Archive for the ‘in ITALIA’ Category
25 luglio 2011
Non so voi, ma è da un po’ che ci penso a sta cosa: possibile che negli ultimi tempi quando si parla di vini toscani lo si faccia quasi solo eslusivamente in riferimento alle catastrofiche conseguenze dell’inarrestabile emorragia del cambio dei disciplinari o delle cazzate amnesie varie dei consorzi di tutela o degli enti promotori? O forse a riguardo di Chianti Classico, Brunello e Rosso di Montalcino, Morellino di Scansano e Nobile di Montepulciano – quelli bevuti intendo – si è detto già tutto e di tutti?

Vabbè, magari poi ritornano, e come tutte le mode che si ripresentano andranno nuovamente ridiscusse. Qualche tempo fa invece, ebbi il piacere di ricevere da Giampaolo Paglia alcune bottiglie in degustazione dei suoi vini prodotti a Poggio Argentiera; tra questi, i suoi due morellino di Scansano, il Capatosta e il Bella Marsilia, e due nuove “idee” che subito mi conquistarono: il Bucce, da uve ansonica, e Il Principio, un ciliegiolo in purezza, praticamente allo start up, prodotto a quattro mani con il vignaiolo Antonio Camillo nella vigna presa in affitto tra Vallerana, Sgrilla e Sgrilozzo. “E’ una bellissima zona, appena all’interno e a non più di 10 km dal mare, poco più a nord di Capalbio” era scritto, tra le altre cose, nella missiva che accompagnava le bottiglie.

Da allora sono passati giusto un paio di stagioni, e l’impegno di Giampaolo nel progetto Bucce si può dire ancor più convinto: il 2008 rimane davvero interessante, mentre il lavoro sul ciliegiolo è un crescendo apprezzabile ed apprezzato anche dai palati meno attenti ad assaggi così insoliti, almeno in seno all’areale; il vitigno infatti, nonostante venga considerato uno dei più tradizionali e più antichi di Toscana – tra l’altro tanto strettamente legato al sangiovese dall’essere spesso confuso come un suo clone o progenitore – ha sempre trovato pochi estimatori nella sua valorizzazione in purezza, favorendone quindi un suo utilizzo quasi sempre a mezzo servizio, se non in piccole percentuali a saldo. E quando vinificato da solo o giù di lì, il più delle volte è stato quasi esclusivamente per dare vita a vinelli tipo “quelli della casa”.
In effetti il ciliegiolo nasce da una pianta piuttosto generosa, che produce – come si evidenzia dalla foto – grappoli belli grandi, offrendo vini quasi sempre con tinte particolarmente vivaci; da un punto vista colturale poi, ha una maturazione piuttosto precoce ed una buona produzione, il che ne ha fatto naturalmente una preda facile più per colture intensive che per altro. Non è certo il caso del Vallerana Alta 2008, che riesce invece a coniugare nel bicchiere ottima freschezza, evidente già nel bel colore rubino trasparente, a vivace complessità olfattiva giocata soprattutto su frutti rossi e neri croccanti, ed una beva asciutta, dinamica e polposa ad un equilibrio gustativo estremamente bilanciato in quanto a tannino, acidità ed alcol. Un vino fuori dal coro e che, secondo me, nemmeno aspira ad entrarvi, nato da una giusta intuizione, un progetto di sana viticultura e di intelligente lungimiranza; insomma, dalla Maremma ci consegnano un rosso alternativo da non perdere, da bere magari adesso, proprio in questi giorni di caldo torrido, servito più o meno intorno ai 14 gradi e lanciato alla mercé del puro godimento!
Tag:antonio camillo, bella marsilia, brunello di montalcino, capatosta, chianti classico, consorzio di tutela, disciplinari di produzione, giampaolo paglia, Morellino di Scansano, nobile di montepulciano, poggio argentiera
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20 luglio 2011
Una settimana all’insegna dell’enigmistica, quella disegnatami da amici poco amici – in preda a tautologia compulsiva -, da avvenimenti che val la pena buttare subito alle spalle nonché da algoritmi incomprensibili, quelli che regolano il mondo 2.0, per me ancora troppo lontani dall’essere colti. Mi rimane da fare quello che son capace di fare: bere e raccontare.

Ci sono occasioni nelle quali ci si domanda cosa portare in tavola: fa caldo, tremendamente caldo, eppure bisogna rimediare con qualcosa. E’ il caso di magiare leggero, talvolta piatti freddi senza fronzoli né ambizioni particolari; un pomodoro, forse due, una mozzarella – o perché no -, dei filetti di tonno di quelli seri, una manciata di rucola, un filino d’olio extravergine e via così. Beh, semmai ci scappasse un tentativo – di quelli seri però – di vitello tonnato saremmo, come si dice, a cavallo; ma chi s’accontenta, si sa, gode lo stesso.
Opportuno non trastullarsi troppo per la scelta del vino, ma chi ha un pizzico di malizia non può non tentare l’asso nella manica, un rosato di quelli per niente banali da trattare oltretutto con i guanti: una scelta arguta, una giocata d’astuzia; un rosato color buccia di cipolla, delicato, esile a prima vista, ma fino e verticale nei profumi quanto nella vivace e ficcante beva. Quando bello fresco. No, non è affatto magro come si può pensare, qui il sangiovese è di quelli di primissimo piano, minuto ma di grandissima levatura, tanto da avere bisogno di stare a lungo in bottiglia, dice Franco Biondi Santi. Per contro rimane per poco, molto poco, nel vostro bicchiere. Si pensa al Rosato di Toscana Tenuta Greppo 2007 di Biondi Santi.

Invece certe sere a cena ti toccano piatti solidi, compositi, verrebbe da definirli variegati oltre che variopinti; vengono in mente linee orizzontali attraverso le quali si distendono moltitudini di profumi e sapori importanti ma non decisivi gli uni sugli altri; uno spartito complesso ma non di difficile esecuzione. Piatti ruvidi, talvolta salsati, che offrono spigolature accentuate pur senza eccessi sofisticati.
Si ha bisogno quindi di un vino florido, grasso, magnifico nel suo ego ma non raccapricciante per personalità; un rosso ricco, abbondante, copioso di frutta macerata e spezie fini, ferace di sensazioni uniche e votato a conquistare la pienezza gustativa, non necessariamente la profondità. Un sorso quasi principesco, snob per qualcuno, maledettamente efficace per altri; un bere disincantato prosperoso, robusto, quasi ammiccante. Si parla di casavecchia e pallagrello nero, in parte surmaturi, del Terre del Volturno Vigna Piancastelli 2008 di Terre del Principe.
Tag:biondi santi, brunello di montalcino, casavecchia, castel campagnano, manuela piancastelli, orizzontali, pallagrello nero, peppe mancini, rosato di toscana, settimana enigmistica, tenuta greppo, terre del principe, verticali, vigna piancastelli 2008
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1 luglio 2011
Non è mai facile riprendere a bere dopo dieci giorni filati di antibiotico, aerosol e compagnia cantando, ma pur lentamente bisognava comunque tentare di riconquistare quella freschezza svanita nelle scorse tristi giornate di inedia etilica.

Così dopo ancora un paio di giorni di quasi digiuno, e, pare, un paio di chili lasciati chissà dove – Lilly te lo giuro, la bilancia non mente! – tra una scaraffata e l’altra, ho potuto lentamente ritrovare quella sensibilità degustativa decisamente sopitasi a furia di amoxicillina triidrato, ambroxol cloridrato e cose del genere insipide ed algide così come il nome che si portano dietro; l’occasione, un assaggio per festeggiare, diciamo così, il nulla, e tanto per cambiare, novità su novità, cercare di capire cosa ti combinano in quel di Montefalco reinventandosi – dicono – il sagrantino in una veste insolita, dinamica e sbarazzina nonché – udite, udite – di pronta beva. Ehmbé, quasi quasi ci credo…

Appena un paio di settimane fa, riprendendo il filo tessuto dal buon Jacopo Cossater, ho scritto del Trebbiano Spoletino Trebium 2009, proprio di Antonelli San Marco; una vera sorpresa per me, e a quanto pare per tutti gli appassionati bianchisti, che finalmente si ritrovano dall’Umbria un’autentica novità non più giocata sull’emulazione del binomio chardonnay-grechetto tanto fortunato in quel di Castello della Sala quanto ovvio e scontato così come ripreso altrove. Per amor di verità, di bei vini bianchi in regione ce ne sono e come, basta però uscire un po’ fuori dall’ovvio, quel buco nero nel quale invece pare ormai entratoci irreversibilmente l’Orvieto, che soprattutto dopo l’ultimo recente cambio di disciplinare pare emergere ancor di più privo di una qualsivoglia identità se non quella imposta dall’uso e dal consumo del momento.

Ritornando a noi invece, proprio dalle vigne di Filippo Antonelli nasce, nel 2008, l’idea del Contrario, un’altra novità – decisamente offline – che certamente farà storcere il naso a qualcuno ma, a quanto pare, seriamente valutata: il sagrantino da bersi giovane. Approfonditi studi infatti, portati avanti in azienda con la collaborazione del professor Di Stefano dell’Istituto San Michele all’Adige, hanno condotto all’idea che in alcune vigne della proprietà, ove insistono particolari condizioni climatiche, se vendemmiato con giusto anticipo e vinificato ed affinato ad una certa maniera, il sagrantino riesce ad esprimere caratteristiche di unicità e prontezza di beva fuori dai soliti canoni offerti dal vitigno e dalla tipologia docg Montefalco. Così la sfida di proporre al mercato un sagrantino in versione “più giovane” di due anni e senza passaggio alcuno in legno; un prodotto, se vogliamo easy to drink, destinato a fare leva sui consumatori con la sua vivace freschezza anziché la proverbiale opulenza e struttura tannica solita del “vino madre”. Insomma, un sagrantino al 100%, ma al contrario.
Ed in effetti il colore è bello ricco, vivace, concentrato e con piacevoli nuances rubine; il primo naso è intenso e voluminoso, ampio: lo spettro olfattivo invita ai fiori e ai frutti rossi maturi, succosi e appena premuti. Lo spettro olfattivo s’allarga, di annusata in annusata, anche su sottili note di cipria ed inchiostro; poi il palato, avvinto alla freschezza assoluta, asciutto, succoso anche qui, sferzante eppure piacevole e rotondo con un finale piacevolmente amaro e ferroso. Un gradevole bere, non c’è che dire, anche se non posso esimermi dall’avanzare dubbi su quanto questo vino possa dare l’idea di ciò che in realtà è il sagrantino di Montefalco, visto che di questi pare rifuggire proprio le caratteristiche primarie di quello che è, agli occhi e al palato di tutti, uno dei vini più austeri ed autentici del panorama rossista italico. Magari l’idea potrà risultare vincente, soprattutto in loco, nell’avvicinare quei giovani consumatori, quei palati meno esigenti, al consumo di un vino locale anziché il solito morellino, il dolcetto o un raboso del piave; ma ripensandoci un attimo, non dovrebbe essere questa la mission affidata ai secondi vini ricadenti su territori di così nobili origini? Ah già, qui il Rosso, in quanto a territorio ed autenticità, è già bello che andato!
Tag:antonelli san marco, castello della sala, contrario 2008, filippo antonelli, fondazione edmund mach, iasma, istituto san michele all'adige, jacopo cossater, orvietano rosso, red wines from umbria, rosso di motefalco, sagrantino, sagrantino di montefalco, umbria rossi
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21 giugno 2011
Il rosso e il nero, il sole e la luna, l’alba e il tramonto. Chi per l’uno, chi per l’altro. Così il vino, di spessore o sottile. Spesso, diciamocelo, certe scelte sono dettate esclusivamente da pura vanità intellettuale, altre volte, giustamente, da un gusto personale imprescindibile, altre ancora, comprensibilissimo, la predilezione del momento.

Quindi un’imbarcata dinanzi ad un vino florido, ricco, abbondante, copioso, robusto, ci può stare. Perché un vino splendido rimane tale, sempre. Un rosso dal naso fittissimo, copioso, etereo, cioccolatoso; palato pieno, sano, sfarzoso, sontuoso ma al tempo stesso regale, significativo, tangibile, brillante, polposo, vigoroso, procace, fitto, più orizzontale che verticale, di gran soddisfazione comunque; solo corvina e rondinella per l’Amarone della Valpolicella 2007 Le Vigne di S. Pietro.

Per contro, la sottile, acuta, filiforme veste di questo splendido altro bicchiere. Primo naso fine, flessuoso, dapprima leggero, lieve, longilineo, poi quasi rarefatto, sagace e profondo, echeggiante passaggi aridi di gariga e note di macchia mediterranea e terra nera. No, affatto una beva difficile, asciutta sì, penetrante, fitta, stretta a note austere e minerali ma minuziose, pure, sofisticate: un vino, concedetemelo, micrometrico. Si parla di nerello mascalese e dell’ Etna rosso Archineri 2009 di Pietradolce.
A rischio di passare per qualunquista, oggi mi sento tanto pro quanto contro.
Tag:amarone della valpolicella le vigne di san pietro, corvina veronese, etna rosso archineri pietradolce, mineralità, nerello mascalese, pro e contro, rondinella e molinara, sicilia, sicilian wines, valpolicella, venetian wines, veneto, vini sottili, vini surmaturi
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20 giugno 2011
“Antonelli San Marco è un’azienda vitivinicola di 170 ettari in un corpus unico al centro della zona Docg Montefalco con una grande storia alle spalle, una grande passione tramandata per questo territorio e una grande cura della qualità dei prodotti”.

Così recitano le tre righe di presentazione dell’azienda sul loro sito istituzionale, aggiungendo che “da anni la Antonelli San Marco ha intrapreso un percorso di ricerca e miglioramento continuo dalla vite fino alla bottiglia secondo uno stile che è volto alla tipicità e all’equilibrio, alla bevibilità e all’eleganza, più che alla potenza, con estrazioni delicate e un uso moderato del legno”. Al di là dell’uso compulsivo della parola “grande” (ripetuta per ben tre volte) non si può certo negare all’azienda di Montefalco il grande lavoro di qualità riscontrabile nei suoi vini, su tutti il Chiusa di Pannone, che rimane – per me – uno dei migliori sagrantino mai saggiati negli ultimi anni.
Prendendola alla larga, c’è da dire che il trebbiano è un vitigno che mi ha sempre affascinato tanto; povero lui, ne ha vissute e subite tante, ogni dove, e se non fosse stato per quei pochi, pochissimi exploit abruzzesi, in verità giusto Valetini e qualcun altro lì intorno, hai voglia che vitigno minore e dimenticato da Dio! Pertanto ben venga chi lavora – in questo caso però in Umbria – per rivalutarne le sorti, offrendone magari una visione/versione altrettanto interessante e meritevole di attenzione.

Negli ultimi tempi poi mi sono ancor di più appassionato alla faccenda leggendo Jacopo Cossater, qua e la , a proposito della necessità di guardare con occhi nuovi al trebbiano, a quello spoletino in particolare, tornando più volte sull’argomento offrendo tra l’altro sempre maggiore chiarezza; così mi sono chiesto se non mi corresse l’obbligo di fare anch’io un passaggio sul tema. Da neofita. Ho quindi pensato di inserire in carta, ormai già da qualche settimana, il Trebium duemilanove di Antonelli San Marco, giusto per vedere l’effetto che fa.
Ebbene, riprendendo una citazione dello stesso Jacopo, il quale definisce il trebbiano spoletino“un vino davvero dritto”, mi sento a ragion veduta di avallarne a mani basse la definizione; vi aggiungerei, solo, che trattasi di una bella sorpresa! Si offre vestito di un bel paglierino intenso, cristallino e discretamente consistente nel bicchiere. Il primo naso è vivace, virtuoso, sottile su note floreali quanto più ampio su quelle fruttate e minerali: vira da nitidi riconoscimenti di biancospino a precisi sentori di mango e frutto della passione, e, sul finale, un sospiro di bergamotto e lievi aromi speziati. In bocca è asciutto, verrebbe quasi da dire drastico, possiede una trama acida di spessore ed ampiezza gustativa incontenibile, non è certo un vino di facile beva, ovvero uno di quei bianchi raccomandabili a palati assuefatti a burro e caramello; chi ama invece le durezze, chi ricerca nei bianchi, soprattutto in estate, la freschezza, saprà come goderne appieno! Un primo (p)assaggio decisamente convincente.
Tag:acidità, antonelli san marco, enoiche illusioni, jacopo cossater, trebbiano spoletino, trebium 2009 antonelli san marco, umbria, vini bianchi freschi
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3 giugno 2011
Ecco a voi il drink pink made in Italy che segue di pochi giorni quello propostovi a riguardo delle etichette più interessanti – secondo noi – di vini rosati campani. Anche qui un paio di novità, due grandi classici e… diciamo così, una forzatura di cui però volevo raccontarvi!

