Posts Tagged ‘aglianico’

Giugliano, Parlare di Vino con il Terra di Lavoro

24 novembre 2010

Il prossimo 2 dicembre all’antica trattoria Fenesta Verde un nuovo appuntamento con “Parlare di Vino”, il ciclo di incontri monotematici che ci siamo inventati per raccontarvi i grandi vini italiani in verticale. Siamo partiti, come il cuor comandava, dai due vini se vogliamo più rappresentativi, ognuno nelle proprie realtà, della Campania nonchè della coraggiosa scelta di una azienda di produrre un solo grande vino a dispetto di una domanda di mercato negli anni sempre più cresciuta e soprattutto pressante. Ecco quindi che dopo la bellissima sessione condivisa con Silvia Imparato lo scorso 11 novembre proviamo a raccontarVi, con uno dei patron, Arturo Celentano, un’altro grande rosso campano, il Terra di Lavoro di Galardi prima di aprirci, il prossimo anno, ai confini nazionali con altre perle questa volta dell’enologia italiana.

Rampaniùci, terra promessa ad un grande vino!

22 novembre 2010

Puoi pensare di stare bevendo un gran bel vino, e sorso dopo sorso rimanervi affascinato sino ad esserne definitivamente rapito; Puoi convincerti che questo vino avrà la stessa facilità di attraversare il tempo come il coltellino che impugni di stendere il burro sulla tua prossima fetta di pane. Puoi magari rallegrarti dell’intuito del sommelier che te l’ha – tra i tanti – appena consigliato, o immaginare quanto sia stato bravo il produttore a pensarlo e l’enologo a forgiarlo, ma solo se vieni qui, a Rampaniùci, in questo luogo lontano da tutto ed immerso nei boschi di querce, ad un tiro di schioppo dal burbero Monte Massico che domina l’orizzonte, puoi godere appieno del fascino antico della sua terra, l’Ager Falernus, che questo vino riesce ad evocare con grande slancio di modernità!

Siamo a Casale di Carinola, dove la famiglia Migliozzi è da sempre occupata in agricoltura, non a caso in zona sono conosciuti e riconosciuti come frutticoltori di un certo spessore. Parallelamente però, papà Lorenzo, con l’idea di diversificare gli interessi familiari ha sempre guardato con un certo appiglio al mercato dell’estrazione della pozzolana, di cui il circondario ne è ricco in giacimenti, occupandosene in prima persona lasciando così la conduzione delle proprietà agricole ai figli. Così quando a fine anni novanta, con le prime avvisaglie della crisi economica – che non ha certo risparmiato il mercato della frutticoltura – si dovette pensare cosa fare a Rampaniùci, allora votata principalmente alla coltura di albicocche più che alla vigna ormai logora, si fece avanti Giovanni che già da tempo aveva immaginato proprio qui la possibilità di realizzare il suo sogno di sempre, fare su questa collina un grande vino rosso, un Falerno da consegnare agli annali. 

Rampaniùci, mai nome fu più approriato, è celata da una trama di fitta boscaglia apparentemente ineludibile, dove arrivarci significa attraversare un labirinto di anfratti sterrati che scorrono paralleli alla strada comunale – ancor più sterrata – che dalla località “le Forme”, all’improvviso, sbuca proprio ai piedi della collina. Ecco, arrampicarti su per la collina, in certi punti piuttosto ripida, ed affacciarti tutto intorno, ti fa avere finalmente ben chiaro il quadro emozionale che sino all’assaggio, magari sostenuto anche dal bel racconto del sommelier, hai potuto solo immaginare; Perché questo Falerno del Massico, sarà il prossimo punto di riferimento per questa denominazione, e per questo pezzo di Campania Felix, assolutamente inespresso rispetto al suo enorme valore vitivinicolo a cui, personalmente, invito a guardare con sempre maggiore rispetto ed occhi lucidi di aspettative.

Il reimpianto della vigna è stato completato nel 2005, cinque ettari praticamente a corpo unico –  una vera rarità per l’areale – perfettamente integrati nel paesaggio e che nulla hanno tolto allo splendore del fittissimo bosco di querce che li circonda tutto intorno. Lo scenario, per chi sa leggere il vigneto, il suo impianto, è incomparabile, di una suggestione unica. Lungo la risalita, in alcuni punti decisamente ardua, dimorano le piante di primitivo, nella parte più bassa di Rampaniùci, un ettaro pari pari di terra tufacea ricca di scheletro e rocce affioranti. Poi, più su, l’aglianico ed il piedirosso, il primo con una bella parte in esposizione a sud, il secondo, che occupa però una densità inferiore dei quattro ettari rimanenti dell’impianto, guarda il Monte Massico, quindi a nord/nord-est. Qui il terreno è più frammisto, composto comunque in gran parte da tufo e rocce minerali.

Aglianico per il 70%, piedirosso al 20% e primitivo per il restante 10%, un blend questo, più o meno invariato negli anni, che vuole il Rampaniùci come l’unico Falerno a puntare alla valorizzazione di tutte e tre le varietà maggiormente presenti sul territorio. Il vigneto è condotto integralmente seguendo i parametri dettati dall’agricoltura biologica – tanto cari a Giovanni quanto a Fortunato Sebastiano, l’enologo che lo segue – laddove in vigna non vengono usati prodotti di sintesi, quindi solo rame e zolfo (per le tignole per esempio si usano solo prodotti naturali come il bacillus e la confusione sessuale, ndr) mentre in cantina si punta a stare quanto più bassi possibile con l’aggiunta di anidride solforosa (meno di 50 mg/l) e ad eliminare, ove possibile, alcuni interventi di prassi come per esempio non utilizzare gomma arabica o usare acido metatartarico per stabilizzare il vino da eventuali precipitazioni tartariche in bottiglia. Le uve, ognuna lavorata seguendo un percorso proprio prima del blending, dopo la pigiadiraspatura e l’ammostamento, appena dopo la fermentazione alcolica subiscono macerazioni piuttosto lunghe – sino ai 40/50 giorni – lasciando quindi svolgere anche la fermentazione malolattica con le bucce. Dopo alcuni tentativi, per la verità poco convincenti, si è scelto di non utilizzare barriques per l’invecchiamento ma solo botti grandi, in questo caso tonneau, dove il vino resta per almeno un anno, prima di finire in bottiglia dove ci rimane per un affinamento di almeno un’altro anno ancora. Con Giovanni Migliozzi, nella piccola cantina ricavata praticamente nel garage di casa, scevra da ogni orpello, ci siamo lasciati andare nella degustazione di tutte le annate prodotte sino ad oggi, delle quali qui troverete un rendiconto delle precedenti 2005-2006-2007, mentre vi invito a seguirci prossimamente per leggere del 2008 di prossima uscita e del 2009 ancora in elevazione in legno. Ricordate quindi, si scrive Rampaniùci, si legge Falerno del Massico, e si beve con lo stesso amore profuso da Giovanni Migliozzi, come Maria Felicia Brini, Antonio PapaTony Rossetti, per la loro stupenda, incomparabile terra!

Casale di Carinola, quando fare Falerno diviene una scelta di vita: il sogno di Tony Rossetti

17 novembre 2010

Ci lasciamo alle spalle Falciano del Massico, le vigne di Antonio Papaal quale chiedo di continure con me il viaggio – e gli olivi secolari, un paese dall’atmosfera d’altri tempi dove tutti si conoscono e dove il forestiero – che sarei io – salta agli occhi come una macchia di caffè su di un kaftano di lino bianco. Direzione Casale di Carinola, il limitare sud della denominazione Falerno del Massico, più semplicemente la patria degli “aglianicisti”.

Il titolo di questo post non nasce per caso, spesso si fa della frase “faccio vino per scelta di vita, non per soldi” un vero e proprio abuso, a quanti l’ho sentita dire? A molti, ma faccio sempre più fatica a crederci fino in fondo, in un mondo che continua ad insegnare come sia l’inopportunità il seme più rigoglioso per mille idee e progetti quasi sempre senza testa ne coda, dove vigili urbani si arrogano la presunzione di cucinare da stella Michelin e rappresentanti di profumi s’inventano degustatori per sbarcare il lunario, tanto che differenza c’è? Ma la morale non mi aiuta certo a capire, soprattutto quando non mancano poi le eccezioni alla regola, che essendo tali divengono feticci da ostentare e pertanto ancor più pericolosi: ma più che limitarsi ogni volta a rivangare il fango sceso a valle non sarebbe opportuno strutturare e rinforzare argini, ripulire canali di scolo, o meglio, costruire con criteri più solidi? Ecco, per farla breve, c’è chi nasce con una vocazione, chi la scopre più tardi, chi ha bisogno di inventarsela, il problema subentra quando il risultato finale è la confusione, il disastro per l’appunto, non la diversità.

Tony Rossetti quella vocazione l’ha incubata più o meno per una trentina d’anni, portatore sano di un ideale incontenibile che l’ha spinto un bel un giorno a seguire finalmente il cuore, non più la testa. La testa, tempo prima gli aveva ben consigliato di trasferirsi nella vicina e più grande Caserta, una specializzazione in tasca e tanta voglia di emergere che non gli hanno mancato di dare importanti soddisfazioni professionali. Il cuore però ritornava sempre nella terra di origine, nel vicino carinolese dove con la famiglia, di parte di madre, i Bianchini, che producevano da sempre uva e vino, non ha mai smesso di coltivare la terra e di nutrire il sogno di rinverdire i fasti di un tempo e gettare le basi di una solida piccola realtà nell’Ager Falernus, l’azienda Bianchini Rossetti, che produce oggi due tra i migliori Falerno a base aglianico in circolazione, il fresco e pimpante Mille880 ed il rosso Riserva Saulo dalle grandi prospettive evolutive.

C’è in paese, a Carinola – a testimonianza di una tradizione forte che lega la famiglia tutta alla terra e al vino qui prodotto – l’antico Palazzo Bianchini, una costruzione di fine ‘800 dislocata su tre livelli e sin da allora dedicata completamente alla trasformazione delle uve coltivate nel circondario carinolese, con tanto di stanza di cernita delle uve, torchio circolare, canali di filtraggio e tubazioni di scolo del mosto sino alle sottostanti vasche di decantazione statica, luogo di raccoglimento del vino, posto quindi nei sotterranei dove con le temperature più basse era più semplice preservarne le qualità. Tutto questo oggi è tangibile recandosi alla Locanda 1880, l’Osteria di famiglia ospitata nel suggestivo seminterrato del palazzo.

Prima però, con Tony, abbiamo con piacere (e non poca fatica) camminato le sue vigne, in particolare non ci siamo fatti mancare una scarpinata sulla collina di San Paolo, senza dubbio un luogo di una suggestione unica, non solo per quanto fu proprio questa una delle ultime tappe del santo martire sulla via per Roma, ma anche perché in questo momento della stagione il vigneto, con i suoi filari imbruniti e rossicci offrono un bellissimo colpo d’occhio di colori nonché, come se non bastasse, un panorama sull’orizzonte infinito, che nei giorni più tersi si apre addirittura alla vista delle isole del golfo, Ischia ma anche Procida e Ventotene.

I terreni qui sono generalmente di origine tufacea, ma non mancano versanti caratterizzati da argilla come in gran parte la presenza di rocce calcaree e sedimentarie che sembrano una costante per tutti e quattro gli ettari circa di vigna. Qui sono piantati aglianico e piedirosso, il primo più del secondo oltre che alcuni filari di falanghina che in via sperimentale serviranno a capire quanto questo vitigno, ammesso dal disciplinare ma a quanto pare poco appetito nell’areale, sia veramente utile alla causa bianchista di un territorio comunque votato soprattutto alla produzione di rossi di buona struttura e non di meno buona longevità. La piccola cantina è più che altro il covo dei sogni di Tony Rossetti, ma invero poco mi interessava trovarvi architravi e stucchi preziosi, qui, per fortuna, la terra ha ancora il sopravvento sul cemento, e il cuore, come detto, sembra contare quel giusto che serve in più rispetto alla testa. E l’assaggio, per me nuovo, del Falerno del Massico rosso Mille880 2008 ha potuto solo confermare questa interessante prerogativa, un vino che in primo piano sfoggia un interessante frutto ma ancor più una bella spalla acida ed una certa, piacevole consistenza gustativa. Insomma, un vino – come la terra qui intorno – che affascina l’occhio, avvolge i sensi ed accontenta la pancia!

Qui la precedente presentazione del breve viaggio nell’Ager Falernus: la storia, la d.o.c., i vini.

Qui la nostra visita dello scorso Febbario a Masseria Felicia a San Terenzano.

Qui la passione di Antonio Papa nell’azienda di famiglia a Falciano del Massico.

Vesuvio, un Brigante dalle Terre di Sylva Mala

8 novembre 2010

Ci sono storie che appassionano, altre meno. Il più delle volte in un libro come in un film il soggetto è talmente determinante per la buona riuscita del racconto dal risultare a volte più ingombrante dei personaggi stessi, al punto da sovrastarne l’interpretazione; In tal senso, non mancano esempi, in letteratura come nella cinematografia più recente, di come pur avendo le basi di una trama forte e sensibilmente avvincente, gli interpreti, pur essendo star di primissimo piano, risultino comunque inefficaci al fine di emozionare l’avventore di turno: mi viene in mente per esempio il Pinocchio di Benigni.

Pinocchio, famoso per le sue bugie, non è certamente l’esempio migliore a cui rifarsi per raccontare di un vino che in realtà esprime una grande verità, il suo territorio, il Vesuvio, nella sua essenza più nuda e cruda, dove anche l’imperfezione risulta preziosa ed imprescindibile. E credo che le produttrici, le brillanti sorelle Siglioccolo, di cui si racconta siano grandi sognatrici, non potranno che esserne felici; In più, bere il loro vino, alla tavola di Carmine Mazza, tra una riflessione e l’altra, mi ha fatto venire in mente la parola menzogna, che pare una delle più spese, soprattutto negli ultimi tempi, nel supermercato mediatico scatenatosi a seguito delle continue emergenze rifiuti in Campania, che vede – non ultimo – proprio l’areale vesuviano ed il parco naturale come protagonista, suo malgrado, dell’ennesimo capitolo di una triste e fetida faccenda di servilismo politico e reiterato delitto civile.

Detto questo, aggiungo pure che non sono nemmeno certo che questo vino conquisti tutti coloro che vi si avvicineranno per la prima volta, o quanto meno coloro che cercano in un vino uno stereotipo “ballerino” tanto figlio del nostro tempo quanto lontano da questo Lacryma Christi rosso 2008 di Terre di Sylva Mala. Questi, nonostante non disdegni la barrique, non ha trame merlottiane, e scordatevi, per una volta, anche la vaniglia e la marmellata, apritevi invece ad un vino figlio della sua terra, scuro, austero ma soprattutto leggero. Prima di scrivere queste righe ho chiesto, non avendo avuto ancora occasione di fargli visita, alcune delucidazioni tecniche a Miriam, che assieme alla sorella Kyra si occupa in prima persona della tenuta di poco più di 6 ettari di proprietà divisi tra i comuni di Boscotrecase e Terzigno, in pieno parco naturale del Vesuvio. I vigneti di aglianico e piedirosso (80% e 20%) che compongono il Brigante giacciono su terreni sabbiosi di origine chiaramente vulcanica ad una altitudine di 300/400 m sul livello del mare e godono di una esposizione sud-sud ovest. Prima di finire in bottiglia, come già accennato, questo Lacryma fa passaggio in legno e in acciaio.

