito, una sequenza di tali puri sapori ma in perfetto equilibrio tra loro tale da fare invidia per il solo pensiero di averlo pensato, davvero eccellente!

Sapori ancor più schietti e sinceri nella Pasta e cavolfiore con ostriche e pecorino, un piatto per così dire “coraggioso” ma senza dubbio riuscito, con sapori molto decisi a rincorrersi ed equilibrarsi tra loro grazie soprattutto a dei ciuffetti di alghe appena fritti utilizzati come decorazione e che invece risultano come manna dal cielo per stemperare l’ardire del pecorino in grani semisciolto con la mantecatura. Baccalà in carpione con cipollotto, mela annurca e melassa di fichi, altro esempio di rincorsa all’agro e al dolce non mancando però di sapidità ed aromi che donano costante freschezza al piatto; Nella normalità della tradizione nostrana l’ottima Variazione di Ragù napoletano con una braciola di cotica sugli scudi, pura scioglievolezza. Su tutto, senza perderci nelle esalazioni etiliche, abbiamo bevuto un ottimo (e conveniente, 30€) Chablis 2006 di Daniel Dampt.

Chiusura in dolcezza con la Passeggiata vicana, dolce della tradizione locale impreziosito dalla presenza di granelli di fior di sale utilizzati per ristabilire il giusto equilibrio di bocca inevitabilmente avvinghiato alla dolcezza della crema al limone, qui dalla interessante carta a bicchiere si è rivelato molto piacevole il Moscato di Saracena di Cantine Viola (€ 9). Ottimi i piccoli assaggi di piccola pasticceria, come molto apprezzata, ma che dire, superba, la proposta di offrirci il caffè nella piccola saletta ricavata nella torre di Capoviro che sovrasta il locale, a quanto pare il buen retiro di fine serata del padrone di casa dove ama intrattenersi con i suoi ospiti al cospetto di alcune opere d’arti comissionate ad hoc, buona musica lanciata on-air da un modernissimo stereo a valvole e tanto cioccolato delle migliori cultivar e dei migliori selezionatori italiani e francesi.

Ecco, la mente e la pancia hanno già avuto di che compiacersi, perciò le guardo gli occhi e d’improvviso non ho null’altro di che lamentarmi, le stringo le mani e non ho più parole da pronunciare, adesso tocca al cuore.

 Ristorante Torre del Saracino

Via Torretta, 9
Loc. Marina d’Equa
80069 Vico Equense (NA)
Tel. & Fax +39 081.802 85 55
info@torredelsaracino.it
Chiuso: domenica sera e lunedì.

Usigliano di Lari, le uova di Paolo Parisi

19 aprile 2010

Di sè dice: “Io sono un creativo”. “Magari non nel senso convenzionale del termine poichè non disegno, non scrivo romanzi, non compongo musica, però creo cose buone, delizie per il palato con cui altre persone in cucina possono giocare per inventare sapori nuovi, con una materia prima antica come il mondo eppure inedita.  

Di Paolo Parisi se n’è parlato tanto, sui più importanti media nazionali ed internazionali, una popolarità per qualcuno ricercata e che a dirla tutta sembra pure ben gestita dall’allevatore-innovatore di Usigliano di Lari, che ne ha fatto, con l’assoluta unicità della sua offerta uno dei punti di forza del suo marketing. Non v’è (o quasi) ristorante gourmet dove almeno una volta non siano passati i prodotti del Paolo creativo e questo è un dato di fatto dovuto più al passaparola tra i professionisti dei fornelli piuttosto che ai media di cui sopra: a torto o a ragione?

In principio fu la Cinta Senese, una sfida importante vinta a mani basse tanto da rilanciare una filiera praticamente assopita da tanti anni di confusione e mistificazione, di qui ai manzi Angus per ritornare ad una carne con la giusta compostezza di fibra senza perdere sapore e morbidezza, sino alle capre e alle uova, “l’ultima sfida”, come la chiama lui “per creare un uovo particolare, pulito, dal gusto – di fresco – che le uova, anche le migliori della filiera moderna, negli ultimi anni hanno praticamente perso per strada. Il segreto? Le galline di razza Livornese naturalmente, e l’alimentazione per la quale Parisi dice di non badare a spese, solo cereali e latte di capra appena munto, tanto dall’essere le più care in assoluto sul mercato di settore, quasi tre euro l’una, ma a detta di molti, ben spesi per uova tra le più buone.

Le uova di Paolo Parisi sono diverse, come ci vengono descritte dall’azienda, soprattutto nel tuorlo, più molle, grasso, leggero, con una struttura proteica fuori dal comune, più lunga, con la capacità di incorporare, se montato, anche tre volte l’aria di un tuorlo qualsiasi. Infine, ha un leggero gusto mandorlato, apprezzabile nel finale degustando il tuorlo crudo o comunque liquido. Splendido nella sua essenza, è interessante riscontrare la leggerezza che conferisce nelle lavorazioni in cui viene impiegato: zabaione, maionese, creme, ecc. Si presta in maniera particolare anche alla lavorazione di una pasta fresca che risulta più leggera, omogenea e compatta.

