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Melizzano, Dissapore Pizza-Fest

6 luglio 2010

Dissapore Pizza Fest

Avevo appena finito di spiegare al Sig. Gunawan che aprire Angelus 2006, pur essendo un infanticidio, gli avrebbe lasciato un ricordo indelebile, tanto significativo da non dimenticarlo, almeno sino a che non avesse deciso, in futuro, di berne una seconda bottiglia, fosse pure tra una decina di anni! Poco dopo, al telefono, mi arrivava un invito, inaspettato, molto gradito.

Domenica 18 Luglio Dissapore organizza il suo primo Pizza-Fest, e sceglie come location la ridente Melizzano in provincia di Benevento. Alla luce di quanto sopra, dell’invito del cortese Maurizio Cortese ( 🙂 ), noi ci saremo, perchè ci piace la pizza, ci piacciono (e non poco) i protagonisti che ne forgiano le forme e ne conservano la tradizione a Napoli come nel mondo ma soprattutto perchè la pizza, la rete e l’evento stesso, diciamola tutta, sono solo un pretesto per stare assieme e confrontarsi su alcuni temi fondamentali della cultura enogastronomica della nostra regione. A tal proposito interverranno tra gli altri  il Prof. Antonio Mattozzi che ha scritto “Una storia napoletana”, edito da Slow Food, il primo vero saggio storico sulla pizza napoletana, Antonio Tubelli di Timpani & Tempura.

Questo il programma, più o meno: da mezzogiorno spazio alla pizza in tutte le varianti, con i vari Coccia, Pepe e Sorbillo a salire in cattedra per svelare in diretta tutti i segreti della loro arte. Nel tardo pomeriggio una degustazione di mozzarelle in 3 versioni del Caseificio Il Casolare, che si trova nella vicina Alvignano, fiordilatte, mista fiordilatte e bufala, solo bufala, accompagnate da Luciano Di Meo, ovvero dai prosciutti di maiale nero di razza casertana.

Pizza e birra, pizza e vino, qual è l’abbinamento più giusto? Mario Cipriano proverà con Karma a spiegare la sua, lo stesso farà Alexia Capolino Perlingieri che giura di sedurre tutti invece con il Vignarosa 2008. Ancora, Enzo D’Alessandro da Sant’Anastasia con il suo Nucillo prodotto dalle cultivar di Capri, Ischia, Positano.

Tra i tanti ospiti della serata-evento, Antonello Colonna da Roma, Livia e Alfonso Iaccarino del Don Alfonso di Sant’Agata sui Due Golfi, i fratelli Sposito della Taverna Estia di Brusciano (NA), Lino Scarallo di Palazzo Petrucci (NA), Raffaele Vitale di Casa del Nonno Tredici di Mercato San Severino (SA).

Nord al Sud, LiguriadAmare

28 giugno 2010

 

“Nord al Sud”. Uno del Sud (moi) che è costretto a vivere al Nord e che prova a parlare di Nord al Sud. Anche se, in effetti, ci sarebbe tanto bisogno di Sud al Nord… (Alessandro Marra)

Comincio da qui, a sorpresa. Perchè magari uno si sarebbe aspettato un discorsetto iniziale sul Piemonte o sul Friuli, sul nebbiolo o sulla ribolla gialla… E invece no! [sgomento…] Liguria! L’occasione per parlarne è stata la serata organizzata dalla delegazione AIS di Milano lo scorso 23 giugno, condotta da Antonello Maietta, ligure di La Spezia e Vice Presidente AIS Nazionale.

Io amo la Liguria. Amo il suo mare, le Cinque Terre, il Golfo del Tigullio, Camogli, Portofino e Rapallo (ma non sono mai stato oltre Genova…). Amo i suoi bianchi: così espressivi e minerali, diretti e puliti. Ma non credete che io disdegni i rossi: l’Ormeasco di Pornassio (fino al 2003 sottozona della d.o.c. Riviera Ligure di Ponente) e il Rossese di Dolceacqua.

E amo la sua cucina (sì, anche quella…): la focaccia di Recco e il Pesto Genovese, giusto per dirne un paio. Ah già, il pesto. Quello vero deve essere fatto con basilico ligure (dalla foglia più piccola e – a quanto pare – maggiormente aromatico, con profumi di agrumi e, in particolare, di limone), aglio di Vessalico (presidio Slow Food, aromatico e tendente al dolce), pinoli, sale, parmigiano reggiano, pecorino (che conferisce la leggere piccantezza) e olio extravergine da olive taggiasche. Altrettanto importanti sono l’uso del buon vecchio “mortaio” e “l’ordine di esecuzione”. Non avrei mai pensato si iniziasse dall’aglio che, una volta pestato, rilascia i suoi appiccicosi oli essenziali facilitando così la frantumazione dei pinoli. Solo dopo si aggiungeranno le foglie di basilico, un pizzico di sale grosso (che serve ad esaltare il colore verde delle foglie), il formaggio e – infine – l’olio, lentamente.

Non solo pesto, però. Qualche esempio? La mortadella di Pignone (che, in realtà, è un salame a grana grossa e piuttosto magro), il formaggio San Stè (di latte vaccino ottenuto da mucche di razza “Bruna” o “Cabannina“, con stagionatura di 60-70 giorni), il Canestrello (quello fatto col burro, uno dei pochi per il quale non viene utilizzato extravergine d’oliva) e il pan dolce genovese.

Dicevo, amo i suoi vini, bianchi e rossi, e questi alcuni degli assaggi più interessanti da rivelare in questo primo passaggio di Mani Giunte Raccontano :

Riviera Ligure di Ponente Pigato “MaRené” 2009 Azienda Agricola BioVio.Oltre alla produzione di olio extravergine da olive taggiasche e alla coltivazione di erbe aromatiche (tra cui, manco a dirlo, il basilico), la piccola azienda di Bastia d’Albenga produce due pigato in purezza. I pendii di Albenga (come pure quelli di Ranzo, sempre in provincia di Imperia) sono l’areale di elezione del vitigno, così chiamato per le “pighe”, cioè le puntinature della buccia che arrivano a completa maturazione dell’uva. Il “MaRené” è il pigato per così dire “base” e la sua produzione si aggira intorno alle 25mila bottiglie. E’ bene dirlo subito: non c’è da aspettarsi chissà quale potenza e complessità al naso (specie quando – come in questo caso – è vinificato con una breve macerazione pellicolare a freddo): si percepiscono soprattutto note di pesca gialla, ginestra, salvia e finocchietto. L’intensità non manca, invece, nel sorso che è lineare, coerente, scattante, per via di quella tagliente mineralità che significa sostanzialmente salinità. Pensi ancora di averne in bocca, invece è già finito. Sembra fatto apposta per unirsi alla pasta fresca con il pesto genovese. Circa 12 euro in enoteca.

Colli di Luni Vermentino “Vigneto Boboli” 2008 Giacomelli Se il pigato spadroneggia a Ponente, il vermentino fa lo stesso a Levante ed è protagonista indiscusso della DOC interregionale Colli di Luni (che comprende 14 comuni in provincia di La Spezia e 3 in provincia di Massa Carrara). Giunto a maturazione, il grappolo del primo è di colore dorato, quello del secondo è verde. Il vigneto “Boboli” è forse il cru più importante di Castelnuovo Magra, comune dello spezzino dove Roberto Petacchi ha fondato la sua azienda nel 1993. La prima volta che l’ho bevuto è stato subito amore. Era ottobre, mi trovavo a Roma e da allora non l’ho più scordato: un po’ perché 14 gradi e mezzo non sono cosa da tutti i giorni per un vermentino, un po’ perché le qualità ce l’ha. Il caso ha voluto che incrociassi nuovamente lo stesso millesimo, stavolta da magnum. A parte il colore, più intenso nelle sue tonalità dorate, non poco è cambiato rispetto al primo assaggio: la mineralità, pur rimanendo la vera costante dell’assaggio, si è leggermente defilata favorendo una migliore percezione delle note di mela golden matura, menta e erbe di macchia mediterranea. Il sorso è ricco e opulento, la salinità ben contrasta le forti sensazioni pseudocaloriche. Ha tutto: potenza, eleganza e struttura. Vinificato con macerazione a freddo per circa 48 ore e successiva permanenza sulle bucce per 8 mesi. Prodotto in sole 6500 bottiglie, costa più o meno 18 euro sullo scaffale.