Il vino, appena 1500 bottiglie prodotte, con il duemilaotto al suo debutto sul mercato, sfoggia un bel colore rosso rubino concentrato, non appare limpidissimo ma ciò nulla toglie alla sua vivacità nel bicchiere. Il naso offre subito spunti di frutti neri turgidi e note spiccatamente minerali, il legno, come detto barrique, è solo un labile ricordo di sottofondo, il ventaglio olfattivo infatti è giocato tutto su linde note varietali e terziari appena accennati. Il punto di forza di questo vino però rimane la beva, come già accennato, in bocca è sensibilmente asciutto ma lo senti scivolare via baldanzoso lasciando traccia di una fresca vinosità, sempre in primo piano, a sgrassare e pulire il palato: ora ti punge l’aglianico, tanto ti solleva il piedirosso, un gioco delle parti perfettamente in equilibrio se non fosse per il finale di bocca lievemente amarognolo. E’ il classico rosso da spendere su paste ripiene al pomodoro, o se preferite seguire un consiglio spassionato, sul filetto di cernia con porcini e patate cilentane de Il Poeta Vesuviano di Torre del Greco, un altro indirizzo da non far mancare in agenda.

Mirabella Eclano, Vigna Cerzito 2001 e il fascino della primissima vendemmia a Quintodecimo

4 ottobre 2010

Mi passa davanti un fotogramma, immagino la vendemmia a Quintodecimo¤ nel 2001: Laura e Luigi, vestiti di tutto punto intenti a pestare coi piedi l’aglianico atto a divenire nettare con il quale brindare all’inizio della nuova avventura di Mirabella Eclano.

Luigi Moio - foto courtesy Laura Di Marzio

Ebbene si, sono passati già quasi dieci anni, e pensare che in molti si ostinano a rincorrere modelli preconfezionati pur di non faticare, spesso non hanno nemmeno un metro quadrato di vigna, a volte nemmeno un indirizzo, nella migliore delle ipotesi una buona cantina nelle vicinanze di casa dove comprano o si fanno fare il vino, imbottigliato e già etichettato, rivendicando poi – che faccia tosta! – di essere proprio loro “autentici”, i loro vini quelli “veri” o come capita sempre più spesso negli ultimi tempi – ahinoi la peggiore delle ipotesi – dei rivoluzionari.

Laura Di Marzio - foto courtesy of Laura Di Marzio

Per Quintodecimo è andata diversamente e chi oggi arriva lì in cantina¤ lo respira appena messi i piedi per terra, non appena varcata la soglia del giardino, appena Moio, con la sua disarmante dialettica, sale in cattedra: è questo il secondo fotogramma a cui mi rifaccio, Luigi¤ ama raccontarsi e raccontare mentre è affacciato sulla terrazza che dà direttamente sulla vigna; spende parole chiare, racconta di esperienze professionali fondamentali, di ricerche, microvinificazioni, zonazione (?), di emozioni reali che riesce a trasmettere con forza e precisione, ha tra le mani, le stesse che mentre parla muove nell’aria quasi ad accarezzarla, la storia dell’enologia campana e la porge con la stessa generosità con la quale l’ha immaginata, studiata, vissuta profondamente, lui sì rivoluzionata, prima di consegnarla oggi ai suoi numerosi posteri allievi.

Il Vigna Cerzito 2001 è stato il primo vino prodotto qui a Mirabella Eclano nonchè l’ultimo dall’omonima vigna¤, di oltre trent’anni, che proprio successivamente alla raccolta è stata completamente espiantata per far posto al nuovo sesto d’impianto secondo i precetti del professore. All’epoca l’idea di metterlo in bottiglia, dopo due anni di legni nuovi, nasceva dalla necessità di lasciare una traccia dell’inizio di tutto, non certamente dall’esigenza di fare vino, fattostà che queste bottiglie non hanno mai visto la porta della cantina, al massimo la tavola della cucina di Laura, che è solita offrire solo agli amici più cari. Un vino quindi mai commercializzato, nemmeno denominato, di cui però è bene, credo, lasciare traccia per piacere di cronaca, e perché se molti si rifanno a questo modello di aglianico, austero, asciutto, tannico, vigoroso, sia utile scrivere che proprio Moio sembra averlo superato, a Quintodecimo, da più o meno una decina di anni.

Quintodecimo, foto A. Di Costanzo

Il colore è maturo, l’unghia ha già ben espressa una chiara nuances aranciata, rimane però cristallino e di buona vivacità. Il naso è decisamente volto a note terziarie, cioè caratterizzato da sensazioni odorose – foglie secche, mallo di noce, terra bagnata, caffè tostato – dovute innanzitutto al lungo invecchiamento passato tra legno e bottiglia; all’assaggio è asciutto, austero, il tannino ancora recalcitrante ma avviato lentamente alla dissoluzione (chissà il nerbo della prima ora?), la beva è generosa ma fluida, marcata da una acidità sottile ma ancora percettibile, appena lievemente amarognolo sul finale di bocca.

Tant’é, pur non esprimendo la verticalità a cui si può fare tranquillamente affidamento nelle più recenti interpretazioni di Luigi, il Riserva Quintodecimo¤ 2004 ne è sintesi disarmante, la complessità, qui compressa da uno start up certamente non facile per una primissima vendemmia, offre una palese dimostrazione di come, pur partendo da una materia prima non di primissimo pelo, Moio sia capace, attraverso una sana ed ineccepibile interpretazione tecnica, la così tanta vituperata ma indispensabile mano dell’uomo, dare voce e lunga vita all’aglianico: eh già, quasi come in un film, professore di nome e di fatto! 

Cellole, Falerno del Massico Camarato 2003

27 settembre 2010

L’annata 2003 è passata alla storia per l’incredibile andamento meteorologico, per un caldo torrido, fuori da ogni previsione che ha imperversato senza tregua sino a raggiungere, in alcuni frangenti della stagione, temperature assurde, condizione questa favorita anche dalla miserabile scarsità delle precipitazioni registrate. Tantè che i dati analitici pre-vendemmiali subito fecero, all’epoca, enorme scalpore, facendo sorridere molti, soprattutto coloro che ogni anno per compiacere un mercato sempre più smanioso di curve e rotondità erano costretti a “ravvedere” mosti poco concentrati ricorrendo a macchine infernali o quantomeno ad assumere a tempo determinato un enologo-prestigiatore; Per molti altri invece, il millesimo ha semplicemente consegnato agli annali almanacchi, vini surmaturi e privi di nerbo, e dove invece non cotti, marmellatosi, decisamente privi di carattere, destinati più semplicemente ad una vita piuttosto breve.

Il più grande piacere che può offrire una bottiglia di vino, oltre alla facile libidine dell’ebbrezza, è la scoperta, ancora più grande e deliziosa se inattesa ma soprattutto quando viene a conferma dell’idea che l’eccezione alla regola è un valore, semmai ne avessimo ancora dubbio, da non sottovalutare mai, anche di fronte a pregiudiziali così nitide, nel vino in particolar modo. Così è capitato a tiro, in una bevuta tra Amici di Bevute – rigorosamente alla cieca – un assaggio piuttosto atipico, in una batteria di una dozzina di campioni che volevano parlarci di aglianico e che invece ci hanno costretti a riflettere che forse sarebbe ora di rivedere certi precetti ovvero di rifarsi la bocca con il più classico dei blend campani, l’aglianico maritato al sempiterno misconosciuto piedirosso, interpretato in maniera eccelsa proprio dal Camarato di Villa Matilde.

Per gli amanti dei dati tecnici, il Camarato nasce nelle tenute di S. Castrese a Sessa Aurunca in provincia di Caserta, non lontano dalla cantina storica della famiglia Avallone a Cellole, sulla litoranea statale Domiziana. Qui i suoli sono di origine vulcanica con una buona dotazione di fosforo e potassio, i primi impianti sono stati fatti nel 1970, la loro collocazione altimetrica non supera i 150 mt. slm ed i ceppi sono stati piantati con non meno 4500 viti per ettaro, per l’epoca un gran passo avanti per il territorio. L’allevamento è a guyot e generalmente non si va oltre le sei gemme per pianta; Il mosto ottenuto viene lasciato in fermentazione con sue vinacce per circa 25 giorni, dopo la malolattica, il vino passa in legno, affina in barriques di rovere di Allier per almeno 12 mesi e successivamente in bottiglia per ancora due anni circa.

Il 2003 nel bicchiere, un vino per i posteri, dal colore granato appena aranciato sull’unghia, cristallino e vivo. Il naso è sottile e ficcante, il tempo ha concesso al piedirosso di venire fuori alla grande con tutta la sua eleganza, tutta la sua lineare, composta fragranza floreale passita, con in più un finale, lieve, dall’impronta terrosa, di cuoio e spezie fini ad infondere complessità e tipicità. In bocca è sorprendentemente sottile, l’ingresso è asciutto, pacatamente equilibrato, il primo sorso scivola via che è un amore, i successivi non hanno nemmeno bisogno di essere pensati. Un vino decisamente godibile, probabilmente per niente vicino alle annate precedenti e future e nemmeno alle aspettative di questo millesimo, ma capace, come detto, di smuovere la coscienza, quantomeno la nostra, e far parlare, parlare, parlare, e riflettere!

La vendemmia 2010 nell’Ager Falernus, di Primitivo e Aglianico fratelli gemelli diversi…

20 settembre 2010

Domani martedì 21 settembre concluderemo il nostro piccolo viaggio previsionale sulla prossima vendemmia 2010 giunta ormai alle porte, in Campania così come altrove, anche se a dirla tutta in alcune vigne – in partricolar modo sulle isole e aree costiere – e per alcune varietà c’è già stato un fortunatissimo prologo; Concluderemo questo excursus con un po di note sparse che in effetti non fanno altro che confermare l’impressione che questa 2010, pur nella sua complessità si possa rivelare proprio un’ottima annata: vedremo quale vino, o meglio, quale vigneron ne saprà fare tesoro. Queste che seguono sono le impressioni che abbiamo raccolto in terra di Falerno… 

Antonio Papa da Falciano del Massico, zona di produzione Falerno con base Primitivo, provincia di Caserta. Le uve, qui a Falciano, sono decisamente condizionate da un clima variabile ed abbastanza instabile, tarderanno pertanto la maturazione di almeno 10 giorni rispetto alla scorsa vendemmia. In particolare, la pioggia nell’ultima parte della primavera, ed il fresco atipico dei mesi estivi, con importanti escursioni termiche specie nella prima parte dell’estate, hanno inciso non poco. Se dovessi paragonare questa  vendemmia a quella dello scorso anno, sicuramente sottolineerei che il lavoro in vigna di questa stagione è stato più impegnativo, per vari motivi, a cominciare da una più importante selezione dei grappoli  specie nel vigneto situato a circa 120 m slm; Salendo in collina invece, cambiando il terreno, cambiando esposizione, a circa 260m slm, le uve sono davvero eccellenti e mi fanno sperare in un prodotto finale di grande potenziale. Ci tengo a precisare però che personalmente non ritengo opportuno parlare già di come sarà il vino, di questo ne parleremo fra 2/4 anni, quando le prime bottiglie 2010 saranno pronte per l’assaggio, ci tengo invece ad evidenziare un dato: io credo che se un’azienda lavora bene, lo si vede proprio attraverso queste annate, le quali proprio come le persone con un carattere difficile hanno bisogno di maggiore comprensione e pazienza per essere valorizzate appieno.

Tony Rossetti, deus es machina di Bianchini Rossetti a Casale di Carinola, in provincia di Caserta. Nella zona del Falerno del Massico che ci riguarda, in special modo sulle colline del Carinolese e del Sessano, dopo una estate piuttosto torrida le piogge di settembre hanno un po mitigato l’aria ed il repentino abbassamento delle temperature registrato già dai primi giorni di questo mese ci fanno ben sperare in una lenta ma progressiva maturazione delle uve sulle piante e quindi un giusto equilibrio fenolico. I frutti sono sani e sulle nostre colline la ventilazione ad ampio respiro ci aiuta non poco ad areare i grappoli di aglianico evitando innanzitutto eventuali problemi di muffe. Dalle prime analisi effettuate nei giorni scrosi e le curve di maturazione evidenziate ci stiamo organizzando per una vendemmia ottobrina, incrociamo le dita.

Qui il polso della provincia di Caserta, Gennaro Reale su le Terre del Volturno e Roccamonfina.

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui la vendemmia 2010 in Cilento, Irpinia e provincia di Benevento analizzata da Fortunato Sebastiano e Massimo Di Renzo.

Montemarano, Taurasi Cinque Querce 1988 Salvatore Molettieri: era a sua immagine…

19 settembre 2010

Stamattina ho ricevuto una mail, un messaggio che mi ha profondamente colpito (e gratificato), dove le parole che leggevo raccontavano sobriamente una reale emozione, quella di cui in effetti abbiamo spesso necessità di vivere per stare bene con noi stessi e con gli altri, e perchè no, ritrovare in un vino.

“[..] ho seguito a lungo il tuo scrivere su diverse pagine in internet, sono per esempio un fan di Luciano Pignataro, e una sera, trovandomi in vacanza a Capri sono tra l’altro venuto a trovarti al Palace; non è stato necessario presentarci, hai immediatamente, con la tua disponibilità, conquistato il tavolo tutto: ci hai fatto bere quello che volevi, anche il misconosciuto Grecomuscio che ho imparato solo in seguito a comprendere meglio ed apprezzare. Per caso ieri sera, cercando tue nuove recensioni sul web, mi sono imbattuto in questa bella, suggestiva recensione che mi ero perso, di un vino, il Taurasi ’88 di Molettieri, che tu stesso definisci “una sottile delusione” . […] saresti capace, come forse nessuno, di vendere sabbia nel deserto, sei un grande!

Questa la recensione in oggetto che riprendo integralmente dal sito dell’amicoLuciano Pignataro per cui la scrissi circa un anno fa.

E’ domenica mattina, finalmente sono a casa, mi giro e mi rigiro nel lettone e tra un’esitazione e l’altra mi accorgo che il tempo è scivolato via tanto velocemente che è già mezzogiorno, rischio di rimanere senza pane fresco per il pranzo. Faccio un salto in centro, a Quarto, sulla strada mi fermo ed entro nel primo negozio a portata di mano, da Gabriellina Bulangerì”: infissi in alluminio verde, scaffali disorientati, generi alimentari e casse d’acqua messi un po’ alla meglio, poco più in la il detersivo, ancora merceria sparsa alla rinfusa e tutto intorno un profumo delizioso ma incipiente di ragù!

Dal fondo della stanza si apre una porta a vetri, uno sbuffo di vapore accompagna la sagoma di un’anziana signora che mi viene incontro, mi saluta e mi da il benvenuto. Le sorrido, stranito, la cucina che intravedo di là della porta è in fermento, due giovani si danno il cambio ad impanare qualcosa che mi pare pollo, una signora con un fazzoletto annodato tra i capelli è intenta a girare qualcosa faticosamente in un pentolone; adesso viene fuori anche l’odore acre di fritto, di melenzane e di friarielli. La situazione è davvero surreale, d’altri tempi come il conto scritto a penna sul foglio di carta del pane a sancire che il mondo ovunque andrà si sarà sempre perso qualcosa o qualcuno per strada: sorrido, stavolta di gran piacere, ringrazio e prendo la via dell’uscita. Ho pensato a lungo a questa scena, ritornatami alla mente appena aperte queste due bottiglie tirate fuori dal caveau del Capri Palace qualche giorno fa per gli amici rimasti a cena a L’Olivo dopo la degustazione I vini delle isole minori.

