Archive for the ‘in ITALIA’ Category
20 dicembre 2013
Altro ‘porto sicuro’ per gli appassionati è Il Repertorio di Gerardo Giuratrabocchetti, ormai a pieno titolo tra i grandi classici vulturini.

Torno con grande piacere a scrivere di Cantine del Notaio folgorato da questo 2010 davvero impeccabile, di grande piacevolezza ma anche ricco di complessità e profondità.
Se le annate passate sembravano avere bisogno di un po’ più di tempo per sbocciare e rivelarsi a pieno, qui tutto appare molto chiaro e godibile sin da ora e con significativo equilibrio.
È un rosso di considerevole vitalità già al naso, dove emerge perentorio il varietale in tutta la sua franchezza: sa di prugna e amarena, con rimandi balsamici che si fanno poi di succosa liquirizia; quindi, in bocca, si allunga conciso e saporito ad ogni sorso.
Incanta questo aglianico, ha struttura ma anche armonia, figlio di un’annata buona ma non indimenticabile pare invece baciato dalla sapiente interpretazione che vive, è proprio caso di dirlo, dell’esperienza ormai quasi ventennale del connubio Giuratrabocchetti-Moio.
© L’Arcante – riproduzione riservata
Tag:aglianico, aglianico del vulture, basilicata, cantine del notaio, giuratrabocchetti, il repertorio, luigi moio
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18 dicembre 2013
I primi ricordi vanno a dodici/tredici anni fa, alle prime scorribande là a Barile alla scoperta di un piccolo nuovo produttore, Michele Cutolo¤ (Basilisco) e il desiderio di camminarci assieme le vigne di questa straordinaria terra.

Memorabile fu poi un pranzo alla Locanda del Palazzo¤, il luogo dei sogni, il ritorno a casa di Lucia e Rino Botte dove ci siamo tornati molto volentieri più volte negli anni a seguire. La scusa era sempre la stessa, stare là davanti a quello spettacolo naturale della Via delle Cantine¤ e andar per vigne con gente vera, autentica come i loro vini nerboruti, schietti, saporiti. Bellissimo!
Dai Paternoster ci siamo stati più volte, alla cantina storica proprio nel cuore del centro città e quella nuova, imponente, moderna di Podere Villa Rotondo in Contrada Valle del Titolo. Una famiglia che ha contribuito tantissimo alla crescita della denominazione grazie a capolavori come il Don Anselmo ma anche e soprattutto con vini come questo Synthesi 2009 capace di conquistare già al primo sorso.
Rosso dal bel colore rubino vivo, salta subito al naso tutta la matrice vulcanica, poi il frutto, poi ancora rimandi balsamici e terragni. Il sorso è delizioso, l’ingresso è asciutto ma non incalzante, pieno di buona materia ma non pomposo, anzi, ha una bella anima sottile e sapida. Un vero campione!
Tag:aglianico del vulture, barile, basilisco, contrada valle del titolo, lucia botte, michele cutolo, paternoster, rino botte, synthesi, villa rotondo
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10 dicembre 2013
Si corre sempre il rischio di un po’ di riverenza al cospetto di una denominazione di un certo spessore, la giovane sfrontatezza di questa bottiglia poi non aiuta certo a ridimensionare la questione.

Tant’è che il La Serra di Davide Rosso val più del rischio (tutto da verificare) di una lavata di testa: l’ho trovato di gran lunga il miglior Barolo saggiato quest’anno, fitto, avvenente, ossuto, carezzato da un manico lesto ma assai morigerato, che gli dà fascino e avvenenza, che lo esalta ma senza forzarne la misura. Ha un’impronta maledettamente moderna, dinamica, questione questa sempre difficile da riuscire a coniugare con giustezza con un vino così antico e prezioso come il Barolo. Insomma la standing ovation è appena dietro l’angolo.
Nel bicchiere un rosso un po’ più carnoso e verticale del crudo e risentito Cerretta stessa annata, almeno a berli oggi, che impressiona in particolar modo per il notevole slancio olfattivo tutto giocato su sentori varietali di una nettezza formidabile – con quei frutti neri e quel lampone pare appena spremuto -; e stupisce anche la giustezza del sorso, certo giovane, giovanissimo ma polputo e teso che si allarga succoso e tannico sul palato come solo i grandi vini di Serralunga sanno essere. Interessante stargli dietro, diciamo così, nei prossimi 20 anni…
Tag:barolo, cemento, Cerretta, Cru barolo, Davide rosso, Giovanni rosso, la serra, nebbiolo, quality wines, serralunga d'alba, vigna rifonda
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8 dicembre 2013
Se tanto¤ mi da tanto anche questo qui avrà vita lunga. Torno sempre con un certo piacere ai vini di Querciabella, azienda di cui si parla sempre troppo poco nonostante negli ultimi 20 anni abbia fatto da apripista prima alle produzioni biologiche, poi a quelle ‘naturali’ sino a divenire un riferimento in Italia per la biodinamica.

Batteria davvero interessante quella presentata a Milano per la bella serata messa su da Quality Wines al N’Ombra de Vin¤ lo scorso novembre. Fra tutti mi è molto piaciuto il Camartina 2008, un rosso carnoso e di grande piacevolezza, dal naso slanciato, intriso di frutto e dal sorso importante, carico di materia fine e ben espressa, in perfetto stato di grazia: i tannini risultano ben fusi, l’alcol mai invadente, col frutto che ritorna succoso e dolce sul finale di bocca.
Tag:cabernet sauvignon, camartina, degustazioni, milano, n'ombra de vin, quality wines, querciabella, ruffoli, sangiovese, supertuscan
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21 novembre 2013
Il numero uno, non v’è dubbio. Il numero uno che si lancia nella sfida del tempo e un po’ anche a se stesso. Giulio Ferrari, la Riserva del Fondatore¤, la famiglia Lunelli, il Trentodoc, il metodo classico italiano che portano il cuore oltre l’ostacolo.

Mai un vino italiano aveva osato sfidare il tempo in maniera così sfrontata. E forse mai sarebbe accaduto se Mauro Lunelli dinanzi a quell’annata così formidabile come quella del ’95 non avesse pensato (bene) di mettere via queste 1500 bottiglie, così, tanto per capire se oltre i soliti 7/8 anni di sosta in bottiglia – poi diventati via via 10, in ultimo 11, ndr – si potesse ottenere dal Giulio¤ qualcosina in più.
Dicono, i fratelli Gino e Franco, che di questa ‘pensata’ di Mauro non ne sapevano nulla. E Franco lo giura con lo slancio piccato e sornione che da sempre lo contraddistingue: lui, ragioniere e contabile dell’azienda, non nasconde che se l’avesse saputo a quel tempo sarebbe andato su tutte le furie visto che proprio in quegli anni la Riserva del Fondatore prendeva sempre più mercato e non si riusciva a stargli dietro perché, ahilui, mancava puntualmente.

Vaglielo a spiegare 18 anni dopo il segno che lascia questo vino oggi nella storia del vino italiano. Ma invero Franco lo sa, sa bene chi e cosa rappresentano oggi lui e la famiglia Lunelli¤ in Italia e nel mondo; e sa bene che tutto il lustro di cui godono se lo sono guadagnato anche grazie a scelte importanti, coraggiose, lungimiranti come quella fatta da Mauro quell’anno. Chapeau!
Il Collezione 1995? E’ quello scatto in avanti che ti aspetti da uno dei più grandi vini italiani. Pensatelo così, non semplicemente un Trentodoc o uno spumante, il Giulio Ferrari non lo è mai stato per la verità, tant’è che questo ha tutto per essere la Pietra Miliare dell’evoluzione massima dello chardonnay di quel pezzo di terra così unico di Maso Pianizza¤, l’espressione italiana più alta del cosiddetto terroir tanto caro ai cugini d’oltralpe. Altro riferimento questo non buttato lì a caso: se al Dom Perignon viene concesso di sfidare il tempo con l’oenoteque al Giulio viene naturale, a quanto pare, farlo con questo straordinario vino!