Ormeasco di Pornassio 2009 Cascina Nirasca. L’ormeasco altro non è che un dolcetto col raspo verde. A differenza del cugino piemontese, però, il vitigno è allevato a ben altre altitudini, tra i 450 e i 750 metri sul livello del mare, in quella che è l’Alta Valle Arroscia, a ridosso delle Alpi Liguri. Vinificato in rosato è conosciuto come “Sciac-trà” (da non confondere per il più celebre passito delle Cinque Terre): il nome deriva dai termini dialettali “schiacca” e “trai”, cioè “pigia” e “togli”. Le uve pigiate sono lasciate macerare per un breve periodo sulle bucce e poi eliminate di modo che la fermentazione prosegua con il solo mosto. Le circa 15mila bottiglie dell’ormeasco “classico” di Cascina Nirasca, attiva dal 2003 in quel di Pieve di Teco (IM), sono prodotte con vinificazione esclusivamente in acciaio. Il colore rosso rubino è investito di un’elegante luminosità. Anche in questo caso, non sono da ricercarsi grandi intensità e ampiezza dei profumi che sono, però, molto fini eleganti e ben riconoscibili: ciliegia, amarena, piccoli frutti rossi e viola mammola. Sorprende per quel tannino che è sì setoso ma forse meno di quello che ci si aspetterebbe. Il sorso è morbido, secco e piuttosto caldo ma sempre agile e brioso. Persistente e per di più coerente con le sensazioni olfattive. Costo sullo scaffale circa 10 euro.

Rossese di Dolceacqua “Galeae” 2008 Ka Mancine’. Della giovane azienda di Soldano, fondata nel 1998, mi piace innanzitutto il coraggio di puntare sul rossese, producendo soltanto tre etichette corrispondenti ad altrettante versioni per un totale di appena 8 mila bottiglie. Soltanto 2mila 600 quelle del piccolo vigneto centenario (coltivato ad alberello con rese per ettaro bassissime) chiamato “Galeae“, cioè prigione, essendo probabilmente il luogo ove venivano deportati i prigionieri saraceni catturati sulla costa. Contrariamente a quanto si possa credere, il nome del vitigno non è deriva dalle tonalità cromatiche (per certi versi simili a quello del pinot nero) ma da “roccese”, ovvero “vite delle rocce”, un chiaro riferimento alla composizione dei terreni. Altra cosa che mi piace è la grandissima rispondenza naso-bocca che ne fa una bevuta davvero soddisfacente. Il colore è rubino con riflessi violacei. All’olfatto emerge la sua caratteristica indole mediterranea: le erbe di macchia sono nitide così come la mela e il pepe nero. Il gusto è secco, bello caldo ma non pesante, pur essendo 14 e mezzo i gradi. Il tannino è levigato e la lunga persistenza è giocata sul frutto succoso e sul salino. Curioso l’abbinamento di territorio con carne di capra e fagioli oppure con le “michette”, non il famoso pane milanese ma una brioche dolce poco lievitata e non farcita, cosparsa con un po’ di zucchero. Prezzo medio in enoteca 13 euro.

Cinque Terre Sciacchetrà 2007 Luciano Capellini. Avendo già assaggiato, in passato, il suo Cinque Terre secco, mi aspettavo grandi cose dallo Sciacchetrà di Luciano Capellini, anche lui come me attivo su Vinix. Alla fine le aspettative non sono state tradite: un vino di grande, grandissima tipicità. Peccato per i numeri (non più di un migliaio le bottiglie prodotte) e per il prezzo, che è di circa 60 euro. Certo giustificato, visto che lì nelle Cinque Terre i vignerons – oltre che con madre natura – devono fare quotidianamente i conti con un territorio difficile, con i cinghiali e con i turisti. L’uvaggio è simile a quello del Cinque Terre secco: prevale – però – il bosco (90%), con vermentino e albarola a spartirsi equamente il restante 10%. Lasciando da parte il vermentino, di cui già s’è detto, il primo ha grappolo spargolo e buccia spessa, mentre il terzo (che nel Tigullio è conosciuto con il nome di bianchetta genovese per via della tenue pigmentazione della buccia) ha molta acidità. Tutti e tre i vitigni hanno diverse epoche di maturazione; il che costringe ad allevarli a diverse altitudini per portarli a maturazione più o meno nello stesso periodo. Le uve, raccolte in anticipo rispetto a quelle utilizzate per il bianco secco, vengono messe ad appassire sui graticci per due/tre mesi prima di essere pigiate – a novembre inoltrato, talvolta anche dicembre – con macerazione di circa 20 giorni. Il colore ambrato, quello sì, sembra tradire la giovane età. Profuma di albicocca disidratata, agrumi canditi, fichi secchi, datteri, rosmarino e miele. In bocca conserva le doti di innata eleganza dell’olfatto, con un sorso dolce ma non pesante grazie alla salinità del terroir, bello caldo e rispondente. Chiude lungo, con un finale leggermente amarognolo tutt’altro che fastidioso. Potente (per i suoi 14 gradi e mezzo), allo stesso tempo snello e di grande naturalezza.

Davvero suggestivo lo spaccato ligure raccontato da Alessandro Marra ma ancor più interessanti sono le sensazioni che traspirano dagli assaggi che ci propone. Una regione quindi da vivere, una LiguriadAmare! (A. D.)

Vougeot, Chateau de La Tour

27 giugno 2010

Vougeot, 17 Giugno 2010. Il tempo continua nell’essere inclemente, il cielo rifugge ancora i raggi del sole, che pure sorride, l’aria è frescolina a tal punto dal sembrare più un annuncio dell’autunno che uno spiraglio alle porte dell’estate. Ma è Borgogna e noi siamo qui, a camminare le vigne di una terra incredibile, tanto semplice quanto preziosa, tanto ricercata quanto famosa, letteralmente sulla bocca di tutti, eppure terra austera, assolutamente spoglia di quel glamour che tutto il mondo tenta di affibiargli, vestita di una ruralità incredibilmente unica, disarmante: fermo nel cuore del Clos de Vougeot mi giro intorno, il verde tutto mi appare immobile, eppure sento nell’aria una vivacità incredibile!

Vougeot è senza dubbio, dopo Vosne-Romanée, uno dei vigneti più belli del mondo, 50 ettari perlopiù a Pinot Noir (la piantagione a Chardonnay è davvero risicata) frazionati  in oltre centottanta parcelle in mano a ben oltre novanta proprietari, il che la dice lunga sull’enorme valore patrimoniale di anche uno solo dei filari, di ogni singola pianta, dei suoi preziosissimi frutti. Chi arriva qui, conoscendo l’alto numero dei “proprietaires” della vigna si aspetta una concentrazione massiccia di piccole cantine sul posto, ma in realtà l’unico indizio che si può avere nel riconoscere i vari appezzamenti sono le piccole pietre di confine o per chi ne ha fatto l’uso, di piccoli cancelli ornamentali, posizionati lungo il margine della Route des Grands Crus. 

Lasciando stare per un attimo la suggestione di trovarsi dinanzi ad un vero e proprio castello (Chateau non a caso, ndr), ci accoglie a Chateau de La Tour, Claire Naigeon, ma prima di lei il suo sorriso, aperto, smagliante, sincero, poi la sua vitalità, la sua voglia di coinvolgerci subito nella scoperta della splendida proprietà oggi condotta dalla vigna alla cantina da Pierre Labet e sua moglie Julie, tra l’altro titolare anche di un domaine a Beaune nonchè di vigne di proprietà a Mersault. Claire è responsabile alle vendite, ma non è solo questo che giustifica la sua discreta conoscenza dell’italiano, va maturando, ci racconta, una crescente passione per l’Italia, per alcuni dei suoi luoghi incantati, in particolare per l’Umbria e l’isoletta di Pantelleria (!), ma non per i vini qui prodotti bensì per gli scenari naturali che propongono; Ci fa accomodare nell’accogliente sala degustazione invitandoci a più riprese a non esitare nel fare domande nonostante tenterà di essere quanto più esaustiva possibile: ci guardiamo finalmente soddisfatti, non è forse questa la Borgogna che ci avevano raccontato? 