Un itinerario tra il solito e l’insolito, da un classico Cerasuolo abruzzese al più affidabile tra i rosati italiani prodotto a Bolgheri. Poi un bel chiaretto del Garda, un raffinatissimo Pinot Nero dall’Alto Adige ed un vino bianco vestito di rosa.
Montepulciano d’Abruzzo Cerasuolo 2009 Nestore Bosco. E’ una delle più rappresentative della regione, soprattutto all’estero dove i suoi vini corrono in giro per il mondo ormai da tempo immemore pur conservando l’azienda un profilo basso e poco clamore mediatico; grande attenzione in vigna, alla sostenibilità ambientale e, cosa più importante ancora, all’integrità dei vini anzitutto sulla linea tradizionale, espressi devo dire, su più livelli di eccellenza. Questo Cerasuolo è essenzialmente quello che vuole essere, suggestivo ed originale, per frutto, schietteza e bevibilità. I numeri dell’azienda sono importanti ma non tradiscono assolutamente la sua vocazione, come detto, al naturale, al biologico e a tutte quelle buone pratiche atte a consegnare al consumatore vini sempre buoni, puliti, giusti; si fa bere copiosamente pur garantendo una certa sostanza, una certa aderenza territoriale, direbbero più.
Garda Classico Chiaretto Rosamara 2010 Costaripa. Chiedete in giro chi è Mattia Vezzola e in molti vi risponderanno che è un grande! I cronisti del vino dicono che ha avuto la fortuna di incontrare sulla sua strada Vittorio Moretti, chi capisce di vino – e ne sa del mondo del vino – rilancia che in effetti è forse lui che ha fatto la fortuna di Bellavista e di tutto l’arcipelago Terre Moretti; Costaripa invece è il gioiello di famiglia per Vezzola, la casa del buen retiro sul Garda, il giardino delle memorie ed il laboratorio sperimentale del futuro. Il Rosamara nasce dall’uvaggio classico di questo lembo di terra dal sapore mediterraneo nel cuore della Valtenesi: groppello, marzemino, sangiovese e barbera per un chiaretto dal colore invitante e dai profumi floreali intensi e persuasivi, dal sapore asciutto, inebriante, sapido. Pronto da bere. Della stessa azienda mi piace ricordare il Molmenti 2008, un cru dalle simil fattezze ma che esprime, grazie al suo medio invecchiamento, ancor più profondità e incisività; in entrambi i casi, proprio un gran bel bere.
Bolgheri Rosato Scalabrone 2010 Tenuta Guado al Tasso. Non è necessario spendere parole particolari su questo vino, anche perché credo proprio che non ne abbia affatto bisogno. E non vorrei – sottolineando questo vino più degli altri – nemmeno far torto al grande impegno profuso dalla famiglia Antinori nel creare ed affermare la tenuta di Guado al Tasso tra la costellazione dei piccoli chateaux bolgheresi seguiti all’exploit del marchese Incisa della Rocchetta e del suo Sassicaia; quindi dico solo che lo Scalabrone è, e rimane, uno dei vini più affidabili proposti in quel di Bolgheri, e tra i rosati italiani certamente uno dei più buoni: a me poi mi garba e di molto! Dal colore intenso e luminoso offre un naso incredibilmente invitante, floreale, succoso di frutta e sottili e gradevoli nuances speziate. In bocca scorre via che è un piacere, un sorso tira l’altro ed il successivo è sempre più saporito del precedente. Da cabernet sauvignon, merlot e syrah.
Alto Adige Pinot Nero Rosé 2010 Franz Haas. Bella novità dall’Alto Adige, da Montagna per la precisione, con tutto il fascino di chi ha dedicato una vita al pinot nero e sa di avere un talento innato nel valorizzare questi come pure i principali bianchi tradizionali atesini. I passaggi di vinificazione richiamano accortezza della lavorazione classica in bianco con l’esperienza di chi mastica rosso da sempre. Dopo la diraspatura l’uva viene pressata sofficemente come per le varietà bianche mentre il mosto viene lasciato successivamente fermentare per qualche tempo in barrique, dove vengono meglio fissati i classici markers del varietale, rendendogli un naso certamente più complesso ed efficace. Bellissimo il colore ciliegia tenue, il primo naso è franco, spinge immediatamente avanti aromi di ciliegia e lamponi, ma anche sensazioni molto gradevoli di erbe aromatiche di alpeggio, fesche e balsamiche. Il sorso è incredibile, stupisce per la sua spiccata acidità subito ben bilanciata da una lunga sapidità. Già in lizza per il titolo vino rosato dell’anno.
Vigneto delle Dolomiti Pinot Grigio Fontane 2010 Zeni. Un bianco di fatto, vestito di rosa. Sempre affascinante raccontare di un vino che amo da sempre, per un po’ troppo tempo messo da parte dai vignaioli di queste stesse terre per dare più ampio respiro a vitigni bianchi forse più utili ai fini commerciali delle grandi cooperative che insistono sul territorio; ma fortunatamente da qualche anno – da che ricordo io più o meno una dozzina – pare vivere un vero e proprio rinascimento, lento ma costante, che lo vede ripreso e riproposto con risultati a dir poco interessanti; e quello di Zeni è certamente uno dei più autentici. Il termine ramato è originario, si racconta, dei contratti di vendita che lo voleva così chiamato sin dai tempi della Repubblica di Venezia; rimane un vino bianco a tutti gli effetti, pur offrendo ampie e complesse suggestioni, soprattutto olfattive, grazie anche alla breve macerazione buccia-mosto di 12 ore; l’azienda conta oggi circa 20 ettari di vigneto, un terzo dei quali ubicati proprio nella Piana Rotaliana da dove provengono anche le uve di questo vino. Del colore buccia di cipolla è presto detto, basta aggiungere che offre un naso affascinante che vira da sentori finissimi di erbe a note dolci mela renetta e di pera matura. Il sorso è delicato, asciutto, persistente, leggero, con un finale di bocca sapido ed estremamente lineare. Non poteva mancare!
Qui il drink pink made in Campania.
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20 Maggio 2011
Qualcosa non andava, sarò stato io, o la sottile insistenza di quella volatile incipiente; al che mi son convinto nel prendere tempo. Lasciar andare su la temperatura, aspettare e profondere maggiore attenzione. Decisamente dovuta.

E’ chiaro che, al momento, non sarò mai un fan della biodinamica, o di quel dire “così è se vi piace, e non può essere altrimenti” intendo, rimangono troppi punti oscuri che il mio intelletto fa ancora fatica, e parecchio, a decifrare: su tutti, dove finisce “il pensiero filosofico” e dove invece comincia l’opportunità commerciale? Un classico insomma! Ciononostante non riesco a fare a meno di ritornarci su, di tanto in tanto, ed infilarci le mani in pasta, ovvero il naso nel bicchiere. Un po’ come dannarsi l’anima con il cubo di Rubik, senza perdere però il sottile piacere della sfida.

Poi c’è il Filagnotti duemilanove di Cascina degli Ulivi, un vino decisamente complesso, per non dire complicato; contorto e scomposto di primo acchito, ma che sa, pieno di sé, cosa vuole dire e come vuol farlo: è lui l’altro Gavi, o quello che non c’è più, dato che dalla vendemmia 2008 è fuori disciplinare docg: una scelta meditata, dicono, sofferta ma necessaria. Nasce da uve cortese coltivate in località Tassarolo, da vigne con esposizione a sud ovest, su terreni rossi e argillosi. La raccolta 2009 del cortese, “tra le migliori mai avute” – mi racconta Sonia Torretta, l’enologa, raggiunta al telefono per aver più chiaro il quadro produttivo -, è avvenuta quell’anno verso metà settembre, poco dopo aver tirato giù dalle piante il moscato, subito prima del dolcetto; E’ stato vinificato esclusivamente in botti di legno di acacia di 25 hl, in ognuna è stata lasciata una quantità pari a 25 kg di grappoli non diraspati. Così, dopo un primo (ed unico) travaso per eliminare le fecce più grossolane, è rimasto per tutto un anno sulle fecce fini, sur lies si direbbe, sempre in legno prima di finire in bottiglia.

Il colore è un giallo paglierino carico, tendente all’oro, naturalmente non limpidissimo ma consistente e pieno di fascino. Il primo naso, come detto, allontana, però merita attenzione; una volta superata una prima fase di evidente empasse comincia a tirare fuori carattere e franchezza, qualità tra l’altro confermate certamente al gusto. Naso buccioso, vinoso, con sottili note di erbe officinali e frutta passita che rincorrono sentori di fieno e foglie secche, nocciola e frumento.
Vino di carattere, nonostante i 12 gradi e mezzo, di buon corpo; offre una beva non certamente facile, a tratti ruvida e graffiante, eppure espressiva, oltretutto di una buona prospettiva di vita. Difficile accostarlo a tavola sui classici piatti di pesce, meglio su primi piatti sugosi, anche aromatizzati, o preparazioni a base di carni, non necessariamente bianche, o ancora su formaggi mediamente stagionati. Attenzione a non servirlo troppo fresco, bene sui 12°/14°. Utile segnalarvi che non v’è assolutamente aggiunta di solforosa. Importante ribadire che chi non ama questa tipologia di vini, me compreso, difficilmente se ne innamorerà anche dopo questo assaggio; ma mettiamola così, perché non concedersi, ogni tanto, una stravagante avventura?
Per saperne di più sull’azienda o il pensiero Biodinamico di Stefano Bellotti date pure un’occhiata qui al sito di Cascina degli Ulivi.
Tag:bio e dinamica, biodinamica, cascina degli ulivi, cortese, cortese di gavi, demeter, filagnotti, gavi, gavi di gavi, piemonte, stefano bellotti, steiner, velier, vini bianchi piemontesi
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17 Maggio 2011
Un vino straordinariamente sorprendente! E’ bene dirlo subito, giusto per rendere chiara l’idea di cosa sto per raccontare, soprattutto a chi, non amando la tipologia, possa pensare di soprassedere appena dopo aver letto le sole prime quattro parole di questa recensione.

Un vino dolce naturale il Kabir, tra i più popolari, ma non per questo confondibile con i tanti altri moscati prodotti a Pantelleria; invero, se c’è un merito da affibbiargli anzitutto, gli va riconosciuto quello di essere rimasto, negli anni, sempre estremamente fedele ad una precisa identità territoriale prima che produttiva.
Un sorso di Kabir, quale che sia l’annata, parla direttamente all’anima, ma questo duemilaquattro, pur inaspettatamente, la conquista e la rapisce definitivamente; così la butto lì, perché anche sui vini dolci (da meditazione e compagnia cantando) non sarebbe male, di tanto in tanto, aprire una piccola finestra dalla quale affacciarsi su un mondo che rimane ancora profondamente misconosciuto, certamente lontano dal blasone sauternais, o di certi deliziosi nettari mitteleuropei, ma che non manca di fornire, come questo vino testimonia, spunti emozionali decisamente interessanti di cui non si può non tenerne conto.

Prima di passare ai fatti, superato l’annoso empasse che lo vuole perennemente fratello minore del ben più noto e ambìto Ben Ryè, ho dato una scorsa ad alcuni dati forniti dall’azienda sul suo sito – che devo dire risulta essere tra i più gradevoli e funzionali visitabili in rete quanto a spot aziendali – giusto per avere una idea da dove questa bottiglia sia partita prima di scivolare oggi nel mio paffuto bicchiere: il 2004 viene indicato come un millesimo rigido e lineare, partorito da un inverno ed una primavera piuttosto piovosi (rispetto alla media siciliana) e un’estate, contrariamente alla consuetudine isolana, dalle temperature decisamente miti. Ne deduco, come suggerito tra l’altro tra le righe, una maggiore finezza aromatica ed una minore polposità e concentrazione del frutto, quindi di zuccheri residui, così di alcol.
Poi c’è la pregiudiziale del tempo, l’imponderabile evoluzione di certi vini dolci, la probabile contrazione del nerbo acido quando meno te l’aspetti. Sei pronto quindi ad un vino più che maturo, dal colore cupo e sopito, con crepe ossidative olfattive, una scontata e stucchevole caduta palatale. Tutt’altro!
Il colore è invece splendido, giallo paglierino cristallino con nuances dorate e di una lucentezza quasi abbagliante; il naso offre un effluvio di note dolci, tracimanti, in una consequenzialità da manuale: dalle più labili e sottili note florali e fruttato di pompelmo, a quelle più nette, e man mano accentuate, di agrumi canditi e miele di zagara. Il gusto, poi, è coinvolgente: intenso, ricco, fine e persistente, presenta un finale di bocca lunghissimo, avvolgente, continuamente rinfrescato da una spinta acida ancora presente e fondamentale nel renderne perfetto l’equilibrio degustativo. In definitiva, un bellissimo vino.
Invito, chi ne conservasse ancora una bottiglia, a non rammaricarsi del millesimo così lontano nel tempo, questo Kabir è il sorso più delizioso che vi possa capitare a tiro, ideale per suggellare una sincera stretta di mano o da spendere alla fine di un pasto da ricordare, un momento da fissare nella mente, oppure ancora – perché no! – per consacrare un amore di sconfinata giovinezza!
Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.
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18 marzo 2011
Poi giuro che per un po’ non ne parlo più, ma non posso non raccontarvi di quest’altro bel vino prodotto da Caroline Pobitzer e Jan Erbach in quel di Montalcino, a Pian dell’Orino.

Cosa dirvi di questo vino? Magari si potrebbe partire dal fatto che è semplicemente buonissimo; Poi però bisogna spiegarlo, raccontarlo avendone coscienza e naturalmente quel pizzico di autorevolezza tale da potervi permettere di comprendere, far passare per certezza una impressione tutta tua, come quando un amico ti offre un consiglio che imparerai poi ad apprezzare; e allora veniamo ai fatti, quelli concreti, poi le mie sensazioni.
L’azienda è collocata in uno dei posti più suggestivi di Montalcino, praticamente con vista sulla Tenuta Greppo dei Biondi Santi (n’est pas?) ma ciò che rende unica questa etichetta è quell’imprinting che Caroline e Jan han deciso di dare ai loro vini, definitivamente puri, vivi, inconfondibili. L’ideale li tiene strettamente confinati ai rigidi protocolli naturali, laddove in vigna la cura biologica della piantagione diviene maniacale, assumendo un ruolo centrale, mentre in cantina, con manualità essenziale e moderna al tempo stesso, riesce a garantire vini che oltre ad una spiccata autenticità riescono, tanto il Brunello quanto questo Rosso di Montalcino, ad esprimere una integrità di quelle che rimangono ben fisse nell’immaginario tanto da assurgere a riferimento: insomma, un sangiovese che più espressivo non si può, o giù di lì. Questi i fatti.

La franchezza con la quale si propone questo Rosso 2008 è la stessa con la quale Jan passa dai numeri matematici delle formule scientifiche a gesti di inusuale semplicità per spiegare in soldoni cosa significa fare agricoltura biologica, vini naturali, e non dover raccontare ogni volta la stessa solfa filosofica per farsi comprendere, per far arrivare il messaggio che un vino è sano quando si lavora la vigna con giudizio, coscienza e pragmatismo e non con architetture astrali fini a se stesse o al massimo funzionali al marchio del quale sono al servizio.
Veste un colore rubino netto, di leggiadra trasparenza, ma non troppa; il primo naso è uno sbuffo di terra asciutta, ma appena l’ossigeno s’impossessa dello spazio libero tra le sue maglie è un continuo susseguirsi di note di piccoli frutti neri che si lasciano lentamente suffragare da lievi insistenze speziate, di china e rabarbaro, e spiccata mineralità. Un Rosso che brunelleggia mi verrebbe da dire, anche se ad un naso così importante non segue un palato altrettanto desto, ma in fin dei conti non è la sua vocazione quella di conquistare per spessore gustativo: è asciutto, di nerbo, di buona beva e sfugge via solo nel finale di bocca, lievemente amaro. In fin dei conti, un vino che offre tante qualità che fanno di una bevuta una piacevole esperienza. Altro bel colpo Weinstein!
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10 febbraio 2011
Come innamorarsi ancora una volta di un vino o di un’azienda? Ve lo spiego io, avere la fortuna di incontrare e lasciarsi prendere letteralmente per mano da persone come Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach!

Pian dell’Orino conta circa 6 ettari di cui almeno tre intorno alla casa-cantina, a due passi dalla Tenuta Greppo di Biondi Santi con la quale sono confinanti; sono piantati con una densità di impianto di 4.500 piante/ha dalle quali si ottiene mediamente una resa massima che a seconda dell’annata si aggira fra i 30 e i 60 qli. La biodiversità qui è un valore assunto ineludibile, e per incrementarla nelle vigne, viene praticato costantemente un sostanzioso inerbimento con semi di leguminose, graminacee, cereali ed erbe officinali – queste ultime tra l’altro utilizzate per le tisane somministrate per rafforzare il loro sistema immunitario – cercando di creare così un ambiente favorevole allo sviluppo di popolazioni variegate di insetti, rettili, volatili e piccoli animali utili all’incremento della vitalità del terreno ed alla competizione biologica verso parassiti nocivi.

In cantina, non vengono perseguite tecniche invasive durante la fermentazione che è assolutamente lenta e spontanea, con fermenti indigeni e quindi non inoculati utilizzando colture batteriche commerciali, le varie pratiche di decantazione avvengono per caduta naturale seguendo i diversi livelli su cui è costruita la cantina – essenziale, senza cioè nessun viaggio introspettivo architettonico, e tra l’altro perfettamente integrata nel paesaggio, ndr – mentre per i vini non v’è chiarifica se non la naturale precipitazione dei depositi; è praticamente inconsistente l’uso della solforosa, “affinché si riesca a garantire al vino piena salubrità ma anche che rimanga perfettamente digeribile”, dice Jan.
La produzione prevede essenzialmente tre vini, il Piandorino, un rosso giovane, da consumare velocemente e che esce come igt, un Rosso di Montalcino, di cui però ne parlerò specificatamente in un prossimo post, avendone portato via qualche bottiglia ad uso, per così dire personale, ed un Brunello di Montalcino propriamente detto, che nelle migliori annate, come proprio la 2006, bevuta praticamente in anteprima, rappresenta un vero e proprio piccolo gioiello di vino-frutto e ficcante mineralità; proprio con questo millesimo tra l’altro, il prossimo anno uscirà anche, per la prima volta, una Riserva, con le uve raccolte perlopiù a pian Bussolino e Cancello Rosso in località Castelnuovo dell’Abate, tra i più vocati del territorio. Il colore di questo sangiovese riappacifica con la tipologia, è bello, vivo, profondo. Il primo naso è un effluvio di piacevoli sensazioni varietali che lentamente lasciano la scena a sottili note tostate e terziarie che vengono fuori a rendere complessità ad un timbro olfattivo già di per se intenso e verticale. Il frutto, polposo, croccante è in primo piano anche in bocca, il percorso di invecchiamento, il legno per intenderci, incide poco o nulla sulle primarie sensazioni gustative, è assolutamente ben fuso, tutt’uno si direbbe, con la materia.
Un aspetto che impressiona di questo vino, che lo rende cioè pienamente godibile sin da ora, è la spiccata sapidità che chiude il finale di bocca dopo l’importante impronta acido-tannica che gradevolmente pervade il palato al primo sorso, poi giustamente ammantata da un altrettanto importante apporto glicerico. E l’eleganza, commista alla finezza dei tannini. In definitiva un vino sul quale si possono tranquillamente aprire le scommesse sulla sua durata nel tempo ma del quale, a me personalmente, interessa quanto, e più, riesce a garantirmi oggi, una volta stappata la bottiglia: da quel che ho bevuto, puro, significativo ludico piacere. Che l’annata in questione sia forse la migliore dell’ultimo lustro non v’è dubbio, ne abbiamo avuto oltretutto conferma bevendo altre signore etichette come per esempio il Cerbaiona di Diego Molinari e Il Paradiso di Manfredi; il vino di Jan e Caroline non è assolutamente da meno!
Tag:biondi santi, brunello di montalcino, caroline pobitzer, cerbaiona, il paradiso di manfredi, italian wine, jan hendrik Erbach, pian dell'orino, sangiovese, tenuta greppo
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2 febbraio 2011
Non si può dire certo che Diego Molinari sia, tra i produttori di Montalcino, il più disponibile ed affabulatore, tutt’altro; ma sarà stata l’atmosfera, la serata giusta, la gran vena della splendida moglie Nora, che l’altra sera ci ha regalato momenti di vita vissuta incredibili, a tratti indimenticabili.