18 anni dicevamo, sboccato a febbraio 2012 e solo adesso sul mercato. Il colore è di un giallo oro intenso, ricco e luminoso. La spuma è densa e cremosa, le bollicine finissime. Il naso non ha la pungenza del Giulio¤ a cui siamo abituati e questo è un primo segnale di compostezza ed equilibrio di cui dobbiamo sempre tener conto da qui in avanti, tant’è che oltre a stapparlo tranquillamente qualche minuto prima di servirlo consiglio anche di caraffarlo, pur potendolo rinfrescare in acqua e ghiaccio di tanto in tanto.
Il naso è ampio e vivace, sentori e riconoscimenti si avvicendano lievi e fini, accenni di humus e mandorla tostata e agrumi canditi, su tutti una dolcissima nota di mela confit sul finale. Ma è in bocca che conquista: il sorso è lungo, ampio, cremoso come solo i migliori chardonnay d’annata (di Borgogna) sanno essere. Ecco, magari sarò sfrontato anch’io, ma in attesa di un’altro Giulio Collezione cui rifarsi viene difficile paragonare il quadro organolettico di questo vino, l’integrità della sostanza, la sua profondità ad altre ‘bollicine’ in circolazione. Unico, verrebbe da dire.
Tag:angelo di costanzo, chardonnay, f.lli lunelli, giulio, giulio ferrari riserva del fondatore 1995, larte, milano, trentino, trentodoc
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19 novembre 2013
E’ indubbio che Angelo Gaja¤ e i suoi vini¤ dividano da sempre appassionati e critica. I primi, pur sedotti dalla bontà dei suoi vini si vedono tagliati fuori da un consumo per così dire abituale per una precisa collocazione sul mercato delle sue splendide bottiglie¤ in una fascia decisamente alta per le disponibilità di molti.

Una scelta ben precisa che da sempre contribuisce ad alimentare il mito e a farne oggetto del desiderio ma allo stesso tempo, quasi come un contrappasso, a tenerle sempre sulla graticola del ‘sì buono, ma caro’¤. Così la critica si divide da sempre, soprattutto quella più smaliziata ed ‘esperta’; invero anche per tante altre questioni, leggi tipicità, tradizione, punti di vista ecc… che lo stesso Angelo non ha mai lesinato ad alimentare a suo modo (con astuzia) nonostante certe scelte, alcune sue iniziative, posizioni, pur se talvolta di profonda rottura, potessero essere ben comprese se non anche condivise da altri.
Tant’è Gaja, e Angelo Gaja in quanto personalità davvero unica nel suo genere sono a pieno titolo nella storia del vino italiano e questo nessuno potrà mai metterlo in discussione, nessuno.
Sorì Tildìn 1990 è stato uno degli ultimi cru di Barbaresco uscito dalla cantina di via Torino prima della decisione di abbandonare la docg, col 1996, con i Sorì e il Costa Russi. Decisione che suscitò non poco clamore, soprattutto per la montante paura di una invasione dei cosiddetti vitigni internazionali anche in Langa. Scelta che fu presa, stando a quanto ci consegna la storia oggi, per consentire l’utilizzo di un 5/6% di barbera nei Barbaresco (e Barolo) così da attenuare l’importante acidità del nebbiolo di quelle terre.
L’assaggio di questo ’90 è di quelli memorabili, uno dei migliori vini mai avuti nel bicchiere: vivo, sfrontato, infinito. 23 anni dopo non c’è schema che tenga e non c’è appiglio cui fare ricorso. Grande. Certo quel maledetto tappo ci ha dato non pochi grattacapi ma alla fine ne vien fuori un’occasione di quelle che mai prima.
Il colore è maturo ma perfetto, rubino appena aranciato sull’unghia del vino nel bicchiere, luminoso e trasparente. Il ventaglio olfattivo è ammaliante, l’incipit è impressionante: subito speziato, vien fuori ricco e variegato; tenerlo in caraffa, lungamente, gli dona una vivacità incredibile, ad ogni passaggio vira continuamente dal varietale all’emozionale, ritorna preciso sui frutti di neri ad ogni sorso, alla prugna e poi al tabacco, china, rabarbaro mentre in bocca è ancora teso, finissimo, ampio, avvolgente ma teso, in perfetto stato di grazia. Pura emozione.
Tag:100/100, angelo gaja, barbaresco, barbera, big picture, gaja, nebbiolo, piemonte, sorì tildìn, vecchie annate
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18 novembre 2013
Il Messorio di Le Macchiole, 100% Merlot di Bolgheri, viene lanciato spedito sin da subito nell’olimpo dei grandi vini italiani con un percorso quasi netto tra le varie maglie della critica prima italiana poi internazionale; una grandeur ogni anno più ridondante che ha raggiunto il suo apice massimo col 2008 premiato da Parker – udite udite – con ben 100/100.

Bella esperienza bere oggi il Messorio 1999*, con quasi quindici anni sul groppone appare ancora in tutto il suo splendore. il vino è tutto merlot, a quel tempo della vigna Puntone, piantata nel 1993 (Vignone arriverà solo nel ’99), con 18 mesi spesi in rovere francese. Tre lustri dopo arriva nel bicchiere un vino dal colore rubino maturo ma ancora pieno ed invitante. Il naso ha bisogno del suo tempo, ha da stare in caraffa e fare i suoi bei giri nel calice, necessita di attenzione e della calma dei forti. Nitidi i sentori di china e caffè, poi liquirizia, more confettate, amarena sottospirito e tutta una serie di nuances terragne e tabaccose; il sorso è ben espresso, possente ma preciso, caldo e fitto, teso e lungo, un merlottone con ancora il giusto piglio e la profondità utile per guardare avanti col petto in fuori.
Non ne farei l’assaggio dell’anno ma quando si stappano certe bottiglie ad anticiparle c’è tutta una serie di deja-vù e luoghi comuni sempre un tantino complicati da soppesare con giustezza. Ecco perché la sfrontata bellezza di questo assaggio ha un sapore ancor più pregnante.
*98/100 per Parker, Tre Bicchieri Gambero Rosso, 17/20 L’Espresso.
Tag:big picture, bolgheri, le macchiole, merlot, messorio, super tuscan, toscana
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17 novembre 2013
Il Futuro de Il Colombaio di Cencio nei suoi primi 5/6 anni di vita li stracciava tutti i SuperTuscans provenienti dal Chianti Classico: dal ’95 una sequenza incredibile di lodi et amo da ogniddove ne accompagnò l’ascesa sul mercato senza se e senza ma.

E’ una sortita un po’ così così per questa bottiglia di Il Futuro 2000. L’azienda è di Gaiole in Chianti – vicino al Castello di Brolio -, fu fondata nei primi anni ’90 da Werner Wilhelm, imprenditore di Monaco di Baviera sceso in Toscana nei primi anni ’90 col pallino di fare grandi vini; il marchio Wilhelm fu parecchio on the wave per almeno un decennio in quegli anni.
Un rosso, Il Futuro, da sangiovese, cabernet sauvignon e merlot, che matura generalmente in barriques per 24 mesi e poi ancora in bottiglia per almeno un’altro anno. Gli almanacchi dell’epoca consegnano annate memorabili (’95*, ’97*, ’99*) e qualcuna un poco meno; questa duemila sembrerebbe, col senno di poi decisamente tra le seconde. Sin dal colore appare poco brillante e con poco slancio: ha profumi risolti e un sorso sopito, senza guizzi, vellutato e morbido.
Non lo bevevo da tempo, non che avessi memoria di assaggi mirabolanti ma finire così risoluto con quel Pedigree mi pare davvero un peccato. E’ proprio il caso di dire che il tempo non gli è stato granché galantuomo.
*Tre Bicchieri Gambero Rosso
Tag:cabernet sauvignon, chianti classico, gaiole in chianti, il colombaio di cencio, il futuro, merlot, sangiovese, supertuscan, werner wilhelm, wilhelm
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12 novembre 2013