La storia del Clos de Vougeot risulta essere piuttosto travagliata, quasi una saga d’altri tempi, tra compravendite fittizie, spartizioni tra eredi e presunti tali, négotiants e “furbetti del quartierino” che tra una zampata e l’altra non hanno mancato di accasarsi nei dintorni al solo fine speculativo, “ogni mondo è paese” si direbbe, Claire nel sorridere ci conferma di aver ben inteso il senso di questa frase; A noi in realtà ci basta registrare che vige un controllo ferreo su tutto quello che si muove in vigna e soprattutto in cantina, del resto siamo qui per una esperienza emozional-sensoriale, non certo per riscrivere la storia! Chateau de La Tour sorge ad un tiro di schioppo dall’omonimo Clos de Vougeot propriamente detto, dal quale lo separa proprio la torre di guardia a cui deve il nome, circondata dalle verdissime vigne di Pinot Noir (il germogliamento risulta in ritardo di almeno tre settimane rispetto all’Italia, ndr), nelle sue fondamenta la cantina ed alcune stanze-caveaux dove conserva oltre che la memoria storica liquida dello Chateau anche dell’intero Clos, si scorgono qua e là almeno un centinaio di vendemmie, alcune delle quali assolutamente rare e perciò preziosissime, sin dalla fine dell’800!

Il vino che più ci ha impresssionato è stato senz’altro il Clos Vougeot, soprattutto in propettiva, ma non sono risultati scontati i due ottimi Beaune Village bevuti, il bianco ed il rosso a marchio Pierre Labet molto freschi e di gran lunga sapidi. Il bianco in particolar modo, che si giova oltretutto dell’augusta veneranda età delle vigne, sui trent’anni, ha mostrato una spalla acida ben espressa, davvero gradevole per non dire ottimo. Altro che Chardonnay… 

Clos Vougeot 2007, l’annata in molte regioni della Francia e del mondo è stata recepita come una annata particolarmente calda, per alcuni, vedi i produttori di Rodano e Provenza in primis addirittura siccitosa; “E pensare che a Vougeot, ci racconta Claire, è capitato non di rado, anche a metà agosto di avere a mezzogiorno 8°”! Il colore è di un rubino granata cristallino, il primo naso è subito ampio e finissimo su note floreali e fruttate mature, addirittura dolcissime sensazioni di caramella al lampone,  e poi spezie, note eteree appena percettibili di cipria e smalto. In bocca è asciutto, è concentrico, con il frutto in primo piano, tutt’intorno il tannino, la glicerina, l’acidità, la mineralità. Bella bevuta, avanscoperta di ben altre grandi bevute future; In effetti di questi vini, in questo stadio di “immaturità” non si può che percepirne il grande potenziale ed accontentarsi dell’impressione positiva di estratto e concentrazione.

Clos Vougeot 2004, ovvero di Pinot Noir straordinario come pochi bevuti prima. Eppure figlio di una annata non felicissima, a fine luglio infatti una fortissima grandinata, praticamente caricata a pallettoni ha distrutto il 30% almeno del raccolto, complicando e non di poco anche il lavoro in cantina. Comunque stupendo il colore rubino, scarico, trasparente, dal primo naso subito affascinante, davvero interessante, ampio, complesso, di quel varietale in grande spolvero e così difficile da replicare. Le note olfattive sono aromatiche, intense e lunghissime, il ventaglio olfattivo fruttato è divenuto succoso, l’etereo sottile profumo di terra asciutta e pietra bianca, la nota di cipria adesso è più evidente, il cassis esplicito, la succulente mineralità una goduria immensa.

Ci è piaciuto, la precisione della tempestica con la quale è stata gestita la visita, e moltissimo l’accoglienza riservataci, a dir poco calorosa.

Particolare curioso: in cantina, da queste parti, gli enotecnici preferiscono il vecchio attempato tastevin al comune calice per la degustazione dei vini in affinamento. 

nei dintorni, da segnare in agenda:

Le Clos de La Vouge. Appena fuori Vougeot, sulla strada per Vosne-Romanée, praticamente all’incrocio con Flagey-Echezeaux c’è questo delizioso Hotel Restaurant; L’ambiente è informale, un po Brasserie, un po Bistrot, il servizio non è dei migliori, lento e a dire il vero anche un tantino impacciato, ma la cucina, tipicamente borgognone, è assolutamente da provare almeno una volta giunti in questa terra. Materie prime eccelse e preparazioni molto sostanziose e saporite, ottimo in particolare l’uovo in camicia in fondue d’Epoisses  (ne parliamo qui) come eccellente il Boef Bourguignonne soprattutto se mangiato come piatto unico.

Hotel – Restaurant – Séminaire
Le Clos de La Vouge
1, rue du moulin
21640 Vougeot
Tel. 0380628965
Fax 0380628314
www.vougeot-hotel.com
closdelavouge@wanadoo.fr

Il Pesce Bandiera croccante di Oliver Glowig

26 giugno 2010

Ingredienti semplici, profumi autentici, un piatto (anche unico) riuscitissimo ed alla portata di tutti. Dalla passione per la cucina tradizionale campana Oliver Glowig ci consegna a suo modo il pesce bandiera arricchendolo con altrettanti tipici sapori nostrani.

Ingredienti per 4 persone

  •  480gr di filetti di pesce bandiera
  • 4 spaghetti da cuocere in acqua non salata
  • 2 peperoni rossi
  • 2 peperoni gialli
  • 50g olive nere snocciolate
  • 5 capperi di media dimensione
  • 1 spicchio d’aglio
  • 2 rametti di timo-limone
  • 50gr di filetti di alici fresche
  • sale, olio extravergine di oliva, fumetto di pesce q.b.

Preparazione: Lavate i peperoni e passateli con poco olio extravergine di oliva, cucinateli al forno a 180°, a questo punto per preservare l’integrità, i profumi in particolar modo, riponeteli in una busta di plastica lasciandoveli per circa 20 minuti; Qundi spellateli e tagliateli a julienne.

Tagliate quindi a julienne ( diametro di 10 cm) anche il pesce bandiera che avrete precedentemente pulito, legatene 4 pezzi con uno spaghetto cotto e lasciato intiepidire; A parte  sfilettate le alici e frullatele con un poco di fumetto di pesce ed un cucchiaio di colatura d’alici. Successivamente è opportuno passare il composto al settaccio per eliminare eventuali residui che potrebbero risultare fastidiosi al palato. In una padella bassa rosolate uno spicchio d’aglio in poco olio extravergine di oliva, unitevi i peperoni, le olive, i capperi, le foglioline di timo-limone ed il sale.

Per ottenere una frittura omogenea e fragrante del pesce bandiera passatelo, prima di infarinarlo, nel latte ed utilizzate solo olio extravergine di oliva.

Per il servizio: il migliore dei piatti bianchi del servizio di porcellana, quello buono, i colori prima che i profumi vi salteranno agli occhi. Al centro del piatto riponete i peperoni, le olive e i capperi, adagiandovi al centro il pesce bandiera fumante e tutt’intorno, a sprazzi omogenei, la salsa di alici, quindi una fogliolina di timo-limone a decorazione. Et voilà…

Ricetta e piatto di Oliver Glowig riproposto in occasione dell’evento “Verticale storica del Cervaro della Sala al Capri Palace“.

Morey St Denis, Domaine Dujac

23 giugno 2010

“Noi non crediamo nella grandeur dei vini di Borgogna, di certo non l’abbiamo mai percepita come un alibi, e sinceramente ne faremmo davvero a meno..!”