MACCHIE D’OLIO
Soc. Agr. A Resp.Lim.
Via delle Macchie, 1
56035 Usigliano di Lari (PI)
Tel/Fax +39 0587 685327
Cell.: 348 3804656 –
e-mail: info@paoloparisi.it

Trento, Osteria Le due spade

11 aprile 2010

Arriviamo nel centro storico di Trento appena dopo il tramonto, all’orizzonte, tutt’intorno si riescono ancora ad ammirare le cime innevate del cosiddetto tridentum, le tre cime che circondano da ovest ad est sino al fondovalle del fiume adige che l’attraversa tutta. La piazza del duomo è gremita di giovani che prendono l’aperitivo, perlopiù birra e qualche stuzzichino, noi ci infiliamo in un vicolo ed entriamo in questo posto davvero suggestivo, raccomandato per la storica affezione alla cucina di territorio che ne fa una delle rinomate osterie tipiche trentine nonchè per essere ad oggi l’unico locale “stellato” della città. Il locale è piccolino ma perfettamente a misura d’uomo e stato d’animo pacato, appena sette tavoli per una capienza che sarà al massimo di una ventina di persone, ricavato da quella che anticamente era una stube, locale rivestito completamente in legno, pavimento compreso, al cui centro (o come in questo caso, lateralmente) troneggia una “stufa a Ole” (bellissima in maiolica verde), destinata a riscaldare la famiglia durante i rigidi passaggi invernali. I tavoli sono ben preparati, l’hotellerie è elegante e la mise en place sobria ma con stile, tuttavia l’atmosfera che si respira minuto dopo minuto diviene davvero suggestiva. Ci accoglie Massimiliano Peterlana (nella foto), patron e sommelier che si rivelerà anche buona fonte di consigli su cosa e dove bere l’indomani vini emozionali trentini che meritano attenzione. La proposta in carta è eccellente, pertanto una volta scorso tutto il menù e confrontato l’appetito, lasciamo l’iniziativa al padrone di casa che promette di proporci uno spaccato della loro cucina più tradizionale: non poteva andarci meglio; 

Iniziamo con un buonissimo Flan di asparagi e zucca accompagnato da prosciutto di petto d’anatra mediamente stagionato, essenza di territorio e sapori vivi.

Poi una bi-vellutata di zucca e patate servita con dei canederli sferici alle erbe di montagna, appagante e rinfrancate;

Poi, dei superbi Ravioli di acqua e farina con ripieno di Trentingrana e tartufo nero, ancora canederli ma alla maniera tradizionale tra cui molto buono quello alle ortiche.

Continuiamo con una lombatina di maialino con asparagi selvatici, patate sbrisolate e verdure dell’orto croccanti (foto di testa dell’articolo), piatto in perfetto equilibrio con il Marzemino 2007 di Eugenio Rosi consigliatoci da Massimiliano. Un insolito e sorprendente sorbetto al pino mugo (altro che note mentolate!) e poi giù di trionfo di golosità con un classicissimo Tiramisù, Parfait al gorgonzola (!) e Strudel di mela renetta su crema di mele verdi. Signori, appaluse!

Posto facilmente raggiungibile, in pieno centro a Trento, sapori offerti autentici, cordialità e disponibilità da manuale, servizio veloce ma coerente, un ricordo di una bella serata tra amici, appena mille chilometri più in là da casa dopo un viaggio iniziato in primissima mattinata, inutile sottolineare come la familiarità di certi ambienti aiutino sensibilmente a migliorare lo stato d’animo degli astanti! Sui 50-60 euro escluso i vini, come da menu degustazione.

Osteria Le Due Spade
di Massimiliano Peterlana
www.leduespade.com
Via Don Arcangelo Rizzi, 11
38100 Trento
Tel. 0461 234343

San Martino della Battaglia, Agriturismo Armea

10 aprile 2010

E’ un luogo che amo particolarmente, ci ritorno volentieri ogni qual volta decido di partecipare al Vinitaly oppure quando mi sono trovato per altre ragioni in zona. L’agriturismo è posizionato proprio ai piedi della torre di S. Martino della Battaglia, in una località di intensa suggestività agreste, a 4 km da Sirmione e a 4 kilometri da Desenzano del Garda, appena all’uscita dell’autostrada Venezia-Milano. L’ho scoperto la prima volta nel 2000 su segnalazione di alcuni amici vignaioli, l’ ambiente è familiare, curatissimo, migliorato negli anni: oggi c’è anche una piscina ed il parco a disposizione per delle passeggiate in campagna è cresciuto. Le camere, circa otto, ed alcuni mini appartamenti, sono tutti in muratura e legno massello, caldi, curati e ben arredati, con tutti i confort essenziali per trascorrere una vacanza breve o anche sino ad una settimana. Buona anche la cucina di casa, tradizionale locale, e sostanziosa la piccola colazione del mattino servita con tutti prodotti di produzione propria (eccetto naturalmente il latte, il caffè ed alcune confetture).