Il nero di Troia è uno di quei vini che mi dà sempre piacevoli sensazioni e continuo a pensare sia vittima di un equivoco storico che l’ha relegato troppo spesso a fare da controfigura al primitivo. Quando ben interpretato invece e tenuto conto con coscienza dei limiti della varietà che pur ci sono riesce a dare vini di valore assoluto, non necessariamente da lungo invecchiamento e, come in questo caso, particolari e a dir poco sorprendenti.
Non conosco molto dell’azienda di Michele Biancardi, Vigne Daune¤ di Cerignola, in Contrada Viro, ma quando Giulio¤ mi ha fatto dono di questa bottiglia ero certo che mi stesse regalando una bella opportunità di scoprire qualcosa di nuovo ed interessante. E così è stato, mi pare.
Mille Ceppi 2011 viene affinato esclusivamente in anfore di terracotta, passaggio questo che riesce a contenere in maniera sublime tutta la sua verve esaltandone frutto e freschezza gustativa. Il colore è di uno splendido viola con accenni porpora, imperscrutabile. Naso classicheggiante che sa di viola e frutti neri macerati, mirtillo e amarena anzitutto, ed accenni balsamici in sottofondo. Ma è il frutto a rimanere costantemente in primo piano, croccante, integro e polposo anche in bocca, qui la beva è esemplare, scorrevole e ben viva sorso dopo sorso grazie anche a un tannino minuto e preciso. Gran-bella-scoperta.
Tag:angolo divino, big picture, Cerignola, Giulio cantatore, michele biancardi, mille ceppi, nero di troia, puglia wines
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4 novembre 2013

In generale l’annata 2011 è andata un po’ così così, fatte salve alcune belle bevute regalateci solo dai migliori in zona. Vini però comunque snelli, di grande godibilità e caratterizzati da una matrice organolettica abbastanza omogenea. Certo si sa che il greco non è il fiano e quando il millesimo non lo bacia proprio in fronte qualche accenno di perdenza viene naturale. D’altronde il greco di Tufo è sempre stato, più del fiano, un vino ‘di pancia’, di quelli cioè senza starci a girare intorno più di tanto: o è o non è.
Meno male che Montefusco non è Santa Paolina, giusto per citarne uno degli altri 7 comuni ammessi alla docg, dove pare si sia sofferto un po’ meno le bizze climatiche di quell’anno. E che Mastroberardino¤ è sempre Mastroberardino¤. Così Massimo Di Renzo¤, forte dell’ormai decennale esperienza nell’areale, c’ha regalato un’interpretazione ‘classica’ e molto molto piacevole. Colore paglierino, di buona luminosità, dal naso di mela bianca e pera appena matura, dal timbro vivace e fugace. Sorso sottile ma abbastanza lungo, sapido e minerale a tutto spiano che pare declinare alla perfezione gli abbinamenti più classici della cucina napoletana, penso alle ricche insalate di mare ma anche quegli indimenticabili piatti di alici e fragagli fritti aggiustati con sale e pepe.
Tag:bianchi campani, big picture, greco di tufo, massimo di renzo, mastroberardino, novaserra, piero mastroberardino, wines
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2 settembre 2013
Capita di svegliarsi al mattino con un motivetto nelle orecchie. Capita che accendi la tv e la prima cosa che ti appare è la scena madre del Titanic. E quando metti mano alla correzione della carta dei vini vai a levar via ancora due tre gioielli dalla tua collezione. Ci pensi un po’ su e ti vengono in mente tre parole…

Lungo. E’ l’amplesso del manuale del sommelier. E’ la ragione di vita di chi scrive di vino, soprattutto di chi scrive di vino. Un rosso dal finale lungo è un po’ come ritrovarsi dinanzi alla scena dell’affondamento del Titanic¤: panico ovunque, l’orchestra che suona, la speranza che i soccorsi arrivino in tempo nonostante sia già tutto scritto da quasi cent’anni.
Non mi piacciono i vini ‘lunghi’ se monocordi e avvitati su se stessi. La confettura e l’alcol non sono poi tutto sto gran piacere. Mi fa impazzire invece un Riserva Ducale Oro 1985 di Ruffino che lo tieni nel bicchiere e che per almeno due ore ti manda al manicomio coi riconoscimenti e i sentori. E che sorso dopo sorso si distende, si allunga ogni volta dippiù e in maniera diversa. Una straordinaria esperienza pei sensi, un grandissimo esempio di come da quelle parti si sia persa la retta via da molto tempo.
Corto. E’ una parola che nel linguaggio comune dei degustatori seriali viene considerata con accezione negativa se non con vero e proprio senso spregiativo. Non è mica sempre così, o almeno non tutte le volte. Se bevo un Brunello di Montalcino oppure un Taurasi di chicchessia giusto per fare due nomi e mi viene da dire ‘corto’ allora val bene discuterne. Ma dinanzi a un rosato ma anche a un bianco d’annata, senza particolari velleità, quella stessa parola andrebbe soppesata e ben interpretata. O spiegata meglio.
Così non mi preoccupa affatto se il Rosalice 2012 di Felicia¤ è un vino che qualcuno potrebbe intendere ‘corto’. Anzi, siamo sicuri che certi vini debbono avere proprio tutto? Quel colore rosa appena sussurrato e quel bouquet tanto poco ruffiano mi è piaciuto molto, assolutamente fuori dal coro, ed il fatto che in bocca terminasse fresco e sapido e basta non mi ha particolarmente allarmato. Non è che sta proprio qui il successo dei rosè provenzali?
Pacioccone. Prometto di ritornarci su con maggiore cognizione. Di solito lo faccio dopo averci camminato le vigne, bevuto i vini coi produttori che è possibile incontrare, giusto per non dire cose campate in aria. Bolgheri non è più la El Dorado toscana, mi pare e i vini bolgheresi vanno mutando in cerca di una più precisa identità che non sia solo piaciona e confettata. In effetti basterebbe stappare qualche bottiglia di Sassicaia 2002 oppure Ornellaia 2000 per rendersi conto che i riferimenti ci sono sempre stati e che magari andavano studiati bene anziché copiaincollare a cazzo di cane. Due belle bevute di cui è superfluo tirare le fila ma che val bene ribadire a dieci anni e più dalla vendemmia. E non mi si venga più a dire che il duemiladue è stata un’annata disastrosa!
Liberamente ispirato a ‘Il Lungo, il Corto e il Pacioccone¤ – ©Zecchino d’Oro 1968.
Tag:il corto, il lungo, il pacioccone, ornellaia, provenza, riserva ducale oro, rosalice, rosato, ruffino, sassicaia, titanic, toscana, tre parole, zecchino d'oro
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24 agosto 2013
Parlando di Franciacorta credo indispensabile cominciare a parlare un po’ più anche di uve, vigne, uomini e specificità dei vini anziché quasi esclusivamente di un marchio e di quanto questi riesca nel ‘garantire’ qualità a prescindere.