Gli avevo a lungo chiesto di accoglierci nella sua splendida cantina, e girando per il paese, conoscendolo, in molti ci davano per spacciati: “E’ un tipo particolare il Molinari, riottoso, poco socievole, provateci pure ma non credo che vi offrirà più d’un saluto telefonico”. E Come spesso accade, è proprio questa particolare chiusura che mi ispira di più, un po’ come la ricerca di quel forziere dimenticato chissà dove di cui tutti ne parlano ma nessuno sa veramente cosa c’è dentro. Di Cerbaiona però, l’azienda di Molinari, se ne parla da sempre, almeno sin dalla sua fondazione alla fine degli anni settanta; il suo Brunello è tra i più acclamati del comprensorio, la stoffa dei suoi vini forse la più pregiata di questo versante montalcinese, in certe annate quasi inarrivabile, per questo irripetibile.

Dicevo della splendida moglie Nora, oggi donna di una certa maturità eppure dinamica e risoluta come poche altre incontrate sino ad oggi; lui racconta quasi rapito che l’ha conosciuta – siamo più o meno negli anni settanta – sopra i cieli d’europa, durante i suoi viaggi che faceva come pilota d’aereo per l’Alitalia: “una mattina, particolarmente movimentata (…del cazzo, cit.) ci siamo ritrovati nella splendida Parigi, lì ci siamo promessi amore eterno”. E’ lei, oggi, il vero motore della piccola azienda agricola, basta osservare con quale cordiale osservanza ruba lentamente la scena al marito sino a coinvolgere i suoi avventori che non possono non rimanerne rapiti: intuitiva, solare, affabile, anche quando ha dovuto giustificare al marito che avevamo ritrovato in cantina una bottiglia di Brunello 2004, che lui – precedentemente al suo arrivo – ci aveva categoricamente escluso che potesse ancora avere.
Nelle prossime settimane leggerete parecchio di Montalcino, di luoghi, persone e memorie, nonché delle bellissime esperienze che ho avuto la fortuna di condividere con amici a me particolarmente cari; il primo vino però di cui vi voglio subito raccontare è questo splendido Rosso di Montalcino 2007, che mi ha letteralmente folgorato per consistenza e carattere; alla cieca metterebbe in fila, e di parecchio, diversi Brunello, e non mi sto affatto mordendo la lingua! Il colore è di un bel rubino fermo e compatto, già come scorre nel bicchiere ti accorgi di avere di fronte un gran bel vino. Il primo naso è tutto frutto, polposo, ricco, avvolgente, pimpante; note di frutti rossi sottospirito e neri in confettura che non mancano di lievi e finissime note tostate, balsamiche. Il Palato è fresco, avvinghiato ad una piacevolissima sensazione espettorante che rinfranca le papille gustative, la vivacità gustativa è palese e non effimera, il frutto pare quasi masticarlo, il finale di bocca da rimanerci a pensare per tempo, di una sapidità quasi marina. Fossero tutti così espressivi i Rosso di Montalcino, altro che fratello povero del Brunello!
Tag:alitalia, angelo di costanzo, brunello di montalcino, cerbaiona, diego molinari, l'arcante, nora, rosso di montalcino, sangiovese grosso, toscana, viaggio a montalcino
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20 dicembre 2010
Salvare il Natale, almeno quello, non è una missione impossibile. Quante magre figure si rischiano, e quanti dubbi ci assalgono: avrò scelto bene? Gli piacerà? E c-o-s-a c-i a-b-b-i-n-o m-a-i al cenone? Sono queste domandone dalle risposte critiche, lo so, quantomeno però cerchiamo di non scegliere a caso cosa bere, tanto più quando si spendono cifre blu per carni e pesci che quasi sempre rischiano di rimanerci sullo stomaco tanto la colpa, si sa, andrà al vino (magari da due euro o poco più) “forse troppo acido o alcolico”; E che ne dite poi di quelle costosissime bottiglie – e credetemi che ne ho viste delle belle – il cui destino, quasi certo, è quello di finire riciclate perchè per niente capite, apprezzate quasi sempre solo per la forma sinuosa della bottiglia o per la preziosa confezione-cofanetto. No, quest’anno l’invito è a bere bene, superando alcuni stupidi pregiudizi e cercando magari di scoprire pure nuovi riferimenti.

Partiamo dallo scongiurare il più grosso dei pregiudizi insistenti tra “i più” su uno degli champagne più venduto e – non a caso – più apprezzato mai prodotti, la mitica etichetta arancione di Veuve Clicquot-Ponsardin, giusto per andare controcorrente e non finire col rifilarvi l’ultima bufala biodinamica in circolazione. Seguono altre cinque referenze, alcune conosciute, altre meno, che definire interessanti è dire davvero poco, con le quali potete giocare a costruire il vostro abbinamento ideale sia per il cenone della vigilia che per il lungo, a volte infinito, pranzo di Natale.
Champagne carte jaune s.a. brut Veuve Clicquot Ponsardin, un classico di sempre, checchè se ne dica, un piacere sottile e – se la smetteste di abbinarlo solo ai frutti di mare crudi – decisamente sorprendente a tutto pasto! Perchè la vedova aveva palato fine tanto quanto il cervello e ha saputo mettere in fila tanti sapientoni e maghi assoluti dell’assemblage affermando uno stile inconfondibile che non è solo perenne sospensione tra prestigio e dannazione. Per i meno, mettiamola così: è arrivato il momento di farla smettere di girare tra i regali riciclati ovvero di tirarla via – volesse il cielo – dalla dispensa una volta per tutte, non solo per la foto di rito per l’ultimo compleanno della figlia, ma per tirarle, finalmente, il collo! Con il fritto misto di gamberi e calamari per esempio, o col pane, burro salato ed acciuga.
Asprinio d’Aversa spumante Grotta del Sole, perchè a voler scegliere lo spumante più tradizionale che abbiamo in Campania non si può che passare per queste bollicine. La storica azienda flegrea della famiglia Martusciello produce anche una deliziosa versione charmat, più fresca e leggera ed assai indicata per innaffiare senza troppe preoccupazioni le vostre serate natalizie, ma se volete colpire dritto al cuore dei vostri accoliti, correte subito in enoteca – o meglio in cantina a Quarto – a comprare questa preziosa versione metodo classico che esce solo quando dio comanda ed in quantità piuttosto limitata, sembra infatti che proprio in questi giorni si riaffacci di nuovo sul mercato dopo una assenza di almeno tre anni. Presto che è già tardi, poi mi direte magari come è andato abbinato al tradizionale baccalà fritto, e quanto d’amore e d’accordo con le tartine con burro e salmone affumicato.
Greco di Tufo Giallo d’Arles 2008 Quintodecimo. Dovrete pur concedervela una uscita di senno per le spese di natale: vorrete il polpo più fresco tanto da appostarvi per ore dinanzi ai cancelli del mercato, non batterete ciglio sul prezzo dell’agognata spigola di mare o dell’astice blu del mediterraneo, quindi, non rompete le balle se è il greco di Tufo più caro che troverete in enoteca! Lasciatevi quindi conquistare da uno dei migliori vini prodotti in questo millesimo nell’areale nonchè dal fascino di una delle aziende più belle e suggestive d’Irpinia: complessità ed opulenza gustativa fuori da ogni schema precorso, di rara eleganza e profondità minerale. E vi prego, se pensate di regalarlo, fatevene uno pure voi, magari vi viene poi voglia di fare una capatina a trovare Laura e Luigi Moio nella splendida tenuta a Mirabella Eclano. Superbo con il pesce al forno, ma soprattutto con la pizza di scarola e alici della mattina della vigilia.
Costa d’Amalfi Tramonti bianco Per Eva 2008 Azienda Agricola San Francesco. E’ il bianco più ricercato e letto su questo blog, è il vino che al momento – dopo anche i vari assaggi di quest’anno – reputo migliore della comunque ottima offerta dell’azienda di Gaetano Bove in quel di Tramonti. Un bianco di rara eleganza e verticalità olfattiva, un vino da spendere a tutto pasto per esclusivo piacere delle papille gustative, che per’altro mai si stancheranno di lasciarsi andare all’adagio minerale che si diffonde ad ogni sorso. Dopo il Fiorduva, un altro capolavoro della divin costiera che però costa almeno tre volte meno del soave bianco di Andrea Ferraioli e Marisa Cuomo. Una bottiglia da non perdere insomma, bevetela pure bella fresca e sposatela per interesse, tanto, potete starne certi, finirà sicuramente lei prima di voi! Qui la recensione. Con il primo piatto ai frutti di mare, con il polpo all’insalata ma anche con la zuppetta di lumachine di mare.
Campania Aglianico Le Fole 2008 Cantina Giardino, perchè quando avrete voglia di tagliarvi la lingua con il tannino potete pure scegliervi uno qualunque dei Taurasi tanto reclamizzati ultimamente; Ma se invece, con tutto il ben di dio che c’è in menu per le prossime feste, punterete alla leggerezza, ecco il vino, la chicca che fa per voi. Perchè? Ci sono almeno tre ragioni: la prima – una figata pazzesca giocarvela con gli amici più colti – è che l’azienda, di Ariano Irpino, è una delle più alternative del momento, che fa viticultura sana e totalmente vocata alla naturalità degli interventi in vigna come in cantina; La seconda è che questo vino si lascia bere con una piacevolezza estrema senza confondervi mai le idee su ciò che state bevendo tanto è espressivo ed integro il frutto, e la terza – forse la ragione più importante – è che, almeno per quanto mi riguarda, l’ho trovato estremamente digeribile, cioè tanto piacevole da bere quanto da sostenere di pancia. Con la “pizza ripiena” della mattina della vigilia, con il primo piatto con ragù di polpo del cenone ma anche con la parmigiana di melanzane del pranzo di Natale.
Brunello di Montalcino Bramante 2005 Podere Sanlorenzo. Questo è davvero da non perdere se si ha voglia di mettere in tavola un grande rosso, pagando – in riferimento alla tipologia – un prezzo piccolo piccolo e che conserva tra le maglie del suo bel frutto tutto l’eccellente lavoro di un giovane e validissimo viticoltore ilcinese, Luciano Ciolfi, destinato ad un grande futuro. Trovate su queste pagine alcune tracce dell’azienda, e non mi nego di segnalarvi anche dove cercarlo poichè dalle nostre parti è un tantino difficile scovarlo. Un vino dal colore ciliegia che offre tutte le trasparenze del rosso più tradizionale di Montalcino, dal variegato ventaglio olfattivo e dal sapore asciutto, austero ma finissimo come pochi. Io ho subito avuto ben chiaro, tra le due o tre bottiglie destinate, cosa conservarmi come ultimo desiderio enoico dell’anno! Con il ragù di carne del pranzo di Natale ma non è osar troppo provarlo anche con la minestra maritata del pranzo del 26.
E con il dolce? Vi chiederete… beh, non v’è dubbio che siete degli insaziabili perfezionisti, ma vi tocca aspettare la prossima puntata. 😉
Tag:aglianico, agricola san francesco, asprinio d'aversa, bramante, cantina giardino, champagne, giallo d'arles, greco di tufo, grotta del sole, le fole, luciano ciolfi, natale vigilia di natale, per eva, podere sanlorenzo, quintodecimo, veuve clicquot ponsardin, vini per il cenone
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2 dicembre 2010
La fierezza, la dignità dell’appartenenza, la sottile malinconia di valori tanto radicati quanto a volte facilmente ignorati. Non si può produrre vino prescindendo dai primi due elementi appena citati, non ha senso invischiarsi nell’impresa di fare vino se non credi nel valore della tua terra, men che meno se la ignori in virtù del solo fine di produrre reddito. Mi sono ritrovato, ultimamente, parecchie volte a guardare la vigna su cui affaccia il balcone di casa mia; tutta sarà poco più di un ettaro, terrazzato, curato con parsimonia, vecchio quasi come il contadino che lo conduce ed allevato con il sempre suggestivo “spalatrone puteolano”; a dirla tutta, dà un vino da poco o niente, ma la fierezza e la dignità dell’appartenenza con la quale don Antonio, e di tanto in tanto suo fratello, vecchio forse più di lui, ci spendono intere giornate, in questi giorni anche sotto la pioggia, mi fa pensare a qual valore abbia la terra per chi coltiva la vite. Decisamente Incalcolabile.

Con questo pensiero mi lascio alle spalle Cesinali, così si esaurisce la piacevole giornata trascorsa a casa di Rosanna Petrozziello e la famiglia Favati tutta, con le stesse ultime curve prima della strada statale che mi avevano accompagnato qui dall’uscita autostradale Avellino est. Con me però anche la convinzione di aver ritrovato vini davvero importanti, come avevo sempre avuto modo di assaggiare, ma oggi più che mai ascritti ad una identità ben precisa e a quanto mi è parso sempre più riconoscibile soprattutto nella personalità di una straordinaria donna del vino –Rosanna appunto – che al vino, d’un tratto, si è dovuta concedere in tutto e per tutto per dare continuità ad un progetto iniziato per volontà della famiglia ma che in lei, anzitutto in lei, ha trovato linfa vitale per affermarsi e progressivamente proporsi come tra i più interessanti e solidi dell’areale irpino.
L’azienda nasce nel 1996 per volontà dei fratelli Piersabino e Giancarlo Favati (di cui Rosanna è moglie, ndr) e sin dal primo imbottigliamento, annata 2000, si è subito imposta come un riferimento da non perdere d’occhio, sul fiano in particolare che rimane la loro specializzazione, il loro fiore all’occhiello, espresso tra l’altro anche con un sempre interessante spumante metodo charmat, il Cabrì. Per la verità la prima vendemmia del fiano di Avellino è avvenuta nel 1999, ma date alcune complicanze sopraggiunte in commissione per l’allora doc, in primis per banali errori di interpretazione del grado alcolico, si lasciò preferire, pur di non declassare la produzione, il tombino della cantina allo svilimento di quattro anni e mezzo di lavoro, il che la dice lunga sull’approccio che coltiva la famiglia Favati con il mondo del vino!
Oggi l’azienda conta giusto 12 ettari di vigna di cui 10 di proprietà, sparsi qua e là nelle sottozone maggiormente vocate del territorio sia per quanto riguarda il fiano di Avellino che l’aglianico di Taurasi, tra la stessa Cesinali per il primo e varie parcelle nei comuni di Montemarano e Venticano per quando riguarda il secondo. I due ettari di greco sono invece in conduzione, ma ciò nulla toglie, ed il Terrantica 2009 ne è testimonianza tangibile, alla straordinaria capacità di ben interpretare uno tra i più interessanti varietali regionali. Il tutto si traduce in circa 100.000 bottiglie prodotte, delle quali più della metà vanno all’estero.

Dagli assaggi per la verità gran parte della mia attenzione è ricaduta sull’ottimo Fiano di Avellino 2009, sempre etichetta bianca, che personalmente ritengo il migliore sino ad oggi uscito dalle porte di questa cantina, oggi seguita da Vincenzo Mercurio: un vino di una piacevolezza olfattiva e progressione gustativa sinceramente molto al di sopra della media dei Fiano 2009 sino ad oggi assaggiati. Ma non posso negare la tanta curiosità su questo greco di Tufo, anzitutto perché se per i Favati fare fiano è una vocazione naturale, il greco non sembra affatto soffrire di minor attenzioni, sfoggiando con questo millesimo una gran verve, soprattutto al gusto, che ne fa presagire non poca fortuna.
Sia chiaro, non è un vino “facile”, tutt’altro, e la veste di selezione – o come spesso anch’io amo tradurre in cru – confido sia ben spiegata al ristoratore di turno come dal sommelier all’avventore appassionato: è un vino che va lasciato respirare e soprattutto servito ad una giusta temperatura (12°-14°) per non ghiacciare con le papille gustative anche i sottili ma persistenti profumi minerali e soprattutto una vivacità gustativa che sorso dopo sorso si tramuta in una profondità davvero encomiabile, che avvolge il palato e non lo lascia per molto, molto tempo.
Si è parlato, spesso, di non pochi errori di interpretazione di questo come altri varietali autoctoni campani, nel tentativo, di rendere più slanciate note olfattive per la verità sempre poco caratterizzanti vini del genere, il greco su tutti, ed ammorbidire certe sfumature gustative magari troppo poco appetibili dal gusto internazionale quanto invece patrimonio di questo vitigno in particolare. Ebbene, lo stile dei vini dei Favati non si è mai piegato a questo gioco al massacro e semmai servisse un esempio per ribadire ancora una volta il concetto che l’unica molla su cui fare leva per affermare e consolidare la viticultura regionale sia la profonda biodiversità che la caratterizza e non il vano tentativo di renderla puttana, beh, il Terrantica etichetta bianca 2009 merita sicuramente una delle poche candidature alle primarie!
Tag:aglianico, cesinali, etichetta bianca, fiano di avellino, greco di tufo, i favati, rosanna petrozziello, taurasi terzo tratto, vincenzo mercurio
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25 novembre 2010
Merlot, o lo ami o lo odi. Io sto giusto nel mezzo, perché ci sono vini, a base merlot, capaci di impalarti di fronte al bicchiere, altri – forse proprio quelli che hanno fatto degenerare la fama di questo nobile vitigno bordolese – capaci solo di scivolare anonimamente giù per il lavandino. Alla fine, come in tutte le cose della vita, ognuno è artefice del proprio destino, e chi ha creduto di trovare nel merlot una facile fonte di reddito anziché un confronto ambizioso ed impegnativo con i cugini d’oltralpe, ha dovuto ben presto, in maniera meschina, dall’Alto Adige alla Sicilia, alzare le mani se non in qualche caso abbassarsi le braghe di fronte ad una sconfitta sonante senza se e senza ma.