Perchè? Perchè ho pensato a cosa potesse essere Montemarano 21 anni fa, in una irpinia ancora lontana dal riprendersi dallo choc del terremoto dell’80, a cosa potesse somigliare allora la cantina di Salvatore Molettieri, alle sue giornate su e giù per le contrade Iampenne e Musanni nel vano tentativo di addomesticare le vecchie viti del vigneto Cinque Querce piuttosto che reimpiantarle per compiacere gli imbottigliatori a cui vendeva le uve. Ho pensato a tutto questo, immaginando un Taurasi d’altri tempi che il tempo ha sopraffatto, ad un profilo Molettieri che a questo punto non so se non abbiamo più ritrovato o se forse mai veramente conosciuto. Questo Taurasi ha un colore decisamente aranciato, abbastanza limpido per la presenza di alcune microparticelle di sedimenti in sospensione ma trasparente: la materia colorante ha avuto lungo corso ma ha raggiunto il suo capolinea. Il primo naso è essenzialmente terziario, non invitante ai primi passaggi olfattivi anche a causa di una prima nota di riduzione evidentemente pressante. Lasciato respirare a lungo manifesta spunti organolettici piuttosto particolari, lontani certamente dal “vino-frutto” con il quale la piccola azienda di Montemarano ci ha sconvolto con il 2001, il 2001 Riserva ed il 2003, nitidi i sentori di foglie secche si castagno, terra, polvere, non ultimo ruggine. In bocca è secco, abbastanza caldo, l’acidità ed il tannino appaiono dissolti pur rimanendo le uniche note gustative su cui fare leva in mancanza di una decisa profondità e di un frutto a questo punto magro, rimanendo gradevolmente lineare, certamente stanco, ma ancora bevibile concedendoci il tempo per costruire un utile critica storica. Particolare l’etichetta, francesizzante, con la denominazione Taurasi in rosso su carta bianca utilizzando diversi caratteri di scrittura che, come dicono oltralpe, esaltano l’immediata riconoscibilità del vino.

Avevo aperto qualche tempo fa un’altra bottiglia di questo ‘88, di cui conserviamo in cantina ancora una dozzina, e l’uniforme dissoluzione del frutto venuta fuori dalle degustazioni mi lascia pensare che non vi è null’altro da aspettarsi da questo vino se non la continua conferma che l’aglianico di Taurasi rimane un vitigno ed un vino, pur grande, dalle mille e una sfaccettature e sicuramente ancora lontano dall’essere pienamente longevo nonostante la straordinaria esperienza del ‘68 di Mastroberardino mi aveva aperto ad altre e più entusiasmanti considerazioni. Non so, a questo punto e sinceramente, se la sottile delusione sia maggiore del piacere di aver bevuto, tra i primi, un raro Taurasi di 21 anni di Salvatore Molettieri.

Un grazie di cuore a chi, quotidianamente ci legge e a chi, come Livio, che ringrazio pubblicamente, conoscendoci da tempo, apprezza tra le varie cose che cita nella mail, soprattutto la passione che ci mettiamo. Io mi permetto di aggiungere lo sforzo che sosteniamo per rendere questo blog quantomeno aggiornato e soprattutto fruibile a tutti… Grazie ancora! (A.D.).

Vendemmia 2010, le previsioni in provincia di Caserta nelle Terre del Volturno e Roccamonfina

16 settembre 2010

di Gennaro Reale, enologo di Fattoria Selvanova a Castel Campagnano, Masseria Starnali a Roccamonfina nonchè collaboratore in Vigna Viva.

L’annata 2010 si è manifestata un poco strana all’inizio ma poi pian piano sta venendo fuori molto bene. La maturazione delle uve si è lentamente evidenziata in maniera molto eterogenea, l’aglianico in particolare è emblematico per come si differenzia da areale in areale, si pensi per esempio che in Cilento credo che non si arriverà nemmeno alla fine del mese (settembre, ndr) mentre in Irpinia come è già noto si arriverà, in alcuni casi, sino a novembre inoltrato. Detto ciò, mi sento di affermare con certezza che per i bianchi sarà una gran bella annata, in alcune zone l’andamento fresco ha permesso una maturazione lenta ma particolarmente regolare, ed i ritardi, ove registrati, hanno permesso o stanno permettendo alle uve di giovarsi di importanti escursioni termiche tra giorno e notte che insistono tra l’altro già da qualche settimana.

Le Colline Caiatine e le Terre del Volturno, provincia di Caserta. I terreni qui sono ricchi di argilla con una buona dotazione calcarea ed organica (usiamo nutrire i suoli esclusivamente con gli scarti delle potature ed il letame bovino, il cosiddetto compost). Sono terreni molto resistenti alla siccità, ma nelle ultime tre annate – soprattutto ’07 e ’08 – abbiamo avuto notevole stress idrico che ha fatto andare in disidratazione soprattutto le piante più giovani mentre quest’anno l’andamento stagionale più fresco e piovoso ha permesso ai terreni di fare scorta d’acqua in abbondanza e quindi di essere rigogliosi ed equilibrati anche nel periodo più caldo agostano. Confido quindi in un grande pallagrello bianco, guardando al passato, mai sono riuscito a vendemmiare dopo il 15 settembre, per via dell’accumulo eccessivo di zuccheri ed il conseguente crollo dell’acidità, ma quest’anno invece il quadro analitico è equilibratissimo, e la maturità aromatica piuttosto spinta promettono un pallagrello bianco da ricordare negli annali, estremamente ricco e complesso: solo a vederne i mosti sono già contentissimo. Anche il pallagrello nero promette ottimi risultati, ma per il momento è opportuno rimanere alla finestra, sarà utile aspettare ancora qualche settimana per avere una perfetta maturità fenolica prima di raccoglierlo dalla pianta! L’aglianico sta benissimo, le poche spaccature dell’acino che c’erano si sono rimarginate rapidamente e queste belle giornate permettono ai grappoli la giusta areazione, importantissima per questa varietà tanto sensibile quanto prelibata.

Roccamonfina, provincia di Caserta: Masseria Starnali, di cui mi occupo, ha circa 30 ettari tutti a conduzione biologica di cui 6 vitati, in una delle zone più suggestive della denominazione, non a caso confinanti con Fontana Galardi, a circa 500 m slm e proprio alle pendici del vulcano spento di Roccamonfina. Qui  i terreni sono sciolti con affioramenti di roccia vulcanica e lapilli, denotando comunque una discreta percentuale di argilla. Sono terreni che soffrono molto le annate siccitose e che hanno invece goduto particolarmente di questa 2010 rivelatasi sufficientemente piovosa, quindi offrendoci vigne dalle pareti fogliari verdeggianti e frutti sanissimi. La vocazione è a falanghina ed aglianico, con una piccola parte anche di piedirosso. I tempi di maturazione sono più o meno simili a quelli Irpini, quindi è abbastanza presto per azzardare previsioni, credo si arriverà ad iniziare intorno al 20 settembre ottobre per la falanghina e fine ottobre-inizio novembre per aglianico e piedirosso. Anche qui mi aspetto una gran materia prima e non nego di aspettarmi delle belle sorprese!

In definitiva, guardando più in generale il quadro regionale, penso che sarà proprio un’ottima annata, in particolar modo sui vini bianchi e soprattutto per chi ha lavorato con buon senso ed equilibrio in vigneto. Aspettiamo i vini a conferma di tanto entusiasmo…

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui la vendemmia 2010 in Cilento, Irpinia e provincia di Benevento analizzata da Fortunato Sebastiano e Massimo Di Renzo.

Qui le impressioni dei vignerons Antonio Papa e Tony Rossetti che ci presentano il millesimo nella terra dell’Ager Falernus.

Benvenuta (generosa) vendemmia 2010, ma…

14 settembre 2010

Benvenuta (generosa) vendemmia 2010! Nelle scorse settimane, in previsione della vendemmia che andava già iniziando in alcune regioni d’Italia, si sono subito levate voci gaudenti di piena soddisfazione in virtù dell’imminente sorpasso, numeri alla mano, nei confronti dei cugini francesi, che avrebbe confermato la produzione vitivinicola italiana come primo riferimento assoluto in Europa, grazie ad una vendemmia abbondante, talmente ricca che porterà nelle cantine italiane (già stracolme, ndr) uve sane ed in quantità più che soddisfacente. Giusto il tempo però di lanciare alcune riflessioni e tutto l’entusiasmo iniziale è andato subito a farsi benedire, lasciando spazio ad accesi dibattiti, speculazioni mediatiche nonchè polemiche sterili e quintalate di buoni auspici per riordinare un sistema che a quanto pare non riesce proprio a vedere ad un palmo dal naso il buco nero che si è aperto all’orizzonte, continuando ad annaspare, ed in maniera pedissequa, a sovrastimare un mercato in continua svalutazione, perchè in Italia di uva e di vino se ne producono fin troppo! 

Così, in attesa del lungo inverno alle porte che ci accompagnerà in in giro per l’Italia e ancora in Francia a scoprire e capire cosa poi è arrivato nelle bottiglie (promettiamo che ne leggerete delle belle!) abbiamo chiesto ad alcuni enologi, stimatissimi amici, di darci delle dritte o più semplicemente illustrarci il loro punto di vista sul campo, in primo luogo in terra campana, certamente primario interesse di questo blog e qua e là in giro per l’Italia. Ecco le prime testimonianze che ci sono arrivate. 

Fortunato Sebastiano, enologo, con Vigna Viva segue diverse aziende sparse nelle cinque province campane; La sua è una testimonianza molto utile che ci da il polso di diverse microaree regionali; Questo il suo racconto: “è importante premettere che tutte le vigne di cui scrivo sono condotte in regime biologico. In provincia di Salerno (Picentini e Cilento) si prefigura una grande annata, con uve Fiano straordinarie, raccolte a fine agosto, di grande equilibrio acidico; L’aglianico promette benissimo, le escursioni termiche e gli abbassamenti di temperatura di fine primavera hanno rallentato le maturazioni ma qui questo non è un problema. In provincia di Benevento, areale di Sant’Agata dei Goti, dove opero, è stata per l’aglianico un’annata difficile, la peronospora è stata particolarmente invadente; La Falanghina invece molto buona, il Greco ed il Piedirosso idem, ci attendiamo vini molto interessanti. Qui alcune zone umide hanno risentito delle temperature medie troppo basse, inchiodandosi e trovando un pò di difficoltà di allegagione, la cosiddetta maturità eterogenea. Ad Avellino, negli areali di Montefusco, Santa Paolina, Castelfranci, Lapio, Montefredane, San Michele di Serino, il Greco è risultato molto equilibrato e dalle acidità perfette che mi fa pensare ad un’annata “tipica e varietale”, peccato per la grandine di fine luglio a Santa Paolina che ha un po ridimensionato le prospettive. L’Aglianico è in grande forma, ci aspettiamo grandi cose anche perchè per le zone più alte si arriverà presumibilmente sino a metà novembre per la raccolta; il Fiano risulta di grande spessore a Lapio, e anche nelle esposizioni più calde si avranno uve di buona spalla acida, a Montefredane si prevede una vendemmia nella media ma proprio qui si è registrata peronospora larvata diffusa, con le problematiche che ne conseguono. Infine a San Michele di Serino non ho dubbi sul fatto che si otterranno uve di grande qualità come base spumante”.

Massimo Di Renzo, enologo in Mastroberardino, senza dubbio tra le aziende di riferimento per tutta la regione; Ecco le indicazioni di Massimo: “Le mie riflessioni sulla vendemmia sono basate soprattutto su dati rilevati e costatazioni nelle province di Avellino e Benevento. L’inverno freddo e piovoso ha ritardato un po’ l’inizio della fase vegetativa, riportandola ai tempi classici delle suddette zone, sfatando gli anticipi a cui si è stati costretti negli anni precedenti. La primavera e l’estate sono state caratterizzate da precipitazioni superiori alle medie stagionali. In linea generale oltretutto non è stata un’estate molto calda e le escursioni termiche sono cominciate già forti nel mese di agosto, e ciò si traduce in un rallentamento nella progressione della maturazione, esaltando ricchezza aromatica e freschezza nelle uve. Siamo in ritardo sull’epoca di raccolta di circa 15 giorni, possiamo dunque confermare quanto accennato in precedenza e cioè che si ha un ritorno alle vendemmie tradizionali di ottobre avanzato e novembre, il che, ove possibile, esalterà fortemente il valore del territorio sulla qualità delle uve che arriveranno in cantina. Più degli altri anni la conduzione del vigneto è stata difficile ma prevedo ottimi risultati per chi ha lavorato bene in vigna, chi ha saputo guardare con lungimiranza ad una materia prima di qualità e non necessariamente di quantità. Detto questo però, con un mese circa ancora avanti, è naturale che saranno decisive le condizioni meteo dei prossimi giorni per definire il profilo definito dell’annata, pertanto incrociamo le dita e buona vendemmia a tutti!”

Grazie mille a Fortunato e Massimo, come sempre precisi e di facile lettura, a breve ci occuperemo anche dell’areale vesuviano (Lacryma Christi, ndr) e dei Campi Flegrei; Continuiamo, imperterriti, a scoprire e capire il vino e le sue origini, e così ci pare più facile, non trovate?

Qui la vendemmia 2010 nei Campi Flegrei illustrata da Gerardo Vernazzaro.

Qui il polso della provincia di Caserta, Gennaro Reale su le Terre del Volturno e Roccamonfina.

Qui le impressioni dei vignerons Antonio Papa e Tony Rossetti che ci presentano il millesimo nella terra dell’Ager Falernus.

Sorbo Serpico, il vino Kasher secondo Feudi

11 luglio 2010

Uno degli aspetti che più amo del mio lavoro è imparare, riuscire a cogliere uno stimolo, un insegnamento, da ogni esperienza che vivo, quotidianamente. E’ da un po che mi frulla in mente di parlare del vino Kasher, argomento che in realtà ho già affrontato passato, ma aspettavo l’occasione per entrare nel merito di una produzione che appartenesse alla nostra Campania, e che riscuote, tra l’altro, un ottimo successo. Ai più non sarà sfuggito che il vino, più di ogni altra bevanda, gode da sempre di una sua particolare sacralità, ma non quella dettata dai fanatici guru guidaroli o dai neo profeti in patria, ma quella intesa nel vero senso letterale della parola, di liturgica definizione, che fa cioè del dolce frutto offerto all’uomo dalla terra, un dono di Dio, e per questo curato (in vigna) e prodotto (in cantina) seguendo protocolli rigidissimi al fine di preservarne purezza ed integrità.

Il vino Kasher rappresenta in Italia una produzione certamente di nicchia ma più diffusa ed apprezzata di quanto si pensi, tanto dallo spingere diverse aziende italiane ad investire in tale direzione per potersi garantire anche solo uno spicchio di un mercato, che se in patria può risultare circoscritto in particolar modo a Roma o su di lì, in certi paesi, Stati Uniti in primis, può rappresentare una importante opportunità commerciale. Così una delle più preziose delle aziende leader in Campania, per qualità dell’offerta e diffusione sul mercato offre da qualche anno due riuscitissime interpretazioni di vino kasher: il Fiano di Avellino Maryam e l’Aglianico Rosh; Stiamo parlando evidentemente dei Feudi di San Gregorio di Sorbo Serpico.