In giro c’è sempre più Franciacorta¤, a dispetto del blasone e del successo dei grandi competitors internazionali – Champagne su tutti -, ma non si può non rilevare quanto ancora ci sia da fare da quelle parti per rendere a pieno l’idea di cosa si sta parlando quando si racconta un loro vino.
Certo che aziende di qualità non mancano ad agevolarti il compito; famiglie come i Zanella o i Moretti ad esempio, o prima ancora i Berlucchi e i Ziliani hanno contribuito e contribuiscono non poco ad alzare l’asticella. Così oggi marchi come Ca’ del Bosco¤, Bellavista¤, Fratelli e Guido Berlucchi piuttosto che Uberti e Cavalleri¤, giusto per citarne i primi che mi vengono in mente, fanno da traino a tutto il comparto e sono indiscutibilmente sinonimo di eccellenza.
Molti di questi fanno capo a quella schiera di imprenditori sbarcati in Franciacorta a metà anni ’70 per fare impresa in cerca di vigneti nuovi o da rimodernare; avevano idee molto chiare, ispirate ma soprattutto mezzi a sufficienza per partire ed affermarsi. E per fare questo chiamarono sin da subito enologi e specialisti del settore capaci di valorizzare quello che sino ad allora era un buon prodotto, il Pinot di Franciacorta, nato da una sana tradizione ma certamente migliorabile. Proprio in quegli anni lo chardonnay si affrancò dal pinot bianco divenendo ben presto egemone.
Un gran lavoro che nel Collezione Grandi Cru 2007 della famiglia Cavalleri ci sta tutto. Fosse coperto, servito così alla cieca dico, la mente andrebbe immediatamente da qualche parte là in Cote des Blancs. Provate a farlo, e a smentirmi. Non so se è un vezzo o un vanto ma di certo tra i tanti francesismi in giro il continuo riferimento che questa azienda fa con le sue cuvée alla patria degli Champagne non mi pare affatto azzardato: bottiglie alla mano ci vuole poco o niente a confondersi, a riconoscerne tutta la bontà espressiva. E questa etichetta – cercatela, provatela, non ve ne pentirete! -, saprà spiegarsi meglio di tante note colorite cui possa fare ricorso io oggi nel segnalarvelo. E’ buono, buono, buono!
credits http://www.franciacorta.net
Tag:bellavista, ca' del bosco, cavalleri, chardonnay, franciacorta, giovanni cavalleri, maurizio zanella, pinot bianco, pinot di franciacorta, vittorio moretti
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11 agosto 2013
Negli ultimi anni la crescita qualitativa degli spumanti italiani¤, dai Franciacorta¤ agli stessi Trentodoc in giù, è esponenziale e viene difficile farla passare inosservata persino ai francesi. Non mancano esempi¤ di distinzione un po’ ovunque ma il Giulio Ferrari¤ rappresenta a pieno titolo l’essenza stessa di tutte queste eccellenze.
Il 2001 è meno ridondante rispetto alle precedenti annate qui¤ raccontate, ma molto probabilmente è solo una questione di tempo. E’ ancora tutto proteso in verticale. Pare difficile spiegarlo con altre parole – a qualcuno sembrerà una forzatura – ma è un vino ancora ‘giovane’ nonostante i suoi 12 anni.
Te ne accorgi soprattutto dal sorso: teso, assai fresco, lungo. Il corredo aromatico è sempre di grandissima levatura, invitante, suggestivo, dipinto da una sovrapposizione di tante piccole sfumature che si rincorrono di continuo. Nel bicchiere c’è tanta materia, una tessitura fine e precisa che non mancherà di regalare bei momenti per molti anni a venire.
Anche per questo non mi sorprende più di tanto quanto sia ogni volta emozionante tornare pure sul 1994¤. Conta poco aggiungere altro alle note già descritte qui ma quello che vale la pena ripetere fino alla noia è quanto questo vino continui ad attraversare il tempo con disinvoltura senza soffrirne più di tanto il peso degli anni. Certo è evoluto, ma è incredibile la sua progressione gustativa e quel ventaglio di sentori che va lentamente aprendosi sino a dolci note di miele, mandorle tostate e frutta candita e di zenzero. Un vino da meditazione, per dirla con poche parole.
Tag:cantine ferrari, chardonnay, franciacorta, giulio ferrari, riserva del fondatore, spumanti italiani, trentodoc
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4 agosto 2013
E’ un’uva venuta da ‘fuori’, a quanto pare introdotta sull’isola più o meno verso la metà dell’800 per dare manforte al bianco isolano per antonomasia, la biancolella. Rendergli quel poco di spessore in più senza però appesantirne il corpo.
In Campania l’idea del monovarietale si sa, sui bianchi in primis, è cosa abbastanza recente. Del resto basta dare una occhiata alle più prestigiose denominazioni in regione per rendersene subito conto: qui la tradizione, la storia, quindi il legislatore, hanno sempre sostenuto gli uvaggi più che tendere a restringere il campo a vini prodotti da una sola uva. E bianchi come il fiano di Avellino, il greco di Tufo ma anche i migliori rossi campani, dal Taurasi al Falerno, per quanto questi vengano ben interpretati da ogni singolo produttore con solo l’aglianico o, come nel caso del Falerno col primitivo, alla base delle singole denominazioni di appartenenza si prevedono comunque uvaggi di due se non più varietà.
L’uv e l’isul come viene chiamata ad Ischia la forastera è una varietà molto sensibile, specialmente all’oidio e pure in cantina dà i suoi bei grattacapi: ‘è necessario gestire al meglio soprattutto le prime fasi di vinificazione – precisa Nicola Mazzella cui ho chiesto spiegazioni – per evitare di ritrovarsi in bottiglia un vino verde e poco espressivo’. ‘Dopo 13 vendemmie mi sembra di aver intrapreso la strada giusta: lavoriamo le uve praticamente sottovuoto (stoccaggio, pigiatura e fermentazioni avvengono a temperatura controllata, ndr) e ci teniamo, anche per questo che è il nostro vino base, solo il mosto fiore che rimane circa 30 giorni sulle fecce fini prima di finire in bottiglia per qualche mese’.
Nel bicchiere arriva un bianco molto ‘particolare’, di spiccata personalità ma assolutamente godibile. E’ bello il colore paglierino/verdognolo, luminosissimo, invitante; è particolare il naso che ad occhi chiusi pare riportare immediatamente a paesaggi luminosi e assolati, alle vigne su per le colline e alle parracine ischitane spazzate dalla brezza marina. E’ marcato da una sottile e gradevole pungenza, mi ricorda per certi versi un bianco altoatesino che a me piace molto, il kerner; come questo è assai minerale, a primo acchito quasi tagliente, che regala un sorso di incredibile autenticità, unico. In più però qua dentro c’è un bel pezzo di storia del Mediterraneo. Hai detto niente…
Tag:cantine mazzella, doc, docg, forastera, ischia, isola verde, nicola mazzella, parracine, vini da suoli vulcanici
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1 agosto 2013
Una bottiglia che ti rimette in pari con le tante aperte negli ultimi tempi di sangiovese ‘vintage’ rivelatesi chi più chi meno delle mezze delusioni (quando non vere e proprie ‘disgrazie’).
Mi sono avvicinato a questa bottiglia, va sottolineato, con fare spocchioso e prevenuto, magari anche per questo ci metto ancor più entusiasmo nel riportare la bella esperienza regalata da questo Nobile.
Mi è sempre piaciuto bazzicare da queste parti pur nella convinzione che forse proprio Montepulciano, il suo Nobile e con esso, per ricaduta, il Rosso siano vini un poco sottovalutati tra i beneamati toscani in giro; non so se ‘apprezzati’ in misura minore ma di sicuro meno di quanto meriterebbero.
A pensarci bene pare chiaro che non godono del sempiterno successo commerciale del Chianti, quale che sia la sua declinazione e non hanno vissuto – o almeno non ricordo – un vero e proprio boom come successo ad esempio negli anni sessanta per il Brunello, consacrato ormai all’altare dei migliori; nemmeno si può dire abbiano avuto l’exploit di Scansano e del Morellino o l’ascesa di certi bolgheresi. Il Vino Nobile è lì, praticamente da sempre, vivacchia, penso io.
Gli corro dietro da parecchio tempo a un sangiovese – non brunello – così. Poche, pochissime le bottiglie di dieci e più anni capaci di emozionarmi, lasciarmi un segno, sorprendermi fuori da Montalcino. E invece: Antica Chiusina ’98 è davvero ‘un capolavoro’ come riporta la pagina internet di Fattoria del Cerro. Là dentro, in quei bicchieri, c’era di tutto iersera, proprio tutto per farti pensare di stare dinanzi ad un piccolo miracolo, ad una bottiglia in perfetto stato di grazia, incredibile, capace di stravolgerti completamente i pensieri.
Un colore rubino bellissimo, perfettamente integro, addirittura con ancora riflessi porpora (!) sull’unghia del vino nel bicchiere, intenso, di rara profondità. Il quadro aromatico è imponente, un lento divenire con tutta la frutta rossa che ti viene in mente – ciliegia, amarena, ribes – ancora in primissimo piano, sospinta da una dolcissima verve balsamica. Il sorso è lineare, succoso, avvolgente, materico, manca forse appena un pelo di vivacità ma è piacevolissimo tornarci su e seguirne l’evoluzione nel bicchiere. Carte alla mano prometteva almeno 15 anni di buona conservazione. Promessa assolutamente mantenuta. Per me un grandissimo vino!
Tag:antica chiusina, colorino, fattoria del cerro, montepulciano, prugnolo gentile, sangiovese, siena, vino nobile di montepulciano
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15 luglio 2013
Che le bollicine in Italia tirino alla grande è ormai cosa risaputa. Si è generato tra l’altro un movimento trasversale che vede coinvolto a vario titolo un po’ tutto il territorio nazionale da nord a sud.
Bollicine d’autore, metodo classico di spessore affiancati qua e là da altri spumanti: da uve autoctone e non, Prosecco col fondo (o col tranello), rosé, dolci, vini ‘di facile beva’. Un mare di cose interessanti¤, qualcosa di veramente sorprendente¤, altre un po’ meno centrate ma comunque funzionali all’economia aziendale. E mentre ci si divide tra origine certa e presunta, tra chi lo Charmat ce l’ha più lungo o il Marone Cinzano con più o meno botto, il mio pensiero va sempre là dove fare spumante è diventato nel frattempo arte e cultura, tipo in Trentino¤ o in Franciacorta¤.
E proprio qui, in Franciacorta, ormai sono tante le aziende di riferimento, tra le quali non manca quella del cuore capace di rimettere sempre ordine ai pensieri.
Delle sboccature più recenti assaggiate ho colto tante belle conferme con una nota su tutte: è chiara una maggiore propensione alla produzione dei pas dosé quando non, più in generale, un costante ‘alleggerimento’ del dosaggio stesso delle cuvée, una tendenza benaugurante capace così di esaltare alla grande certe peculiarità laddove si lavora con un buon numero di sovrapposizioni, siano esse varietali che tecniche, come avviene, appunto, per produrre Franciacorta. E questa etichetta qua di Cavalleri¤ mi è parsa ancora una volta molto ben riuscita, direi appena una spanna sopra le altre.
Una cuvèe ottenuta assemblando vini da vigne tutte attorno ad Erbusco, cuore della docg, solo chardonnay che per il 65% viene dalla vendemmia 2009, 25% dalla 2008 ed il restante dalla 2007. Quasi tutto fermentato in acciaio con solo un 5% che fa botte grande di rovere e un 5% barrique vecchie.
Il risultato è un Blanc de Blancs brut – un francesismo mai improprio in casa Cavalleri¤, ndr – brillante, cremoso, pieno di verve. Il colore è di un paglierino maturo splendido e le bollicine richiamano carezze e finezza senza mai fine. Pulito il naso: chiaro, invitante, fragrante con tutte note fruttate e aromatiche che si rincorrono sino a divenire candite, soavi, addirittura di rimando a spezie orientali. Il sorso è franco, dritto, vibrante direi, lungo. Ha materia e si fa bere, vuole cibi ricchi e profumati, va che è un piacere a tutto pasto. Un riferimento imperdibile!
Tag:big picture, Blanc de Blancs, Brut Cavalleri, chardonnay, franciacorta, giovanni cavalleri, l'arcante, pas dosé, pinot nero, s.a., terre di franciacorta, trentino, trento doc
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13 luglio 2013
In giro si trovano ancora alcune vecchie annate di Vorberg che qualcuno dipinge di sovente ‘ancora in piena maturità espressiva’. Da quanta personalità vien fuori da un assaggio così ‘giovane’ come questo non v’è dubbio che c’è da credergli a mani basse…
E’ quel che si dice ‘un vino di montagna’ il Pinot Bianco Riserva Vorberg¤ di Terlan. Le uve provengono da una cernita in vigne che s’innalzano dai 350 metri sino ai quasi mille d’altitudine sopra il livello del mare. Il vino fermenta in botti di rovere grandi dove poi vi rimane circa un anno. Arriva così sul mercato a più o meno due anni dalla vendemmia.
L’impronta è tipicamente minerale con note addirittura iodate. Il 2010 offre però un corredo aromatico che pian piano si arricchisce anche di note fruttate e sentori di erbe aromatiche, un lento divenire, sussurrato quasi, estremamente piacevole. Il primo sorso è scarno, apparentemente perché si fa quasi subito baldanzoso e rinfrescante, balsamico; ha personalità e lunghezza, chiude asciutto e saporito. Interminabile.
Il pinot bianco (o Weißburgunder) dà generalmente vini non sempre amatissimi dal grande pubblico, talvolta un po’ troppo ‘verdi’, per non dire bruschi, asprigni quasi, ma il Vorberg – un riferimento per la tipologia quantomeno per i suoi 20 anni di produzione ormai prossimi, ndr – riesce a conquistare anche i palati meno avvezzi.
Tag:alto adige, kellerei terlan, pino bianco, pinot bianco riserva, terlan, vorberg, Weißburgunder, weissburgunder
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6 luglio 2013
Quante volte ve l’hanno detto che l’annata 2002 è stata piovosa e che i vini di quell’anno non sono un granché?. Quante volte l’avete sentito dire o letto in giro? Come pure che, nel 2003, al contrario, l’annata molto calda, caldissima ha dato vini tutti cotti dal sole buoni solo da spalmare sulle fette a colazione?