E’ quanto meno inaspettata, per non dire disarmante, una rivelazione del genere, una frase così esplicita, per niente malcelata e costantemente presente nell’aria in ogni momento successivo all’aver varcato la soglia del Domaine Dujac a Morey St Denis. Ma come? Verrebbe da chiedersi, e noi che almeno tremila chilometri più in là ci lasciamo scaldare l’anima e sbattere il cuore non appena ne sentiamo parlare, di Pinot Noir, di Borgogna, di Clos e di “pippe” varie ed eventuali sulla loro unicità, storia, fascino per di più sostenute da una bio-dinamicità-naturale che tanto significato ha in un mondo del vino in profonda conversione; In realtà, scusatemi il gioco di parole, è la pura e nuda realtà, definiamola pure cruda e mal servita, (praticamente sbattuta in faccia) ma che ci piaccia o no, questo è!

Questa è l’impressione che ci portiamo a casa dall’incontro con il giovanissimo Alec Seysses, figliol prodigo in quel di Morey St Denis, cuore dell’Haute Cotes de Nuits, che con il fratello ed il papà-winemaker Jacques si occupa a tempo pieno dei 16 ettari del domaine dislocati in circa 18 appellations tra i vari villages, premier e grand cru dell’areale. Come sempre la smentita è dietro l’angolo, della quale in verità ne saremmo davvero felici, per questo (e non solo) ci siamo ripromessi un nuovo passaggio da quelle parti ( 🙂 ). Stando ai fatti però, non è stato un buon approccio con il territorio, quello desiderato, auspicato, nonostante i vini serviti, evidentemente mal volentieri, ci hanno impressionato non poco, aiutandoci a capire che l’anima controversa del terroir borgognone è più marcata di quanto si possa pensare e che alcuni dei suoi interpreti più autentici per essere tali hanno necessità di privilegiare il dato emotivo della realtà rispetto a quello percepibile oggettivamente, da veri e propri “espressionisti” del vino piuttosto che commercianti delle proprie emozioni. Queste, in sintesi, le impressioni sui vini più interessanti degustati, tutti prodotti seguendo il più austero dei protocolli biodinamici, dettato cioè da uno stile di vita piuttosto che dalla moda o la richiesta del mercato.

Marsannay 2008, appellation communale disposta a nord di Morey St Denis, sulla strada di Digione, dove dimorano i due ettari e mezzo di proprietà del Domaine votati perlopiù a chardonnay. Un vino bianco molto fresco, cioè asciutto e minerale, dal colore paglierino tenue e di media consistenza. Il naso è incentrato su note erbacee e floreali, fine ed elegante seppur non lunghissimo, in bocca è, come detto, secco e piuttosto sapido, molto gradevole la chiusura quasi citrina che riporta alla mente agrumi ed al palato una picevolissima sensazione di pulizia. Alla stessa stregua, per intenderci, di un ottimo Fiano del Cilento in tenera età.

Morey St Denis 2008, dalle vigne più o meno prospicenti il Domaine più altri conferimenti del circondario; naturalmente da uve Pinot Nero in purezza, viene vinificato, fermentato ed affinato esclusivamente in “pieces” di secondo e terzo passaggio. Il Colore è piuttosto scarico, rubino/granata con accennatiflessi aranciati, un naso decisamente empireumatico, che offre cioè un ven ritaglio olfattivo organico piuttosto accentuato: note tostate, secche, pungenti, per certi versi affumicate. In bocca è poco carezzevole, in effetti sappiamo benissimo che vini del genere hanno bisogno di almeno un lustro per venire fuori al palato, per rivelare cioè quella voluttà al palato tanto frequentemente espressa in certi Pinot Nero nostrani, ma non dunque di queste terre, di questi interpreti. Bel nerbo, acidità da vendere, finale di bocca lunghissimo, waiting for the glory.

Clos St Denis 1966, il cuore batte ancora mi verrebe da dire. Probabilmente, ripensandoci, il freddo Alec avrebbe voluto riservarci una accoglienza migliore, magari condensata da una manciata di sorrisi in più, non di circostanza, e offerto un panorama delle proprie attività nel Domaine un tantino più esaustivo. Eravamo lì per ascoltare, imparare, non certo per rubare, tempo e spazio. Si salva in “zona Cesarini”, tirando fuori dal caveau, assolutamente non visitabile questo Grand Cru che al tempo, ci dice, Grand Cru non era: “era il vino che circolava in casa, per gli amici, per i parenti”. Sfogliando gli annali scopriremo poi (mannaggia li sommelier!) che non si tratta della migliore delle annate in casa Dujac, e nemmeno della migliore tra le peggiori, un vino insomma del quale certamente non si va fieri. Invece il bicchiere svela una bella esperienza visiva e degustativa, non segnata da clamore e sospiri ma certamente degna di nota. Il colore è praticamente integro, le sfumature aranciate sono appena più marcate del precedente, e la trasparenza pure. Il naso offre un ventaglio olfattivo molto interessante, addirittura ancora spiritoso di frutta, ma balsamico, caramellato, speziato innanzitutto. In bocca è asciutto, austero, lineare sul finale di bocca, equilibrato e minerale.

Ci è piaciuto Morey St Denis, davvero un bel borgo, a misura d’uomo, come del resto tutti quelli visitati durante questo viaggio; La pioggia ed il grigiore del tempo non hanno intaccato più di tanto i colori e il fascino di una terra bellissima.

Non ci è piaciuto, unanimamente, la freddezza con la quale siamo stati accolti, soprattutto contando sul fatto che dai numerosi precedenti contatti non fosse assolutamente trasparita, decisamente una giornata no!

Non ci è piaciuta, l’abitudine del padrone di casa, dichiarata con estrema nonchalance, di recuperare il vino lasciato nei calici dai convenuti, utilizzato a suo dire, successivamente, per colmare le botti in affinamento: “è nettare prezioso, perchè sprecarlo!”

Chalon-sur-Saone, il mercato di Borgogna

22 giugno 2010

Chalon è costruita sui bordi del fiume Saône, vanta una storia di almeno tremila anni ed è stata sempre un punto di riferimento assoluto per l’economia di tutta la regione borgognona: prima, in antichità, come porto navale militare, poi in tempi più moderni come centro di florido scambio commerciale, centro fieristico di prim’ordine: un mercato continuo.

L’ingresso in città non suscita particolari aspettative, pare attenderci una città come tante lasciate lungo strada sino a qui, un po grigie e goffamente frammiste di una ruralità forzata e quella modernità un tantino datata. Ma bastano appena due curve per ricredersi, basta allontanarsi dai viali di cemento che costeggiano il fiume per entrare d’un colpo nella città vecchia, nel cuore di un borgo in cui il tempo pur tiranno sembra soccombere da una tradizione insopprimibile. E’ domenica, ed è la domenica del mercato, un tripudio di colori e di profumi che si rincorrono lungo i vicoli che da Place de l’Obélisque si diramano sin nell’anima del quartiere vecchio. I negozi di ogni genere che durante tutta una settimana animano Chalon alla domenica lasciano il campo a persone ed intenzioni che sembrano venire da ogni dove con i frutti del loro duro lavoro, della loro antica tradizione, della loro profonda cultura.

L’atmosfera riporta alla mente i nostri mercati, in fondo le voci, le urla, il richiamo che si innalza continuamente nell’aria non è poi così differente da quello dei venditori delle nostre borgate, dei nostri quartieri, delle nostre piazze rionali; i colori dei banchi si alternano dal rosso splendente dei pomodori “cuore di bue” a quello “sangue” delle cerise “stark” croquante, il verde dei carciofi giganti del sud con il bianco dei turioni di asparagi delle campagne circostanti; e poi i profumi, quello dolcissimo dei fiori dai mille splendidi soli e quello pungente delle erbe officinali che qualcuno sta pestando poco più in là, quello inebriante delle pentole e delle caccavelle che sbuffano i vapori delle zuppe di pesce e delle fritturine di verdure in cottura, così a la volèe, una cucina in strada che definirei in maniera disincantata senza cucina ma con tanta storia di strada.