Armea è un posto da segnare in agenda; Costi dai 50 euro per una camera anche uso singola (con due letti) ai 75 euro (sino a tre letti); Come riferimento Sig.ra Vania.

AGRITURISMO ARMEA
Località Armea – Fraz. S. Martino della Battaglia
25010 Desenzano del Garda – Lago di Garda – Italia
Tel: +39-030.9910481
Email:
info@agriturismoarmea.it

Leonforte, Lenticchia Nera di Enna

2 aprile 2010

E’ un’antica cultivar tipica della provincia di Enna, molto apprezzata fino agli anni ’50. Dal dopoguerra in poi però la sua produzione si è via via abbandonata, complice la politica agricola comunitaria, ma soprattutto l’avvento di nuove cultivar più resistenti, più produttive e la cui produzione era possibile massificare e  meccanizzare con evidente abbassamento di costo di produzione.

In tutto questo arco di tempo la lenticchia nera ha rischiato seriamente di scomparire per sempre, ed è stata prodotta in quantità molto variabili e comunque mai al di sopra dei 100-400 kg/ l’anno. Nel 2002, l’azienda Agrirape di Enna, fortemente motivata a recuperare la produzione di questo antico legume locale è riuscita a scovare qua e la nella provincia ennese appena 800 grammi di sementi per ristrutturare il reimpianto ed avviare un più degno collocamento sul mercato, quantomeno regionale!

La coltivazione è estremamente laboriosa e come nelle migliori salvaguardie dei prodotti in via di estinzione non mancano notevoli difficoltà burocratiche per implementare la filiera produttiva. Le tecniche colturali, oltretutto, sono svolte tutte manualmente, soprattutto a causa del portamento della pianta stessa, dallo stelo cortissimo e praticamente strisciante, quasi a contatto col terreno. Per questo motivo non è possibile meccanizzare la raccolta. di conseguenza anche tutte le operazioni che seguono la raccolta devono essere svolte necessariamente a mano o, quantomeno, con metodi che non ammettono proroghe all’antica tradizione contadina siciliana.

Da un punto di vista alimentare, la Nera di Enna è un legume che contiene rispetto alle normali lenticchie, una maggiore percentuale in proteine e fibra e un minore contenuto in grassi, pur conservando tutte le peculiarità gastronomiche che la rendono particolarmente duttile in molte preparazioni di cucina, come piatto principale (ad esempio zuppe) o in abbinamento a secondi di particolare pregio, siano essi di carne che di pesce; A margine, è certamente apprezzabile anche l’effetto visivo che concede questo prodotto, che se utilizzato con equilibrio può rappresentare un ottimo viatico per rendere un piatto visivamente più invitante.

Per maggiori informazioni, contattate l’azienda grazie alla quale mi è stato possibile parlarvi di questo prodotto davvero particolare ed interessante:
Azienda Agricola “Agrirape” di Manna Angelo
Corso Umberto 556 – 94013 Leonforte (En)
e-mail: info@agrirape.it Tel.: 0935 904862

Giugliano, Fenesta Verde sulla tradizione

18 gennaio 2010

Fenesta Verde è uno dei pochi locali in Campania del quale difficilmente non si può avere memoria. Assolutamente impossibile sentirne parlare in senso negativo. Assolutamente ineccepibile nella franca proposta territoriale flegrea, ogni anno su standards qualitativi eccellenti.

Dopo lo sdoppiamento con la moderna La Marchesella, oggi tutta nelle mani del giovane Giovanni e addirittura triplicato con la nuova apertura de La Compagnia del Ragù di Gena e Tommaso, la famiglia Iodice non si può certo definire statica ed avulsa dal fermento sociale nonostante il contesto in cui operano. La madre di tutte le Osterie di qualità flegrea però rimane senza ombra di dubbio l’antica Fenesta Verde di vico Sorbo, da cui tutto nasce nel 1948 ad opera di Andrea Guarino e l’intraprendente e coraggiosa moglie Luisa Flagiello. L’idea di avviare una attività di somministrazione di vino al boccale e piatti semplici della cucina del territorio nacque durante i bombardamenti che si succedevano numerosi durante la seconda guerra mondiale.