Ecco, come si dice: l’Italia è un paese di Santi, Navigatori e… grandi degustatori! Eppure il vino, certi vini come questo, sono capaci di metterci a nudo come più di una predica alla domenica in chiesa e a volte più di un temporale in piena estate.
Nulla da dire sulla piovosità del 2002, proprio io quell’anno compravo per la prima volta una Nuova Vespa che ho poi subito rivenduto ai primi di settembre: tanta acqua non l’ho mai più presa in vita mia. Però qua la differenza sta tutta nell’uva e in quella terra straordinaria che è il Vulture. Nemmeno tanto nel manico del produttore, a quel tempo Michele Cutolo aveva appena cominciato e stava pieno di impicci da sistemare. Credo tra l’altro non avesse ancora nemmeno la cantina là a Barile.
Ma che vino il Teodosio 2002! Vivo, polposo, disteso. Il colore è perfetto, sul rubino appena sfumato. Il naso è dapprima tabaccoso, poi viene fuori tutta la freschezza dell’aglianico, la dolcezza della ciliegia, il balsamico della liquirizia, l’erbaceo secco e piacevolmente pungente. Il sorso è netto, spogliato del tutto del tannino ma ben dritto, caldo e avvolgente, succoso e lungo, fine, piacevolissimo. E’ nato proprio quell’anno al posto del primo vino di Basilisco, non prodotto. Una bella e profonda esperienza.
Tag:2002, aglianico, aglianico del vulture, annata 2002, barile, basilicata, basilisco, michele cutolo, qualità dell'annata 2002, teodosio
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3 luglio 2013
Uno dei rosè più stuzzicanti di questa estate. Sa proprio di pepe rosa come il nome anticipa. Certo, col syrah si fanno vini molto più interessanti ma non sottovaluterei la riuscita di questo qui…

Invero non credo sia così diffuso qui in Italia, pare che l’azienda lo produca solo per alcuni importers americani che da qualche anno ne facevano pressante richiesta. Chissà.
Viene ottenuto per salasso dal mosto preparato per Il Bosco, il primo vino 100% syrah di Tenimenti d’Alessandro prodotto con l’uva delle vigne intorno Cortona. Cru che in genere viene ammostato in tini tronconici. Da qui, più o meno un 10-15% viene quasi subito passato in acciaio e lavorato alla stessa stregua di un bianco.
Ecco perché viene una delle cose più interessanti da fare col syrah, soprattutto in tempi come questi dove si assiste ad una drastica riduzione di richieste di vini robusti e muscolosi molto, a volte ancora troppo, ‘stile anni ‘90’. Il colore è tenue ma non per questo meno invitante, anzi; poi ha un naso che è un portento, intrigante di note floreali ed aromatiche, con un continuo rimando delizioso a spezie ed erbe officinali. Il sorso è sottile, bello fresco, molto piacevole e con un ritorno sul finale che sa proprio di pepe rosa. Appunto.
Tag:big picture, cortona, pepe rosa, rosè syrah, syrah il bosco, tenimenti luigi d'alessandro, toscana rosè wine
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1 luglio 2013
Io me li porterei sempre dietro prima di partire per una vacanza. Anche solo appuntati su di un foglietto. Pochi vini, giusto qualche etichetta che non riesco a fare a meno di segnalare come i vini di questa mia estate (di lavoro) 2013. A cominciare da qualche buon assaggio di rosati 2012…