In Friuli, dicono gli annali, c’è arrivato intorno al 1880 per opera del senatore Pecile e dal conte Di Brazzà, per diffondersi poi anche in Veneto e via via in tutta la pianura padana. In Friuli Venezia Giulia ha trovato sicuramente una terra particolarmente vocata a tal punto dal divenire in pochissimo tempo un fermo dell’enologia friulana, non a caso il merlot è oggi il vitigno a bacca nera più diffuso in regione assieme al cabernet sauvignon ed al cabernet franc, ormai riferimenti assoluti per molte delle denominazione di origine di vini rossi. Personalmente però, parlando di vini rossi, continuo a ritenere di gran fascino molti vitigni autoctoni locali, il Refosco su tutti ma anche altri come il tazzelenghe, in forte rilancio sulle colline di Buttrio, Manzano e Rosazzo, e che assieme al pignolo e allo schioppettino sono stati letteralmente salvati dall’estinzione certa.
Ma oltre a questi vini, austeri, se vogliamo rustici, seppur in alcuni casi decisamente autentici – il nome tazzelenghe per esempio deriva dal dialetto friulano tacelenghe (taglia lingua) – è innegabile che vi è stato per lungo tempo (e lo è per certi versi tutt’oggi, ndr) una profonda necessità di proporsi sul mercato con vini che offrissero caratteristiche peculiari tendenti più alla morbidezza invece che all’elevata acidità e tannicità dei vitigni appena citati, sicuramente indiscutibili per le qualità patrimoniali, ma avendo necessità di lunghi affinamenti prima di essere pronti da bere causavano non pochi problemi gestionali ad un sistema economico spesso in affanno, soprattutto quando, nel periodo subito dopo l’estate, calavano drasticamente le vendite dei ben più apprezzati vini bianchi mentre quelli rossi erano ben lungi dall’essere pronti da bere. Ecco, bevendo questo delizioso C.O.F. rosso 2005 di Felluga, base merlot con un saldo di refosco, è proprio questa l’idea che subito mi son fatto del perché di un successo tanto scontato del varietale internazionale in terra friulana, e di un vino – questo in particolare – tanto rotondo e ruffiano, a dispetto di una terra che partendo proprio dai suoi vini bianchi, partorisce da sempre prodotti con una grandissima capacità di attraversare il tempo, in maniera quasi disarmante, esaltandosi addirittura con l’evoluzione in bottiglia.
Livio Felluga vine oggi considerato come il patriarca della vitienologia friulana, primogenito della quarta generazione che da Isola d’Istria si trasferì in Friuli e tra i primi ebbe l’intuizione di puntare su Rosazzo e sui Colli Orientali del Friuli per fare del suo ideale un presente in grande spolvero che oggi vanta un’estensione collinare nel Collio e nei Colli Orientali del Friuli di oltre 160 ettari di proprietà, di cui oltre 135 a vigneto. Sul vino invece rimane ben poco da scrivere, ritengo di averlo trovato di gran compagnia, francamente un bel rosso da bere senza troppo chiedere né al palato né alle proprie attitudini degustative; Offre un bel colpo d’occhio, rosso rubino perfettamente integro nonostante i cinque anni, di buona consistenza. Il naso è piuttosto gradevole, suadente, delicato ma ampio, richiama anzitutto note di amarena, lampone e mirtillo, alla beva, sul finale, in retrogusto, si apprezzano anche discrete note speziate. Più in generale offre una bevibilità particolarmente avvolgente, è un vino quasi robusto – i 14 gradi non hanno dove nascondersi – ma lineare e di ottima consistenza. Un rosso che non offre certo spunti di riflessioni articolate, ma che non delude certamente una sana e piacevole bevuta tra amici.
Tag:angelo di costanzo, c.o.f., colli orientali del friuli, cormons, friuli, friuli venezia giulia, l'arcante, livio felluga, merlot, pignolo, refosco, rosazzo, tazzelenghe
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17 ottobre 2010

Non ho grandi esperienze in merito, ma non credo che in giro ne esistano di così saporite…! Silenzio, poi…risata generale!
Inizia così – invero si sancisce – una piacevole bevuta tra amici-colleghi appena dopo il lavoro; La notte per chi fa il nostro mestiere ha sempre un sapore particolare, netto. Il tempo, contrariamente ai diuturni impegni, certe volte inverosimilmente frenetici, sembra scivolare via molto più lentamente, in maniera quasi indolente.
Tra una chiacchiera e l’altra passano distrattamente sul tavolo birra ed analcolici vari, mentre, ancora intento a sfogliar la carta dei vini, mi accorgo tra una riga e l’altra, di qualche buona referenza inesplorata, quantomeno non di recente asaggio. “Ecco, la Passerina“. Passa uno sfottò, qualcuno si lancia in una battuta, così giusto per insaporire il tempo necessario a stappare questa benedetta bottiglia di Passerina 2009 di Stefano Antonucci.
Il vitigno ha una storia, come tanti autoctoni italiani, piuttosto controversa, sembra abbia attraversato parecchie crisi d’identità, spesso confuso o più semplicemente considerato tal quale un Bombino bianco o come un Trebbiano con il quale condivide parecchi fattori genetici; Nulla però di più sbagliato. La Passerina, il vitigno, ha una sua specifica identità, qua e là viene chiamata da sempre con nomi a dir poco folcloristici (cacciadebiti, cacchione, uva passera, uva d’oro, uva Fermana) e seppur non vanti nobili origini certe del suo nome, grazie alla sua abbondante produttività ha saputo garantirsi una certa riconoscenza che gli ha consentito di arrivare sino ai tempi moderni, dove, grazie all’impegno, soprattutto di produttori del frusinate e delle Marche, si sta proponendo come utile e fresca novità di mercato in quanto a vino di invidiabile leggerezza, bevibilità e quindi gradevolezza.
Da un punto di vista ampelografico, il vitigno si presenta con un grappolo piuttosto grande e di media compattezza, solo a volte provvisto di ali. L’acino è generalmente di medie dimensioni (nel caso specifico invece è di poco più piccolo) in piena maturazione esprime un colore teso al giallo oro con buccia spessa, consistente e soprattutto pruinosa; Il vino che ne viene fuori ha di solito un carattere piuttosto acido, anche per questo lo si ritiene ottima base per vini spumanti. Come detto è ben predisposto ad una costante ed elevata produttività.
Il vino di Stefano Antonucci, indicato come un Marche igt, si proprone con un bel colore giallo paglierino con evidenti riflessi verdognoli, nel bicchiere pare quasi scappare via. Il primo naso è un po chiuso, chiede venia, ma si rifà appena subito dopo con una bella sprizzata erbacea, poi fruttata, ancora balsamica. Giocando con la temperatura si percepiscono, a vari strati, fresche note agrumate di cedro, mentina, poi si apre a piacevolissime nuances di susina e camomilla. Il naso, per capirci, è certamente più complesso, cioè variegato, che persistente, ma essenzialmente il bouquet risulta comunque molto avvincente. In bocca è secco, appena passato sulle papille lascia solo piacevoli sensazioni, i gradi alcolici sono appena 12, quindi per niente incisivi, la beva è fresca, lineare, corroborante, l’acidità trova una discreta trama di sapidità che gli rende un finale di ineguagliabile giustezza. In definitiva, un bell’esempio di easy to drink all’italiana da non farsi mancare al prossimo assaggio, da spendere come aperitivo o su piatti semplici, persino su di una magra insalata di lattuga e pomodorini condita con un filo d’olio extravergine. “…and you, do you like passerina?”
Tag:cacchione, cacciadebiti, marche, pagadebit, passerina, santa barbara, stefano antonucci, uva fermana, uva passera, vini marchigiani
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5 ottobre 2010
Alessandro Marra ha partecipato ad una interessante verticale di questo vino bianco piemontese che di certo non t’aspetti arrivi dalle langhe, prodotto in uno dei luoghi culto per il nebbiolo in assoluto, l’areale di Serralunga d’Alba; Alessandro ce ne lascia traccia in questo puntuale e lucidissimo resoconto; Aggiungo solo, spero di ricordare bene, che “Hérzu” in gergo dialettale locale, dovrebbe proprio indicare la particolare condizione nelle quali allignano le vigne sulle colline – scoscese appunto – di Cigliè, paesino ai confini con la valle del Tanaro monregalese. (A. D.)

Dici Piemonte e ti vengono in mente in rapida successione Barolo, Barbaresco e una-due-tre barbera. Rossi, sempre e comunque rossi, rossi e rossi ancora. Non penseresti mai di trovare un bianco degno di nota; O almeno questo pensavo io, stupidamente, prima di incontrare timorasso e erbaluce. Poi, ti imbatti in un riesling renano e rimani spiazzato. “Io quello lì lo voglio proprio conoscere, ho pensato”. Parlo di quel gran personaggio di Sergio Germano al quale mi piacerebbe chiedergli come diavolo gli sia venuto in mente di piantare riesling in Langa, a Serralunga d’Alba poi, terra natia di grandi Barolo, così per dire. Una sfida? Magari sì. A giudicare dai risultati, un’intuizione. L’azienda Ettore Germano (Ettore è il nome del papà, scomparso qualche anno fa) produce circa 70 mila bottiglie dai 13 ettari di proprietà. Non uno, bensì tre bianchi: questo riesling renano su terreni a circa 500 metri di altitudine, uno chardonnay in purezza e un uvaggio di riesling e chardonnay. Ecco in sequenza gli assaggi della verticale di Hérzu organizzata dall’amico Giuseppe Sonzogni, patron dell’ Enoteca Vintage di Cesano Maderno alla porte di Milano.
Langhe bianco Hérzu 2009 (13%) Il colore paglierino è piuttosto timido. La prima impressione è che profumi di mela e fiori bianchi, direi camomilla, anche se – nonostante la giovane età – si percepiscono i primi tratti idrocarburici. Odora anche di litchi, non tanto la polpa quanto invece la buccia. I profumi non sono un granché intensi ma eleganti, quello sì. L’attacco in bocca è più intenso che al naso, sorso fresco e bello sapido. Il finale è lungo, scattante e pienamente rispondente alle sensazioni olfattive, con le note di mela e prugna acerba che lasciano via via spazio a quelle di limone e pompelmo, quasi di citronella, di caramelle gommose, ricordate le fruit joy.
Langhe bianco Hérzu 2008 (13%) Al naso è inizialmente più idrocarburico e si differenzia dal precedente millesimo anche per il colore, un paglierino leggermente più carico. L’intensità è prerogativa sia del naso che della bocca. Al naso, in particolare, tornano alla mente profumi di una frutta più matura, di pompelmo e di fiori bianchi. Ha un’eleganza diversa, dovuta anche alla differente incisività dei profumi di cherosene. Regala grande soddisfazione in bocca dove il sorso, sempre agile, è armonico. Negli anni a venire, sono sicuro, saprà dare ancora molto.
Langhe bianco Hérzu 2007 (14%) L’impatto è strano: in assoluto il più chiuso, sembra essere monocorde, fermo com’è su quelle decise sfumature resinose. Si apre a fatica virando sui profumi d’erba e di frutta. Certo è intenso al naso ma soprattutto in bocca dove si propone sapido e ancor più potente, secco, complessivamente più austero. Da quanto si legge in rete, la lavorazione sarebbe in parte diversa con il 10% della massa che è vinificato in rovere; e ci sarebbe anche un taglio del 10% di chardonnay (il sito internet dell’azienda, tutt’altro che user-friendly e verosimilmente anche poco aggiornato, non aiuta). L’ho portato via e ne ho osservato la costante evoluzione con il passare delle ore. L’indomani, a mezzogiorno, era ancora lì: grande tenuta dei profumi e assoluta integrità, nessun cedimento. Ciò che lo differenzia di più dagli altri campioni è il tenore alcolico, di un grado superiore rispetto agli altri. Annata più calda? Eppure nulla, inizialmente, poteva far pensare a una certa maturità. Che magari le escursioni termiche giorno/notte siano state più forti rispetto alle altre annate?
Langhe bianco Hérzu 2006 (13%) Il colore – in un progressivo e regolare scurirsi scendendo d’annata – è più intenso. E così pure la vena idrocarburica del vitigno che qui esce fuori con particolare chiarezza e prepotenza, sin dall’inizio, arricchita dai sentori di frutta e fiori gialli. Non gli manca certo la persistenza in bocca che si esprime sui toni del pompelmo e, inaspettatamente, della radice di liquirizia. Alla lunga, mentre gli altri sono ancora lì a proporsi, lui è già sparito. Probabilmente è il più maturo dei quattro; è difficile, infatti, pensare a un’ulteriore evoluzione in bottiglia, anche per l’assottigliarsi della freschezza. Di certo, è godibilissimo adesso, con tutte quelle sfumature di zolfo e cherosene che tanto mi piacciono in certi bianchi.
Eleganza e durevolezza delle sensazioni, quindi. Per tutte e quattro le annate. Siete ancora sicuri non valga la pena di scoprire i bianchi del Piemonte?
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Si ringrazia per la collaborazione:
Enoteca Vintage
di Giuseppe Sonzogni (nella foto)
Via Milano, 26 – 20031
Cesano Maderno (MI)
info@enotecavintage.it
Tel. 0362 528485
Cell. 333 1041211
Chiuso: Domenica e Lunedì
Si organizzano eventi e degustazioni
Tag:alessandro marra, barbaresco, barbera, barolo, cesano maderno, chardonnay, enoteca vintage, ettore germano, herzu, langhe, mani giunte raccontano, milano, nebbiolo, riesling renano
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2 ottobre 2010
Non è mai semplice raccontare un vino dolce, il pericolo è che si rischia quasi sempre di finire su considerazioni stucchevoli e ripetitive del tipo “giallo oro, naso mielato e palato dolce e piacevole”.

Negli ultimi 20 anni in Italia ci hanno volutamente propinato tante di quelle ciofeche edulcorate come se ogni uva e vigna sparsa per il paese fossero adatte a produrre vendemmie tardive, passiti o peggio ancora muffati. La regola del listino ampio e per tutti i palati, diciamolo dichiaratamente, ha trovato nel tempo tanti cari estimatori ipocriti facendo sì proseliti ma nutrendo gli appassionati nel modo peggiore, lasciandoli nella convinzione che fin dove crescevano, oltre alle vigne, alberi della cuccagna e paperi e papaveri poteva essere prodotto di tutto, dallo spumantino economico per l’aperitivo al grande rosso da invecchiamento finanche al prelibatissimo vino da meditazione. Così il fenomeno “tutti figli di un Sauternes minore” dopo aver vissuto una partenza lanciatissima protrattasi sino a fine anni novanta, si è visto di molto ridotte le ambizioni scemando sino a ridursi nuovamente in prodotto di nicchia.
Oggi, nel sempre stracolmo pentolone tricolore di Bacco, di uva dolce ne bolle sempre di meno, un po perché fare vini del genere come dio comanda costa un botto e soprattutto perché l’euro pesante ha reso un tantino più complicato anche le belle e ricercate chiusure in “meditazione” delle cenette tra amici; La vita, confesso, è diventata complicata anche per noi sommeliers, poichè oltre alla difficoltà di volgere continuamente lo sguardo al di là dei soliti noti, evitando “pacchi e paccotti” in agguato, ci si è messa anche la creatività, talvolta sopra le righe, di certi chef patissiere, continuamente alla ricerca di una destrutturazione antropica della materia e con essa la folle esaltazione di mille e più ingredienti, il che di certo non ci facilita l’abbinamento: certi dessert appaiono sempre più belli da vedere, buonissimi da mangiare (ci mancherebbe!) ma sempre meno suscettibili ad accostamenti azzeccati o quantomeno lineari.

Detto questo, rimangono sicuri alcuni punti di riferimento assoluto per la tipologia, alcuni vini che rappresentano ognuno un grande valore aggiunto per l’areale di produzione, per l’aziende che li produce o per la valorizzazione di un vitigno o tecnica di produzione: parliamo per esempio di vini straconosciuti come il Ben Ryè di Donnafugata, il Muffato di Castello della Sala, il Ramandolo di Dario Coos giusto per citarne alcuni o piccole perle dell’italica enologia, talvolta misconosciute come il Moscato di Saracena di Viola o il Maximo di Umani Ronchi. Ci sono poi vini come il Terminum che hanno la capacità di essere al tempo stesso iconografia del bere dolce (strapremiato, straraccontato) eppure sempre poco “visto” sulle carte dei vini, defilato come pochi altri pare passare quasi inosservato, perchè?
La cantina di Termeno/Tramin nasce nel 1898 grazie a Christian Schrott, il locale parroco che aveva tra le varie vocazioni quello di essere deputato al parlamento austriaco, fu lui a volere fortemente che i piccoli viticoltori dell’areale sud tirolese convenissero a strutturarsi in cooperative, salvaguardando così il patrimonio vitivinicolo e l’economia di tutti, non solo il proprio. Oggi l’azienda nel suo insieme annovera circa 280 conferitori che ricoprono una superficie di più di 230 ettari vitati. Il Gewürztraminer è un vitigno marcatamente aromatico, i vini che ne nascono, quelli tradizionali sono piuttosto asciutti ed offrono generalmente spiccati sentori di rose e chiodi di garofano e, a seconda della località di origine, una più o meno marcata variabile minerale.
Il Teminum è invece una vendemmia tardiva, cioè le uve vengono raccolte dalla pianta in piena surmaturazione, quando gli acini colmi di zuccheri residui offrono mosti ancor più ricchi e concentrati di aromi e caratteri varietali esaltati poi da una fermentazione controllata e da una maturazione in legno di rovere. Il 2001 è di un bellissimo colore oro, ha saputo preservare tutta la sua vivacità, al naso si offre con una complessità impressionante, la frutta candita lascia subito campo toni mielati e a spezie finissime, alla cannella, a note balsamiche ed eteree, particolarmente fini e persistenti. In bocca è dolce, la sensazione è che gli zuccheri residui abbiano ampiamente preso il sopravvento forgiandone la spina dorsale ma ciononostante, dopo quasi un decennio non risulta per niente stucchevole, tutt’altro, estremamente piacevole. “Oddio! Giallo oro, naso mielato e palato dolce e piacevole”: lo sapevo che andava a finire così!!
Tag:alto adige, ben ryè, cantina di termeno, christian schrott, dario coos, donnafugata, gewurztraminer, kellerei tramin, maximo, moscato di saracena, muffato della sala, nussbaumer, picolit, sud tirol, terminum, umani ronchi, viola
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25 settembre 2010
Ricordo come fosse ieri quando, più o meno una quindicina di anni fa, lavorando tra i tavoli di uno dei ristoranti più cool dell’epoca a Pozzuoli, La Fattoria del Campiglione, non di rado mi capitava di aprire signore bottiglie, a volte in una sequenza e con una costanza che avrebbero fatto imbarazzo anche alla migliore “cantina” d’Italia.