In quel periodo, infatti, la cantina dell’abitazione piccola ma confortevole veniva usata dai vicini come rifugio antiaereo, Luisa era solita offrire a tutti una parola di conforto ed in qualche occasione quando l’attesa si faceva più lunga non mancava un bicchiere di vino che scaldava ed aiutava a superare i momenti di paura. Luisa era bravissima in cucina mentre Andrea era un abile viticoltore che aveva appreso per bene l’arte di fare il vino; ricco di idee, intuì la situazione e progettò inisieme con la moglie di avviare una attività di somministrazione di vino al boccale e di piatti della cucina locale, certo che non sarebbero mancati gli avventori. L’idea si dimostrò vincente ed in poco tempo “la cantina” fu molto frequentata, tanto da richiamare avventori anche dai comuni limitrofi; alla domanda di come raggiungere e riconoscere la cantina veniva risposto “ a casa ‘e spall d’a’ chies dell’Annunziata ca’ tene ‘a fenesta verde“. In poco tempo senza che nessuno se ne accorgesse la cantina assunse il nome di “Fenesta Verde”. Questo il nome, il marchio, che ha accompagnato per molti anni l’attività di Andrea e Luisa, poi continuata dalla figlia Angela e dal marito Antonio e, negli anni a venire, prima della moderna tripartizione, dai quattro figli di questi, Luisa, Laura, Gena e Giovanni.

Ci siamo seduti a tavola domenica 17 gennaio, fuori era una giornata umida e a tratti cupa e grigia, dentro, vicino al focolare dell’ampia ed accogliente sala principale tutta un’altra atmosfera, cordiale, sentita, calda, come nello stile di Guido e Giacomo che non fanno mai mancare un consiglio, un indirizzo, una proposta qualora ci si ritrovi a corto di idee. In cucina, con lo staff a pieno organico dirige i giochi la sola Laura poiche la sorella Luisa, moglie di Guido, è al countdown finale per l’ennesimo erede della famiglia. Tante novità in cantiere ed in calendario, da non perdere per chi come me non vive da un po’ di tempo Fenesta Verde: la profonda ristrutturazione ultimata nei primi mesi del 2009 ha consentito di aprire un piacevole terrazzo dove finalmente pranzare e cenare in estate all’aria aperta sul tranquillo vico Sorbo, e di qui a pochi mesi sarà ultimata anche la cantina ricavata nell’antico androne proprio sotto il ristorante, dove oltre a stipare le pregiate bottiglie di vino della sempre fornita e conveniente (ricarichi onestissimi) carta dei vini è in programma di sostenere eventi e cene a tema nonchè percorsi di formazione e degustazione. Un ascensore di ultima generazione, accompagna gli ospiti su e giù per i piani in un battibaleno.

Il pranzo è da manuale, gli assaggini degli antipasti sono tutti succulenti e dai sapori nitidi ed espressivi: zuppetta di fagioli rossi, gattoncino di patate con salsiccia e friarielli, involtino di peperone rosso, pizza di cipolle, sformatino di zucchine. Seguono un’ottimo cannellone al forno ed una strepitosa genovese con candele spezzate, poi ancora salsiccia arrosto, scarola alla carrettiera e baccalà fritto, bontà a cuor leggero. Il tutto innaffiato da un avvinamento con una discreta Falanghina 2008 di Corte Normanna ed un superbo Aglianico del Taburno Riserva Vigna Cataratte 2003 di Libero Rillo. I dolci, una delizia: crostatina con crema e fragole di bosco (la pasta frolla da baci in fronte), la “sfogliatella aperta alla sua maniera” per la quale, sono un sentimentale, sto versando ancora lacrime di gioia. Totò qui avrebbe fatto di tutto per strappare un contratto a vita, natural durante!

 
Fenesta Verde
Vico Sorbo, 1
80014 Giugliano in Campania (NA)
Tel. 081 8941239
Chiuso: Domenica sera e Lunedì 

Formaggi d’Italia, il Caciocavallo Podolico

9 gennaio 2010

Il caciocavallo è il simbolo di una tradizione casearia tipicamente meridionale. Nasce infatti da quella tecnica detta “a pasta filata” che soprattutto nel sud Italia si è sviluppata e messo a punto nei secoli, per garantire conservabilità e salubrità ai formaggi di latte vaccino. La cagliata, ottenuta mediante riscaldamento e coagulazione del latte, subisce una seconda cottura, sino a che diventa elastica e può essere così manipolata senza rompersi. Le mozzarelle, le scamorze, i provoloni e naturalmente i caciocavalli sono tutti formaggi ottenuti con questo specifico metodo di lavorazione.

Il Caciocavallo Podolico è un formaggio che si presta tranquillamente anche stagionature particolarmente prolungate, soprattutto con pezzature grandi (per esempio da 4 a 8 kg) le quali possono arrivare perfettamente integre anche a quattro, cinque anni di affinamento. In tal caso al gusto offrono una complessità straordinaria, una gamma di aromi che solo un latte di eccellenza come quello degli animali Podolici bradi può garantire.