Continuiamo a scorrere i banchi, con essi le facce, gli inviti, le raccomandazioni, le preferenze, le simpatie, la voglia di non perdersi nemmeno un attimo, uno sguardo di questa domenica speciale: Jean Luc ci guarda perplesso, stiamo contrattando per diverse pezzature di buonissimo “Epoisses”, il formaggio più amato e consumato in Borgogna, ma non ci lascia margini di favore, il fratello, Arnauld è più propenso a lasciarci come omaggio una manciata di sostanziosi “saucisson” ma non ne vuole sapere ne sui formaggi ne sul delizioso pane di “campagne”, davvero saporito, superlativo; alla fine, “les italiens…” la spuntano, così ci avviamo sulla strada del ritorno. Qui intorno c’è di tutto, dal robivecchi che per una manciata di euro vende il vecchio soprammobile della nonna al finissimo “patissier” intento a rifinire gli ultimi cioccolatini appena sformati, l’urlatore dei tappeti e dei tendaggi di Tournus¤ al formaggiaro della Savoia che ci tiene a sottolineare che i suoi formaggi sono sì brutti da vedere ma solo perchè desidera che li compri solo il vero appassionato: niente forma, solo sostanza! Ripete in continuazione.

E’ vero, è quello che anche noi ci aspettiamo di incontrare sulla nostra strada nei prossimi giorni, niente o quasi forma, molta, moltissima sostanza! (continua)

da non perdere il museo della fotografia
Musée Nicéphore Niépce
28 Quai des Messageries
71100 Chalon sur Saône
tel.: 03 85 48 41 98
fax: 03 85 48 63 20
Entrata libera
Aperto tutti i giorni, eccetto il martedì e i giorni festivi
dalle ore 9.30 alle ore 11.45
dalle ore 14.00 alle ore 17.45
Luglio – agosto
dalle ore 10.00 alle ore 18.00

Il sogno di mezza estate, la mia Borgogna

19 giugno 2010

“E’ la sottile immensità del Pinot Nero  il solo racconto della bianca pietra della mia terra; il solo capace di scaldare gli animi e di frenare i sussulti.”

Prologo: è appena l’alba, l’aria è tersa e l’aereoporto di Capodichino comincia ad animarsi, il check in è abbastanza veloce, siamo fortunati, ci dicono, l’aereo è già li che ci attende, un Bombardier crj900 (!) puntato in direzione Torino: Borgogna stiamo arrivando!

Il volo è sempre una emozione stupenda, lasciarsi alle spalle la terra e varcare le nuvole provoca sempre un certo brivido; da qui l’azzurro del cielo in lontananza sembra più azzurro e la stessa luce che rimbalza sui flap delle ali dell’aereo prima di svanire nel nulla mi appare più limpida, luccicante. Nemmeno il tempo di raggiungere quota e la velocità di crociera (850 Km/h!) che sorvoliamo in un soffio le isole Pontine: adesso l’aria è chiarissima, Palmarola, con le sue rocce bianche, un graffio nel mare laziale; pochi minuti dopo ci lasciamo l’Elba alla nostra destra, adesso lì davanti, sotto le nuvole appena più dense, appare la costa ligure. Le nuvole d’un tratto si infittiscono, poi divengono grigie, gonfie, sul vetro passa sottile un rivolo d’acqua, è l’annuncio di un temporale: benvenuti a Torino!

Inizia da qui il sogno di mezza estate, la mia Borgogna, cronaca di una passione infinita, di un desiderio realizzato. Dopo poco ci riuniamo nel pullmann che attraverso il traforo del Frejus ci accompagna in terra di Francia attraverso la statale italo-francese costeggiata da un paesaggio ancora grigio sullo sfondo ma molto suggestivo, fatto di foreste di abeti, corsi d’acqua rocciosi e pontili sull’ignoto. 

Dopo un centinaio di chilometri ed una melanconica pausa caffé in un bislacco Café l’Arche (pessima interpretazione di un nostro Autogrill) ci immettiamo sulla dipartimentale che ci condurrà a Tournus, un piccolo borgo del 1100, avamposto della cristianità (testimonianza ne è la bellissima abbazia romanica di St. Philibert¤) ed oggi importante centro turistico-culturale dedito soprattutto ad una sopraffina offerta di artigianato locale, di tessuti impreziositi da ricami artistici in particolar modo, di rara bellezza. Più in là a poche decine di chilomentri, Chalon sur Saone,  praticamente la nostra porta sulla Borgogna… (continua)

La Dolce Vite nel nome del Cervaro della Sala

14 giugno 2010

Capri Palace Hotel&Spa

L’Olivo incontra Castello della Sala

Venerdì 25 Giugno ore 19,30

Nello scenario incantato dell’isola di Capri va in scena un evento di particolare valore storico per il mondo del vino italiano; Incrociamo con grande piacere le storie di un territorio, l’Umbria, e di uomini che dal nulla o quasi la storia del vino l’hanno fatta e la faranno soprattutto nel prossimo futuro: il ristorante L’Olivo, due stelle Michelin dal 2009, apre le sue porte nella splendida cornice di Anacapri al mito dell’azienda Castello della Sala della famiglia Antinori, e per l’occasione, con Oliver Glowig saranno guests chef Romano e Iside De Cesare de  La Parolina di Trevinano (VT).

L’evento segue di appena qualche settimana il successo di apertura di stagione con la bellissima serata trascorsa in compagnia di  Luigi Moio e Antonio Pisaniello e rientra nel ricco calendario di appuntamenti enogastronomici di prestigio che per tutto il 2010 caratterizzerà “La Dolce Vite” del Capri Palace e che vedrà come protagonisti tra gli altri anche la maison Krug e l’indomabile Silvia Imparato in una verticale storica del suo fuoriclasse Montevetrano

Gli ospiti saranno accolti nella cantina storica “La Dolce Vite” dove Renzo Cotarella gli presenterà quella che senza dubbio è la sua azienda del cuore, tra le più preziose tra le altre che costellano il panorama viticolo degli Antinori; A seguire, la speciale cena degustazione presso il ristorante L’Olivo abbinata ad alcuni dei millesimi del Cervaro della Sala dal 1988 ad oggi.

La degustazione sarà condotta come sempre dai sommeliers di casa a L’Olivo Angelo Di Costanzo e Giovanni Guida:

  • Cervaro della Sala 2008
  • Cervaro della Sala 2004
  • Cervaro della Sala 2001 
  • Cervaro della Sala 1999 
  • Cervaro della Sala 1994 
  • Cervaro della Sala 1988 

Un vino straordinario da cogliere e da scoprire  in 20 anni di storia; In chiusura immancabile la presenza del campione di dolcezza di casa Antinori, quel Muffato della Sala di cui non si farebbe mai a meno!

Per informazioni dettagliate e prenotazioni:
Capri Palace Hotel & Spa
Ristorante L’OLivo
Via Capodimonte, 14
80071 Anacapri – Isola di Capri – ITALIA
Phone: (+39)081 978 0225
Fax: (+39) 081 978 0593
www.capripalace.com
olivo@capripalace.com

Professione Sommelier, viaggio in Borgogna…

9 giugno 2010

Associazione Italiana Sommeliers Campania

presenta

Viaggio in Borgogna

Un evento memorabile di scoperta e crescita professionale; Il viaggio-studio nella regione simbolo del mondo del vino rappresenta un appuntamento imperdibile, da vivere con tutto l’amore possibile! Noi ci saremo, e non mancheremo di raccontarvelo… tutto!