I Protocolli di produzione, come detto sono rigidissimi, basti pensare per esempio che ogni operazione manuale o spostamento mosto/vino deve essere eseguita da ebrei osservanti; Ogni eventuale intervento da parte di terzi comprometterebbe l’intera produzione di vino Kasher. Durante le varie attività di produzione è importante che tutti gli impianti in metallo o vetroresina siano precedentemente lavati con abbondante acqua bollente; Le parti di raccordi in gomma, qualora già utilizzati in cantina vanno procurate nuove.

Il personale ebraico entra in scena sin dall’operazione di spremitura delle uve, già per ribaltare le cassette da far pervenire nella coclea, azionare la pigiatrice e/o diraspatrice, le pompe che dirigono il mosto nel tino. Solo da questo momento, il Mevushal (vino cotto) può essere toccato da ogni operatore purchè ad ogni travaso o altra operazione successiva sia presente l’autorità Rabbinica, la quale poi provvederà a certificare la congruità delle fasi di lavorazione nonché il prodotto imbottigliato attraverso da tre segni distintivi: l’etichetta, l’eventuale retroetichetta ed il tappo di sughero con il segno di riconoscimento o marchio del Rabbinato. In particolare in etichetta dovrà apparire il nome del Rabbino che ha eseguito il controllo e che rilascia il certificato, tale etichetta può anche essere eventualmente applicata sulle scatole d’imballaggio, sarà comunque sempre l’Autorità Rabbinica a rilasciare ogni volta il numero di etichette o tappi necessari all’operazione. Tutta la produzione annuale viene comunque accompagnata da un certificato originale registrato presso il Rabbinato Centrale d’Israele che ne garantisce tra l’altro anche l’esportazione. Rosh come detto è prodotto da uve aglianico, in verità chi si è appassionato negli anni a quel campione di ottimo rapporto prezzo-qualità che è il Rubrato, saprà cogliere in questo vino similitudini assai efficaci. Il vino sfoggia un bel colore rubino con fresche nuances violacee, mediamente consistente. Il primo naso è fragrante, intenso, non ampissimo, ma le sensazioni di frutta a polpa rossa e le note caramellose contribuiscono a definirne un profilo olfattivo molto invitante che chiude su leggere sfumature speziate. In bocca è secco, l’ingresso sul palato è molto gradevole, il frutto rimane in primo piano, delicato, pulito, anche in questa fase non si concede profondissimo ma è piuttosto gradevole ed appagante, leggero, schietto.

Tra le varie specifiche dettate dal Rabbinato ci sono ulteriori condizioni imprescindibili che l’azienda deve garantire per poter produrre vino Kasher, tra queste ne rammentiamo alcune tra le più importanti: le piante da cui provengono le uve devono essere vecchie di almeno 4 anni, le stesse ogni sette anni debbono essere lasciate improduttive e non è possibile produrre verdure o frutta tra i filari; Infine ad ogni vendemmia almeno l’1% della produzione di vino deve essere buttata nelle vigne rifacendosi al rito che simboleggia la tassa del 10% che una volta si pagava al Tempio di Gerusalemme.

Taurasi, in arrivo Anteprima Irpinia 2010

2 giugno 2010

Sabato 5 e Domenica 6 giugno 2010

Anteprima Irpinia 2010

Prima Edizione

Castello Marchionale – Porta Maggiore, Taurasi (AV)

le nuove annate di

Taurasi

Fiano di Avellino

Greco di Tufo

 all’attenzione di giornalisti, operatori ed appassionati

Per saperne di più contattate la Segreteria Organizzativa
Responsabile
Massimo Iannaccone cell. 392 9866587
Ufficio Stampa
Diana Cataldo cell. 320 4332561
Oppure collegatevi a:
www.anteprimairpinia.it
o mandate una mail a:
stampa@anteprimairpinia.it

Mirabella Eclano, il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2004 di Luigi Moio

19 Maggio 2010

L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro. (Milan Kundera, l’insostenibile leggerezza dell’essere).

Come Milan Kundera Luigi Moio¤ esprime un concetto talmente semplice e reale quanto sfuggente, presi come siamo ogni giorno dalla continua ricerca, nella vita come nel vino, di una continuità fine a se stessa impossibile da ottenere sistematicamente senza rinunciare alle emozioni; Alla base di tutto vi è un concetto elementare: ogni nostra azione, ogni nostro istante è irripetibile; Perché la vita stessa è irripetibile. Kundera con il suo meraviglioso libro ci dice che non siamo preparati ad essa e che non abbiamo seconde possibilità. Tutto ciò che scegliamo o consideriamo inizialmente come leggero rivela presto il suo incredibile peso.

Così Moio, in maniera disarmante concede attraverso i suoi vini una chiave di lettura del terroir antica e nuova allo stesso tempo, un ossimoro palpabile ad ogni sorso di questo straordinario Vigna Quintodecimo 2004, autentica territorialità ed eleganza da vendere, nettezza d’aglianico e finezza esemplare, lontana anni luce da quel Taurasi che dopo anni di intimo (non tanto) vagar sospeso tra il tutto ed il niente sembra aver riscoperto nelle piccole imperfezioni dei nuovi interpreti la sua franchezza. E’ così tanta la strada da fare, perchè pensare di aver già trovato la quadratura del cerchio? E’ perchè sprecare tempo (leggi denaro) e parole invece di investirli in ricerca e conoscenza? Questo il messaggio che mi è parso rileggere, ancora una volta in questo eccellente vino.

Il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2004 è vino incredibilmente espressivo, sin dal colore rubino vivace, concentrato e splendente, con appena accennate sfumature granata sull’unghia. Il naso offre un ventaglio olfattivo delizioso ed intrigante, varietale, intenso e complesso, sensazioni di finissimi terziari in ascesa ma appena espresse. Un ventaglio olfattivo imponente, decisamente aperto a concedere minuto dopo minuto, quarto d’ora dopo quarto d’ora sempre fresche sensazioni olfattive: piccoli frutti neri, fiori passiti a rincorrere nuances di spezie ficcanti ma suadenti, note balsamiche dolcissime cadenzate da nerbo e giustezza. Vino secco, in bocca entra con la stessa delicatezza delle parole di Kundera, innescando con la sottile invadenza una profondità attesa e allo stesso tempo sorprendente; il frutto pervade tutto il palato, costantemente sopra le righe, incanta e coinvolge per bene tutte le papille gustative, si ha quasi la sensazione di metterle costantemente in riga a chiedergli di aver ben compreso il messaggio prima di lasciare il campo allo spesso nerbo acido-tannico, presente ma castamente defilato in attesa di tempi migliori.

Un vino per i prossimi vent’anni, una emozione per i prossimi cento, aperta ad ogni confronto, la terra d’Irpinia racconta, Luigi Moio ci rende partecipe del suo canto!

Qui le degustazioni di tutti gli altri vini di Quintodecimo¤ del millesimo 2007.

Sessa Aurunca, Rosalice 2009 Masseria Felicia

16 febbraio 2010

Ci sono persone, prima che vini, che non smetteresti mai di raccontare per paura di non averli mai ringraziati abbastanza per il loro alacre impegno e profonda dedizione messi in campo sul fronte della salvaguardia e valorizzazione del proprio territorio.

Così non ho remore nel ritornare sulla famiglia Brini, su Masseria Felicia e sull’areale del Massico, su quella provincia casertana troppo spesso sulla bocca di tutti come valore storico e suggestivo di un’antichità florida e gloriosa ma ahimè tremendamente distante da una realtà oggigiorno troppo poco vissuta, camminata, raccontata per lasciarla divenire a tutti gli effetti pane quotidiano piuttosto che comunione della domenica.

L’azienda è a Carano, in località S. Terenzano, una piccola frazione di Sessa Aurunca, il primo comune per estensione della provincia di Caserta. Arrivarci è facilissimo, sia che sia arrivi da nord che da sud basta seguire la statale domiziana sino a Mondragone e poi risalire nell’interno, verso Sessa, oppure con l’autostrada Napoli-Roma uscendo a Capua, in meno di venti minuti vi ritroverete al cancello della famiglia Brini, dove vi accoglieranno come si accolgono gli amici a casa propria. La struttura è dei primi del novecento, il papà di Alessandro Brini la rilevò nel dopoguerra, vi era stato per tanti anni colono ed unico conduttore dei terreni. Il tempo poi ha dettato lentamente i suoi ritmi sino ai giorni nostri; La vecchia masseria è stata per tanti anni il luogo di rifugio di Sandro e della moglie Giuseppina prima di divenire il presente ed il futuro della figlia Maria Felicia, che oggi, assieme ai genitori e al marito, e al bravo enologo Vincenzo Mercurio¤ che li segue in cantina, ne cura le sorti in tutto e per tutto.

L’idea di guardare al futuro passa anche dal dare nuovo slancio e nuove prospettive ad una produzione sino ad oggi imperniata, giustamente, quasi esclusivamente sul nobile rosso tanto amato dai romani (e anche da me) addirittura in tre declinazioni: giovane (base), affinato (Ariapetrina) e, per così dire, invecchiato (Etichetta Bronzo). Oltre questi, poche sperimentazioni, nulla di stravagante, poche, pochissime bottiglie per dare libero sfogo ad uno studio approfondito sul potenziale delle varietà impiantate in azienda, un esercizio di stile sul tema autoctono che ha condotto negli ultimi tempi ad alcune riflessioni ed utili micro vinificazioni, per esempio del piedirosso in purezza (polpa viva), che resterà però bontà sublime ad uso e consumo per i vinaggi successivi ed eventuali a disposizione dei Falerno di cui sopra.

Altra intuizione, un rosato di aglianico in purezza, lasciatomi assaggiare in anteprima assoluta, in uscita nella prossima primavera e per il quale si è già scatenato il toto nome. Dal canto mio non voglio far mancare il mio supporto, suggerendo, con Rosalice, una dedica tremendamente necessaria alla dolce Alice, figlia di Maria Felicia che immagino già smanettare tra vasche e tinozze con la stessa fermezza e decisione con la quale difende i suoi spazi di gioco dalle altrui ingerenze. Nasce da una piccola parcella di vigneto ad aglianico che la scorsa vendemmia ha mostrato qualche limite di maturazione zuccherina, non però fenolica, così da offrirsi naturalmente alla vinificazione in rosa: sfoggia un colore rosa lampante, decisamente cristallino. Il naso è già pienamente espressivo, floreale suadente, frutti di sottobosco pregnanti, si apre con sentori di rosa e viola delicatissimi e poi su note di lamponi e fragola, dolcissime. In bocca è secco ed abbastanza caldo, mostra una evidente, piacevole acidità, tratto caratteriale di tutti i vini di Masseria Felicia, spalla utile ma certamente non invadente per trovare abbinamento ideale a molti dei piatti della nostra cucina tradizionale regionale, fusa ad un grado alcolico appena superiore agli undici e mezzo da conferirgli una beva decisamente scorrevole, leggera, che si lascia apprezzare anche per una discreta sapidità.

C’è poco altro da aggiungere, questo rosato non vuole certo emergere per tipicità o chissà cos’altro, e nemmeno come esaltazione di un terroir, sono ben altri i vini della famiglia Brini che hanno questo oneroso compito e a cui non smetterò mai di guardare, queste mille e dispari bottiglie serviranno più che altro per avvinare il palato prima di tuffarsi nel meraviglioso mondo del Falerno del Massico (leggi qui e qui), primitivo, aglianico e piedirosso che sia, basta che abbiano qualcosa da dire, raccontare, e non soltanto il blasone ed i fasti di un tempo florido ma, ahimè, assai lontano!

Sessa Aurunca, Falerno del Massico rosso 1999

2 febbraio 2010

C’era una volta una vigna ed una passione, siamo nei primi anni novanta quando Alessandro Brini e la moglie Giuseppina Ruggiero decidono di restaurare il casale di inizio novecento ereditato pochi anni prima dove si recavano di sovente per dare libero sfogo alle proprie passioni tramandategli dagli avi, il vino per il primo, l’olio per la seconda.

E’ il 1995, l’azienda agricola vive, finalmente, di nuovo slancio e soprattutto Sandro pare particolarmente soddisfatto dal vino che viene fuori dalle prime vendemmie, tanto da provare a metterne da parte qualche bottiglia per seguirne l’evoluzione. L’ettaro e mezzo appena reimpiantato di aglianico e piedirosso è posto proprio nel “giardino” di casa con vista sul monte Massico, da qui, in linea d’aria a meno di un paio di chilometri; è stato piantato così come si faceva (sbagliando?) un tempo, con ceppi di aglianico intervallati da piedirosso in percentuali più o meno rigorose: è infatti particolarmente istruttivo camminarne le vigne (piantate a guyot semplice) in questo periodo della stagione poiché con le prime potature e la legatura dei tralci si riesce perfettamente a comprendere le prime differenze sostanziali tra i due vitigni e degli interventi necessari per gestirli in allevamento. Quando si dice uvaggio, ecco, in maniera essenziale, cosa può rendere bene l’idea.

Sono questi anni di nuovo vigore, e Maria Felicia, figlia di Sandro e Giuseppina, poco più che ventenne decide di abbandonare il suo lavoro di copyrighter freelance per dedicarsi anima e corpo a questo nuovo progetto venuto fuori quasi per hobby ma che ha bisogno adesso di forte sostegno morale e fisico. C’è poco su cui riflettere, rimuginare, il richiamo della terra è più forte, la voglia di scoprire questo nuovo mondo del vino, di confrontarsi, di affermare quei principi sognati da papà e mamma prendono il sopravvento, tanto che oggi sono pienamente personificati nel suo modo di intendere e volere l’azienda, oggi il suo pane quotidiano, ed il suo vino, il Falerno degli antichi, lento e puro, austero e vero, nel mondo della velocità totale, senza quasi memoria. E’ una donna del vino giovane, brillante, con le idee chiare e la giusta fermezza di chi sa cosa vuole, di chi sa, per esempio, mediare in maniera intelligente tra l’indomabile rinnovamento arrivato con l’enologo Vincenzo Mercurio e la ferma disciplina ai principi tradizionali di papà Sandro.