Tra i vini più gettonati vi erano immancabili alcuni tra i nomi già allora storici dell’enologia italiana e gli immancabili SuperTuscan che vivevano, forse, il loro momento top: Sassicaia, Ornellaia, Solaia e i vari figli di un “aia” superiore sembravano lanciatissimi in un’ascesa inarrestabile, e con i vari Gaja e Biondi Santi – come se l’uno e l’altro producessero un solo unico vino di inestimabile valore – sembravano assurgere a pane vino quotidiano, la bottiglia da non far mancare sulla tavola, lo status symbol da sbattere in faccia ad amici enogastrofanatici o come talvolta accadeva, più semplicemente un classico e banale sciovinismo di ignoranti enosboroni alla ricerca di alcol e tannini per allungare la bottiglia di coca-cola da un litro.
Nel mezzo di tutto questo marasma enoico, tra il dire fantastico ed il mio illibato diletto da provetto sommeliericchio, ci capitavano di tanto in tanto una o due bocce di tal Quintarelli Giuseppe o del suo mite ma ambizioso allievo Romano Dal Forno: erano quelli, momenti di gran confusione frammisti però alla tangibile percezione di stare maneggiando nettare ieratico a cui mai avevo avuto accesso prima di allora, e non sapevo, puntualmente, dove andare a parare per avere un riferimento utile degustativo per meglio comprendere l’intensità, l’opulenza e la profondità che questi vini erano capaci di scatenare, al naso come al palato; poi, nel tempo, capii che non ne esistevano, probabilmente erano proprio quelli dei nuovi a cui guardare.
Di Romano Dal Forno e del suo maestro Quintarelli non oso nemmeno scrivere due righe, ma solo perchè nonostante le belle esperienze sensoriali successive agli esordi appena descritti, maturate tra l’altro con una coscienza sempre più ferrata in materia, non ho avuto ancora l’onore di toccare con mano le loro realtà, pertanto, speranzoso di camminare nuovamente quelle terre per finalmente colmare questo vuoto, vi rimando a questo bellissimo ed esaustivo pezzo di Roberto Giuliani che trovate su LaVINIum, leggerlo vi aprirà la mente su una storia, quella di Dal Forno, che oggi è sì leggenda, ma che ha origini ancora più suggestive.
Dove invece ci metto volentieri la bocca è su questo straordinario vino, il Valpolicella Superiore Monte Lodoletta 2004, quest’anno assaggiato, tra i tanti, in più di una occasione; sorpresa delle sorprese, l’altra sera con gli Amici di Bevute, radiografandone a puntino tutte le possibili sfumature l’abbiamo consacrato a pieni voti a… “Mamma che vino!”. Il Colore ha una carica impressionante, è puro inchiostro, cristallino, impenetrabile e vivacissimo, pare ancora sobbollire nei tini; il primo naso offre uno spin up incredibilmente coinvolgente: frutta macerata, polpa di frutti neri in confettura, cioccolato, cuoio, cipria. In bocca ha un attacco deciso, infonde immediatamente una gran voluttà, ha muscoli tonici e non vuole certo nasconderli ma, come forse solo in pochi, non tende all’ostentazione, piuttosto scivola via setoso, fresco, pulito, in profondo equilibrio, lasciando il palato imbrigliato tra il frutto decisamente croccante ed una sostanza glicerica sostenuta eppure mai stancante, di estrema finezza ed eleganza: proprio un gran bel vino, che vale tutti i novantacinque/cento euro che vi chiederanno in una onesta e fornita enoteca.
Ecco, credo proprio che puoi rischiare di lasciarci il naso in un bicchiere del genere, pensare di farla finita una volta per tutte con i cosiddetti vini facili (ma quali sono poi?), eppure penso che sono proprio grandi vini come questo che ti lasciano apprezzare quanto possiamo ritenerci fortunati in Italia ad avere terre e vigne così profondamente dissonanti ed uomini e vini così marcatamente diversi tra loro, a volte più unici che rari, con buona pace dell’effimera, stupida omologazione che, non ultimo vedi il caso Cirò, non si smette ancora oggi, di rincorrere.
Tag:angelo di costanzo, biondi santi, fattoria del campiglione, gaja, giuseppe quintarelli, illasi, monte lodoletta, ornellaia, pozzuoli, romano dal forno, sassicaia, solaia, valpolicella superiore, verona, veronese, vini
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11 settembre 2010

Negli ultimi mesi si è scatenato un ampio dibattito su questa storica denominazione calabrese, una visibilità forse mai avuta prima, nemmeno nel più affollato e fornitissimo dei supermercati di germanica ispirazione. Il Cirò sulla bocca di tutti, di giornalisti e presunti tali, di cronisti afecionados e di spietato cinismo, un vortice mediatico a cui non si può che guardare con attenzione e riflessione, per quello che ha voluto sollevare, sottolineare e, in più di una occasione, aborrire. Un turbinare nel quale non desidero certo entrare, lasciando il dovuto spazio a menti sicuramente più ispirate della mia, ma che non posso lasciarmi girare intorno passivamente, fosse solo per il lavoro che faccio.
Così inaspettamente, mi tocca raccontare ad un ospite olandese cosa stia accadendo lì in terra cirotana, e facendolo nel più suggestivo dei momenti immaginabili, tra una bottiglia di A’ Vita 2008 e questo delizioso, direi superbo, Duca San Felice ’93, senza dubbio alcuno tra i più sottili ed al tempo stesso eleganti vini rossi mai bevuti prima di adesso.
Tutto nasce per caso, sull’abbinamento ad un piatto di Oliver Glowig che amo molto, coda di astice con lenticchie di Leonforte e fave di cacao, dove vanno via d’amore e d’accordo due bicchieri del gradevole rosso di Francesco De Franco; A questo punto, pur convinto dalla leggiadrìa e dalla buona capacità di reggere l’accostamento del primo mi si avanzano seri dubbi sulla longevità del gaglioppo, di questa tipologia di vini per altro proveniente da una terra del vino, a detta del commensale, di cui giammai ne avea sentito parlare prima; Entra così in scena il secondo, che già dopo un breve tempo di ossigenazione mostra uno stampo gustolfattivo particolarmente suggestivo: il colore pare arrivare da un tempo lontanissimo, granato tenue con nette sfumature aranciate; Il naso è subito salino, il legno solo un ricordo fugace, il frutto dissolto e lievemente caramellato, appena accennate le nuances speziate. In bocca ci arriva in punta di piedi, sottile, delicato, l’alcol si sarà perso da qualche parte, non la lineare bevibilità, avvolgente, per niente statica, persuasiva. Un vino con un’anima autentica, di una terra unica, quella stessa anima che stanno biecamente tentando di strappare via al Cirò per offrirla ad un buco nero che non porterà da nessuna da parte se non verso quella omologazione ormai smentita già da anni e che solo menti stolte non vogliono vedere.

Il Cirò con molta probabilità non sarà mai protagonista della mia carta dei vini, anzi su questo punto non esito a mettere le mani avanti, e non per snobismo professionale, tutt’altro; Ho avuto per molto tempo la pazienza di aspettare e cercare anche nel Mare Magnum ionico quelle due-tre referenze giuste per dare l’idea di come non debba essere per forza scontata l’offerta in una lista vini: mi sono fidato nel tempo della storia degli Ippolito, della voglia di fare di Francesco De Franco ma non posso negare che in principio era solo Librandi, il suo Gravello rimane un riferimento importante se non del tutto irresistibile, e solo la fortuna di ritrovarmi in cantina una verticale storica di Duca San Felice, giocata tra una decina di vendemmie tra il ’90 e il ‘00, ha potuto aiutarmi a comprendere meglio tutto il potenziale di un vitigno, il gaglioppo, capace di attraversare il tempo con disarmante scioltezza e rappresentare con la storia di ognuno di questi produttori un arma in più per raccontare meglio un territorio tra i più vocati e storici del sud Italia. Ecco, di questo sento di aver bisogno assoluto, di bottiglie da proporre come un messaggio e non come esca, di vini plausibili e non di ennesimi, banalissimi succhi, o peggio ancora concentrati, di frutta.
L’Arcante sostiene, sin dall’inizio di questa assurda storia tutta italiana, il Comitato in difesa dell’identità vino Cirò
Tag:a'vita, antonio e nicodemo librandi, calabria, cirò, cirò marina, duca san felice, gaglioppo, librandi, vigna de franco
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1 settembre 2010

New York, Montebello Restaurant, 19 p.m.. La midtown della grande mela conserva sempre un fascino unico, a quest’ora è in uso vestirsi elegante per la lunga notte eppure rimane sempre un luogo da vivere easy, nella maniera più rilassata possibile. Quella porta sotto la cappottina rossa sulla 56esima strada è da anni crocevia di stars e uomini dell’alta finanza newyorkese in cerca dell’italian style in tavola, e anche stasera il piccolo bancone in marmo del bar è già assediato mentre i tavoli, allestiti con sobria eleganza, vanno man mano occupandosi. Luke è intento a spiegare a un cliente la differenza tra il pomodoro San Marzano da quello cinese, Margareth innesta per l’ennesima volta il verme del suo cavatappi nel collo di una bottilgia di Brunello di Montalcino Pian dell’Orino 2003; Non ne sa ancora molto di quel vino, ma il suo wine merchant le ha fatto assaggiare una paio di dita la settimana scorsa e lei se n’è subito innamorata, a tal punto che non perde occasione nel proporlo, con molto successo; “it’s one of the best organic wine ever tested”: il frutto, la sua franchezza, il gusto rotondo eppure ricco di sfumature di carattere, impareggiabile per bevibilità.
Londra, Apsleys del Lainsborough – St. Regis Hotel. A pochi metri da St. Jame’s park e dal maestoso Buckingham Palace sta per andare in scena l’ennesima rappresentazione culinaria d’autore di Massimiliano Blasone. Nemmeno il sofismo tutto anglosassone ha resistito alla grandeur del mitico Heinz Beck, che attraverso la sua longa manus in terra Elisabettiana è riuscito in un battibaleno a conquistare anche i palati più fini del Regno Unito coniugando all’immortale eleganza dei luoghi la profondità della sua cucina partorita e lungamente testata nel laboratorio tristellato de La Pergola in Roma. Scorre lentamente, scivola docilmente dal decanter in vetro e argento al prezioso calice di cristallo di boemia, il tavolo dei quattro abbottonati buisness men della city è già alla seconda bottiglia, e si è servito appena l’appetizer. Il Brunello di Caroline Pobitzer sembra non avere eguali per piacevolezza, nonostante l’annata 2003 sia stata delle più calde, il colore ha il timbro della tipicità con quel granato smagliante con appena accennate sfumature aranciate ed il gusto una freschezza da manuale. Il sommelier non perde un colpo, arriva appena in tempo sul servizo dell’agnello, ratatouille ed animelle e del filetto di manzo al vino con spinaci e funghi al balsamico…
Tokyo, quartiere di Marunouchi, da poco passate le 11 e mezza. “Se cerchi un ristorante italiano chic a Tokyo, il Luxor è il posto per te”. Sembra essere questo il leit motiv che ogni guida, cartacea ed on line, dedica allo storico ristorante di Mario Frittoli nel cuore del paese del sol levante. E’ appena iniziato il servizio di colazione ed il ristorante è già brulicante di uomini d’affari, in una delle sale private del locale va in scena una trattativa molto accesa, giocata pare, sul fil di lana. Sono in discussione parecchi soldi ed il menu a dispetto della celerità richiesta dagli ospiti propone un gran misto di gastronomia tipica italiana, alla maniera di casa. Dalle grandi vetrate si scorge in lontananza l’avvicinarsi di un temporale, a tavola invece sembra aver prevalso il buon senso; Sorrisi, pacche sulle spalle ed il nuovo gusto magico di questo bel Brunello di Montalcino hanno sancito l’accordo raggiunto; Tokyo avrà ancora il suo riferimento per il made in Italy, Januchi, il sommelier, una lauta mancia per aver saputo scegliere il vino più giusto: “la Toscana è una terra magnifica, capace di conquistare chiunque; Pensate, questo vino nasce da persone arrivate da molto lontano Montalcino, eppure ne rappresenta appieno l’anima, nobile, colta, naturale ed internazionale!
Nota bene: I luoghi ed i personaggi (non tutti) di questo racconto sono reali, vogliano questi ultimi, scusarmi invece per i fatti, che sono di mia pura fantasia; Non la bontà del Brunello di Montalcino Pian dell’Orino 2003 di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach, senza dubbi uno degli assaggi più buoni di questo 2010 dalla Toscana, una sorpresa di gran gusto, e da quello che ho potuto leggere qua e la, con una bella storia di persone e terroir alle spalle tutta da scoprire. Non perdetevelo, vi conquisterà!
Tag:biodinamica, brunello, brunello di montalcino, buckingham palace, caroline pobitzer, heinz beck, jan hendrik Erbach, luxor, massimilano blasone, montebello, new york, organic wine, sangiovese, st. regis, tokyo, toscana, vini italiani, vini naturali
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16 agosto 2010
I vini del Garda lo confesso, non hanno mai avuto un particolare appeal sul mio istinto primordiale di sbevazzatore, e di occasioni per sondare il fondo delle bottiglie di quelle parti ce ne sarebbero pure state visto che San Martino della Battaglia per esempio, è da sempre il mio campo base per le ripetute incursioni in terra Lombardo-Veneta, in tempo di Vinitaly soprattutto.

Lo Chardonnay Meridiano 2008 di Ricchi però mi ha riaperto gli occhi su due realtà in cui opera questa azienda, quella del Garda e poco più a sud, dei Colli Mantovani, davvero interessanti e che con molta probabilità hanno più cose da dire, da esprimere, di quelle sino ad oggi portate in dote ad un mercato non sempre consapevole della necessità di una migliore prospettiva di maturità commerciale. Un vino, quello dei fratelli Giancarlo, Claudio e Chiara Stefanoni che mi ha notevolmente impressionato e che da solo, con ogni probabilità, mi riconcilia quasi del tutto con un terroir che ho sempre considerato un tantino sopravvalutato, con un mercato, visto da sud, troppo sopra le righe, in rapporto soprattutto a certi prezzi che intenderebbero strappare vini come il Chiaretto o peggio, qualche vigna più in la, alcuni Groppello. Ad ogni modo, l’azienda di Monzambano, in provincia di Mantova, oltre a tutta una serie di classici dell’areale ha saputo concentrare negli anni molta attenzione alla selezione di alcuni cru molto interessanti, e produzioni speciali, leggi Ricchi Spumante brut e vini dolci (Le Cime, passito bianco) che non sono passate inosservate agli specialisti di settore che li hanno oltretutto premiati proprio allo scorso Vintaly 2010.