Questo l’itinerario in programma:

  • Mercoledì 16/06
  • Trasferimento aeroporto Torino/hotel Le RichebourgVosne-Romanée
  • Nel pomeriggio escursione a Digione e rientro dopo cena 
  • Giovedì 17/06
  • Mattinata
  • h 10.00 visita all’ azienda DomaineDujac a Morey S. Denis
  • h 12.00 visita all’azienda Chateau de La Tour a Vougeot 
  • Pomeriggio 
  • escursione a Beaune, rientro dopo cena 
  • Venerdì 18/06
  • Mattinata
  • h 10.00 visita all’azienda Trapet Pere et Fils a Gevrey- Chambertin
  • Pomeriggio
  • h 16.00 visita all’azienda Domaine Charlopin-Parizot a Brochon
  • Sabato 19/06
  • Escursione e visita all’Abbazia di Fontenay a Montbard
  • Eventuale serata a Digione
  • Domenica 20/06
  • Rientro a Torino con sosta e visita a Chambery
  • in serata volo di rientro a Napoli

Associazione Sommeliers Campania
Cooperativa Casa Caserta 1 – Via delle Quercie
Centurano
Caserta
Italia
81023
info@aiscampania.it
Telefono: 0823/34.51.88
Fax: 0823/34.51.88

Montalcino, Cerretalto 1997 Casanova di Neri

2 giugno 2010

Quanto è difficile il sangiovese, e quanto è ancora più complicato il “brunello”, vitigno di grandissimo spessore eppure da sempre al centro di innumerevoli dibattiti ed incomprensioni, il più delle volte dettati più dai complessi sillogismi costruiti intorno ad essi che dalle mere questioni sollevate.

E’ un vino che amo molto, il Brunello, ed amo molto Montalcino, roccaforte dell’enologia Toscana e spesso al centro di un mondo distante mille e più chilometri ma pur sempre orbitante intorno ad essa; Le innumerevoli camminate per le vigne che diradano dal borgo antico sino alla Val d’Orcia e la Val d’Arbia sono tanto suggestive quanto istruttive eppure mai abbastanza per comprendere appieno la vocazione e l’identità di un territorio tanto eterogeneo quanto talvolta brutalmente inespresso .

Di certo è che il caos degli ultimi anni, i “rumors” come battezzati prima della loro esondazione mediatica, non hanno certo giovato ad un territorio ancora alla ricerca del suo unicum fondante ma senz’altro hanno aperto opportune riflessioni innanzitutto su un dato di fatto, che il Brunello, così com’è, rimane uno dei più preziosi vini-gioielli italiani di cui dover aver particolare cura e  memoria per consegnarlo al futuro come una perla dell’enologia mondiale e non come un’attempata prostituta da bordello!

Querelle a parte, e soprattutto Biondi Santi a parte, è indubbio che gli stili maturati negli ultimi venti-venticinque anni non collimano del tutto con la storia e la tradizione ilcinese di sempre, eppure nella piccola babele scatenatasi da fine anni ottanta in poi è tangibile come nel mondo il successo di questo straordinario vino si sia sviluppato enormemente, fatto salvo l’ultimo quinquennio di crisi, grazie proprio a questa evoluzione stilistica (leggi modernariato popolare) tra l’altro voluta e condivisa da molti produttori, vecchi e nuovi, di tutto il comprensorio di Montalcino.

Si può dire di Giacomo Neri che sia stato tra i primi a cavalcare la cosiddetta nouvelle vogue e senz’altro tra i migliori di questi nuovi interpreti a ritagliarsi un ruolo di assoluto primo piano sulla scena mondiale; Il suo Cerretalto ’97 per molti ha rappresentato un vero e proprio “manifesto” di questa evoluzione e per qualcuno è rimasto un monumento a questo storico passaggio di consegne tra il cosiddetto vecchio e il nuovo, si direbbe un vino nato da una annata eccezionale e con numeri strepitosi ma con una responsabilità altrettanto importante, quasi a fare da spartiacque, impegno rilanciato e consolidato successivamente con l’inarrivabile duemilauno.

Il colore è sorprendente, rosso rubino denso, concentrato, quasi impenetrabile, il tempo non ha scalfito nemmeno la sua vivacità ancora splendente. Il primo naso è pura sinfonia, leggiadro, un volo planato intorno a frutti a polpa rossa e nera maturi, note balsamiche, tostate, minerali, eteree. La prima grande qualità di questo vino è l’equilibrio già palpabile – sì palpabile – al naso, un vino che si lascia quasi “ascoltare” tanta è la piacevolezza dei suoi profumi; Di qui la certezza di stare bevendo un grandissimo vino, fine elegante, avvolgente, una porta spalancata su un ventaglio olfattivo emozionante ma appena ai primi scalini di una passerella d’onore.

In bocca è secco, fresco, entra sul palato con vigore, appare quasi un dispiacere portarlo alla deglutizione tanto è il piacere con il quale pervade la cavità orale, ma è proprio dopo averlo bevuto, dopo aver sedato l’acquolina iniziale che ci rende conto della bellissima esperienza gustativa. Equilibrato, carezzevole, il tannino è scevro di protagonismo, l’acidità sostiene bene il frutto, bilanciando una struttura alcolica non indifferente (siamo oltre i quattrodici gradi e mezzo!), chiude su un finale tostato ammiccante e seducente. Un campione, per la memoria!

Salerno, Miglior Sommelier Campania 2010

22 Maggio 2010

Associazione Italiana Sommelier

Associazione Sommeliers Campania

presentano

Concorso

Miglior Sommelier Campania 2010

Lunedì 21 Giugno ore 10.00

Grand Hotel Salerno

Lungomare Tafuri, 1

Come tutte le precedenti edizioni il concorso è aperto ai sommeliers professionisti e ai non professionisti. Un occasione di confronto e di crescita, una opportunità per stare assieme e vivere la propria passione, la propria professione con quel pizzico di competizione che non guasta mai.

A tutti coloro che sceglieranno di esserci, professionisti e non, il mio personale in bocca al lupo, che sia una esperienza indimenticabile! (A.D.)

per maggiori informazioni:
Nicoletta Gargiulo
Resp. regionale Concorsi
Cooperativa Casa Caserta 1
Via delle Querce 81023
Centurano – Caserta
info@aiscampania.it
Tel. 0823 345188

Mirabella Eclano, il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2004 di Luigi Moio

19 Maggio 2010

L’uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro. (Milan Kundera, l’insostenibile leggerezza dell’essere).

Come Milan Kundera Luigi Moio¤ esprime un concetto talmente semplice e reale quanto sfuggente, presi come siamo ogni giorno dalla continua ricerca, nella vita come nel vino, di una continuità fine a se stessa impossibile da ottenere sistematicamente senza rinunciare alle emozioni; Alla base di tutto vi è un concetto elementare: ogni nostra azione, ogni nostro istante è irripetibile; Perché la vita stessa è irripetibile. Kundera con il suo meraviglioso libro ci dice che non siamo preparati ad essa e che non abbiamo seconde possibilità. Tutto ciò che scegliamo o consideriamo inizialmente come leggero rivela presto il suo incredibile peso.

Così Moio, in maniera disarmante concede attraverso i suoi vini una chiave di lettura del terroir antica e nuova allo stesso tempo, un ossimoro palpabile ad ogni sorso di questo straordinario Vigna Quintodecimo 2004, autentica territorialità ed eleganza da vendere, nettezza d’aglianico e finezza esemplare, lontana anni luce da quel Taurasi che dopo anni di intimo (non tanto) vagar sospeso tra il tutto ed il niente sembra aver riscoperto nelle piccole imperfezioni dei nuovi interpreti la sua franchezza. E’ così tanta la strada da fare, perchè pensare di aver già trovato la quadratura del cerchio? E’ perchè sprecare tempo (leggi denaro) e parole invece di investirli in ricerca e conoscenza? Questo il messaggio che mi è parso rileggere, ancora una volta in questo eccellente vino.