E’ il classico prodotto che da solo rappresenta una portata unica, mai stucchevole e che conquista ad ogni morso, saporito, dal carattere inconfondibile e degno compagno di grandi vini. Qualcuno, nel servirlo, preferisce mitigarne la forza gustativa accompagnandolo a miele di castagno o di sulla, abbinamento che si può anche definire egregiamente equilibrato, ma che naturalemente rischia di non lasciare apprezzare al meglio la ricchezza organolettica di questo straordinario prodotto.

Il Caciocavallo Podolico è particolarmente pregiato e si produce con il latte di una razza specifica chiamata appunto, Podolica, ancora presente sull’appennino meridionale. Un tempo, questa era la razza dominante nel nostro paese, oggi, soprattutto dopo decenni di strenua ricerca di sovraproduzioni standardizzate ed allevamenti intensivi si è ridotta a circa 25.000 esemplari, divenendo un patrimonio da salvaguardare e le ragioni principali sono essenzialmente due: produce poco latte (anche se di straordinaria qualità) e, per la sua caratteristica rusticità, deve essere allevata allo stato brado o semibrado, mal prestandosi quindi ad uno sfruttamento intensivo.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Maytag, the famous blue cheese from Iowa

29 dicembre 2009

Ci sono amici che ti porteresti dietro per tutta la vita, persone con le quali sai di poter condividere tutto dal mattino alla sera.

Sono quelle persone che magari ti capitano per caso nella tua vita, inaspettatamente, e che dal primo momento che ci entrano, non li faresti uscire più. Dalle prime parole che ci scambi, dalla prima bevuta assieme  ti fanno pensare positivo, ti fanno vedere la vita con un angolazione diversa, tanto diversa dalla tua quotidianità che pare sconvolgerla, ed invece è proprio quello di cui avevi bisogno per apprezzarla meglio. Sono questi Steven G. Mally e Tammy Bernice, il primo, ingegnere aeronautico originally made in Wichita (Kansas) e la seconda, from Colorado “with a crazy wine passion”, dal sangue autenticamente basilisco che non mente, generata dal papà Clyde, figlio di Gaetano (!), di chiare origini potentine, che a Denver in Colorado, caso della vita, produce vino dal 1996 nella sua azienda vitivinicola Spero winery di cui presto pubblicherò alcune schede (qui il loro Cabernet Franc) di degustazione di vini davvero sorprendenti. Ecco, io sono loro amico e li porto nel cuore.

Maytag è a Newton, Iowa. E’ una tradizionale Dairy Farm, che produce in proprio latte e formaggi sin dagli anni trenta, cercando sin da allora di dare costante vigore qualitativo alla già importante domanda del mercato caseario locale. Seguendo questi auspici si avviarono profonde e serie ricerche su come produrre un formaggio che potesse in qualche modo rappresentare una unicità assoluta sia localmente che successivamente a livello confederale. Nacque così, in collaborazione con l’università dell’Iowa State un percorso di attenta sperimentazione che portò nel 1941 alla nascita del Maytag Blue Cheese, divenuto poi, in pochissimi anni, il formaggio erborinato americano da latte vaccino più famoso al mondo.

Il Maytag è un formaggio a pasta più o meno semidura, a seconda della stagionatura, prodotto con latte vaccino e mediante una lavorazione esclusivamente manuale, attraverso fermentazione presamica e successivamente inoculato del penicillium roqueforti che in fase di affinamento, dai sei agli otto mesi minimo, sprigionerà le nobili muffe dell’erborinatura che gli conferiscono profumi ed aromi davvero unici ed irripetibili. L’ho scoperto proprio grazie a Steve e Tammy, e loro appena possono me ne mandano un po’ dagli states.

Un formaggio erborinato davvero particolare: le forme, di solito sui 500gr, vengono vendute preventivamente sezionate e confezionate sottovuto per ogni singolo spicchio, cosicchè da consentire un consumo lento senza intaccare la qualità complessiva della pezzatura; possiede e conserva tutta la fragranza e la sottigliezza del latte vaccino, caratterizzato da una grassezza importante ma non invadente, l’erborinatura è molto fine, aromatica ma non stucchevole. Da mangiare accompagnandolo con piccola frutta secca, pane cafone tostato e note dolci di miele di sulla, da abbinare a spumanti Metodo Classico mediamente maturi, meglio se prodotti da vini base da uve a bacca rossa vinificati in bianco o anche vini rossi leggeri vivaci e profumati del tipo Bonarda, Lambrusco ed il mitico ed inarrivabile Gragnano della penisola sorrentina.