Il Falerno del Massico ’99 è un po’ tutto questo, ma è soprattutto l’origine di tutto. La prima vendemmia, mai commercializzata, conservata gelosamente in pochissimi esemplari nella suggestiva cantina storica di casa Brini. Nasce proprio dal vigneto di cui sopra, senza nessun tipo di trattamento in vigna se non quelli cosiddetti naturali tramandati di padre in figlio e nessun accorgimento particolare se non l’amore per la propria terra; nemmeno una cantina, in garage solo una pigiadiraspatrice a manovella, una di quelle tanto belle da ritrovare nei musei del vino, un torchio abbastanza malconcio ma utile a smanettare sul proprio entusiasmo. Macerazione a temperature assolutamente incontrollate, lieviti più o meno indigeni (si dice così?), zero (dico zero!) solforosa. Insomma, qualcuno in vena di fare un po’ di business l’avrebbe potuto far passare per “bio-qualcosa” o magari affibbiatogli una tripla sigla per certificarne l’autenticità, i Brini non ebbero nemmeno il tempo di farci l’etichetta, intuirono però da subito il grande valore di quella scelta che ancora oggi ci fa parlare di quel tempo con non poco fervore. Il colore è bellissimo, rosso rubino vivo con appena accennate sfumature granata, limpidissimo e poco trasparente, consistente. Il primo naso è assolutamente spiazzante, la nota di riduzione sembra prendere il sopravvento, ma ha bisogno di tempo e noi glielo concediamo volentieri. La freschezza olfattiva è impressionante, il frutto appare ancora quasi acerbo, vinoso, polposo. Sentori di garofano, poi amarena spiritosa, note balsamiche ed eteree smaltate. Non si può dire certo un corredo fine, ma il fronte olfattivo è intenso e lungamente persistente. In bocca è secco, manifesta ancora una discreta acidità ed un tannino, come il frutto, pienamente espressivo e lontano, secondo me lontanissimo, dal divenire levigato. Il palato è avvolto dalla continua ricerca della salivazione, che tarda, non poco, a venire fuori. Un vino crudo, per niente superato dal tempo, tutt’altro, il tempo sembra proprio essergli passato accanto inosservato, sfiorandolo appena, temendone forse la forza.

Torrecuso, Vigna Cataratte Riserva 2003

22 gennaio 2010

Gira che ti rigira ci si ritrova sempre a parlare di aglianico, della sua austerità, della sua, a volte, sottile eleganza o come in questo caso, della sua possenza e veemente capacità emozionale. Unisce e divide a seconda di cosa si sta bevendo, del nome che si sta nominando e del territorio di cui ne rappresenta espressione. L’aglianico ha tante anime e tra le tante pur senza rimpianti ce ne sono alcune da amare profondamente.

L’aglianico del Taburno ne possiede una tutta sua e sta imparando nel tempo a conservarla gelosamente, ceppo per ceppo, filare per filare, con la terra che diviene preziosa ed il vino che ne nasce l’unica forza di rinascita, di rivincita, forse di vittoria su vini, a volte meri fratelli coltelli, sparsi qua e là a rubare la scena spesso indegnamente. Torrecuso oggi è il comune più importante della doc Aglianico del Taburno, qualcuno ha definito camminare i saliscendi intorno al borgo vecchio come fare un giro nelle Langhe piemontesi più nobili, io aspetto con ansia di girare a Barolo e Barbaresco ma nel frattempo non oso immaginare niente di simile ai colori e ai profumi autunnali intorno a Fattoria La Rivolta e Fontanavecchia. Dopo la vicina Castelvenere è il comune più vitato della Campania con i suoi oltre 24mila ettari e quello dove si concentrano il maggior numero di aziende vitivinicole. Il territorio ricade nel Parco Regionale del Taburno Camposauro istituito nel 1993 per proteggere i boschi secolari di castagni, lecci e faggi e gli abeti bianchi portati dai Borbone nel 1846.

Un paese completamente votato alla viticoltura, dicevamo, fortemente vocato, come la storia e la tradizione della famiglia Rillo, di papà Orazio e soprattutto del figlio Libero che ha saputo dare la sferzata necessaria a far crescere ed affermare Fontanavecchia come un riferimento di indiscutibile valore per i vini qui prodotti. L’intero areale torrecusano fino agli anni 50 era per lo più spezzettato in piccoli poderi sui quali si coltivava di tutto con le tecniche del tempo e tutto ciò che vi si ricavava soddisfaceva appena i bisogni delle stesse famiglie che conducevano i poderi. Solo qualche anno più tardi si scoprì quale fosse la vocazione più idonea che trovò nella vite e nell’aglianico in particolare la sua strada maestra, e sin da allora i Rillo scelsero bene quale strada intraprendere puntando sempre alla sua valorizzazione ed oggi, alcune loro interpretazioni, in certe annate sono assurti senza ombra di dubbio a capisaldi della viticultura campana.

Il colore di questo Vigna Cataratte Riserva è rosso rubino con riflessi granata, limpido, di buona vivacità e consistenza. Il primo naso è intenso e complesso su sentori di frutta rossa matura, prugna in confettura, poi vengono fuori note speziate, tabacco, sino all’emergere di sensazioni balsamiche, di liquirizia, poi ancora note di grafite. In bocca è secco e caldo, fresco quanto basta, dal palato tosto e coriaceo, dal tannino ben levigato dal tempo ma ancora presente e costante, vellutato solo sul finale di bocca grazie ad un residuo di frutto polposo, semizuccherino, ad abboccare la nota finale tostata tendenzialmente amarognola. La beva risulta costantemente di grande intensità e di notevole persistenza aromatica, avvolgendo il palato continuamente in una piacevole e sostenuta corrispondenza gusto-olfattiva. Un vino certamente robusto, figlio di una annata calda e probabilmente destinato ad una vita non lunghissima ma che ancora, dopo sei anni, mostra di avere carattere da vendere e godibilità da non perdere. Da bere su di una succulenta sella di coniglio farcita cotta a bassa temperatura, come quella di Francesco Sposito di Taverna Estia di Brusciano. 

Barile, Il Preliminare 2008 del Notaio

16 gennaio 2010

4_ilpreliminare-gallery

Dei vini di Cantine del Notaio, nonostante la giovine età dell’azienda (1998) sono già pieni gli annali; l’Aglianico è certamente il protagonista di una gamma ampia e decisamente sugli scudi in tutte le sue declinazioni: il Repertorio, La Firma, Il Sigillo, ognuno a suo modo protagonista del proprio essere, immediato e godibile il primo, opulenti e condensati gli altri due, pieni di una materia prima ricca e decisamente da attendere. Ottima riuscita anche del Rogito, un rosato quanto meno sui generis proposto dopo un lungo affinamento in legno, alla maniera dei migliori Tavel del Rodano.

Uscito da poco sul mercato, prima vendemmia la 2008, ecco la novità griffata come sempre con l’insolita nomenclatura notarile, Il Preliminare, un bianco igt da uve base aglianico (ed altre varietà a bacca bianca) vinificato in maniera soffice privando il mosto immediatamente delle bucce. Certo non è semplice affermare un ideale bianchista, seppur limitato, in una terra pressocchè appannaggio del solo Aglianico senza essere additati come banali e qualunquisti, ma anche in questo Gerardo Giuratrabocchetti ha saputo cogliere l’originalità della tipologia senza stravolgere più di tanto la vocazione dei suoi vigneti, utilizzando come detto proprio il vitigno principe vulturino e tirando fuori un vino davvero piacevole, invitante e di ottimo carattere.

Di colore giallo paglierino con accennate sfumature verdoline, è cristallino e di buona consistenza. Il primo naso è molto invitante di fiori bianchi e frutta a polpa gialla, in particolare di mughetto, di fiori d’arancio, poi banana e pesca. In bocca è secco ma abbastanza morbido, con una buona intensità e profondità gustativa, ha una beva fresca ed abbastanza sapida, chiudendo in maniera equilibrata in un finale di bocca piacevolmente mandorlato.

Un gran bel vino, una piacevole novità, ideale come entreè su di una parmigiana di pesce bandiera, una buona scelta intelligente su secondi di pesce abbastanza strutturati, penso per esempio al filetto di tonno appena scottato con erbette come quello di Felice Di Bonito de La Cantina dell’Abbazia di Pozzuoli, abbinamento dove fa bene il suo lavoro anche la buona concentrazione alcolica oltre i 13 gradi e mezzo. Good news from Vulture!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Sorbo Serpico, l’alto aglianico 2004 dei Feudi

6 gennaio 2010

Aglianico, aglianico, aglianico. Si sprecano gli elogi e gli applausi ai pregi del più prezioso dei vitigni a bacca rossa campani e forse di tutto il sud Italia. Si sprecano, alla stessa stregua degli encomi, i tentativi di carpirne e discernere le peculiarità attraverso vini esemplari avendo come riferimento oggi questo, domani quello: di clone in clone, di areale in areale, di vino in vino sino all’azienda di turno, all’etichetta del giorno. Un dato è certo, è un grande vitigno che può dare grandi vini con aspettative di lunga vita ma non bastano, ad oggi, le vendemmie vissute per poterne trarre il dado certo di quale sia la migliore strada, in assoluto, percorsa, ne tantomeno l’unica da imboccare. Tuttalpiù, divergenze importanti per risultati unici.

In principio fu Serpico, tra i pochi, primissimi vini a reinterpretare il modello aglianico di Taurasi in Irpinia, non entrando volutamente nel disciplinare d.o.c.g. per offrirsi prontamente al mercato e già (più o meno) dopo 14 mesi di barriques e poco più di sei mesi di affinamento in bottiglia. Quali e quanti dopo? Tanti, ma più che altro fini a se stessi, utili senz’altro a rinfoltire i grami listini aziendali ed a specchiare le ambizioni di rappresentanti manolesti, molto poco funzionali, a ragion del vero, a quel percorso di zonazione vitivinicola tanto necessario e caro a molti, oggi, quanto più semplice da intuire (ed assolutamente disatteso) in quel tempo.

Un grande rosso in lenta ma costante crescita qualitativa, qui nel millesimo 2004 davvero in grande spolvero, soprattutto ai fini di una propria e specifica  caratterizzazione stilistica. Si sono susseguiti, negli anni, altri esempi e cloni di una idea diversa di aglianico irpino capace di svestire l’etichetta “Taurasi”, per qualcuno sempre troppo fedele a se stessa per poter ambire a mete e mercati più preziosi e di più ampio respiro internazionale. Ma il Serpico rimane ancora un modello inarrivabile nonostante qualcuno dalla memoria più ferrea ricorderà le difficoltà iniziali di questo vino, accolto sul mercato con tanta curiosità quanto scettiscismo:  siamo, calendario alla mano, nel 1995, siamo, non a caso aggiungo io, ancora in epoca di sfide e scommesse con Luigi Moio in regia, che lascerà a distanza di qualche mese (suo malgrado), il posto a Riccardo Cotarella. Il colore, a distanza di cinque anni, è rubino vivace, praticamente impenetrabile. Il primo naso è teso su di un ventaglio olfattivo davvero complesso: fruttato, floreale, balsamico, in primo piano ciliegie nere, viola passita, liquirizia. Dopo poco si capisce la grandezza di questo piccolo gioiello enologico: l’effluvio delle note olfattive continua su sentori speziati di coriandolo, di pelle animale, terra bagnata, sempre costantemente fini ed eleganti. In bocca è secco e caldo, possiede una quadratura acido-tannica sorprendente ed eccellente: durezze e morbidezze in perfetta fusione ed armonia, per un vino da godere oggi mentre scorre nel bicchiere piuttosto che tra un decennio almeno. Da aprire tempestivamente per goderne al meglio del frutto, almeno un paio d’ore prima, servire in calici ampi e su piatti di grande carattere e succulenza e/o aromaticità: su tutti, agnello arrosto e mozzariello (appena piccante) alla brace.

Sant’Agata de’Goti, il Gotico 2007 di Ciervo

5 gennaio 2010

Si scrive Sant’Agata dei Goti ma si legge, per molti, Mustilli. Il gran lavoro portato avanti negli anni, con grande sacrificio ed ostinazione dall’ing. Leonardo e Marilì, proseguito poi nel tempo dalle tenaci e solari Paola ed Annachiara, hanno senza dubbio contribuito in maniera decisiva alla nascita ed alla crescita di un terroir sempre troppo poco appariscente sulla scena enologica campana, pur essendone, da un punto di vista volumetrico, l’areale regionale di maggiore interesse vitivinicolo. Un primato costantemente subìto come fardello piuttosto che elogio alla nobile arte enoica qui conosciuta e praticata con successo sin dai tempi dell’antica Saticula e sempre commista alle molteplici attività produttive del luogo. Il riscatto è alle porte, e passa soprattutto da vini come questo Gotico 2007 della famiglia Ciervo, dallo straordinario rapporto prezzo-qualità, che lo vede collocarsi nelle enoteca, in vendita al pubblico, a poco più di 4 euro e 50. Negli assaggi di dell’ultimo scorcio del 2009, solo il Gallicius Aglianico di Adolfo Spada mi ha colpito così piacevolmente tra i vini rossi di questa fascia di prezzo, sempre più un riferimento indispensabile per i rivenditori specializzati per uscire fuori da questo stato di catalessi economica venutosi a creare negli ultimi anni, quantomeno per scongiurare il ritorno, insopportabile per molti, soprattutto per coloro che se l’erano allegramente lasciato alle spalle appena pochi anni fa, del pur redditizio mercato del vino sfuso.

Nasce da vigne di aglianico ed una piccola percentuale di merlot, allevate a spalliera con una media intensità d’impianto, circa 3500 piante per ettaro esposte a sud, sud-est, allignate da tempo intorno alle colline di Sant’Agata de’Goti. In vinificazione si predilige l’utilizzo del solo acciaio con una fermentazione a temperatura controllata, intorno ai 25°, ed un tempo di macerazione bucce-mosto mai inferiore ai 20 giorni, per garantire una estrazione lenta, controllata e non troppo spinta.

Ne viene fuori un vino dal colore deliziosamente vivo, rosso rubino con sfumature violacee, di buona vivacità e poco trasparente. Il primo naso è una sventagliata di frutto e vinosità, mora, lampone e rosa rossa, lentamente vengono fuori anche note vegetali e balsamiche, gradevoli, fini. In bocca è secco, caldo, di buon corpo, discreto e delicato il tannino che scorre sulle papille gustative, durante la beva, senza lasciare tracce ruvide o tendenzialmente amare. Ottimo anche il finale di bocca, fruttato, pulito ed equilibrato, con una piacevole sensazione di nuovo balsamica che richiama la buona fittezza dell’aglianico ed una armonia complessiva esemplare, tipica del merlot. Un vino facile, senza ombra di dubbio, ma ogni tanto non è male tenerne a portata di mano uno o due di riferimento, soprattutto per rinsavire la voglia di bere bene e spendere appena una manciata di euro, in questo caso davvero pochi, e mai investiti così bene!

Consigli per gli acquisti? Solo buoni suggerimenti!

17 dicembre 2009

Una piacevole conversazione con l’ostetrica, stamattina, mi ha lasciato riflettere su alcune questioni che spero di avere tempo di tracciare su questo blog.Nel frattempo però, così come ho fatto con lei, vorrei regalare alcuni consigli utili per scegliere bene il regalo da fare all’enoappassionato di turno. Spendere bene i pochi denari che si è deciso di investire per un regalo, soprattutto se materialmente “effimero” come una bevuta, non è mai male.

In tempo di Natale vanno a ruba i “marchi storici”, tanto velocemente quanto il loro riciclaggio; pertanto, se la persona a cui dovete fare un regalo non ha, secondo le vostre conoscenze, una particolare educazione a bere vini ricercati, avete scelto il giusto. Il “marchio storico” ha sempre il suo fascino, è immediatamente apprezzato, gradito e garantisce spesso anche una qualità media dei suoi vini abbastanza alta; pensate poi al fatto, da non trascurare mai, che per l’occasione, qualora risulti un regalo, per così dire, in eccesso, potrà essere anche facilmente riciclato; non avreste, quindi, potuto scegliere di meglio.