Il Taurasi Riserva Vigna Quintodecimo 2004 è vino incredibilmente espressivo, sin dal colore rubino vivace, concentrato e splendente, con appena accennate sfumature granata sull’unghia. Il naso offre un ventaglio olfattivo delizioso ed intrigante, varietale, intenso e complesso, sensazioni di finissimi terziari in ascesa ma appena espresse. Un ventaglio olfattivo imponente, decisamente aperto a concedere minuto dopo minuto, quarto d’ora dopo quarto d’ora sempre fresche sensazioni olfattive: piccoli frutti neri, fiori passiti a rincorrere nuances di spezie ficcanti ma suadenti, note balsamiche dolcissime cadenzate da nerbo e giustezza. Vino secco, in bocca entra con la stessa delicatezza delle parole di Kundera, innescando con la sottile invadenza una profondità attesa e allo stesso tempo sorprendente; il frutto pervade tutto il palato, costantemente sopra le righe, incanta e coinvolge per bene tutte le papille gustative, si ha quasi la sensazione di metterle costantemente in riga a chiedergli di aver ben compreso il messaggio prima di lasciare il campo allo spesso nerbo acido-tannico, presente ma castamente defilato in attesa di tempi migliori.

Un vino per i prossimi vent’anni, una emozione per i prossimi cento, aperta ad ogni confronto, la terra d’Irpinia racconta, Luigi Moio ci rende partecipe del suo canto!

Qui le degustazioni di tutti gli altri vini di Quintodecimo¤ del millesimo 2007.

La Campania che vogliamo, Quintodecimo al Capri Palace e menu stellato a quattro mani

7 Maggio 2010

CapriPalaceHotel&Spa

L’Olivo incontra Quintodecimo

Venerdì 14 Maggio ore 19,30

Nello scenario incantato dell’isola di Capri va in scena un evento dal particolare sapore tradizionale campano, un incrocio di territori, storie, uomini: il ristorante L’Olivo, due stelle Michelin dal 2009 accoglie nella splendida cornice di Anacapri l’azienda irpina Quintodecimo del prof. Luigi Moio .

Luigi Moio, per i pochi che ancora non lo sapessero, ha fatto la storia dell’enologia campana, ha stravolto atavici equilibri e bilanciati dei nuovi, ha rilanciato sin da tempi non sospetti il senso fondamentale della terra, della vigna prima di tutto, al quale ha applicato con minuziosa visceralità il concetto, per molti secondario sino ad allora, di conoscenza scientifica dei suoi elementi. Suoi i primissimi studi sui principali vitigni campani, ed il progetto in quel di Mirabella Eclano esprimerne al meglio le qualità e vocazioni.

Al talento ed alla tecnica esemplare dell’executive chef di casa Oliver Glowig si affiancherà per l’occasione l’estro irpino di Antonio Pisaniello, fresco della prima stella Michelin in quel di Nusco nella sua deliziosa Locanda di Bu. I due, uniti trasversalmente dalla forte sensibilità alla valorizzazione della migliore cucina territoriale campana si cimenteranno per l’occasione nell’elaborazione a quattro mani di un menu degustazione ad hoc in abbinamento ai vini di Quintodecimo.

L’evento è solo il primo di un ricco calendario di appuntamenti di prestigio che per tutto il 2010 vedrà tra gli altri Renzo Cotarella, Olivier Krug e Silvia Imparato passarsi il testimone sotto il cielo caprese. In occasione dell’incontro con Luigi Moio, dopo il prologo nella storica cantina “Dolce Vite” dove verrà presentata l’azienda ed i suoi progetti degustando e raccontando la Falanghina Via del Campo 2007, seguirà la cena degustazione presso il ristorante L’Olivo abbinata con tutti gli altri preziosi vini prodotti in terra d’Irpinia.

Questo il menù della serata:

Ricotta fritta di Montella con purea di broccoli, acqua di pomodoro, patate, alici e soppressa tiepida Chef Antonio Pisaniello

Raviolo di gamberi e zucchine al limone con uovo a bassa temperatura Chef Oliver Glowig

Filetto di Triglia con patate schiacciate e midollo gratinato in salsa di ribes nero Chef Oliver Glowig

Polpettine di Laticauda con purea di piselli, sale nero, genovese di cipolle di Sausa e fiori Chef Antonio Pisaniello

Tarte alla vaniglia con sorbetto di nespole Chef Oliver Glowig

In degustazione, condotta dai sommeliers Angelo Di Costanzo e Giovanni Guida:

  • Sannio Falanghina Via del Campo 2007
  • Fiano di Avellino Exultet 2007
  • Greco di Tufo Giallo d’Arles 2007
  • Irpinia Aglianico Terra d’Eclano 2006
  • Taurasi Riserva Quintodecimo 2004
Per informazioni dettagliate e prenotazioni:
Capri Palace Hotel & Spa
Ristorante L’OLivo
Via Capodimonte, 14
80071 Anacapri – Isola di Capri – ITALIA
Phone: (+39)081 978 0225
Fax: (+39) 081 978 0593
www.capripalace.com
olivo@capripalace.com

Vico Equense, Torre del Saracino: di un gigante della cucina campana e di passeggiate vicane

4 Maggio 2010

Ecco la brezza accarezzarmi il viso, il sole tiepido di fine Aprile scaldarmi l’animo, il profumo di pino aggraziarsi le narici. La mente e la pancia hanno già avuto di che compiacersi, perciò le guardo gli occhi e d’improvviso non ho null’altro di che lamentarmi, le stringo le mani e non ho più parole da pronunciare, adesso tocca al cuore.

Effetto Torre del Saracino? Forse, una cosa è certa, appena usciti dall’isola gastronomica di Gennarino e Vittoria ce n’è di che compiacersi prima di ritornare alla cruda normalità. Forse appare anche inutile spendere parole d’oro o frasi incensate per descrivere una delle più piacevoli esperienze gastronomiche dell’anno, tuttavia il diario enogastronomico non può esimersi dalla cronaca di una splendida giornata spesa a Marina di Equa tra una pur breve passeggiata al sole nonchè una visita alla preziosa tavola del Gennarino nazionale.

L’ambiente è cambiato, non poco, ma non le persone, quelle assolutamente no, e nemmeno lo spirito che anima questo luogo del gusto sin dalla sua fondazione, subito manifesto, sin dall’accoglienza, a misura d’uomo, sfacciatamente familiare; Gli arredamenti sono essenziali ed i colori tenui e gioviali al tempo stesso, la tavola è ben apparecchiata, ognuno gode di buona privacy e di una veduta che in giornate come queste, con il sole in fronte, apre gli occhi su di un Vesuvio come non mai suggestivo ed evocativo; Insomma, ingredienti di una semplicità disarmante, “della nostra tradizione” si direbbe, che si ripetono con lo stesso equilibrio anche nelle proposte del menù, anche in quelle incursioni culinarie apparentemente più moderne ed internazionali come la Scaloppa di Fois Gras servita con olive verdi in una zuppetta di Nettarini di Corbara.

Ci accoglie Giovann Piezzo, sommelier napoletano di lungo corso da circa un lustro qui alla Torre del Saracino: si rivelerà durante il pranzo un professionista attento e costante, che sa bene il fatto suo e come proporsi, con garbo, stile, equilibrio e disponibilità. Proprio con lui, appena dopo il pranzo, una volta giunti nella suggestiva cantina, ho avuto modo di fare una lunga chiacchierata, di mestiere, passioni e speranze, ma questo è argomento di cui tratterò più in là. Ecco invece che ci raggiunge, appena un attimo dopo, Gennaro Esposito; Ci saluta dandoci il benvenuto con particolare calore, rimaniamo subito rapiti dalla sua simpatica avvenenza, lui dalla nostra dolce Letizia che ci ruba per qualche minuto per farle fare, lui in prima persona, un tour per le cucine di casa: se talento avrà, qual miglior battesimo di questo! Noteremo con sommo piacere che proprio con lo stesso calore Gennarino non mancherà di dare il benvenuto a tutti gli ospiti che di lì a poco riempiranno per metà l’accogliente sala che affaccia sul mare di Seiano. 