Nusco, Locanda di Bu

11 dicembre 2009

Pompei, 7 novembre 2003, qui ci incontrammo la prima volta con Tonino Pisaniello. Era, tra le giornate del congresso internazionale Slow Food a Napoli, forse la più suggestiva ed affascinante che potesse andare in scena; Eravamo nella “Palestra Grande” degli scavi archeologici, illuminata a giorno dalle torcie e vissuta da oltre un migliaio di persone tra addetti ai lavori ed ospiti. Tonino era lì, tra le tante Osterie Slow Food della Campania, con il suo staff del Gastronomo di Montemarano, io con Lilly coordinavamo la gestione della cantina: un gesto sancì il nostro arrivederci, lui ci regalò a fine serata il suo grembiule “chiocciolato”, noi una delle ultime bottiglie di Taurasi Radici di Mastroberardino per festeggiare con i suoi ragazzi lo straordinario successo dei suoi piatti.

Antonio Pisaniello nel frattempo ne ha fatta di strada, ha lasciato il gastronomo per approdare con l’amata moglie Jenny in quel di Nusco per aprire la Locanda di Bu, dove “bu” sta’ per Umberto, nome del primogenito e dove Locanda sta’ a casa, perché quando si viene qui ci si può solo sentire a proprio agio come stare in casa propria. Il locale è molto carino, ci si arriva dalla piazzetta di Nusco dopo appena girato il vicoletto, i colori sono quelli della calma e della passione, il bianco della flemma aurica di Jenny Auriemma, che accoglie gli ospiti, li accompagna al tavolo e gli racconta i piatti ed i vini con un savoir faire dolce e disponibile, il rosso fuoco di Antonio, audace e socievole con i suoi ospiti come dinamico e creativo con i suoi piatti sempre sul filo di una originalità esemplare (territorio prima di tutto) e tecnica sopraffina (il confronto con il mondo intorno). Antonio ha camminato già tante vie nella sua storia, ha viaggiato in lungo ed in largo, non ha, e non ha mai ricercato un curriculum di peso con il quale impressionare gli avventori, ha cercato e fortemente voluto solo poche esperienze, per così dire “ante litteram”,che lo potessero far accrescere professionalmente e culturalmente prima di lanciarsi nella sua sfida più grande, proporre una cucina che fosse pura e semplice traduzione gustolfattiva della sua storia, della sua terra, dei suoi ingredienti.

A 17 anni apre il primo locale, il pub Babylon dove poi incontrerà la giovanissima Jenny e comincerà, per magia, forse tutto; Poco dopo nasce con la famiglia tutta “il Gastronomo”, a Montemarano, che da subito farà parlare di se e del puro talento di Tonino tanto da meritarsi immediatamente segnalazioni e riconoscimenti dalle principali guide ai ristoranti italiani; Verranno poi negli anni l’esperienza newyorkese con Rocco Dispirito, l’incontro con la giornalista Carla Capalbo che, mi dice Antonio, non smetterà mai di ringraziare soprattutto per la grande spinta motivazionale che gli ha dato negli anni e per l’appunto la Locanda di Bu a Nusco, dove tutto riparte, dove tutto si sarebbe potuto sintetizzare come punto di arrivo e dove invece tutto si è rinnovato, in uno dei borghi più belli dell’Irpinia e città natale della mamma, Pisaniello ha continuato a camminare la sua strada, con il suo talento, con la sua voglia di crescere sino a quella che è stata, notizia di questi giorni, la prima, sudata, strameritata stella Michelin.

Prima di passare alla tavola, Tonino ci accompagna in cantina che dista solo pochi metri dalla Locanda, piccola, costruita con le proprie mani nelle giornate meno intense di lavoro, raccoglie il meglio dell’enologia campana non senza le “grandi” bottiglie italiane per i clienti in vena di bere, tra gli altri, Barolo, Barbaresco piuttosto che Brunello o supertuscans.

I piatti sono come detto l’essenza di una territorialità eccezionale come solo questa terra sa regalare, magistralmente interpretati e condotti negli anni nell’albo Pisaniello, dal Gastronomo alla Locanda: si inizia con “la tartare di podolica con maionese agli agrumi” piatto del 2008 che coniuga creatività e sapore intensissimo (viene servito come amuse bouche a mo’ di mini-hamburgher), poi il piatto della memoria, quello di cui nessuno dei suoi clienti riesce a fare a meno di chiedergli sin dal 2002, “la ricotta fritta di Montella con broccoli e soppressa di Venticano”, avvolgente e succulento; Decisamente appassionante il “Baccalà in due modi con pomodoro, olive e capperi”, datato 2008, piatto ricco ed equilibrato; Tecnicamente fine invece ma ancora da affinare nella presentazione (tanti gli elementi nel piatto) il “Sottobosco Neonato 2009”, geniale interpretazione dei sapori e profumi irpini ma poco avvincente nella presentazione a substrati.