Sono proprio questi¤ quelli da bere con semplicità, magari in compagnia e senza troppe fisime; quei vini capaci di sollazzare il palato, accompagnare a dovere quattro chiacchiere ed una cucina che in estate si alleggerisce parecchio senza però perdere il gusto della precisione e della territorialità.
Uno di quelli da mettere nero su bianco con una certa sottolineatura è il rosato di quest’anno di Marisa Cuomo e Andrea Ferraioli. Il loro Costa d’Amalfi 2012 è fine ed elegante, ha un naso avvincente di viola e di ciliegia; è secco, piacevolissimo, soave sul finale di bocca. E rimanendo da queste parti non male anche il rosato di Tenuta San Francesco, su a Tramonti, solo un poco più ‘carico’ e asciutto, con quel pizzicore amaro sulla chiusura di bocca.
Molto buoni continuano imperterriti ad essere il Negroamaro rosato di Rosa del Golfo, ormai una certezza assoluta per chi beve rosati da anni come pure il Chiaretto Rosamara di Costaripa. Là in Salento la formula è immutata: un vino schietto e verace con tutto il sapore dolce e croccante dei frutti rossi della bella stagione. Mattia Vezzola invece l’ha indovinata ancora una volta e il suo Chiaretto si può dire ormai a tutti gli effetti il vero antagonista ai classici provenzali: dal colore tenue, ha naso sottile ed intrigante intrecciato persino di aromi lievemente speziati ed un sapore avvenente e delicato, tanto da richiamare continuamente il sorso.
Poco più su, in Alto Adige – ne ho già scritto qualche tempo fa -, m’è parsa una bella scoperta La Rose 2012 di Manincor¤. Un vino dalle tante sfumature eppure essenziale e piacevolissimo. Sempre sugli scudi il Pinot Nero Rosé di Franz Haas, già al terzo anno di successi con la vendemmia 2012 e, da segnalare, la buona uscita del Lagrein Rosé 2012 di Terlan.
Ritornando ai ‘nostri’¤, qualche appunto in chiusura: Peppino Pagano, San Salvatore, ha tirato fuori un Vetere 2012 un po’ più alleggerito; sinceramente mi è piaciuto meno del 2011 (per non dire dello strepitoso 2010¤), va detto però che tiene bene la freschezza e la gradevolezza della beva. Tra i tanti altri campani mi riservo invece di dedicare più attenzione alle bevute del Vado Ceraso 2012 di Vestini Campagnano, del Pedirosa 2012 di Vincenzino Di Meo e, non ultimo, il Rosalice¤ 2012 di Maria Felicia Brini, ‘versione aglianico’ stavolta, di cui conservo ancora buoni ricordi sin dal suo esordio. Il loro primo assaggio mi è parso assai interessante, d’altronde l’estate è appena cominciata…
Tag:aglianico, alto adige, costaripa, estate rosa, la rose de manincor, negroamaro, piedirosso, pinot nero, rosamara, rosati d'Italia, vini rosè
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10 giugno 2013
Dario Cavallo mi è venuto a trovare. Di solito vale l’inverso, come è giusto che sia, però che piacere conoscerlo e scambiarci due chiacchiere.

Mi ha raccontato un po’ della sua terra, delle sue vigne, qualcuna parecchio vecchia, dei suoi vini. Dei primitivo anzitutto. Di MilleUna, l’azienda che conduce con il figlio là in Puglia, nel tarantino, ne avevo già letto in giro qualcosina: di solito certe buone notizie fanno il giro alla larga, ma poi arrivano.
E’ rosso poderoso il Tretarante 2009, di sfacciata consistenza e lunghezza. Il colore è praticamente impenetrabile, quasi inchiostro. Il naso sparge a ventaglio note molto invitanti di frutti neri e confettura di prugna, poi nuances di tabacco, caffè ed un piacevole rimando cioccolatoso. Il sorso è notevolmente caldo, balsamico, sinceramente appagante e rotondo, condito da una buona freschezza.
Un modo per goderne a pieno in questi giorni di afa – perché lo merita, credetemi – è giocare un po’ di fino abbassandone la temperatura di servizio di quel tanto che basta tenendolo una mezz’ora in frigo, giusto sino ai 14°. Così, il suo 18% in alcol viene di sentirlo ‘attenuato’ e la croccantezza del frutto diviene magistrale e godibilissima. Tutto il resto è un piacevolissimo danzare sul velluto.
Tag:2009, capri, capri palace, dario cavallo, milleuna, primitivo, primitivo del salento, puglia, salento, tretarante
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3 giugno 2013
Sono stato a Vitigno Italia¤ per un breve passaggio con degli amici. Della fiera in se mi viene da dire poco o niente; ci sono stato troppo poco tempo, a malapena un paio d’ore, ma certe cose si colgono a pelle. ’Il braccialetto? Il braccialetto! E il braccialetto?’ Oh, manco fossero ‘le farfalle’ di Cruciani!

C’è uno sforzo enorme per farlo sopravvivere questo Salone, va detto, ci sta anche bene. E’ pur sempre una valida opportunità per i napoletani di rimanere in contatto con uno spicchio di mercato nazionale. Come rimane suggestiva la location a Castel dell’Ovo seppur con le tante difficoltà operative che comporta.
Va sottolineato però che a distanza di quattro anni (dalla mia ultima fugace partecipazione) poco o nulla mi è parso cambiato in meglio. Dal cosiddetto servizio d’ordine – ahimé talvolta fin troppo sgarbato – ai problemi di sempre mai risolti: vini bianchi non proprio alla giusta temperatura, qualche espositore (assente al banco) in perenne ritardo, qualcun altro chiaramente poco interessato all’interlocutore di turno.
Qualche buon assaggio però me lo son portato dietro lo stesso. Meravigliosi due bianchi su tutti: il Vette di San Leonardo 2012¤, dell’omonima azienda di Avio, vicino a Trento e poi il Nussbaumer stessa annata di Tramin. Uno strepitoso sauvignon blanc il primo, di una vivacità olfattiva tanto coinvolgente quanto invitante: pesca bianca, frutto della passione e menta piperita, salvia e roccia calcarea. Niente pipì di gatto insomma. In bocca è secco e acidulo, rinfrescante e sapido. Di enorme bevibilità, piacerebbe persino a chi non ama per niente il sauvignon.
Il Nussbaumer 2012 invece conferma che il gewurztraminer ha superato brillantemente quella fase di pura tendenza e sta cominciando a proporsi ogni anno sempre più a grandi livelli. Fitto e compulsivo il naso, oltremodo piacevole e balsamico, di grande equilibrio (finalmente) il sorso; è quindi secco, fresco, godibilissimo. Senza sbavature.
Buono buonissimo (ché c’era bisogno di conferme?) il Giorgio I 2009 di Giampaolo Motta¤. Assai varietale il purpureo Colle Rotondella 2012 degli amici Gerardo¤ ed Emanuela e, a tema, stuzzicante anche se un tantino interlocutorio il piedirosso 2012 di Vincenzino Di Meo¤. Un po’ avanti al naso, un po’ in ritardo in bocca. E’ pur vero che è in bottiglia da pochissimo e l’approccio non è stato dei più felici (un caldo!), e mi intriga l’idea di tostare i vinaccioli, però un piedirosso d’annata che pinotnoireggia così ti spiazza, ed un poco confonde. Ci siamo ripromessi di parlarne e berci su nuovamente tra qualche tempo.
Tag:assaggi sparsi, castel dell'ovo, degustazioni, fiere ed eventi, giorio I la massa, napoli, nussbaumer, piedirosso la sibilla, vette san leonardo 2012, vitigno italia
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15 Maggio 2013
Immaginate di stare seduti su un prato verde con a due passi una vigna in fiore, l’odore forte di gelsomini che però arriva e non arriva spazzato da una leggera brezza, con le api che balzano voraci da un fiore all’altro.