L’azienda famosa, quella presente in tutti i buchi e pertugi della distribuzione ha sempre gran mercato, ma anche il nome del vino: Barolo, Brunello, un po’ meno ma in grande recupero l’Amarone, il Taurasi sono vini da non mancare di prendere in considerazione se siete a secco di idee. E di questi, potete starne certi, in questi giorni troverete anche succulente offerte commerciali: fate attenzione però a che non siano svendite, perchè va bene che le aziende hanno bisogno di svuotare le cantine, ma anche i commercianti non scherzano, per l’occasione, nel rifilare il peggio delle denominazioni su citate.

Altra questione è quella legata al dove comprare i regali. E’ importante scegliere bene dove cercare le vostre preziose bottiglie che non necessariamente, sia ben inteso, deve avvenire esclusivamente nelle enoteche. Negli ultimi anni è cresciuta molto la sensibilità della grande distribuzione verso i vini di qualità, fattostà che si possono trovare tante diverse etichette disponibili anche nei più piccoli dei supermercati; state però attenti a che le bottiglie vengano conservate bene, spesso le luci forti utilizzate per illuminare i reparti possono causare in qualche modo surriscaldamento delle bottiglie (soprattutto quelle poste più in alto), ma questo è forse il male minore. Peggio avviene per quelle stoccate in depositi non giustamente condizionati, muffe e sbalzi di temperatura non fanno certo bene alla sanità di un vino. Attenti a quelle che vengono spesso utilizzate per fare esposizioni nei banchi salumeria (etichette opache, a volte ingiallite) e a quelle bottiglie, da bandire assolutamente, messe in bella mostra in vetrina. Quando comprate qui, sarebbe anche opportuno informarvi se in caso di difetti evidenti del vino o “sentore di tappo” vi sarà data l’opportunità di avere una nuova bottiglia o rimborsato l’importo pagato, questa è anche una delle ragioni che vi deve indirizzare a quei luoghi che sapete tra i vostri abituali.

Nelle enoteche, è prassi, ma non tutti la applicano, “cambiare” le bottiglie: che è cosa buona e giusta. Qui è importante precisare che oltre alle banali osservanze di cui sopra, ci si deve aspettare altri accorgimenti e servizi assolutamente indispensabili. Chi gestisce l’enoteca deve avere forte propensione alla professionalità, meglio se certificata (ma non è certo indispensabile) e deve essere  una persona con la quale ci si può confrontare apertamente sul vino, sul suo mondo, sul proprio gusto senza per questo essere tediati da termini tecnici o poetiche evasioni.

Disponibilità, affabilità vi potranno aiutare a scegliere meglio il vostro regalo ideale, la sua professionalità sarà quel valore aggiunto spesso disatteso in altri luoghi che vi potrà indirizzare oltre che a scegliere il giusto vino magari anche a capirci qualcosa in più: l’enoteca non è un luogo dove entrare avendo fretta di uscire, è anzi il posto giusto dove lasciare scorrere via le lancette dell’orologio seguendo, affascinati, il percorso fantastico tracciato dalle etichette e dai suoi protagonisti. Chi saprà accompagnarvi con racconti e storie di vini e persone incontrate vi avrà offerto un servizio impagabile. Oltre ai “marchi storici” è proprio qui che si possono scoprire realtà nuove e piccoli gioielli, piccole rappresentazioni liquide di una ruralità fondamentale, con poca “faccia” e tanta sostanza non senza piacevoli sorprese. Diffidate però dagli anarchici, quelli che spendono il piccolo per il bello ed il solo buono, questi, credetemi, non sono buoni nemmeno per il brodo della minestra maritata! 

In sintesi, regalate vino per il prossimo Natale, compratelo pure dove vi pare, ma che abbia una storia da raccontare, un’ideale a cui dare voce, e che soprattutto vi sia consegnato nelle mani da chi il vino lo vive con amore e professionalità e non solo come una qualunque altra battuta di cassa!

Quintodecimo, il 2007 secondo Luigi Moio

15 dicembre 2009

Tutto inizia con una domanda, con la quale ci lasciamo la vigna¤ alle spalle prima di accomodarci in casa di Laura e Luigi per la degustazione dei vini: “Moio realizza Quintodecimo, il suo sogno, perché in Irpinia?”.

Più di una le risposte, che aprono discussioni¤ sul passato ed auspici sul futuro, argomenti che hanno fondamenti più o meno espliciti di cui non si può non tenerne conto e che si potrebbero sintetizzare in questa frase: “Ero stanco di rincorrere sfide, era venuto il momento di lanciarne una,  quella decisiva”.

Premesso che: ha fatto la storia dell’enologia campana, ha stravolto atavici equilibri e bilanciati dei nuovi, ha rilanciato sin da tempi non sospetti il senso fondamentale della terra, della vigna prima di tutto al quale ha applicato con minuziosa visceralità il concetto, per molti secondario sino ad allora, di conoscenza scientifica dei suoi elementi. Ha reinventato, praticamente dal nulla, progetti sparuti divenuti in pochi anni perle enologiche, ha dato grande slancio a cantine cooperative con oltre 400 soci e saputo esaltare, allo stesso tempo, il valore aggiunto di piccole aziende a conduzione familiare, interpretando alla grande quel concetto di “unico e raro” tanto in voga oltralpe e spesso, alla meglio, solo mestamente scopiazzato nell’italica penisola. La Falanghina, il Pallagrello Nero e Bianco, il Casavecchia, la Pepella, la Ginestra, l’Aglianico, il Fiano di Avellino, il Greco di Tufo: piccoli vitigni e grandi vini con un dna straordinario ed un solo grande interprete: Luigi Moio.

Anteposto che: l’Irpinia è un territorio unico, e qui si fanno vini di eccezione, Fiano di Avellino, Greco di Tufo, Taurasi. Ha un territorio caratterizzato da un continuo succedersi di montagne, colline, pianure intervallate da corsi d’acqua con terreni che presentano un’ampia variabilità. E poi la vicinanza della costa tirrenica, che da qui dista poco più di 60 chilometri alternata alla rigidità appenninica profondono nelle vigne Irpine elementi contrastanti come freddo, neve, vento, piogge, gelate, caldo estivo, tutte condizioni che giustamente condensate portano le uve a giusta maturazione ed una concentrazione di tali peculiarità da partorire vini di fascino e carattere superiore. Ancora del tutto inespressi.

Desumo: vini di eccezionale equilibrio, in questo momento, espressioni nitidi di ciò che solo il tempo ci dirà quanto tipico del loro territorio di origine oppure interpretazione del loro illustre artefice.

Campania Falanghina Via del Campo 2007, il bianco del cuore, quel vitigno sul quale il professore ha riversato anni di studi minuziosi regalandoci una delle poche pubblicazioni scientifiche sul suo profilo agronomico ed organolettico, oggi testo imprescindibile per gli appassionati di questo delizioso e generoso vino campano. Via del Campo è anche il nome di una delle più struggenti canzoni di De Andrè, da giovane una delle prime a passare tra le corde della sua chitarra, così proprio come una grande interpretazione della Falanghina vuole oggi riversarsi nei calici di ognuno e conquistarli. Di colore giallo paglierino con nuances dorate, cristallino. Ha profumi intensi ed avvolgenti, fini ed eleganti. Fiori bianchi, frutta a polpa gialla, minerali. Netti riconoscimenti di mela e banana sono ben presto sovrapposti ad iniziali fresche note mentolate e minerali. Vino delizioso. Ha un gusto secco, di buon corpo e vibrante freschezza, un bianco da pesce e da carni bianche, una Falanghina di carattere.

Fiano di Avellino Exultet 2007, “[…] non mancheranno, le prossime vendemmie a delinearci un profilo più altisonante per questo vino, degno insomma del miglior Moio”, così definivo l’Exultet ’06¤ l’anno scorso, convinto di non aver trovato un fiano in grande spolvero ma certo che era solo l’inizio di un percorso verso l’eccellenza. Sono rimasto sinceramente impressionato da questa bevuta, un vino di grande impatto olfattivo, grasso e voluttuoso al naso come in bocca. Mai bevuto prima. Il colore è splendente, giallo paglierino con note verdi che rincorrono una luminosità esemplare, il primo naso è possente, esplosivo: tartufo bianco sottile, elegante, penetrante. Poi viene fuori un varietale accattivante, note floreali di tiglio e di acacia, sfumature mielate e tostate. In bocca è secco, avvolgente con una trama acida invidiabile soverchiata sul finale da una deliziosa matrice minerale. Da bere per puro piacere, da rimanerci col naso attaccato dopo aver ingurgitato ostriche a palate.

Greco di Tufo Giallo d’Arles 2007, la pittura come la musica rifugio intimo dell’uomo Moio, chi visita la sua cantina rimarrà folgorato (quasi sconcertato) dalla maniacale ricerca dell’ordine e della pulizia, così come chi entra in casa sua rimane affascinato dai tanti quadri che riprendono soggetti e paesaggi impressionisti, tutte opere personali, alcune delle quali devo dire, davvero belle. Il giallo d’Arles era il colore preferito da Van Gogh, quello che caratterizza per esempio la “Vigne Rouge”, giallo tendente quasi all’ocra, lo stesso colore che si può ammirare nel Greco di Tufo 2007 di Quintodecimo; timbro cromatico davvero importante per quello che è però il vino, in questo momento, meno impulsivo della batteria bianchista assaggiata. Primo naso sottile di frutta gialla matura, nitidi sentori di albicocca e cedro candito, poi mandorla. In bocca è secco, caldo, di buon corpo, frutto in perfetta armonia ma poco profondo, acidità comunque ben legata, gode di una beva di buona freschezza e sapidità. Un bianco importante da abbinare a piatti di pesce grassi, penso per esempio ad una trippa di baccalà ma anche a formaggi vaccini mediamente stagionati. 

Irpinia Aglianico Terra d’Eclano 2007, piccolo Taurasi cresce. Appena due dati tecnici per meglio inquadrare dove e come nasce questo piccolo gioiello irpino. Nasce da sole uve aglianico di Mirabella Eclano, vigneto di circa 4 ettari in corpo unico allevato con cordone speronato con un impianto di 5000 ceppi per ettaro piantati con esposizione sud/est, sud/ovest, nord/ovest tanto per non farsi mancare nessuna delle possibili influenze micro-climatiche, ad un’altitudine di circa 450 metri sul livello del mare ed una resa per ceppo di circa 1kg. Dopo la vinificazione il vino passa almeno 18 mesi tra barriques nuove e di primo passaggio ed almeno 6 mesi in bottiglia. Il duemilasette è un vino entusiasmante! Il colore è rosso rubino vivace, cristallino e poco trasparente, consistente nel bicchiere. Il primo naso è sinceramente ricchissimo di frutto e spezie, intenso, complesso, fine, elegante, debordante di sensazioni fragranti ed invitanti. Il bouquet vira continuamente dal floreale al fruttato, allo speziato, netti i riconoscimenti di viola e confettura di prugna, di pepe e carruba. L’ampio spettro olfattivo rimane intenso e complesso per tutta la beva, armonicamente fuso ad un gusto asciutto, tendenzialmente morbido, di buona compattezza e finezza superlativa. Mai bevuta di aglianico fu così equilibrata ed armonica, carattere da vendere ma avvincente e godibile dal primo all’ultimo sorso, con tannini che appaiono dissolti in un frutto sempre al centro dell’attenzione, le durezze sono come ammantate dalla setosità glicerica del corpo del vino.

Il Terra d’Eclano è il primo di quelli che saranno i tre grandi cru di aglianico di Quintodecimo, già affiancato quest’anno dal Taurasi¤ e presto dal Grande Cerzito che vedrà però la luce solo tra qualche tempo, non appena la vigna avrà maturato il giusto spessore che Luigi Moio intende poi trasferire in sintesi a tutti i suoi vini, quello di essere ognuno nella propria dimensione, dalla falanghina all’aglianico, una “sfida”, quella di cui ha bisogno ogni uomo per guardare sempre avanti nella propria vita, spesso passata a raccoglierle, qualche volta a vincerne alcune, meno a lanciarne.

Questa è la mia terra, vivila con il cuore in mano

12 dicembre 2009

Si possono sprecare parole di elogi, rivangare una storia millenaria che comunque ritorna da se ogni qualvolta si mette mano alla ricerca delle origini, citare persone, luoghi, nomi che vanno ad incarnare una storia, un paesaggio, una identità che pur nelle mille diversità conducono sempre ad un unico concetto ormai chiaro a tutti: Campania Felix!

Terra mitica per i greci, giardino imperiale per i Romani, per i regnanti delle due Sicilie poi, ci hanno trapassato il cuore in tanti e feriti i peggiori, ma l’anima, la vocazione rimangono pure ed originali. Io, noi amiamo i vini della Campania, questo è tutto. Ma è solo l’inizio…

Il fuoco, vedo il Vesuvio¤ con la sua forza immensa, con la falanghina e la coda di volpe (qui caprettone) che hanno innaffiato terre atlantiche quanto a levante, ridato vita ed humus a portafogli aridi come le anime che ci marciavano sotto, profumi di una terra del fuoco che ha finalmente ritrovato la sua dignità e che corre, entusiasta, verso il suo riscatto. Olivella, sciascinoso, catalanesca, discendono il Monte Somma come lava e lacrime¤ sino ai bicchieri di ognuno.

Pietra lavica e fuoco che nei Campi Flegrei nutrono per ‘e palummo¤ e falanghina¤, iodate dal mare del golfo, inasprite dalle terre di tufo, dalle sabbie degli Astroni¤, le acque dell’Averno come discesa agli inferi per poveri diavoli che giammai ebbero di che nutrirsi; Ischia, Capri, mete verdi ed azzurre sempre prostrate ai palati più fini e leggeri, biancolella, ventrosa ed uva rassa a inebriare ricchi e viziosi di un gioco infinito, magari piantati in asso da sirene senza più voce ne canti da regalare, a Sorrento come a Furore¤, a Ravello o a Tramonti¤: tintore, pepella, ginestra, san nicola, fresche bevute e sapidi rospi, ebbri da panorami mozzafiato e da tinte rosse, fosche di primo mattina.

Il mare, azzurro, cristallino, brillante come diamanti, il Cilento ed i sassi, la pietra liscia di spiagge incantate, incontaminate proprio ai piedi di montagne irte ed adombrate, frescure che esaltano vini di eccellente spiccata aromaticità, il fiano su tutti, e rossi corpulenti, polposi, minerali, rei di accecare il palato e conquistare lo stomaco; piccoli vigneti, agricoltori che cercano se stessi e colgono in flagranza di reato la propria anima¤, la propria origine, scappati via nella città e rifuggiti da questa per ritrovarsi ambiziosi di riscoprirsi appartenenti alla campagna. L’aglianico rifugio di destini controversi.

La terra, aspra e generosa, ferita in maniera indelebile e capace di ricostruirsi un futuro più solido, più forte della malasorte, più ambiziosa di generazioni semplici e conservatrici. Ecco l’Irpinia, la terra di mezzo, spartiacque di culture ed esaltazione di colture, l’aglianico¤, il fiano di Avellino¤ ed il greco di Tufo¤ come massima espressione enologica della nostra regione. Una convulsa evoluzione che ha stravolto le menti e gli equilibri italici, vini prestati al desìo altrui divenuti finalmente protagonisti di se stessi, della propria origine, testimoni¤ della propria terra¤ che pian piano stanno ritrovando e marcando come unicità e rarità: è Taurasi la porta del successo!