Da Applausi invece il “Raviolo di patate di Folloni con tartufo bianco irpino” che Tonino e Jenny propongono con successo dall’anno scorso, appena naturalmente riescono ad accaparrarsi i pochi grammi di preziose pepite del tubero più ricercato (anche dal secondogenito Filippo, ndr); Da lacrime, sinceramente, il “Maialino con la mela annurca, pistacchi ed olio alla vaniglia”(2005), scioglievolezza finissima e delicatissima. Buona l’idea del dessert, il “dolce di castagne con salsa all’aglianico”, rivisitazione del castagnaccio servito semifreddo con una stecca di carbone alimentare e scaglie di cioccolato tartufato. In sintesi, una grande esperienza gastronomica, che ho rincorso per tutta l’estate tra messaggini di prenotazione in chat su Facebook e sms di disdetta, che abbiamo alla fine fortemente voluto sin dal mio rientro da Capri, lo scorso 4 novembre; Qualcuno poi ha deciso di metterci la ciliegina sulla torta facendo cadere a Nusco, pochi giorni dopo, la prima stella Michelin per Antonio e Jenny: adesso, caro Tonino, meno viaggi e di nuovo notti insonni a cercare di dare sfogo al puro talento del geniale Pisaniè. Firmato Dicostà!!  

Locanda di Bu

Vicolo dello Spagnuolo,1
Tel. 0827.64619
http://www.lalocandadibu.com
Sempre aperto. Chiuso domenica sera e lunedì
Ferie: un mese tra gennaio e febbraio. Una settimana a luglio

Pozzuoli, Osteria Abraxas

7 dicembre 2009

Nando Salemme è un caro amico, un ragazzone che a guardarlo bene ogni giorno va assomigliando più ad un intellettuale rivoluzionario degli anni settanta piuttosto che ad un giovanotto mio coetaneo di questi tempi. Ci lega un legame d’amicizia sincero, appena possiamo ci cerchiamo, ci riuniamo, ci confrontiamo per dare sostegno alle idee, agli ideali, alle intuizioni.

Pozzuoli, Abraxas. L'ingresso di una volta.

Abbiamo iniziato i nostri progetti paralleli (che però spessissimo si sono incrociati) diversi anni orsono, io con Lilly a L’Arcante e lui con la moglie Vanna al Wine Bar, con gli anni divenuta una delle poche Osterie sul territorio meritevoli di questo nome; un po’ per seguire un sogno, un po’ per liberarsi dai quei freni inibitori che spesso hanno caratterizzato la ristorazione flegrea con personaggi “vecchi” ed atavici assertori dell’ovvio, spesso sconfortando il talento di molte delle giovani leve.

Veniamo al dunque: l’Abraxas è situato in un luogo da cartolina, incastonato nella collina che sovrasta il Lago Fusaro da un lato, il lago d’Averno dall’altro, lungo via Scalandrone, spartiacque naturale tra i comuni di Pozzuoli e Bacoli.

Il locale è completamente rivestito di pietre di tufo incastonate a mò di reticolatum con sovrapposizione di mattoni e capitelli stile romano; le tre sale sono disposte una al piano terra, piccola, calda, che guarda a vista il banco dei formaggi e salumi mentre su per le scale c’è l’altra sala, con la fornitissima cantina a vista ed un piccolo dehor che in estate diviene un accogliente gazebo che si apre sul bellissimo giardino, curato (con che fatica!!), ricco di fiori e piccoli ceppi di vite falanghina sparsi qua e là che s’inerpicano su per il tetto.

Pozzuoli, Abraxas. Panorama.

La cucina è affidata nelle mani sapienti del giovane chef  Tommasino Di Meo, ma Nando è sempre lì a supervisionare, non ama interferire, ma le mani in pasta significano tanto per lui: le verdure, le carni, gli ortaggi, le conserve, le paste e molti altri prodotti sono tutti tracciabili e soprattutto hanno tutti una faccia, un nome e cognome: qui nulla è scontato.

Il menu non è ampissimo, ma la proposta è convincente ed adeguata al locale e poi l’intelligenza di non strafare gli sta concedendo tempo e modo di una crescita che negli ultimi dieci anni è stata concessa solo a pochi qui nei Campi Flegrei, del resto non è assolutamente vero che la cucina flegrea è scontata, quasi sempre lo sono gli interpreti! Piccoli assaggi di una superlativa verza con salsicce e castagne, morbide crepes con fonduta di formaggio e crema di noci, la parmigiana di patate, il tortino con bieta e formaggio, la polenta con salsiccia e provolone del Monaco.

Anche i primi piatti sono ricchi, saporiti, presentati bene: fiocchetti di pasta fresca con zucca e noci, tortino di riso con carne e funghi, gnocchi con crema di cavoli e finocchio. Ampia e curata la proposta dei secondi di carne, coniglio in porchetta, filetto di maiale con battuto alle erbe, entrecote di angus alla brace, poi ancora in carta la selezione di formaggi variamente assortita che non delude mai. Anche i dolci sono fatti in casa: abbiamo gustato un delicatissimo flan al cioccolato. Spesso si ospitano serate a tema con le varie associazioni presenti sul territorio, diverse con Slow Food ma anche con piccoli e grandi produttori di vino; il conto non supera quasi mai i 35 euro vini esclusi.