Tra questi, anche questo buonissimo chardonnay, prodotto nelle vigne di Campo La Casina, La Cima e Monvalto, che con il vigneto Le Garganeghe fanno poco più di 13ha piantati con una densità media di circa 4000 piante e condotti, a detta di chi ha camminato quelle vigne, al quale ho subito chiesto lumi, nella maniera più consona ed ottimale possibile per valorizzare un terroir misconosciuto ma forse anche per questo particolarmente affascinante; I dati tecnici, che potete meglio approfondire qui ci dicono che le uve, successivamente alla vendemmia, vengono lasciate appassire per un breve periodo prima della vinificazione che prevede dopo la fermentazione una sosta di almeno sei mei in classiche barriques di secondo passaggio.
La mia impressione è che ne sia venuto fuori un vino assai gradevole, che ti accorgi essere interessante già all’aspetto visivo, con un bel colore giallo paglierino, vivace, cristallino, piuttosto invitante.
Il naso è una esplosione di profumi primari e secondari, quindi espressione del varietale e non di meno esaltati – senza banalizzarli – dall’uso, a parer mio molto intelligente, giustamente dosato, del rovere. Il primo naso offre subito note di pan brioche, che non lascerà mai il bicchiere facendosi via via sempre più fine ed elegante, poi vengono fuori sfumature molto intriganti, ruffiane se vogliamo, esotiche, dal delicato mango allo spiccato sentore di ananas e di frutto della passione. In bocca fa letteralmente breccia, è infatti proprio qui che offre il meglio di se, a conferma di un vino dalla trama solida, e non artefatta, di quelle cioè costruite su misura per incantare prima di scivolare via anonimamente. Palato fresco, nerboluto ma leggero, i suoi tredici gradi non appariranno mai nella tabella dei convenuti, a conferma di un vino dai tratti caratterizzanti brillanti e ben fusi tra loro, in perfetta simbiosi, e di un territorio che a quanto pare, se giustamente interpretato ha da offrire cose molto interessanti. Il vino dell’estate 2010? Aspetterei a dirlo, ho tanto ancora da bere, ma sicuramente nella top five della mia personale hit parade agostana!
Tag:angelo di costanzo, barrique, big picture, chardonnay, chiaretto del garda, colli mantovani, garda, groppello, le cime, medaglia d'oro, meridiano, ricchi, rovere, san martino della battaglia, stefanoni, verona, vinitaly
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5 agosto 2010
Agosto, è piena estate! A parte l’intenso ma breve schiaffo temporalesco della settimana scorsa possiamo affermare di essere già da un pezzo nel bel mezzo della bella stagione, e fra tre-quattro giorni, dicono gli esperti, le temperature potranno salire ancora fino a 38 gradi, in particolare, come sempre, al sud. Sempre gli esperti ci dicono che ormai è uno schema risaputo e che tutti gli anni ci tocca, è diventato quasi regolare infatti l’assenza di una primavera degna di questo nome, e neppure l’inizio dell’estate, quella tiepida di fine maggio, per intenderci, risulta più riconoscibile: in pratica “non esisterebbe più la mezza stagione”.
Qualcuno ha gridato: e l’anticiclone delle Azzorre, che fine ha fatto? Beh, pare abbia pure lui i suoi problemi, in verità si vocifera che il nostro bene amato se ne stia per conto suo visto i tempi che corrono dalle nostre parti. Pertanto, cari Amici di Bevute , tenetevi la calura, e se accettate un consiglio, beveteci su; Cose semplici s’intende, fresche, di quelle che “nippano” le papille gustative e rivitalizzano il gargarozzo: ma si, per una volta che vadano pure al mare sti’ sommelier, della serie “faciteme sta’ quijete”!!
L’ordine è più o meno sparso, gli assaggi abbastanza recenti e sostenuti da ampio confronto e gradimento con i miei avventori, pertanto potete fidarvi :-).
Coda di Volpe del Taburno 2009 Fattoria La Rivolta, sempre in crescendo i vini di Paolo Cotroneo, la sua coda di volpe, abbandonata la veste muscolosa che l’ha accompagnata egregiamente agli esordi di qualche anno fa, spunta ad ogni nuovo millesimo un risultato migliore del precedente. Dal colore paglierino tenue con sfumature dorate esprime un ventaglio olfattivo molto pulito, piuttosto invitante. In bocca è decisamente asciutto, con una beva di sostanza ma sorretta da una acidità importante. Avete presente una tranquilla cena a pochi centimetri sopra il mare, con il vento che lentamente ti gira intorno e ti tiene lieve mentre due occhi neri ti stampano la felicità nel cuore?
Vdt bianco Joaquin dall’Isola 2009 Joaquin. Raffaele Pagano ci ha ormai abituati a vini per niente banali, con la sua cantina ha messo su in realtà, in quel di Montefalcione, un piccolo “laboratorio” enologico a disposizione di chi, come enologo, voglia cimentarsi con i vitigni autoctoni campani ed esprimere attraverso questi la propria arte di fare vino. Non poteva mancare nella “collezione 2009” un vino di una suggestione unica, che nasce dalle vigne capresi che guardano il mare del golfo di Napoli dall’alto della solenne tranquillità della piccola Anacapri. Greco, Biancolella e Falanghina selezionati acino per acino da Sergio Romano per un vino sinceramente sorprendente: dal colore paglierino tenue, intriso di sentori floreali molto invitanti e di sfumature agrumate assai gradevoli. In bocca è asciutto, possiede un ottimo slancio gustativo che avvolge di sana freschezza il palato e chiude su un finale lievemente iodato. Ecco la novità dell’anno, solo 820 magnum, per un vino ben fatto, che va molto oltre la semplice intuizione di dare nuovo slancio alla viticultura caprese. Bravo Raffaele!!
Langhe Arneis Blangè 2009 Ceretto, è un vino che non riesco ad amare, e sinceramente nemmeno ci provo, sarà un mio limite? Idiosincrasia a parte però, mi trovo costretto a prendere atto di un fenomeno di mercato tanto comune quanto apprezzato, a tratti ricercato. C’ho buttato dentro, così per caso ( 😦 ) il naso, pulito, interessante, di fiori e frutta esotica; Me ne sono appena bagnato le labbra, poi un sorso, e ancora uno per essere certo di aver ben compreso: è un buon vino, sinuoso ma senza particolare profondità, appena godibile, leggero.
Asprinio d’Aversa brut Grotta del Sole. “Vorrei poter bere un vino bello freddo, fregandomene per una volta, dei precetti. Lo vorrei secco, anche un tantino acido, magari con delle belle bollicine che mi tengano sveglio il palato. Desidero un vino di questo tipo, che posso trovare con una certa facilità e ad un prezzo conveniente, che sia però prodotto da una azienda di cui mi possa fidare, che magari mi possa raccontare di se e della sua terra, dei suoi vini autentici”. Devo aggiungere altro?
Rheingau Riesling Sauvage 2008 George Breuer, seppur la gente continua a storcere il naso quando gli proponi una bottiglia con il tappo a vite, sono sempre più convinto che il sughero, quello buono, dovremmo pensare seriamente di preservarlo solo per le bottiglie migliori e destinate ad un lungo invecchiamento. E’ indubbio che si tratti di una questione innazitutto culturale – soprattutto mittel europea – che dovremo prima o poi fare anche nostra. Venendo a questo riesling, tedesco per elezione, è un vino decisamente affascinate, uno di quei vini dalla pulizia olfattiva disarmante, quasi inebriante. All’approccio gustativo è tagliente, infonde notevole freschezza al palato richiamandone subito un nuovo sorso, non ha, al momento, le suadenti note di idrocarburi che a taluni piacciono tanto, ma tanto è finemente minerale quanto particolarmente saporito. Da ricordare di bere.
Collio Sauvignon Ronco delle Mele 2009 Venica&Venica. E’ – con il de la Tour 2008 di Villa Russiz e il Picol 2008 di Lis Neris – tra i migliori assaggi di quest’anno del varietale; Un vino che non posso fare a meno di annoverare tra i miei preferiti italiani nel gioco di rincorsa al più austero e selvaggio dei vitigni internazionali. Sempre sugli scudi, proprio da un recente assaggio – 25 campioni da tutto il mondo, alla cieca – il Ronco è emerso a mani basse e senza smentita alcuna come il più appassionate dei blanc in batteria: dal colore paglierino viene fuori un bouquet olfattivo sempre in grande spolvero, fiori di sambuco e note vegetali su tutti, balsamico. Al palato non fa mancare una certa vivacità gustativa, quasi intransigente prima di offrirsi in un finale di bocca ricco e oltremodo piacevole. Da tenere sempre a portata di mano!
Magari poi mi ringrazierete pure, forse.
Tag:angelo di costanzo, asprinio d'aversa, biancolella, blangè ceretto, cortese, degustazione, estate, falanghina, fattoria la rivolta, frilui, greco, grotta del sole, isola di capri, joaquin dall'isola, lis neris, piemonte arneis, riesling, ronco delle mele, sauvignon, sommelier, vacanze, villa russiz, vini bianchi della campania
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23 luglio 2010

Ci sono passioni che attraversano i confini del tempo, Luciano Ligabue è il primo rocker italiano capace di farmi sussultare per davvero. E’ vero, prima di lui Vasco aveva già solcato una scia, ma pur apprenzadolo tanto non me ne sono mai curato particolarmente. Del Liga si, è stata vera passione. Il tempo lo ha consacrato alla musica italiana, oggi è una star, non so quanto ancora rock, ma è una star. Continuo a pensare che il vero Liga si sia fermato a “Buon Compleanno Elvis!” e checchè se ne dica nessun album mi ha mai emozionato di più di “Sopravvissuti e Sopravviventi” di qualche anno prima; Al solo pensier di sentire la batteria di Gigi Cavalli Cocchi ancora mi vengono i brividi. Ringrazio Alessandro Marra per avermi concesso ispirato questa piccola introduzione-riflessione a questo suo bel pezzo sui Lambruschi modenesi, buona lettura. (A. D.)
«Lambrusco e popcorn, un bicchiere di vigna e un vassoio di mais già scoppiato»: così cantava Luciano Ligabue quasi vent’anni fa, era il 1991. Bello il pezzo, anche se, in effetti, mi sono sempre chiesto se Lambrusco&Pop Corn fosse solo un abbinamento musicale o qualcosa di più. Che così, a pensarci un po’, starebbero pure bene assieme, con il rosso mosso a sgrassare la bocca unta e ri-unta dagli scoppiettanti chicci di mais. Certo, c’è lambrusco e lambrusco. E, soprattutto, di lambroosky – come dicono sul 2.0 – ce n’è un bel po’: maestri, marani, montericco, viadanese, salamino di santa croce, grasparossa e sorbara.
Nel mio caso, se ho cominciato a ripensare questo «pezzo di mondo» (per dirla alla Liga…) è stato grazie agli assaggi di Terre di Vite, la bella manifestazione che si è svolta nel febbraio scorso in terra modenese; e al Vinitaly di aprile, quando è stata presentato al pubblico il Simposio dei Lambruschi, neo-nata associazione di otto produttori del modenese: Azienda Agricola Paltrinieri Gianfranco, Azienda Agricola Tenuta Pederzana, Azienda Agricola Villa di Corlo, Azienda Vinicola Ca’ Berti, Azienda Vinicola Fiorini, Azienda Vitivinicola Fattoria Moretto, Podere il Saliceto Società Agricola e Società Agricola Vezzelli Francesco, decisi a mettere in mostra “le affinità dell’eccellenza“.
Forse, anzi togliete pure il forse, sarebbe il caso di rimetterlo a tavola questo rosso, tanto conosciuto all’estero quanto bistrattato in patria: non solo a Capodanno, quando lo zampone, il cotechino e le lenticche lo chiamano a gran voce; ma anche nella quotidianità, magari accanto ai maccheroni al gratin di una che conosco io.. Che il mio pezzo suoni – quindi – come un invito, uno sprone a curiosare nel modenese (e poi ancora nel parmigiano, nel reggiano e nel piacentino): chè di lambruschi, e di non-lambruschi, ce n’è tanti, per tutti i gusti e per tutte le tasche.

Quelli che vi propongo sono cinque assaggi del modenese, con la promessa di riparlarne ad ottobre quando farò di sicuro ritorno a Levizzano Rangone per To Be Lambrusco, evento che ospiterà anche i lambruschi del Mosaico piacentino e del Convito di Romagna.
Lambrusco di Modena L’Albone 2009 Podere Il Saliceto Gian Paolo Isabella lo trovi spesso su Vinix e a Vinitaly l’ho conosciuto di persona. Il suo lambrusco prende il nome dalla vigna che si estende lungo il vecchio argine del fiume che scorre a Campogalliano. La vinificazione contempla una macerazione pre-fermentativa a freddo per 3-4 giorni (al fine di ottenere una maggiore estrazione di colore e di tannini) e la fermentazione in autoclave. Blend di salamino di santa croce (70%) e sorbara (30%): del primo ha le caratteristiche note di frutta rossa dolce e di viola, del secondo la mineralità. Il risultato è un vino d’un violaceo piuttosto intenso e con una discreta componente alcolica (12.63%). In più lo mandi giù che è una bellezza per quanto è fresco. Lungo, naso/bocca spiccicati, persistente, con una piacevole trama tannica. Prezzo e numeri piccoli piccoli.
Lambrusco di Sorbara Corte degli Attimi 2009 Fiorini. L’azienda è di quelle che hanno vissuto quasi un secolo e produce anche l’aceto balsamico tradizionale di Modena. Il primo assaggio di questo sorbara in purezza soffriva di “imbottigliamento del giorno prima” ma il secondo ha convinto: bello e luminoso il colore rubino, affascinante la spumetta iniziale. Dal naso si capisce che spinge molto sulla freschezza e sulla mineralità (che è poi uno dei tratti distintivi del sorbara): i profumi non sono particolarmente intensi ma, quello sì, eleganti. Il sorso – invece – è secco, molto fedele alle sensazioni olfattive di amarena, ribes rosso e violetta; leggerino per componente alcolica (11%). Venticinquemila bottiglie, boccia più boccia meno, sotto i 10 euro.
Lambrusco di Sorbara Leclisse 2009 Paltrinieri, si scrive senza l’apostrofo dopo la elle ed è anche questo un sorbara in purezza, ottenuto dall’areale tradizionalmente più vocato, quella striscia di terra che sta in mezzo ai fiumi Secchia e Panaro che è conosciuta come “la zona del Cristo”. Lo fanno solo nelle annate migliori: del millesimo 2009 si contano all’incirca dodici mila bottiglie. Tratti olfattivi elegantissimi di lampone e melograno, di rosa e violetta. Il colore è scarico (se lo si paragona ad esempio al grasparossa): ma è questa un’altra peculiarità del vitigno. Da’ il meglio di sè in bocca dove il gusto è secco e si concede con una bellissima persistenza di lampone. I dodici gradi fanno il loro mestiere egregiamente riportando ad equilibrio le accese sensazioni di freschezza che altrimenti stonerebbero. Di grande, grandissima bevibilità.

Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Robusco 2009 Ca’ Berti. Il grasparossa di Gian Matteo Vandelli (lui, invece, lo trovi spesso e volentieri su faccialibro) l’avevo già provato a febbraio; e anche lui, in quell’occasione, aveva detto a chiare lettere di essere ancora in fasce. Il tempo ha dato i suoi frutti perchè a Verona, due mesi dopo, era in gran forma. A voler essere precisi, nell’uvaggio ci sarebbe anche un 15 per cento di malbo gentile, vitigno che nemmeno sapevo esistesse e che ho saputo esser stato soltanto da poco recuperato dopo che con il boom delle ceramiche era stato spiantato negli anni ’60. Le uve utilizzate provengono da un vigneto di 45 anni e il risultato è un vino molto rotondo, in cui il malbo gentile arriva dove il grasparossa non può arrivare per la sua bassa acidità e i tannini poco eleganti. In bocca è molto gradevole; come pure al naso, in verità, dove dominano i profumi di viola mammola e amarena, con un grado alcolico del 12%. Ne produce circa settantamila bottiglie e lo porti a casa con 8-9 eurini se non vado errato.
Lambrusco Grasparossa di Castelvetro Monovitigno Fattoria Moretto. Come da tradizione, il cru dell’azienda non riporta l’indicazione dell’annata in etichetta. Le uve – coltivate secondo i canoni dell’agricoltura biologica – provengono da un piccolo appezzamento di viti vecchie più o meno cinquant’anni, con una resa per ettaro che non supera i 50 quintali: una miseria se si pensa alle quantità tollerate dai disciplinari di produzione. Nel bicchiere mostra una spumetta generosa e un leggero residuo zuccherino si insinua nel sorso coerentemente a quell’impronta dolciastra dei profumi, intensi e giocati sulle note di fragole, rose e violette. Apprezzabile l’intensità e la durata delle prestazioni al palato, con dodici gradi di alcool.
Buon viaggio, allora…
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28 giugno 2010

“Nord al Sud”. Uno del Sud (moi) che è costretto a vivere al Nord e che prova a parlare di Nord al Sud. Anche se, in effetti, ci sarebbe tanto bisogno di Sud al Nord… (Alessandro Marra)
Comincio da qui, a sorpresa. Perchè magari uno si sarebbe aspettato un discorsetto iniziale sul Piemonte o sul Friuli, sul nebbiolo o sulla ribolla gialla… E invece no! [sgomento…] Liguria! L’occasione per parlarne è stata la serata organizzata dalla delegazione AIS di Milano lo scorso 23 giugno, condotta da Antonello Maietta, ligure di La Spezia e Vice Presidente AIS Nazionale.
Io amo la Liguria. Amo il suo mare, le Cinque Terre, il Golfo del Tigullio, Camogli, Portofino e Rapallo (ma non sono mai stato oltre Genova…). Amo i suoi bianchi: così espressivi e minerali, diretti e puliti. Ma non credete che io disdegni i rossi: l’Ormeasco di Pornassio (fino al 2003 sottozona della d.o.c. Riviera Ligure di Ponente) e il Rossese di Dolceacqua.
E amo la sua cucina (sì, anche quella…): la focaccia di Recco e il Pesto Genovese, giusto per dirne un paio. Ah già, il pesto. Quello vero deve essere fatto con basilico ligure (dalla foglia più piccola e – a quanto pare – maggiormente aromatico, con profumi di agrumi e, in particolare, di limone), aglio di Vessalico (presidio Slow Food, aromatico e tendente al dolce), pinoli, sale, parmigiano reggiano, pecorino (che conferisce la leggere piccantezza) e olio extravergine da olive taggiasche. Altrettanto importanti sono l’uso del buon vecchio “mortaio” e “l’ordine di esecuzione”. Non avrei mai pensato si iniziasse dall’aglio che, una volta pestato, rilascia i suoi appiccicosi oli essenziali facilitando così la frantumazione dei pinoli. Solo dopo si aggiungeranno le foglie di basilico, un pizzico di sale grosso (che serve ad esaltare il colore verde delle foglie), il formaggio e – infine – l’olio, lentamente.