La creta che diviene fango, prende forma tra le mani, diventa specchio della propria anima, finalmente il Sannio-Beneventano balla da solo. Polmone inesauribile a rimpolpare vinacci da niente, vinodotto inesauribile che ha scosso le coscienze e motivato princìpi di autenticità¤. Sant’Agata de’Goti, Castelvenere, Guardia Sanframondi, terre spogliate come le loro vigne dalle foglie in autunno, coraggiosamente oggi rivendicano una identità superiore: il piedirosso, l’aglianico, ma anche la falanghina ed il greco, la barbera e l’agostinella, un circolo vizioso che circuisce e vizia chi non si ferma al palo, chi riesce a vedere oltre e a toccare con mano. Piaceri ineluttabili al caldo di un camino accesso a fescine.

Il vecchio e il nuovo, il passato che avanza nel futuro che è già prossimo, che è già oggi. Il Falerno¤ come vocazione antica, primitivo rosso campano tanto amato dai romani che incapaci di reggerne la possenza lo sventravano con nefandezze delle più dolci pur di mentire a se stessi. L’Ager Falernus¤ come terra eletta che riscopre oggi una vocazione per troppo tempo assopita e banalizzata, il Massico¤ che vive una nouvelle vogue entusiata di esserci e di scomettere su se stesso.

Da qui a Roccamonfina¤, vigneti sperimentali e gran cru campani, ricerca ed innovazione che regalano grandi vini e simpatiche interpretazioni, l’aglianico maritato al piedirosso, la falanghina vestita con il sauvignon, uno strappo, quest’ultimo, alla tradizione da non confondere con la tradizione stessa, una fiche buttata lì sul tavolo verde che vale la giocata ma non deve essere la partita, non abbiamo bisogno di mezzucci per abbreviare il tragitto, solo un po’ più di palle per guadare il fiume. Attributi che non sono mancati a chi¤ ha reinventato poco più in là una viticultura scomparsa, a chi, per esempio riscoprendo il pallagrello¤ bianco e nero ed il casavecchia¤ non ha abbassato le braghe agli storpi e biechi burocrati del no e ci continua a regalare emozioni liquide pure attraverso vini esemplari e ricchi di fascino.

A costoro e a tutti quelli che amano la vigna, piccola¤ o grande¤ che sia, io dico grazie. A tutti quelli che di fronte a questi vini si troveranno ribadisco: “questa è la mia e la vostra terra, vivetela con il cuore in mano!”

© L’Arcante – riproduzione riservata

Terzigno, tutti i vini di Villa Dora ed un memorabile Lacryma Christi rosso Forgiato ’01

8 dicembre 2009

E’ il vino che non ti aspetti, ti sorprende a tal punto che a fatica credi di stare bevendo un Lacryma Christi! 

Diversi anni fa quando conobbi Vincenzo Ambrosio, il titolare di Villa Dora, ebbi subito l’impressione di stare stringendo la mano di una persona per bene, e che avrebbe sicuramente portato nella viticoltura vesuviana una sferzata di orgoglio ed entusiasmo sino a poterne rivalutare profondamente la stessa denominazione, secondo me, tra quelle campane, la più interessante ed eclettica che si possa annoverare tra i disciplinari regionali, per la particolare identità del territorio, per la diversità e l’autenticità dei vitigni coltivati e vinificati in più declinazioni e non da ultimo per il richiamo storico culturale inevitabilmente unico in questo lembo di terra strappato letteralmente al fuoco.

Eppure del Lacryma Christi del Vesuvio, oltre la storia ed i fiumi di vino venduti nel mondo rimane sempre l’alone di una denominazione vetusta, l’idea statica di un vino fine a se stesso, souvenir d’antàn senza pretese per le carovane di turisti con sandali e calzini bianchi della Penisola Sorrentina piuttosto che liquido emozionale per gli appassionati importatori nipponici che hanno proprio in Giappone costituito del nostro beneamato, un brand straordinario di “vino del vulcano”. Camminare le vigne di Villa Dora è appassionante, io l’ho fatto più di una volta, dapprima per curiosità, poi sempre per pura passione.

Siamo nel cuore del Parco del Vesuvio, a Terzigno, dove la terra è nera e dura come le pietre laviche dei muretti a secco che cingono le vigne e le difendono dal bosco, un percorso emozionale da vivere, su e giù per i saliscendi tutti intorno alla piccola cantina gioiello con annesso frantoio, tra le vigne di falanghina e coda di volpe, di aglianico e piedirosso, 13 ettari di uve ricche, sane che danno vita a vini straordinari che meriterebbero certamente migliore conoscenza e sorte da parte di un mercato e di un consumatore abituato, di inerzia, ad accontentarsi di bere una denominazione invece che ciò che di una terra è la vera espressione, oro puro, il nettare più prezioso.

Il Vigna del Vulcano, Lacryma Christi bianco è un vino che sfida il tempo, uvaggio di coda di volpe e falanghina di straordinaria complessità e mineralità, tra i migliori bianchi vesuviani mai assaggiati e riassaggiati nel tempo, il 2005 proprio in questi giorni mi ha regalato ancora una impressionante verve gustolfattiva, un vino portentoso e coraggiosamente consegnato al mercato dopo almeno due anni di affinamento tra acciaio e bottiglia, una scelta sicuramente inusuale per la consuetudine storica dell’areale.

Il Gelsonero, Lacryma Christi rosso è il connubio perfetto tra il piedirosso e l’ aglianico dell’areale, tra la leggerezza e l’immediato fruttato del primo e l’austera speziatura, la polposità del secondo, un vino proiezione reale di ciò che declinato per tante volte quante sono le bottiglie prodotte sul Vesuvio potrebbe essere la denominazione: un viaggio emozionale tra i diversi interpreti moderni di una storia antica, uno vino subito godibile al debutto sul mercato ma capace di evolvere e maturare nel tempo.

Questo lo spirito con il quale nasce anche il Forgiato, il rosso di punta dell’azienda, l’essenza forse di tutto il progetto di Vincenzo Ambrosio affidato sin dalla prima ora a Roberto Cipresso, l’enologo filosofo che certamente ha trovato sulle pendici del Vesuvio un laboratorio naturale di eccezionale vocazione dove sperimentare al meglio tutte le sue teorie. Il 2001 è un vino possente, da saper aspettare, incredibilmente longevo, fuori pertanto dai quei canoni di cui sopra che si ha necessità di superare per godere fino in fondo di ciò che questa terra sa veramente regalare al suo avventore. Selezione accurata delle migliori uve aglianico e piedirosso, elevato per circa 24 mesi tra legno e bottiglia, si presenta con un colore intrigante, rosso rubino con piccole nuances granata, poco trasparente, di buona consistenza nel bicchiere.

Il primo naso è intenso su sentori terziari, ma non stucchevole: vira dal tabacco alla liquerizia, dalla confettura di more selvatiche a rimandi di polvere di cacao; Il vino è aperto da parecchie ore, quindi riesce ad offrire di se un ventaglio olfattivo davvero complesso ed intrigante sino a sentori animali e di terra. In bocca è secco, caldo, conserva una discreta freschezza ed una piacevole profondità e polposità del frutto, in perfetto equilibrio. Un rosso davvero stupefacente, qui alla sua prima annata, aspettato pazientemente per 6 lunghi anni, utili a superare le iniziali riserve e certamente ad accrescere, magari sostanzialmente, la cultura e conoscenza del vino, di cui non si smette mai di aver bisogno!

© L’Arcante – riproduzione riservata

Chiacchiere distintive, Luigi Moio

7 dicembre 2009

E’ una bella giornata, e nonostante le prime bizze facciano pensare al peggio, la macchina va e vuole arrivare lontano. Arriviamo a Mirabella Eclano in tarda mattinata, ci lasciamo alle spalle sulla statale il bellissimo Radici Resort dei Mastroberardino prima di imboccare la viuzza che in località Cerzito cia apre allo straordinario scenario del piccolo chateau di Luigi Moio e Laura Di Marzio nel cuore del Taurasi d.o.c.g..

Luigi Moio - foto A. Di Costanzo

Quintodecimo ci appare come un bellissimo giardino d’inverno con colori bruni e giallastri a rincorrersi come nel più ermetico dei quadri impressionisti, con in cima la sua bella e discreta casa colonica con il tetto rosso. Ci accoglie Laura e subito dopo arriva Luigi Moio, è dalla prima mattinata in giro per l’azienda a verificare i dettagli dei lavori ancora in corso su e giù nella cantina. L’approccio, devo dirlo, è un po’ contratto, pare quasi accademico, ma non poteva essere altrimenti, la riverenza nei confronti del professor Moio c’è, traspare, lo riconosciamo, eppure impareremo a scoprirlo sotto una veste diversa, piano piano durante questa mattinata d’un tratto avremo capito perchè qui si fa la storia mentre altrove solo chiacchiere, come grappoli censiti uno ad uno, come acini selezionati uno ad uno arriveremo al cuore di Quintodecimo, alla terra, al sogno, all’uomo, poi al vino, alle sensazioni ed alle emozioni che evocano, esplorano, regalano, all’esaltazione di quella parola di cui tanti abusano ma che pochi riescono a proporre con tale e tanta naturalezza: terroir.

“Quintodecimo nasce qui perchè qui c’è quello di cui avevo bisogno, così immaginavo un giorno la mia azienda, nel cuore dell’irpinia perchè l’irpinia la porto nel cuore; con l’aglianico, il fiano ed il greco in primis perchè sono, senza rischio di smentita, i vitigni più importanti della nostra regione e da questi nascono i vini di grande profilo organolettico. La Falanghina poi è senza dubbio il vitigno a cui sono maggiormente legato, era il momento di concedergli quel riscatto che merita ed il valore straordinario che ha ancora da conquistarsi sul mercato” . Un sogno inseguito e costruito negli anni a macinare chilometri in giro per il mondo a rincorrere conoscenza e tecnica da profondere poi qui, a Mirabella Eclano, in un’azienda con un vigneto giardino, una cantina che scopriremo poi essere stata pensata oltre trent’anni fa, sin dagli ultimi esami da perito agrario, prima di tutto quel percorso che avrebbe formato e forgiato il professore Luigi Moio, ordinario per professione straordinario per vocazione. “Ho nutrito tante passioni sin da piccolo, la chitarra, la pittura, l’arte, il simbolismo, oggi sono profondamente innamorato dei miei figli, della mia Laura e del mio lavoro in questa terra meravigliosa”.

Siamo in cima alla vigna, proprio ai piedi della cantina, mentre parla, mentre racconta la sua storia il clima accademico è già virato nella conversazione, nel confronto, quello concesso all’amico di ritorno da un viaggio straordinario che ha necessità di raccontare e che abbiamo sete di ascoltare. Ascoltare Luigi (a conferma di ciò, nel frattempo abbiamo deciso di darci del tu) è come il sottile piacere provocato dal cioccolato fondente sulla lingua, lentamente cede la sua austerità alla subliminazione della gola, e diviene piacere; ascoltarlo mentre parla senza perdere di vista nemmeno per un attimo il vigneto è come se stesse semplicemente ripetendo ciò che proprio quella vigna gli ha chiesto di fare: “raccontami!”

Cantina a Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Ci spostiamo in cantina, alcuni collaboratori stanno preparando le ultime (poche) casse di vino rimaste, colpisce subito la presenza di tanti piccoli tini d’acciaio¤, inizia proprio qui un’altro viaggio, l’applicazione di tanti accorgimenti profusi negli anni qua e la’ in giro soprattutto nel sud Italia nelle aziende che segue come consulente, ma che solo qui hanno acquisito corpo unico ed espressione oserei dire “totale”: “vengono vinificate uve di tante piccole parcelle dei vari vitigni che lavoriamo, pertanto osservare ognuna di queste peculiarità già dalla prima fase produttiva mi serve per capire, esaltare ogni singola caratterizzazione propria di questo o quel vigneto“.

Ci incamminiamo lungo la barricaia¤ accompagnati dal gradevole profumo di legni nuovi misto al vinoso dell’aglianico che in questi giorni sta subendo i primi travasi, arriviamo nel piccolo caveau dove Luigi ha iniziato a riporre il personale archivio storico liquido, dalle vecchie, vecchissime bottiglie di Michele Moio alle preziose ed alcune introvabili bottiglie di bordolesi e borgognoni (tra cui Hospice de Beune), alle numerose nate e cresciute sotto la sua guida tecnica, dal Taurasi di Antonio Caggiano ai cru di cantina del Taburno, agli ultimi di Manuela Piancastelli e Peppe Mancini¤: “hanno tutti un posto particolare nel mio cuore, questi come tutti gli altri indistintamente, a loro ho dato tanto impegno e serietà professionale, mi hanno ricambiato negli anni con profonda diligenza e stima, siamo riusciti assieme a dare nuovi impulsi alla viticultura campana, e queste bottiglie sono la testimonianza del mio e del loro lavoro innanzitutto, che voglio sempre tenere a portata di mano”.

Ci avviamo verso l’uscita della cantina, alcune curiose particolarità non potranno che rimanere nell’immaginario dell’avventore di turno, come quella di conservare le teste e le code¤ degli imbottigliamenti (materiale prezioso per le bevute personali) e di stoccare tutte le bottiglie avviate man mano alla commercializzazione in ampie casse di legno anzichè in anonime griglie di ferro. Chiudiamo qui il percorso tra vigna e cantina, ci spostiamo in casa di Laura (che adesso stringe al petto l’ultimo nato, quattro mesi fa) e Luigi, i vini sono lì pronti per la degustazione, ma questa è tutta un’altra storia che non mancherò di raccontare prossimamente…

P.S.: in tutta questa giornata, a parte gli occhi sgranati sul colpo d’occhio della Vigna¤ a Quintodecimo il ricordo più bello che portiamo via è il momento in cui Luigi, prendendoci per mano ci accompagna nel suo studio, dove tutto è nato e attorno al quale poi si è sviluppata l’azienda: ci ha mostrato il suo progetto di allora, datato 1975, presentato poi anche alla commissione d’esami da perito agrario: aveva appena quindici anni, tutto era già scritto!

Pozzuoli, a casa di mia suocera

6 dicembre 2009

Girovagando su internet ho scovato un interessante “manuale della buona suocera”; un almanacco a tratti esilarante, soprattutto per chi come me di certi problemi non ne ha mai avuti. Piuttosto, pescando poi tra i vecchi appunti di gola non ho resistito alla tentazione di riproporre suqueste pagine una vecchia, assai anomala, recensione: a casa di mia suocera. Non è, evidentemente, un ristorante, seppur potrebbe tranquillamente esserlo vista la fantasia che si innesca quando si decide il nome di un nuovo locale.
 
Pozzuoli, 10 Maggio 2008. Mangiare alla tavola di Partorina, questo il nome della diletta suocera è sempre un gran piacere, spesso sono ospite la domenica quando va in scena tutta l’opera tradizional-popolare della cucina flegrea-napoletana tramandata di madre in figlia da diverse generazioni. La casa è sempre affollata, figli e figlie di dimora ancora stabile e figli, figlie, generi e nuore prole dipendenti con un solo indirizzo sul loro navigatore satellitare settimanale: via Cicerone 29.