Pensatevi sereni, sorridenti, felici di regalarvi un paio d’ore all’ombra di una quercia secolare in una splendida giornata di primavera inoltrata, calda ma non pesante. Una lunga passeggiata tra i filari, col naso al cielo, lunghi respiri a pieni polmoni. Finalmente un morso alla frittata di pasta, uno alla pizza rustica. Uno, due sorsi di questo delizioso vino frizzante di Costadilà sur lie, 330 s. l. m..
Un filo d’erba tra i denti, una margherita colta alla piccola che stringi delicatamente mano nella mano, un’altra che non vedi l’ora di poggiare tra i capelli della tua splendida moglie, un’altra ancora da sfogliare tutti assieme. E speriamo che sia femmina…
Tag:330 s.l.m., big picture, costadilà, glera, prosecco, verdiso, vino frizzante dei colli trevigiani
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4 Maggio 2013
Una cartolina può avere tanti colori, immagini suggestive, parole d’affetto. Colori, immagini, parole spesso costrette in pochissimo spazio, chiuse tra un francobollo ed un indirizzo sempre così vivo nei ricordi quanto mai precisissimo da riprendere al momento di metterlo nero su bianco.

Sono sfumature certo, ma fanno la differenza, quella differenza che fa sì che un messaggio, la cartolina appunto, arrivi a destinazione. E sia ben accetta.
Il mondo dei vini rosati mi appartiene, anche se non posso definirmi un appassionato assoluto; mi piace cimentarmi ogni anno con tanti numerosi assaggi perché mi aiutano a capire certe differenze. La prima, quella buona, è quanto ci crede un produttore quando decide di farne uno, cosa ci mette dentro la bottiglia: il salasso di uno o più vini, il vino base rosso poco convincente o, magari come avviene per certi spumanti, parte di quello vecchio ‘tagliato’ col nuovo. Cose così insomma.
La seconda, buona ma non necessaria, che potrebbe cioè interessare a qualcuno, è se ha un senso quella bottiglia, se ha qualcosa da raccontare, un messaggio da consegnare che non sia solo ‘il completamento di gamma’ ma una idea più o meno precisa che venga fuori da un progetto ben definito piuttosto che da una fisima, un ‘pallino’ o una mera velleità di chi l’ha pensato. Ci metto cuore nel raccontare una bottiglia di Vigna Mazzì¤ o Rosato del Greppo¤, un po’ meno forse per questa La Rose de Manincor¤ che, però, è buona buonissima uguale.
E’ composto da un infinito elenco di varietali piantati (probabilmente in via sperimentale) da quelle parti là in Alto Adige: lagrein, merlot, cabernet, pinot nero i più comprensibili, ma anche petit verdot, tempranillo, syrah che concorrono a consegnare al palato una cuvèe rosé insolita – fermentata parzialmente in legno con lieviti indigeni – dal profilo sottile nel colore e dolce e fragrante di frutti rossi al naso, di impressionante facilità di beva. Ricorda, per i più informati, i classici Bandol provenzali, da Chateau de Romassan in giù. Non so cos’altro aggiungere, se non che sempre più spesso la cucina di pesce ci strizza l’occhiolino e non sappiamo talvolta che bottiglia pigliare. Eccola.
Tag:bandol, cabernet, la rose de manincor, manicor, merlot, pinot nero, rosati dall'alto adige, syrah, tempanillo, vini naturali, vini rosati
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4 marzo 2013
E’ curioso come un vino possa praticamente da solo rappresentare la storia degli ultimi 40 anni di tutta un’azienda, ancor più quando questa è tra le più rappresentative di un territorio, la Sicilia, al centro di un vero e proprio moto rivoluzionario negli ultimi anni in tema vitivinicolo.

Quel vino è il Rosso del Conte. Ciò che oggi ritorna nel bicchiere passa infatti attraverso le tante tappe vissute in Tasca d’Almerita. Un vino sicuramente tra i più conosciuti tra quelli siciliani eppure tra i più controversi e discussi per il continuo cambiar pelle negli anni da quando, nel 1970, fu pensato come fiore all’occhiello della produzione a Regaleali, la Riserva del Conte, per dare valore aggiunto alle splendide vigne ad alberello di nero d’Avola di San Lucio, cui s’aggiunsero negli anni quelle di Cordicella , Girato, Cozzo Ginestre, Piana Gelso e Rossi.
Numerose le evoluzioni, quindi, dalle uve messe in bottiglia ai diversi accorgimenti sull’affinamento; non a caso, a detta dei più fortunati, una verticale di Rosso del Conte, diciamo pure solo di quindici/venti annate, più che raccontare il vino in se è capace di raccontare tutto quanto successo in azienda, se non in Sicilia, negli ultimi 40 anni: dai primi timidi passi da protagonista del nero d’Avola sul mercato degli anni settanta all’introduzione massiva sull’isola dei cosiddetti vitigni internazionali, sino all’odierna riscoperta degli autoctoni isolani, perricone tra tutti. Per non parlare poi di quanto fatto e disfatto coi legni di vario genere e sperimentazioni in cantina.
Ma veniamo a questo 2007. Bello il colore rubino porpora vivace e profondo. Naso invitante, che sa di confettura di prugna e frutti neri, balsami e liquerizia, con un richiamo finissimo di arancia rossa. Il sorso ha respiro e tanta sostanza: è secco, fluido e avvolgente, solo sul finale di bocca chiude appena dolce. Conserva tannini ben integrati, che graffiano un po’ meno ad esempio rispetto al sontuoso 2006, ha buona spalla alcolica ma non è ingombrante, sicché se ne giova la beva che rimane sostenuta e piacevole ad ogni sorso. Un Rosso del Conte di immediata bellezza.
Tag:conte tasca, contea di sclafani, nero d'avola, perricone, rosso del conte, rosso del conte 2007, san lucio, sclafani bagni, sicilia wines, tasca d'almerita, tenuta regaleali
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1 marzo 2013
Non c’è da stupirsi se da un’annata non proprio coi fiocchi il Brunello di Sanlorenzo ne viene fuori comunque in grande spolvero. Il lavoro di Luciano¤ in vigna è costante, maniacale a tal punto dal conoscere quasi meglio ognuna delle sue piante che ciò che gli tintinna in tasca.

Duemilaotto a Montalcino a 4 stelle. C’è però un limite a quest’annata, secondo molti. Da quel che ho letto in giro alcuni critici intervenuti a Benvenuto Brunello 2013¤ hanno provato a coglierlo: un limite che qualcuno ha tenuto a sottolineare come una carenza episodica¤, qualche altro come una diversità espressiva¤ poco tipica ma tuttavia accettabile, qualchedun altro ancora invece come la perenne incapacità del sangiovese brunello di mantenere fede alle aspettative, quasi sempre in credito col suo reale valore di mercato. C’è infine chi¤ non le ha mandate affatto a dire sibilando che molto probabilmente il limite grosso dinanzi a certe annate è proprio della critica, soprattutto quella internazionale, ormai talmente appiattita dai vini d’asfalto del nuovo mondo dal non sapere più leggere certi vini italiani.
Non c’ero, quindi non entro nel merito e lungi da me esprimermi su linee di carattere generale. Ho bevuto però i nuovi vini di Luciano Ciolfi, a più riprese, con la calma dei forti e la pazienza di un fan. Il Bramante 2008 farà faville sul mercato. E’ vero, in questo ha ragione da vendere Antonio Galloni¤, rientra certamente tra quei Brunello 2008 di grande slancio degustativo che tanto piacerà ai ristoratori appassionati sempre alle prese con troppe scelte difficili in materia di Brunello di Montalcino. Ma ci dispiacerà?
Ha però un naso di grande integrità ed intensità, che sa di arancia Sanguinella ed erbe officinali, poi man mano di garofano, ciliegia e liquerizia. Il sorso ha spessore, deciso, manca però forse di quella spinta acida a cui ci eravamo abituati nelle precedenti uscite, ma è succoso e tremendamente sapido. Ecco, Il duemilaotto di Sanlorenzo¤, contrariamente al recente passato non gioca stavolta sull’elegante sottrazione, austera e pregnante nel 2004 come nel 2006 ma, per la prima volta, sull’abbondanza di una o due curve in più. Io dico che ce ne faremo una ragione, convintamente.
Tag:anteprime toscane, antonio galloni, benvenuto brunello 2013, bramante, brunello, luciano ciolfi, montalcino, rating brunello, sangiovese, sanlorenzo
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21 febbraio 2013
Ponza è un posto magico, vi si dovrebbe passare almeno una settimana l’anno della propria vita; non a luglio o ad agosto naturalmente, mesi in cui la calca dei turisti ingolfa la passeggiata del Porto e la caciara dei natanti le acque antistanti.