Non solo pesto, però. Qualche esempio? La mortadella di Pignone (che, in realtà, è un salame a grana grossa e piuttosto magro), il formaggio San Stè (di latte vaccino ottenuto da mucche di razza “Bruna” o “Cabannina“, con stagionatura di 60-70 giorni), il Canestrello (quello fatto col burro, uno dei pochi per il quale non viene utilizzato extravergine d’oliva) e il pan dolce genovese.
Dicevo, amo i suoi vini, bianchi e rossi, e questi alcuni degli assaggi più interessanti da rivelare in questo primo passaggio di Mani Giunte Raccontano :
Riviera Ligure di Ponente Pigato “MaRené” 2009 Azienda Agricola BioVio.Oltre alla produzione di olio extravergine da olive taggiasche e alla coltivazione di erbe aromatiche (tra cui, manco a dirlo, il basilico), la piccola azienda di Bastia d’Albenga produce due pigato in purezza. I pendii di Albenga (come pure quelli di Ranzo, sempre in provincia di Imperia) sono l’areale di elezione del vitigno, così chiamato per le “pighe”, cioè le puntinature della buccia che arrivano a completa maturazione dell’uva. Il “MaRené” è il pigato per così dire “base” e la sua produzione si aggira intorno alle 25mila bottiglie. E’ bene dirlo subito: non c’è da aspettarsi chissà quale potenza e complessità al naso (specie quando – come in questo caso – è vinificato con una breve macerazione pellicolare a freddo): si percepiscono soprattutto note di pesca gialla, ginestra, salvia e finocchietto. L’intensità non manca, invece, nel sorso che è lineare, coerente, scattante, per via di quella tagliente mineralità che significa sostanzialmente salinità. Pensi ancora di averne in bocca, invece è già finito. Sembra fatto apposta per unirsi alla pasta fresca con il pesto genovese. Circa 12 euro in enoteca.
Colli di Luni Vermentino “Vigneto Boboli” 2008 Giacomelli Se il pigato spadroneggia a Ponente, il vermentino fa lo stesso a Levante ed è protagonista indiscusso della DOC interregionale Colli di Luni (che comprende 14 comuni in provincia di La Spezia e 3 in provincia di Massa Carrara). Giunto a maturazione, il grappolo del primo è di colore dorato, quello del secondo è verde. Il vigneto “Boboli” è forse il cru più importante di Castelnuovo Magra, comune dello spezzino dove Roberto Petacchi ha fondato la sua azienda nel 1993. La prima volta che l’ho bevuto è stato subito amore. Era ottobre, mi trovavo a Roma e da allora non l’ho più scordato: un po’ perché 14 gradi e mezzo non sono cosa da tutti i giorni per un vermentino, un po’ perché le qualità ce l’ha. Il caso ha voluto che incrociassi nuovamente lo stesso millesimo, stavolta da magnum. A parte il colore, più intenso nelle sue tonalità dorate, non poco è cambiato rispetto al primo assaggio: la mineralità, pur rimanendo la vera costante dell’assaggio, si è leggermente defilata favorendo una migliore percezione delle note di mela golden matura, menta e erbe di macchia mediterranea. Il sorso è ricco e opulento, la salinità ben contrasta le forti sensazioni pseudocaloriche. Ha tutto: potenza, eleganza e struttura. Vinificato con macerazione a freddo per circa 48 ore e successiva permanenza sulle bucce per 8 mesi. Prodotto in sole 6500 bottiglie, costa più o meno 18 euro sullo scaffale.
Ormeasco di Pornassio 2009 Cascina Nirasca. L’ormeasco altro non è che un dolcetto col raspo verde. A differenza del cugino piemontese, però, il vitigno è allevato a ben altre altitudini, tra i 450 e i 750 metri sul livello del mare, in quella che è l’Alta Valle Arroscia, a ridosso delle Alpi Liguri. Vinificato in rosato è conosciuto come “Sciac-trà” (da non confondere per il più celebre passito delle Cinque Terre): il nome deriva dai termini dialettali “schiacca” e “trai”, cioè “pigia” e “togli”. Le uve pigiate sono lasciate macerare per un breve periodo sulle bucce e poi eliminate di modo che la fermentazione prosegua con il solo mosto. Le circa 15mila bottiglie dell’ormeasco “classico” di Cascina Nirasca, attiva dal 2003 in quel di Pieve di Teco (IM), sono prodotte con vinificazione esclusivamente in acciaio. Il colore rosso rubino è investito di un’elegante luminosità. Anche in questo caso, non sono da ricercarsi grandi intensità e ampiezza dei profumi che sono, però, molto fini eleganti e ben riconoscibili: ciliegia, amarena, piccoli frutti rossi e viola mammola. Sorprende per quel tannino che è sì setoso ma forse meno di quello che ci si aspetterebbe. Il sorso è morbido, secco e piuttosto caldo ma sempre agile e brioso. Persistente e per di più coerente con le sensazioni olfattive. Costo sullo scaffale circa 10 euro.
Rossese di Dolceacqua “Galeae” 2008 Ka Mancine’. Della giovane azienda di Soldano, fondata nel 1998, mi piace innanzitutto il coraggio di puntare sul rossese, producendo soltanto tre etichette corrispondenti ad altrettante versioni per un totale di appena 8 mila bottiglie. Soltanto 2mila 600 quelle del piccolo vigneto centenario (coltivato ad alberello con rese per ettaro bassissime) chiamato “Galeae“, cioè prigione, essendo probabilmente il luogo ove venivano deportati i prigionieri saraceni catturati sulla costa. Contrariamente a quanto si possa credere, il nome del vitigno non è deriva dalle tonalità cromatiche (per certi versi simili a quello del pinot nero) ma da “roccese”, ovvero “vite delle rocce”, un chiaro riferimento alla composizione dei terreni. Altra cosa che mi piace è la grandissima rispondenza naso-bocca che ne fa una bevuta davvero soddisfacente. Il colore è rubino con riflessi violacei. All’olfatto emerge la sua caratteristica indole mediterranea: le erbe di macchia sono nitide così come la mela e il pepe nero. Il gusto è secco, bello caldo ma non pesante, pur essendo 14 e mezzo i gradi. Il tannino è levigato e la lunga persistenza è giocata sul frutto succoso e sul salino. Curioso l’abbinamento di territorio con carne di capra e fagioli oppure con le “michette”, non il famoso pane milanese ma una brioche dolce poco lievitata e non farcita, cosparsa con un po’ di zucchero. Prezzo medio in enoteca 13 euro.
Cinque Terre Sciacchetrà 2007 Luciano Capellini. Avendo già assaggiato, in passato, il suo Cinque Terre secco, mi aspettavo grandi cose dallo Sciacchetrà di Luciano Capellini, anche lui come me attivo su Vinix. Alla fine le aspettative non sono state tradite: un vino di grande, grandissima tipicità. Peccato per i numeri (non più di un migliaio le bottiglie prodotte) e per il prezzo, che è di circa 60 euro. Certo giustificato, visto che lì nelle Cinque Terre i vignerons – oltre che con madre natura – devono fare quotidianamente i conti con un territorio difficile, con i cinghiali e con i turisti. L’uvaggio è simile a quello del Cinque Terre secco: prevale – però – il bosco (90%), con vermentino e albarola a spartirsi equamente il restante 10%. Lasciando da parte il vermentino, di cui già s’è detto, il primo ha grappolo spargolo e buccia spessa, mentre il terzo (che nel Tigullio è conosciuto con il nome di bianchetta genovese per via della tenue pigmentazione della buccia) ha molta acidità. Tutti e tre i vitigni hanno diverse epoche di maturazione; il che costringe ad allevarli a diverse altitudini per portarli a maturazione più o meno nello stesso periodo. Le uve, raccolte in anticipo rispetto a quelle utilizzate per il bianco secco, vengono messe ad appassire sui graticci per due/tre mesi prima di essere pigiate – a novembre inoltrato, talvolta anche dicembre – con macerazione di circa 20 giorni. Il colore ambrato, quello sì, sembra tradire la giovane età. Profuma di albicocca disidratata, agrumi canditi, fichi secchi, datteri, rosmarino e miele. In bocca conserva le doti di innata eleganza dell’olfatto, con un sorso dolce ma non pesante grazie alla salinità del terroir, bello caldo e rispondente. Chiude lungo, con un finale leggermente amarognolo tutt’altro che fastidioso. Potente (per i suoi 14 gradi e mezzo), allo stesso tempo snello e di grande naturalezza.
Davvero suggestivo lo spaccato ligure raccontato da Alessandro Marra ma ancor più interessanti sono le sensazioni che traspirano dagli assaggi che ci propone. Una regione quindi da vivere, una LiguriadAmare! (A. D.)
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2 giugno 2010
Quanto è difficile il sangiovese, e quanto è ancora più complicato il “brunello”, vitigno di grandissimo spessore eppure da sempre al centro di innumerevoli dibattiti ed incomprensioni, il più delle volte dettati più dai complessi sillogismi costruiti intorno ad essi che dalle mere questioni sollevate.

E’ un vino che amo molto, il Brunello, ed amo molto Montalcino, roccaforte dell’enologia Toscana e spesso al centro di un mondo distante mille e più chilometri ma pur sempre orbitante intorno ad essa; Le innumerevoli camminate per le vigne che diradano dal borgo antico sino alla Val d’Orcia e la Val d’Arbia sono tanto suggestive quanto istruttive eppure mai abbastanza per comprendere appieno la vocazione e l’identità di un territorio tanto eterogeneo quanto talvolta brutalmente inespresso .
Di certo è che il caos degli ultimi anni, i “rumors” come battezzati prima della loro esondazione mediatica, non hanno certo giovato ad un territorio ancora alla ricerca del suo unicum fondante ma senz’altro hanno aperto opportune riflessioni innanzitutto su un dato di fatto, che il Brunello, così com’è, rimane uno dei più preziosi vini-gioielli italiani di cui dover aver particolare cura e memoria per consegnarlo al futuro come una perla dell’enologia mondiale e non come un’attempata prostituta da bordello!
Querelle a parte, e soprattutto Biondi Santi a parte, è indubbio che gli stili maturati negli ultimi venti-venticinque anni non collimano del tutto con la storia e la tradizione ilcinese di sempre, eppure nella piccola babele scatenatasi da fine anni ottanta in poi è tangibile come nel mondo il successo di questo straordinario vino si sia sviluppato enormemente, fatto salvo l’ultimo quinquennio di crisi, grazie proprio a questa evoluzione stilistica (leggi modernariato popolare) tra l’altro voluta e condivisa da molti produttori, vecchi e nuovi, di tutto il comprensorio di Montalcino.
Si può dire di
Giacomo Neri che sia stato tra i primi a cavalcare la cosiddetta nouvelle vogue e senz’altro tra i migliori di questi nuovi interpreti a ritagliarsi un ruolo di assoluto primo piano sulla scena mondiale; Il suo Cerretalto ’97 per molti ha rappresentato un vero e proprio “manifesto” di questa evoluzione e per qualcuno è rimasto un monumento a questo storico passaggio di consegne tra il cosiddetto vecchio e il nuovo, si direbbe un vino nato da una annata eccezionale e con numeri strepitosi ma con una responsabilità altrettanto importante, quasi a fare da spartiacque, impegno rilanciato e consolidato successivamente con l’inarrivabile duemilauno.
Il colore è sorprendente, rosso rubino denso, concentrato, quasi impenetrabile, il tempo non ha scalfito nemmeno la sua vivacità ancora splendente. Il primo naso è pura sinfonia, leggiadro, un volo planato intorno a frutti a polpa rossa e nera maturi, note balsamiche, tostate, minerali, eteree. La prima grande qualità di questo vino è l’equilibrio già palpabile – sì palpabile – al naso, un vino che si lascia quasi “ascoltare” tanta è la piacevolezza dei suoi profumi; Di qui la certezza di stare bevendo un grandissimo vino, fine elegante, avvolgente, una porta spalancata su un ventaglio olfattivo emozionante ma appena ai primi scalini di una passerella d’onore.
In bocca è secco, fresco, entra sul palato con vigore, appare quasi un dispiacere portarlo alla deglutizione tanto è il piacere con il quale pervade la cavità orale, ma è proprio dopo averlo bevuto, dopo aver sedato l’acquolina iniziale che ci rende conto della bellissima esperienza gustativa. Equilibrato, carezzevole, il tannino è scevro di protagonismo, l’acidità sostiene bene il frutto, bilanciando una struttura alcolica non indifferente (siamo oltre i quattrodici gradi e mezzo!), chiude su un finale tostato ammiccante e seducente. Un campione, per la memoria!
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29 Maggio 2010
Il vino ci salva tutti! Il prelibato nettare gelosamente conservato in ognuna delle ambite bottiglie concede a tutti una chance, ai cultori e agli ignoranti, agli appassionati di lungo corso e ai neofiti, professionisti, millantatori, cronisti, giornalisti o presunti tali, tutti trovano nel vino, nel grande vino in particolare, tutte le risposte alle proprie domande, alle proprie manie, alla propria presunzione; vignerons per la vita o più convenientemente produttori di occasioni, costruttori di falsi miti o egocentrici fanatici – gli “enorchici” li chiamo io -, cioè un po’ enofili, un po’ anarchici, un po’ orchi, a volte un po’ coglioni: il vino, il grande vino, li salva tutti!

Folco Portinari affermava che né Mario Soldati né Giuan Brera, (icone per molti cantori del vino di oggi) si intendevano di vini, o meglio “avevano l’assidua abitudine di sovrapporre al piacere di parlare di vini e di cibi il parlare di se stessi, per cui più che la mera capacità di discernere gli argomenti era il loro irreprensibile istrionismo fabulatorio, la loro irruenza verbale, lo stile a tratti baroccheggiante ed umorale a divenire protagonisti delle loro decantazioni enologiche”. Può non sorprendere quindi che lo stesso Mario Soldati, pur avendo vissuto lungamente l’Abruzzo non abbia mai riportato nemmeno il solo nome di Valentini nei suoi racconti, che pur hanno segnato un passo fondamentale della cronaca enologica del nostro paese. Erano certamente altri tempi e nulla potrà mai dissacrare la potenza comunicativa ci certi mostri sacri, ma nulla di più banale sarebbe continuare a crearne nuovi presunti tali delegando loro, soprattutto agli “enorchici”, il racconto dell’Italia del vino; la leggenda del grande Edoardo Valentini allora, e quella della sua azienda oggi sono legate anche alla loro costante lontananza da certi meccanismi mediatici, quindi non è poi così necessario apparire, soprattutto quando si ha dalla propria l’indiscussa capacità di essere.
E’ un grande vino questo Montepulciano d’Abruzzo ’95, forse non il più grande tra quelli venuti al mondo dalle vigne abruzzesi del compianto Edoardo, ma certamente tra i più anacronistici e forse per questo sorpendenti. Il colore ha conservato una veste rosso rubino con riflessi appena granata, poco trasparente, quasi materico nel bicchiere, ricco di sostanza estrattiva. Il primo naso è lampante di prime note di riduzione, lontano certamente dalle aspettative di neofiti e di chi non conosce la materia che ha tra le mani, ma anche a questi ultimi basterà appena una decina di minuti per rendersi conto di non aver mai bevuto qualcosa di simile e di ripetibile, di aprirsi quindi, come il vino non smetterà mai di fare di qui ad un paio d’ore, a sensazioni olfattive e gustative autentiche, vere, uniche.
I profumi vengono fuori gradualmente, invitanti, coinvolgenti, avvolgenti, costantemente giocati su di un contrasto tanto incomprensibile quanto affascinante, dalla frutta matura a note di tabacco, dalla confettura di amarene e ribes a nuances speziate, da sensazioni animali, terragne e sottili e finissime note minerali. Una marcia lenta verso un ventaglio olfattivo di una complessità entusiasmante. In bocca poi sfodera un carattere di gran classe, entra con estrema morbidezza, il tannino scivola sulle papille gustative completamente risoluto, il nerbo acido è sottile ma presente, il frutto ha di gran lunga la meglio, è prepotente ed intenso, è dolcemente persistente fino a cocludere la sua corsa emozionale in un finale lungo, quasi masticabile, di frutta candita, di cioccolato, di note iodate. Un vino oggi probabilmente nel suo momento migliore, estremamente godibile, vero purosangue italiano, fuori da ogni schema, disegno, trama che non sia strettamente riconducibile alla terra di origine ed al suo più grande interprete.
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30 aprile 2010
Un evento straordinario, senza precedenti sotto il Vesuvio e che ha visto una bella partecipazione di persone: giornalisti, sommeliers ma anche vignerons e ristoratori che hanno saputo cogliere l’opportunità concessa dalla storica famiglia fiorentina degli Antinori e raccogliere l’invito di Slow Food e Luciano Pignataro che hanno pensato, organizzato e coordinato l’evento nella splendida cornice dell’Hotel Romeo di via Marina.