L’ambiente è semplice ma ben curato, i colori sono chiari e sovrapposti, mia suocera poi ama il verde fresco delle piante rampicanti che circondano il soffitto della sala da pranzo. Qui la tavola in certi giorni fatica ad essere accomodante per tutti ma regge sempre bene l’arrangiamento del momento, il servizio è semplice ma magnanimo. L’appetizer di benvenuto per taluni sono finocchi freschi all’insalata, per noi altri, di palato meno fine, crostini con zucchine arrosto sott’olio, con i quali decidiamo di “avvinare” con un Fiano di Avellino 2007 Colli di Lapio di Clelia Romano. La tradizione di casa vuole che s’inizi sempre con il primo, oggi sono Penne a rigatoni con ragu’ di tracchiolelle e polpettone, quest’ ultimo fungerà poi da primo secondo per i più piccoli e capricciosi degli avventori; primo contorno consigliato: involtini di melanzane fritte con provola affumicata.

Nel frattempo nei calici abbiamo già versato un rosso austero. Scegliamo di verificare le qualità della nuova sottozona Campi Taurasini del fido Salvatore Molettieri: un aglianico, il Cinque Querce 2005, profumato, intenso e di nerbo; opportuno però riassaggiarlo tra qualche mese per verificare le buone impressioni.Il secondo proposto è coniglio alla ciglianese, con la salsa di pomodorini tirata proprio come piace a me e, a làtere, friarielli verdi fritti in olio e peperoncino, chi opìna può sempre ripiegare su di una parmigiana di melanzane in versione “egg-free” (senz’uovo!) e carciofini impanati: ditemi voi se questo non è un gran piacere!! Chiudiamo con una Barbera d’Asti Chersì, azienda Ca’Bianca di Alice Belcolle, Piemonte, un rosso che amo particolarmente e che continua a stupirmi anno dopo anno sempre di più. Il predessert è un freschissimo sorbetto al limone e menta piperita preparato da Lilly, chiudiamo come sempre di domenica con piccoli pasticcini bignè e codine d’aragosta con panna e cioccolato. Io qui c’ho il contratto per due anni, naturalmente rinnovabili!

Aeclanum, Quitodecimo parte I: la terra

3 dicembre 2009
 
Il bellissimo vigneto giardino dell’azienda Quitodecimo di Luigi Moio a Mirabella Eclano, qui inizia il viaggio di una giornata speciale a caccia di stelle, prima qui e poi a Nusco.
Esposizione nord, nord-ovest per il vigneto che discende dalla collinetta dove Luigi Moio ha deciso di realizzare il suo sogno di vigneron.I vigneti di Aglianico hanno circa 8 anni…
I protagonisti: a sinistra, l’argilla, compatta, caratteristica del vigneto Quintodecimo, a destra invece il terreno più sciolto, povero di scheletro, caratterizzante la vigna Cerzito, che diverrà in futuro il secondo cru di Taurasi dell’azienda. Il vigneto è esposto a sud…
Certi colori non si dimenticano mai, e mai si smettono di inseguire, tutto nasce qui, in vigna: La scoperta più grande sta nel ricercare e ritrovare nei bicchieri ciò che avviene perennemente qui, e a breve il report delle eccezionali bevute di questa mattinata…

Torchiara, Cupersito 2008 Casebianche

1 dicembre 2009

Chi non ama il Cilento? Sfido chiunque ad alzare la mano. Era l’estate del 2006, una vacanza memorabile, spesa tra il mare splendente di Acciaroli e le sagre straordinarie di Montecorice, la frescura di Torchiara ed il mare calmo e salatissimo della spiaggia di Ficocelle a Palinuro.

La bellissima Torre di Velia, nell’omonimo parco archeologico cilentano

E tra una scarpinata nelle rovine del bellissimo parco archeologico di Velia e un’abbuffata mattutina di fresco yogurt da Vannulo, ogni tanto ci scappava pure la bevuta, indigena per così dire, di bottiglie già conosciute ed etichette praticamente “anonime”; iniziava proprio in quell’epoca, in Cilento, il fermento di tanti piccoli agricoltori/conferitori in procinto di diventare anch’essi produttori: la nomenclatura in voga era ancora ferma ai nomi storici di Maffini, De Conciliis e Alfonso Rotolo, ma di lì a poco avremmo aggiunto al taccuino, tra gli altri, nomi nuovi, qualcuno pure suggestivo, come Botti, I Vini del Cavaliere, Luna Rossa e, per l’appunto, Casebianche¤ di Torchiara. Un piacere del momento, alle primissime vendemmie, magari un arrivederci poi a domani.

Oggi è già domani, l’abbiamo imparato da sempre e Dustin Hoffman nel 2008 ci ha fatto pure un bel film, e a Battipaglia lo scorso 12 novembre ad Aglianico&Aglianico sembrava proprio di essere dentro un film, sino ad allora mai visto prima in Campania: oltre 70 produttori di aglianico e tanti altri numeri da sballo per gli appassionati di statistica e per i coglioni burocrati nemici del vino.

Casebianche di numeri, sulla carta, ne ha davvero pochi, talento nelle bottiglie, tanto: sono appena 9000 ma di estrema godibilità, un bianco davvero molto interessante, il Cumalè ed un’altro giusto per non restare fermi al palo col solo fiano, l’Iscadoro con il quale si gioca in vigna e soprattutto in cantina con le vecchie vigne di malvasia e trebbiano e maturazioni sur lies ed affinamento in legni di castagno; poi due rossi, il complesso (quantomeno nello blend) Dellemore, di cui scriverò in seguito, e il Cupersito, il rosso che mi ha immediatamente sorpreso e piacevolmente conquistato, bevuto in anteprima (quasi) assoluta nell’annata 2008 ancora in affinamento nelle botti. Da uve aglianico al 100%, è ricco, concentrato, succoso e pregnante come tante valide interpretazioni di questo vitigno che Fortunato Sebastiano¤ sta egregiamente orchestrando degli ultimi anni.

Il vino nasce da un’attenta cernita dei migliori grappoli e da vigne allevate con agricoltura biologica; una resa in uva bassissima ed una accurata pratica di cantina che prevede tra l’altro fermentazioni spontanee su lieviti endogeni e travasi solo manuali, nonché un bassissimo utilizzo di solforosa. Ne viene fuori un vino dal colore rubino gioviale, violaceo, impenetrabile (quasi inchiostro), consistente. Il timbro olfattivo è ficcante, naso pulito e complesso su note di frutta polposa e croccante: marasca, lampone e mora. Ha bisogno di ossigeno, lavorare col bicchiere, di sfuggire alla carica glicerica che ne rincorre la freschezza, accesa ed importante, che rende morbidezza ad un tannino di nerbo ma non invadente, che in bocca mostra le spalle, il carattere che ne forgia l’imprinting; davvero un gran vino, importante.

L’origine mi sorprende: un vino così materico, in Cilento lo facevo appannaggio solo del Naima di Bruno De Conciliis; la mano dell’enologo però no, quella ho imparato a riconoscerla nel Grifo di Rocca di Mustilli piuttosto che nel Rasott di Boccella¤ e non mi mordo la lingua nell’intravedere nella trama fitta di questo Cupersito il compagno di banco del Falerno Rampaniuci di Migliozzi¤; come dire “qual valore e merito” al provetto Sebastiano. L’ho bevuto con tanto piacere su di un Hamburger di marchigiana con provola e friarielli, e non esito a dire di aver peccato lungamente, fregandomi ampiamente dell’abbinamento; avevo solo voglia di bere un gran bel vino!

Sorbo Serpico,Taurasi 1993 Feudi di San Gregorio

26 novembre 2009

Dinamicità, evoluzione, crescita. Termini affascinanti comuni a molti trattati di gestione e marketing aziendale, parole che divengono dogmi se ben supportati, argomentati e comunicati.

I professori universitari fanno a gara ad imporre il proprio modello, a definire una teoria vincente vestibile ad ogni realtà manageriale, che sia allocata in una delle grandi metropoli mondiali o nel cuore della campagna irpina, che si facciano zip o che si pestino uve, che si giochi nell’immobiliare o che si metta un’altra pietra sopra la porta o un’altra barrique della propria cantina. Ecco Feudi di San Gregorio, azienda nata nel 1986 e da allora in continua crescita, evoluzione inarrestabile, dinamicità incontrollabile. Osannata ed odiata, premiata ed interdetta, schivata e ricercata ma sempre e soltanto se stessa, una coscienza moderna apparentemente senza passato fortemente votata al futuro; una stella caduta nel cuore dell’Irpinia non per terminare il proprio viaggio, la propria vita scintillante ma per stravolgere, sconvolgere, soverchiare una viticoltura, appunto, statica e racchiusa su stessa, su quello che è stato e su quello che aveva difficoltà di esprimere e di essere: un valore aggiunto al patrimonio enologico italiano.

Feudi osannata, dicevamo, dai distributori, “vini che si vendono da soli” ed odiata dai facinorosi terroiristi del vino “quale identità territoriale?” , Feudi premiata da tutte le guide possibili ed immaginabili “…persino in Lapponia” ed interdetta su tutti i fronti per il primo Merlot 100% campano, schivata così dai  “grandi” talent scout cronisti del piccolo è bello ma sempre più ricercata – mah …stranezza tutta italiana – quando ci si rende conto che alla fine si hanno davvero pochi argomenti su cui trattare la materia in regione o elargire consensi e prestigiosi riconoscimenti. Feudi di San Gregorio a poco più di vent’anni dalla sua fondazione è già tutto questo, incredibile!

Il Taurasi 1993 può in qualche modo rappresentare tutto quanto scritto di questo percorso nella sua disarmante liquidità, al di là dell’essere la prima annata prodotta con la fascetta d.o.c.g. e di avere una veste quasi felliniana sacrificata al tempo in divenire; Un vino nato dalle mani sapienti di un’allora astro nascente dell’enologia campana, quel Luigi Moio giramondo ma fortemente attratto, già allora, dall’austerità dell’aglianico di queste terre ancora poco conosciuto ai più, un vino perfettamente integro, evoluto sì, risoluto pure ma espressivo di un Taurasi lontano nel tempo ma vicino nel gusto di chi vuole e vede nell’aglianico il Barolo del sud, il fratello, senza minore, dei grandi vini italiani e non l’imitazione spudorata e caricaturale dei cugini d’oltralpe.

Il colore è rosso rubino con tendenza al granata e con evanescenti venature aranciate sull’unghia, mediamente consistente e poco trasparente. Il naso è subito terziario, elegante, intenso e complesso, si riconoscono nitidamente cuoio, polvere di cacao, pepe, cannella; alla lunga è il frutto a ritornare deciso, piccoli frutti rossi disidratati, frutti secchi, noci. In bocca è secco, abbastanza caldo, il tannino è nobilmente assopito, ben legato ad una acidità sommessa ed in armonia con una intensa sapidità che accompagna tutta la beva.

Un vino certamente franco, espressione conclusiva di un percorso temporale giunto al suo apice, un vino frutto che è stato un piacere ritrovare, tanto caro alla mia memoria: proprio le bottiglie dei Feudi assieme a quelle di Mastroberardino sono state le prime a passare tra le mie mani di apprendista sommelier, erano tempi di duro lavoro, di mille coperti alla settimana e di tanta ma tanta carne alla brace, e di molte, tantissime bottiglie aperte ed assaggiate per accrescere il mio palato. Una esperienza, questa bevuta, che per qualcuno può fare o non fare notizia, per me ha solo confermato che la dinamicità, l’evoluzione, la crescita sono valori più che termini che se gestiti bene non possono che migliorare la storia, di un’azienda come di un vino e di un territorio!!

Frasso Telesino, la première Fois

23 novembre 2009

Capita per caso da queste parti, sa che quattro chiacchiere non le facciamo mai mancare, in più lo turba la scelta della nuova etichetta dell’aglianico Donna Candida di prossima uscita, pertanto ci concede una ragione in più per alimentare argomentazioni.

Entra nel bel mezzo di Diario di una Bevuta, il Terra di Lavoro di Galardi è di scena ma non ha, sino ad ora imbroccato il piano sequenza giusto per impalarci davanti al bicchiere, per cui in attesa di segnali più convincenti  l’happening vira più che sul vino versato su fatti di altri vini, persone, luoghi. Fulvio Cautiero è un giovane dalla faccia pulita, è sveglio, educato, attento; è entrato nel mondo del vino in punta di piedi, era il 2002, con l’intelligenza e con l’entusiasmo di chi a 26 anni anziché sognare Belen o il Grande Fratello ha voglia di sporcarsi le mani con la terra: 2002, pessima annata, per molti anche l’inizio della lunga crisi economica che ancora oggi ci attanaglia.

Nulla però negli anni ha fatto vacillare il suo progetto alle pendici del Taburno, in località Frasso Telesino, comune sconosciuto (quasi) persino alle mappe di google ma non alle strade del vino: “qui il vino c’è l’hanno nel sangue, ma tengono la capa tosta”, diceva suo nonno Giovanni Di Mezza, contadino per vocazione e viticoltore per passione riferendosi alle enormi potenzialità dell’area e all’assoluta incapacità di fare sistema puntando sulla qualità. Dopo aver rilevato la Masseria Donna Candida, 4 ettari nel cuore del Sannio, Fulvio ha sviluppato un percorso conoscitivo del terroir molto profondo, per circa due anni si è dedicato in maniera costante allo studio dei terreni, qui generalmente ricchi di scheletro e di natura argilloso-calcarei pur non senza differenziazioni da sud a sud-ovest della tenuta, ed ha nel tempo, reimpiantato tutte le vigne vecchie, molte delle quali allevate male o con sistemi obsoleti. Oggi l’azienda arriva a produrre circa 9.000 bottiglie tra falanghina, greco ed aglianico, tra un paio di anni si supereranno le 10.000 con il cru Donna Candida che esordisce quest’anno con poche bottiglie di una possente vendemmia 2007 (di cui parlerò in seguito) ma che entrerà a pieno regime nel 2011.

Il Fois 2007 invece è il vino per così dire base, rientra nella doc Sannio (preferita alla doc Solopaca) e lasciando stare le prime, personali, riserve sull’etichetta lo mettiamo subito alla prova, anche perché nel frattempo il pur buono Terra di Lavoro 2006 ci fa mancare il suo apporto emozionale, soprattutto al palato dove una spiccata acidità, assolutamente inaspettata e quasi fastidiosa, ci tiene lontano da ammiccamenti e standing ovations. Colore rubino con netti riflessi porpora, concentrato nel bicchiere, poco trasparente, invitante.

Il primo naso è spiccatamente floreale e fruttato, si sentono nitidamente viola, amarena, mirtillo. Lo lasciamo respirare un poco, ha una nota terziaria che tarda a svelarsi; Fulvio ci spiega che il Fois viene lasciato per circa un anno in barriques di terzo passaggio, ecco quindi la nota tostata che addiviene lievemente amara in bocca, qualcuno l’aveva percepita come sentore di tabacco, caratteristica per certi versi dell’aglianico amaro di queste parti, ma non di questo vino che nasce da cloni “vulture” e “taurasi”. Il giusto tempo di attesa ci concede altre riflessioni sul Terra di Lavoro e l’ossigenazione al vino una beva davvero piacevole, intrisa di frutto, fresca e scorrevole nonostante i 14 gradi abbondanti (14.28): in cinque la bottiglia è sparita prima di fargli i complimenti, poco prima dell’ultimo boccone di pizza nel ruoto con origano ed olive nere di mia suocera.