Nando Salemme

Nota del 19 Marzo 2010. Ci sediamo alla tavola di Nando e Vanna di venerdì sera, è la mia prima festa del papà, sarà banale, ma un po’ ci tenevo a trascorrerla in perfetta armonia con la mia famiglia. Così è stato, proprio una bella serata. Chiediamo, visto che siamo in quaresima, di evitarci portate con carni: si sussegono così deliziosi assaggi di antipasti giocati su verdure ed ortaggi, freschissimi. Stufati, Parmigiana di melanzane, millefoglie, poi la girella di pasta in salsa di noci e gorgonzola, che si merita quantomeno il riassaggio.

Scegliamo poi dalla carta un primo piatto dal profumo evocativo, Caserecce con friarielli e baccalà, sapori decisi ma ben equilibrati, aromaticità, grassezza e succulenza da baciare il palato, finale piacevolmente sapido che il Greco di Tufo 2007 di Peppino Di Prisco, devo dire, spalleggia alla grande. Affoghiamo la tristezza di non poter convenire con il Maialino cotto lungamente a bassa temperatura nell’ampia selezione di formaggi, serviti con miele e confettura di mandarino: su tutti una stupenda Toma di Podolica ed un Maiorchino sapidissimo, ed un piacevolissimo Taurasi ’05 di Contrade di Taurasi. E poi? E poi la zeppola di S. Giuseppe, se no che festa del papà è!

Pozzuoli, a casa di mia suocera

6 dicembre 2009

Girovagando su internet ho scovato un interessante “manuale della buona suocera”; un almanacco a tratti esilarante, soprattutto per chi come me di certi problemi non ne ha mai avuti. Piuttosto, pescando poi tra i vecchi appunti di gola non ho resistito alla tentazione di riproporre suqueste pagine una vecchia, assai anomala, recensione: a casa di mia suocera. Non è, evidentemente, un ristorante, seppur potrebbe tranquillamente esserlo vista la fantasia che si innesca quando si decide il nome di un nuovo locale.
 
Pozzuoli, 10 Maggio 2008. Mangiare alla tavola di Partorina, questo il nome della diletta suocera è sempre un gran piacere, spesso sono ospite la domenica quando va in scena tutta l’opera tradizional-popolare della cucina flegrea-napoletana tramandata di madre in figlia da diverse generazioni. La casa è sempre affollata, figli e figlie di dimora ancora stabile e figli, figlie, generi e nuore prole dipendenti con un solo indirizzo sul loro navigatore satellitare settimanale: via Cicerone 29.

L’ambiente è semplice ma ben curato, i colori sono chiari e sovrapposti, mia suocera poi ama il verde fresco delle piante rampicanti che circondano il soffitto della sala da pranzo. Qui la tavola in certi giorni fatica ad essere accomodante per tutti ma regge sempre bene l’arrangiamento del momento, il servizio è semplice ma magnanimo. L’appetizer di benvenuto per taluni sono finocchi freschi all’insalata, per noi altri, di palato meno fine, crostini con zucchine arrosto sott’olio, con i quali decidiamo di “avvinare” con un Fiano di Avellino 2007 Colli di Lapio di Clelia Romano. La tradizione di casa vuole che s’inizi sempre con il primo, oggi sono Penne a rigatoni con ragu’ di tracchiolelle e polpettone, quest’ ultimo fungerà poi da primo secondo per i più piccoli e capricciosi degli avventori; primo contorno consigliato: involtini di melanzane fritte con provola affumicata.

Nel frattempo nei calici abbiamo già versato un rosso austero. Scegliamo di verificare le qualità della nuova sottozona Campi Taurasini del fido Salvatore Molettieri: un aglianico, il Cinque Querce 2005, profumato, intenso e di nerbo; opportuno però riassaggiarlo tra qualche mese per verificare le buone impressioni.Il secondo proposto è coniglio alla ciglianese, con la salsa di pomodorini tirata proprio come piace a me e, a làtere, friarielli verdi fritti in olio e peperoncino, chi opìna può sempre ripiegare su di una parmigiana di melanzane in versione “egg-free” (senz’uovo!) e carciofini impanati: ditemi voi se questo non è un gran piacere!! Chiudiamo con una Barbera d’Asti Chersì, azienda Ca’Bianca di Alice Belcolle, Piemonte, un rosso che amo particolarmente e che continua a stupirmi anno dopo anno sempre di più. Il predessert è un freschissimo sorbetto al limone e menta piperita preparato da Lilly, chiudiamo come sempre di domenica con piccoli pasticcini bignè e codine d’aragosta con panna e cioccolato. Io qui c’ho il contratto per due anni, naturalmente rinnovabili!