Di quei luoghi ho ricordi bellissimi ed un grande unico cruccio, Palmarola, che non son stato capace di visitare, causa mare grosso, entrambe le volte che sono passato sull’isola e per tutta una intera settimana. Da sfigati insomma, ma mi rifarò.
Da uno dei promontori più suggestivi dell’Isola di Ponza, punta Fieno, arriva questo insolito e caratteristico bianco composto in massima parte da biancolella e falanghina, vino dal profumo vulcanico e dal sapore antico. Ci lavorano da un po’ di anni con una certa perseveranza ed ostinazione Luciana Sabino¤ e suo marito Emanuele Vittorio; ne avrete letto tra l’altro già qui¤.

In cantina l’hanno condotto con mano ferma prima il bravo Maurizio De Simone, che ne ha saputo immediatamente leggere ed interpretare l’anima valorizzandone al massimo la “naturalità” espressiva e poi, oggi, con una visione prospettica altrettanto interessante Vincenzo Mercurio¤, capace di sottolinearne al meglio tutta la matrice minerale esaltandone il profilo organolettico decisamente sopra le righe.
Il Fieno bianco 2011 viene fuori da quei 2 ettari di vigna piantati per lo più nel tufo tra le sabbie dei muretti a secco lungo quella piccola collina che lega la splendida Chiaia di Luna al Faro, posto raggiungibile esclusivamente attraverso una stretta mulattiera; un luogo di una suggestione unica, che durante le estati più calde fa registrare temperature vicine ai 40-50 gradi, anche se rinfrescate nella notte da escursioni termiche altrettanto importanti. Ne viene fuori un bianco dal corredo aromatico molto particolare, per lunghi tratti sulfureo, salmastro, che sa di fieno (!) e genziana, dal sorso efficace e sgraziato. Un quadro organolettico certamente non banale e sostanzialmente assai tipicizzante un vino unico nel suo genere, insolito e da provare e riprovare anche nel tempo.
Tag:barbera, biancolella, falanghina, fieno di ponza antiche cantine migliaccio, isola di ponza, lazio wines, luciana sabino, maurizio de simone, montepulciano, palmarola, vincenzo mercurio
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13 febbraio 2013

Che poi l’acidità¤, strano forse a dirsi, diviene pilastro per certi vini come questo Moscato di Saracena¤: dal sapore dolce, leggiadro, mellifluo, che sa di zagara ed agrumi glacé. Il sorso è delizioso, accattivante ma quieto; chiude morbido rinfrancando il palato di giusta freschezza, salace quasi, smarcando abilmente inutili stucchevolezze. Una conferma, ancora uno scatto in avanti. Da fine pasto, o da meditazione, magari però sulle chiacchiere¤.
Tag:calabria, chiacchiere di carnevale, cosenza, famiglia falvo, masseria falvo 1727, milirosu, moscato, moscato di saracena, vincenzo mercurio, vini di calabria
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29 gennaio 2013
E’ sempre particolarmente difficile scrivere una critica poco entusiasta di un vino simbolo come il Le Pergole Torte di Montevertine, prodotto da un “grande” della viticoltura toscana come Sergio Manetti (fu proprio questa la sua ultima vendemmia, ndr) e seguito in cantina da un’altro storico pezzo da 90 dell’enologia italiana come il buon Giulio Gambelli.

Eppure va fatto, perché di spunti positivi da questa bottiglia ne son venuti davvero pochini. E poco c’entra l’irriverenza che pure spesso sta lì in agguato di fronte ad una bottiglia probabilmente poco performante. Come la presunzione di chi scrive di saperne abbastanza sul sangiovese – nonostante le tante bevute -, per dire che no, non ci siamo proprio.
Anche per questo lo faccio poche volte, convinto che rimanga tanto su cui riflettere, aspettando di riprovarci magari ad un altro giro, come mi son detto per giorni e giorni a seguire dopo aver preso un’altra sonora bastonata per le mie convinzioni di appassionato e devoto a certe etichette simbolo del vino italiano come il Monfortino¤.
Però due appunti me li sono scritti: dalla sua un’annata non proprio tra le migliori lì a Radda, eppure pare offrire davvero troppo poco per il blasone che si porta dietro. Cupo già nel colore, teso chiaramente all’aranciato, ha un naso ombroso che sa di vetusto, di erbe officinali e tira dritto dritto su note animali. Il sorso è asciutto, quasi risentito, afflitto da una costante sottrazione che consegna alla bocca solo un finale amaro, tremendamente risoluto. E il giorno dopo, nonostante l’attesa, niente di nuovo, null’altro. Lapidario. Non ci siamo presi proprio per niente!
Tag:bicchierino, chianti, chianti classico, giulio gambelli, le pergole torte, monfortino, montevertine, radda in chianti, sangiovese, sangiovese purosangue, sergio manetti, super tuscan
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21 gennaio 2013
Ritorno sempre volentieri su certe bottiglie, così come vale la pena fare quando delle etichette continuano un progressivo slancio in avanti offrendo ogni volta, ad ogni nuovo millesimo nuove e stimolanti indicazioni sul varietale ma soprattutto sulla crescita della qualità del lavoro messo in campo da tutta un’azienda.

Non v’è dubbio che il frappato sia da sempre un vitigno assai nelle mie corde. Dona di sovente vini estremamente riconoscibili, freschi e quando lavorati nella giusta dimensione – senza sovrastrutture inutili -, dotati di una identità molto precisa, un’impronta territoriale davvero inconfondibile. Tra l’altro di grande duttilità a tavola riuscendo, talvolta a mani basse, in quello che molti azzardano come un matrimonio infelice, coniugare cioè abbinamenti di pesce ai vini rossi.
Di Occhipinti rimane ancora insuperato il vivo richiamo allo splendido Grotte Alte ‘06¤, il suo Cerasuolo di Vittoria – parte frappato e parte nero d’Avola – che tanto mi è piaciuto ad ogni riassaggio durante tutto l’anno scorso. Ma il salto di qualità Arianna sembra averlo fatto definitivamente su tutta la sua linea produttiva; sono infatti ormai lontanissimi quei suoi vini degli esordi, sicuramente sinceri, veri anche, ma sempre un po’ troppo imprecisi per coglierne a pieno la bontà. Senza dubbio un cambio di marcia riuscitissimo, e questo vino, Il Frappato 2010, ne dà piena testimonianza. Un vino che qualcuno potrebbe far suonare come uno squillo d’avanguardia ma che io mi permetto di sottolineare come un piccolo gioiello di modernità.
E’ subito molto invitante, sin dal bel colore rubino granato. Stuzzicante l’olfatto, curioso e sovrapposto, non appena ci metti il naso dentro ti si apre un mondo: certo è floreale, riconosci subito quei sentori di rosa e violetta, come pura didattica appaiono la ciliegia e la prugna, ma ciò che colpisce di questo vino è la sua capacità di farti ritornare, sorso dopo sorso, a dare attenzione ai profumi che nel frattempo virano, risaltano, spaziano in lungo e in largo ad ogni approccio.
Succede così di sentirlo un po’ incipriato, poi belloccio e facile ma anche che pizzica di noce moscata e chiodi di garofano, un continuo rimando a qualcosa di nuovo puntualmente rinfrescato da copiosi sorsi dal timbro gustativo appena tannico, molto poco alcolico, dritto e circoscritto ad una sana godibilità.
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