Del Castello della Sala trovate su questo blog più di un riferimento utile a comprendere “il mito”, dagli straordinari vini che ne nascono al loro artefice più illustre, tal Renzo Cotarella che non è voluto mancare a questo appuntamento con la storia di una delle più piacevoli ed interattive verticali organizzate sul territorio napoletano; come dire, nessun maestro alla cattedra, nessun altarino, solo tanta voglia di ascoltare, capire, comprendere, discutere, innanzitutto su come un vino, apparentemente destinato ad un consumo “facile” – opinione e luogo comune entrambi immediatamente sfatati – possa invece ritenersi incredibilmente longevo e sorprendente a tal punto dal non avere limiti di evoluzione spazio-temporale nonchè su quanto sia incredibilmente necessario preservare una memoria storica liquida per rendersi conto non solo di quanto si sia stati bravi nel fare il vino – elemento questo certamente tra i più banali – ma soprattutto per riuscire a leggere nel tempo gli errori commessi ed il reale potenziale del lavoro che si ta portando avanti, in vigna come e soprattutto in cantina.
Il Muffato della Sala è prodotto con uve botritizzate raccolte manualmente tra la fine di ottobre e la prima metà di novembre, per dar modo alle nebbie mattutine di favorire lo sviluppo della Botrytis Cinerea o “Muffa Nobile” sui grappoli. L’effetto più immediato di questa muffa è la capacità di ridurre il contenuto di acqua presente nell’acino lasciandone concentrare gli zuccheri presenti e gli aromi che rendono il vino che ne viene prodotto tra i più intriganti e complessi mai riproducibili. Tutte le annate, tranne la prima prodotta nel 1987 quando nell’uvaggio vi era anche il Drupeggio (varietà autoctona orvietana) sono generalmente caratterizzate da un blend di vini base Sauvignon blanc al 60% e Grechetto, Traminer e Riesling per il restante 40%. Queste in sintesi le mie impressioni sulla eccezionale verticale storica proposta nelle annate 1988, 1989, 1991, 1995, 1996, 2004, 2006. Il 1988 è stata la seconda annata prodotta, da sole uve Sauvignon e Grechetto; andamento stagionale piuttosto regolare, le uve arrivate in cantina possedevano una buona qualità di muffa nobile ed il vino che ne è venuto fuori nel tempo un ottimo imprinting archetipale: colore giallo oro splendente, luminosissimo, naso particolarmente equilibrato e finissimo su sensazioni floreali e fruttate passite. Palato dolce, non stucchevole, fine ed elegante con una piacevole chiusura in freschezza.
Il 1989 ha consegnato un andamento climatico alquanto rigido con una estate piuttosto piovosa nonchè per niente calda al punto di far ritardare non poco la comparsa dell’agognata botrytis sui grappoli. Il vino che ne è venuto fuori non gode certo di una spiccata verticalità e per essere pignoli nemmeno di una particolare complessità, ma l’eleganza e la finezza con la quale esprime una trama olfattiva dolcissima di fiori di campo e miele di acacia è da batticuore. Avere 21 anni e non mostrarli per niente! Il 1991 ci sbalordisce tutti e offre un naso assolutamente integro, quasi didattico per un vino del genere: subito dolcissimo di frutta disidratata, candita, poi terroso, nitidamente fungino, a tratti tartufato, poi ancora iodato. Non mi soffermo particolarmente sulle note visive perchè tutti i campioni proposti, dal più vecchio al più giovane mostravano uno splendore ed un candore cromatico da manuale, puro oro liquido giammai intaccato dal tempo. Il naso e la bocca in particolar modo hanno invece dimostrato quanto sia fondamentale per un vino del genere la cura maniacale che si profonde in vigna ed in cantina al Castello della Sala, superando brillantemente le ostilità di vendemmie senz’altro difficili (spesso caratterizzate da andamenti locali particolarmente piovosi) ma mai impossibili da governare con la giusta conoscenza del terroir, delle uve e con a disposizione i mezzi tecnici adeguati.
Il 1995 ha visto maturare delle uve perfettamente integre sino all’attacco della muffa nobile, il Riesling ed il Traminer essere raccolti prima del Sauvignon e del Grechetto. Il ventaglio olfattivo non è particolarmente intenso e complesso, ma sempre finissimo ed elegante seppur monocorde su fiori secchi ed appena accennate note iodate sul finale. Il 1996 è stata un’annata eccellente, a sentir Cotarella forse la migliore sino ad oggi prodotta al Castello e perdipiù particolarmente sottovalutata all’epoca, curioso come Renzo ci tenga a sottolineare quanto sia sorprendente per lui assaggiare bottiglie di questo millesimo, del bianco di punta in particolare, il Cervaro della Sala, che riesce costantemente a strappare grandi consensi unanimi al di sopra di ogni confronto con altri millesimi pur prestigiosi tirati fuori dalle tenute del Marchese Antinori. Colore e spettro cromatico inattaccabili, al naso come in bocca offre frutto e compostezza per tutta la degustazione, forse oggi nel suo momento migliore di degustazione.
Un salto di almeno otto anni ci consegna nel bicchiere il 2004, caratterizzato da un naso estasiante di fiori secchi, frutta disidratata ed erbe officinali che chiude su note iodate abbastanza marcate che delineano un spettro olfattivo di gran lunga più elegante e complesso di tutte le annate precedenti, pur rimanendo il ’91 una grande sopresa. In bocca è dolce ma costantemente fine ed elegante, delicatamente sapido. Si chiude con un delizioso 2006, il più giovane della batteria e quello attualmente in commercio, caratterizzato da un colore oro cristallino e perfettamente limpido. Il naso è ampio e fragrante, dolce di frutta bianca polposa e caramellato quanto basta, iodato sul finale. In bocca mostra una decisa dolcezza, sempre in equilibrio e mai stucchevole, ottimo il finale composto e delicatamente minerale.
Una bellissima avventura in sette annate tutte da ricordare, appuntare, godere. Un viaggio entusiasmante nella più profonda tradizione viticola entro le mura del Castello della Sala e al tempo stesso un’impressionante conoscenza della più moderna tecnologia oggigiorno a disposizione nelle cantine nuovissime di una delle tenute più suggestive e all’avanguardia della famiglia Antinori; l’antico che incontra il nuovo in un moto continuo, in effetti cos’è in sintesi il vino se non un moto perpetuo assoggetato alla conoscenza dell’uomo ed alla clemenza del tempo?
P.S.: le foto delle etichette sono di Monica Piscitelli.
Tag:angelo di costanzo, antinori, castello della sala, hotel romeo, luciano pignataro, muffato della sala, napoli, renzo cotarella, slow food
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26 aprile 2010
Ci sono certi vini pronti a stravolgerti, sono lì ad aspettarti al varco; tu giochi a fare il ricercatore di sensazioni uniche, volgi lo sguardo altrove e loro sono pronti a scommettere di poterti smentire, addirittura a mani basse. Allora cosa fai? Continui a cercare e qualche volta trovi, bevi, a volte troppo, e credi di aver capito, ci cammini anche le vigne per essere certo di aver ben compreso, ma non hai fatto i conti con l’inatteso, appena dietro l’angolo, così pur rimanendo affascinato da certe sirene rimani della convinzione che c’è qualcosa che non va. No, ti sbagli, è la madre terra, che pulsa ogni volta in maniera nuova, e qui lo senti in ognuno dei sorsi del Trebbiano di Valentini: il 2003 pare a tratti cantare la vigna, la sua unicità!

L’azienda del compianto Edoardo, scomparso di recente, è oggi nelle mani di Francesco Paolo Valentini, è ubicata a Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, e si estende per circa duecento ettari di cui sessantaquattro interamente votati alla vite ed altri cinquanta circa destinati alla coltivazione delle olive. Per il giovane Francesco Paolo non è stato certo facile raccogliere l’eredità di un monumento della vitienologia italiana come è stato il padre, in verità non sempre osannato dalla grandeur mediatica specializzata ma pur sempre un uomo che ha fatto la storia, con idee proprie ed uno stile non certamente comune soprattutto in anni durante i quali la maniacale ricerca del vino era del tutto sintetizzabile nella semplice replicabilità e votata all’esile bevibilità, in particolar modo in riferimento ai vini bianchi, parametri questi assolutamente distanti, da sempre, dall’idea di vino della famiglia Valentini.
Il Trebbiano d’Abruzzo rappresenta perlopiù il vino di maggiore produzione dell’azienda, esemplare anche nell’esecuzione di altri due tradizionali vini abruzzesi come il Montepulciano ed il Cerasuolo d’Abruzzo, quest’ultimo davvero particolare soprattutto per l’estrema longevità dimostrata negli anni. Il Trebbiano 2003 ha un colore giallo paglierino con riflessi nettamente dorati e gode ancora di buona luminosità. Il naso non è immediatamente complesso ma lasciandolo respirare soprattutto ad una temperatura di servizio ottimale (12-14 gradi) offre un ventaglio olfattivo davvero delizioso, ampio e variegato, con sentori floreali e fruttati, su tutti fiori di ginestra ed esotiche nuances di ananas, poi ancora albicocca matura, note di burro di nocciola. In bocca è superlativo, al gusto mostra gran carattere, il 2003 è ricordato come un millesimo piuttosto caldo e questo vino in particolare ne ha sofferto soprattutto in fase di maturazione delle uve che sono state raccolte con un deciso ritardo sul calendario vendemmiale. Ciononostante il palato è pervaso da una gradevolissima vivacità gustativa, la beva è ampia, piuttosto grassa eppure fresca ed equilibrata, il finale di bocca risulta copiosamente avvolto in sensazioni salmastre ed accenna un ritorno di frutta candita.
Un grande bianco da bere su piatti importanti, la più grande qualità di un vino del genere sta nella capacità di sostenere benissimo abbinamenti diversi, anche durante tutta una cena, l’intuizione sta nel giocare sapientemente con le temperature di servizio. Fresco sui 10-12 gradi con antipasti di pesci, scottati ma anche salsati, oppure su primi piatti dai sapori iodati (es. con ricci di mare), oppure spingendosi oltre sino ai 14 gradi se si vuole inseguire l’approccio a carni bianche o arrosti di pesce. Un ultimo consiglio, scaraffarlo, se ne gioverebbe non poco!
Questo vino è il nostro vino bianco dell’anno.

Tag:abruzzo, angelo di costanzo, big picture, edoardo valentini, loreto aprutino, montepulciano d'abruzzo, pescara, trebbiano d'abruzzo
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22 aprile 2010

Ho conosciuto Luciano Ciolfi attraverso il web, ci siamo spesso incrociati sulla piattaforma di Vinix ideata e sviluppata dal buon Filippo Ronco, già motore indomito di Tigullio Vino ed alcuni altri canali internet dedicati al mondo del vino. Spesso abbiamo condiviso opinioni, altrettanto ci siamo promessi un incontro, una bevuta, quattro chiacchiere. Nel frattempo sono capitato a Montalcino almeno un paio di volte ma ahimè mai un momento per ricordarmi della promessa fatta, pertanto, di passaggio allo scorso Vinitaly, non potevo mancare almeno una sosta in Toscana per salutarlo e finalmente parlarci a quattr’occhi!
Ci salutiamo con affetto, da vecchi amici nonostante non ci siamo mai visti prima, grandezza del web, decidiamo di berci su, calmi e tranquilli ci accomodiamo e lui con il savoir faire tutto suo, da gran comunicatore ci apre le porte di Podere Sanlorenzo. Assaggiamo i due Rossi di Montalcino che ha portato con se, il 2008 e poche bottiglie del 2007 in esaurimento. Poi il Brunello 2005, appena sul mercato e che non disdegna di rapire il nostro palato. Prendo appunti, lui racconta ed io ascolto, lui beve ed io pure, lui si espone ed io anche: cavolo Luciano quanto è buono questo Rosso duemilasette! Mi sorride, l’avessi ancora, mi dice…
L’annata 2007 è stata caratterizzata da un andamento stagionale anomalo. L’inverno è stato mite, la primavera calda e un luglio torrido hanno messo a rischio siccità la vite, mentre le piogge del mese di agosto e i giorni caldi di settembre hanno ristabilito l’equilibrio idrico delle piante e permesso un’invaiatura buona seppur la vite abbia avuto uno sviluppo diverso dagli altri anni con i primi germogli e la fioritura usciti prematuramente di almeno 20-25 giorni. La vendemmia si è svolta in linea con gli ultimi anni (1-2 ottobre) e l’uva una volta in cantina si è presentata con una percentuale zuccherina sopra la media mentre l’acidità si è mantenuta buona.
Il Rosso di Montalcino 2007 di Sanlorenzo è ottenuto dai vigneti piu giovani dell’azienda che si aprono come un anfiteatro sulla valle dell’Orcia e verso il mare. Il terreno qui è mediamente argilloso e ricco di pietre, e il particolare microclima degli oltre 400 metri di altitudine, rendono particolarmente delicato il gusto del Sangiovese Grosso coltivato in questi vigneti. Viene vinificato in vasche di acciaio a temperatura controllata e posto successivamente in legni di varie dimensioni per circa 12 mesi. Ha un colore rubino molto invitante, abbastanza trasparente; Il primo naso è particolarmente affascinante, immediato, intenso e complesso, coniuga freschezza fruttata a delicate note tostate, ciliegia in primo piano e corteccia sul finale. In bocca è secco, abbastanza caldo, la bevuta è vellutata ed equilibrata, particolarmente armonica, avvincente, assolutamente al di sopra della media Ilcinese, grande materia prima per un vino troppo spesso relegato a figliol povero del grande fratello famoso in tutto il mondo. Un Rosso di Montalcino, il 2007 di Luciano Ciolfi, da ricordare e da riproporre senza tempo, ad avercene ancora!
Tag:luciano ciolfi, montalcino, podere sanlorenzo, rosso di montalcino, sangiovese, toscana
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21 aprile 2010

Anche quest’anno si è svolto il Sagrantino Day International che ha visto, in contemporanea in tutto il mondo, i sommeliers Ais e WSA delle varie delegazioni territoriali tenere laboratori di degustazione e banchi di assaggio dei vini di Montefalco ed in particolare del vitigno più austero e tra i più autentici d’Italia, il Sagrantino. Tantissime le tappe su e giù per l’Italia, in Campania l’evento è stato organizzato dalla delegazione Ais della Penisola Sorrentina in quel del Crowne Plaza di Castellammare di Stabia dove ho avuto l’onore di parteciparvi come relatore assieme alla “padrona di casa” Nicoletta Gargiulo, Gianni Aiuolo e Salvatore Correale, con i quali, guidati dal presidente regionale Antonio Del Franco ed il giornalista de Il Mattino Luciano Pignataro, abbiamo raccontato i vini in degustazione selezionati per noi dal Consorzio Tutela vini di Montefalco.
Il più nobile dei rossi di Montefalco non è un vino per signore, e questo è un dato di fatto, a meno che, certe signore non abbiano che ricercare profumi e sapori forti, autentici, maschi! E’ un vino di grande struttura ottenuto esclusivamente da uve Sagrantino e grazie al ricchissimo corredo di polifenoli e di tannini, questo vino ha una longevità straordinaria ed esprime sin dalla sua giovane età tratti caratteriali inconfondibili che spesso l’accompagnano per tutto il corso della sua vita. Trascorre perciò, di norma, un lungo periodo di affinamento/invecchiamento, sino ai 30 mesi, prima di essere commercializzato.
Queste le mie impressioni sui vini presentati al panel di degustazione di Castellammare di Stabia, ho volutamente escluso dall’analisi il passito, siceramente “non pervenuto”:
Montefalco Sagrantino Taccalite 2006 Tiburzi Colore rubino piuttosto trasparente, il primo naso è incentrato su un frutto spiritoso ma molto gradevole, polposo che non manca di esprimere una certa riconoscibilità varietale. In bocca asciutto, austero, tannino in primo piano, sapore intrigante giocato su di una freschezza appena sormontata dalla carica glicerica. Non lunghissimo il finale di bocca, alla fine si rivekerà il meno convincente della batteria.
Montefalco Sagrantino 2006 Di Filippo Colore rubino abbastanza carico, poco trasparente. Il naso è molto interessante, floreale e fruttato, balsamico e speziato, caratterizzato da mora e ribes nero ed un delizioso rincorrere di percezioni dolci di liquerizia. L’annata 2006 è stata caratterizzata da un inverno freddo ed asciutto che ha comportato un germogliamento piuttosto tardivo per il varietale. Anche l’estate è stata caratterizzata da intense giornate piovose, ma il periodo di maturazione dell’uva sino al raccolto è stato costantemente caldo ed asciutto pertanto il frutto non ne ha risentito più di tanto anche se si esclude un’annata a cinque stelle. Chi ha saputo lavorare bene in cantina ha tirato fuori un Sagrantino integro, con strutture certamente non all’altezza delle annate più regolari ma comunque rappresentative del vitigno, godendo magari di una minore tannicità espressa nel vino. Ottima beva questa di Di Filippo, finale di bocca armonicamente equilibrato.
Montefalco Sagrantino 2005 Rocca dei Fabbri Una volta svelate le bottiglie ed annunciati i vini sono rimbombate in sala voci ed espressioni del tipo “lo sapevo, è lui, come si fa a non riconoscerlo?” o affermazioni tipo “non poteva esser che lui!”. In effetti quello di Rocca di Fabbri è il vino che tutti (o quasi) abbiamo subito associato alla piacevolezza, alla rotondità, alla maggiore predispozione alla beva rispetto agli altri vini in batteria, più crudi, austeri, pur nei limiti di alcuni di essi, decisamente Sagrantino. Il colore è di un bel rubino tendente al granato con sfumature aranciate sull’unghia; Il naso è intenso ed abbastanza complesso, frutta macerata e lievi note di cannella aprono il ventaglio olfattivo, fine ed abbastanza elegante. In bocca è secco, senza dubbio caldo, rotondo e piacevole, quasi masticabile per la dolcezza del frutto. Il finale è lungo, avvolgente, una carezza inattesa da una mano tesa in un pugno deciso.
Montefalco Sagrantino 2005 Scacciadiavoli Il colore è molto invitante, rosso rubino netto, cristallino, abbastanza trasparente. Il naso offre un bel ventaglio olfattivo che va dai fiori rossi a piccoli frutti rossi e neri e note balsamiche, solo a tratti speziate. Anche qui è emblematico il riconoscimento di mora e di ribes nero, sfumature di inchiostro e chiodi di garofano. In bocca mostra un bel caratterino, è secco, a dir poco asciutto, il tannino accompagna tutta la beva e si guadagna certo un ruolo da protagonista sino alla fine, quasi graffiante. Un vino imperdibile per chi ama le durezze, una gran bella sfida degustativa da maritare a piatti grassi ed aromatici, ad una cucina schietta e sincera.
Montefalco Sagrantino 2004 Terre de’ Trinci Il 2004 a Montefalco è stata una annata caratterizzata da una straordinaria piovosità, acqua abbondante sino a primavera che ha ritardato la ripresa vegetativa delle viti e ne ha rallentato l’andamento, ecco perchè alla fine, in epoca vendemmiale, si è dovuto attendere sino alle tre settimane per portare a termine la raccolta protratta sino alla fine di ottobre. Tutto ciò non ha consegnato certo una vendemmia a cinque stelle, ma ha comunque consentito di avere una materia prima più “docile” e chi ha saputo interpretarne al meglio le caratteristiche ha tirato fuori comunque un ottimo prodotto da consegnare al mercato, per qualcuno più fine ed elegante delle vendemmie successive degustate, anche se non posso non sottolineare che per finezza ed eleganza, a parlar di Sagrantino, c’è da mettere quasi sempre le mani avanti: escludiamo infatti certi parametri comuni a tante altre uve nel nostro paese poichè non certo facilmente riscontrabili nelle primissime caratteristiche di un vitigno come il Sagrantino, che vuole essere sempre e comunque un vino uguale a se stesso: possente, importante, dal carattere superbo e senza mezze misure. Non un vino per signore insomma! Il vino di Terre de’ Trinci, una delle prime aziende a credere nel potenziale del Sagrantino vinificato secco, mi è piaciuto molto, dal colore splendente, dal naso lieve ma costante, orizzontale, dal gusto deciso, asciutto ma corroborante e non aggressivo, con un finale equilibrato e dalla beva armonica.
Il Sagrantino Day è una manifestazione certamente originale voluta fortemente dal Consorzio di Tutela dei Vini di Montefalco e che vede l’Ais promotore e comunicatore di grande qualità, devo dire che l’ambiente in cui ci siamo mossi lo scorso lunedì 19 Aprile concedeva un gran bel colpo d’occhio a chi vi ha partecipato. Queste le etichette oggetto della degustazione (foto Giovanni Lamberti). Come sempre, comunicare il vino con tutto l’amore (e la professionalità) possibile!
Tag:ais campania, ais penisola sorrentina, angelo di costanzo, crowne plaza, montefalco, sagrantino, sagrantino day, sommelier
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