La proposta è davvero allettante, scegliamo dalla Gran Carta il menù degustazione “Salvatore”, dal nome di uno dei più fidati collaboratori dello chef vicano che lo affianca in cucina sin dagli esordi, non mancando però di puntualizzare dell’esigenza di assaggiare il cosiddetto “piatto dell’anno”, la Minestra di Pasta mista di Gragnano con crostacei e piccoli pesci di scoglio (da manicomio!), non prevista in menù ma assolutamente ineludibile. Così appena dopo un delizioso benvenuto di trancio di Tonno appena scottato su vellutata di fave fresche seguono nell’ordine: Cefalo leggermente affumicato, patata schiacciata e salsa verde, unico piatto al di sotto delle aspettative, fresco e bilanciato ma un po’ scontato, quasi inaspettato, nulla a che vedere con la deliziosa Passata di piselli, gnocchi di ricotta, seppie, raviolino al limone e pomodoro candito, una sequenza di tali puri sapori ma in perfetto equilibrio tra loro tale da fare invidia per il solo pensiero di averlo pensato, davvero eccellente!

Sapori ancor più schietti e sinceri nella Pasta e cavolfiore con ostriche e pecorino, un piatto per così dire “coraggioso” ma senza dubbio riuscito, con sapori molto decisi a rincorrersi ed equilibrarsi tra loro grazie soprattutto a dei ciuffetti di alghe appena fritti utilizzati come decorazione e che invece risultano come manna dal cielo per stemperare l’ardire del pecorino in grani semisciolto con la mantecatura. Baccalà in carpione con cipollotto, mela annurca e melassa di fichi, altro esempio di rincorsa all’agro e al dolce non mancando però di sapidità ed aromi che donano costante freschezza al piatto; Nella normalità della tradizione nostrana l’ottima Variazione di Ragù napoletano con una braciola di cotica sugli scudi, pura scioglievolezza. Su tutto, senza perderci nelle esalazioni etiliche, abbiamo bevuto un ottimo (e conveniente, 30€) Chablis 2006 di Daniel Dampt.

Chiusura in dolcezza con la Passeggiata vicana, dolce della tradizione locale impreziosito dalla presenza di granelli di fior di sale utilizzati per ristabilire il giusto equilibrio di bocca inevitabilmente avvinghiato alla dolcezza della crema al limone, qui dalla interessante carta a bicchiere si è rivelato molto piacevole il Moscato di Saracena di Cantine Viola (€ 9). Ottimi i piccoli assaggi di piccola pasticceria, come molto apprezzata, ma che dire, superba, la proposta di offrirci il caffè nella piccola saletta ricavata nella torre di Capoviro che sovrasta il locale, a quanto pare il buen retiro di fine serata del padrone di casa dove ama intrattenersi con i suoi ospiti al cospetto di alcune opere d’arti comissionate ad hoc, buona musica lanciata on-air da un modernissimo stereo a valvole e tanto cioccolato delle migliori cultivar e dei migliori selezionatori italiani e francesi.

Ecco, la mente e la pancia hanno già avuto di che compiacersi, perciò le guardo gli occhi e d’improvviso non ho null’altro di che lamentarmi, le stringo le mani e non ho più parole da pronunciare, adesso tocca al cuore.

 Ristorante Torre del Saracino

Via Torretta, 9
Loc. Marina d’Equa
80069 Vico Equense (NA)
Tel. & Fax +39 081.802 85 55
info@torredelsaracino.it
Chiuso: domenica sera e lunedì.

Napoli, verticale storica Muffato della Sala: di un dolcissimo viaggio nel tempo dal 1988 al 2006

30 aprile 2010

Un evento straordinario, senza precedenti sotto il Vesuvio e che ha visto una bella partecipazione di persone: giornalisti, sommeliers ma anche vignerons e ristoratori che hanno saputo cogliere l’opportunità concessa dalla storica famiglia fiorentina degli Antinori e raccogliere l’invito di Slow Food e Luciano Pignataro che hanno pensato, organizzato e coordinato l’evento nella splendida cornice dell’Hotel Romeo di via Marina.

Del Castello della Sala trovate su questo blog più di un riferimento utile a comprendere “il mito”, dagli straordinari vini che ne nascono al loro artefice più illustre, tal  Renzo Cotarella che non è voluto mancare a questo appuntamento con la storia di una delle più piacevoli ed interattive verticali organizzate sul territorio napoletano; come dire, nessun maestro alla cattedra, nessun altarino, solo tanta voglia di ascoltare, capire, comprendere, discutere, innanzitutto su come un vino, apparentemente destinato ad un consumo “facile” – opinione e luogo comune entrambi immediatamente sfatati – possa invece ritenersi incredibilmente longevo e sorprendente a tal punto dal non avere limiti di evoluzione spazio-temporale nonchè su quanto sia incredibilmente necessario preservare una memoria storica liquida per rendersi conto non solo di quanto si sia stati bravi nel fare il vino – elemento questo certamente tra i più banali – ma soprattutto per riuscire a leggere nel tempo gli errori commessi ed il reale potenziale del lavoro che si ta portando avanti, in vigna come e soprattutto in cantina.

Il Muffato della Sala è prodotto con uve botritizzate raccolte manualmente tra la fine di ottobre e la prima metà di novembre, per dar modo alle nebbie mattutine di favorire lo sviluppo della Botrytis Cinerea o “Muffa Nobile” sui grappoli. L’effetto più immediato di questa muffa è la capacità di ridurre il contenuto di acqua presente nell’acino lasciandone concentrare gli zuccheri presenti e gli aromi che rendono il vino che ne viene prodotto tra i più intriganti e complessi mai riproducibili. Tutte le annate, tranne la prima prodotta nel 1987 quando nell’uvaggio vi era anche il Drupeggio (varietà autoctona orvietana) sono generalmente caratterizzate da un blend di vini base Sauvignon blanc al 60% e Grechetto, Traminer e Riesling per il restante 40%. Queste in sintesi le mie impressioni sulla eccezionale verticale storica proposta nelle annate 1988, 1989, 1991, 1995, 1996, 2004, 2006. Il 1988 è stata la seconda annata prodotta, da sole uve Sauvignon e Grechetto; andamento stagionale piuttosto regolare, le uve arrivate in cantina possedevano una buona qualità di muffa nobile ed il vino che ne è venuto fuori nel tempo un ottimo imprinting archetipale: colore giallo oro splendente, luminosissimo, naso particolarmente equilibrato e finissimo su sensazioni floreali e fruttate passite. Palato dolce, non stucchevole, fine ed elegante con una piacevole chiusura in freschezza.

Il 1989 ha consegnato un andamento climatico alquanto rigido con una estate piuttosto piovosa nonchè per niente calda al punto di far ritardare non poco la comparsa dell’agognata botrytis sui grappoli. Il vino che ne è venuto fuori non gode certo di una spiccata verticalità e per essere pignoli nemmeno di una particolare complessità, ma l’eleganza e la finezza con la quale esprime una trama olfattiva dolcissima di fiori di campo e miele di acacia è da batticuore. Avere 21 anni e non mostrarli per niente! Il 1991 ci sbalordisce tutti e offre un naso assolutamente integro, quasi didattico per un vino del genere: subito dolcissimo di frutta disidratata, candita, poi terroso, nitidamente fungino, a tratti tartufato, poi ancora iodato. Non mi soffermo particolarmente sulle note visive perchè tutti i campioni proposti, dal più vecchio al più giovane mostravano uno splendore ed un candore cromatico da manuale, puro oro liquido giammai intaccato dal tempo. Il naso e la bocca in particolar modo hanno invece dimostrato quanto sia fondamentale per un vino del genere la cura maniacale che si profonde in vigna ed in cantina al Castello della Sala, superando brillantemente le ostilità di vendemmie senz’altro difficili (spesso caratterizzate da andamenti locali particolarmente piovosi) ma mai impossibili da governare con la giusta conoscenza del terroir, delle uve e con a disposizione i mezzi tecnici adeguati.

Il 1995 ha visto maturare delle uve perfettamente integre sino all’attacco della muffa nobile, il Riesling ed il Traminer essere raccolti prima del Sauvignon e del Grechetto. Il ventaglio olfattivo non è particolarmente intenso e complesso, ma sempre finissimo ed elegante seppur monocorde su fiori secchi ed appena accennate note iodate sul finale. Il 1996 è stata un’annata eccellente, a sentir Cotarella forse la migliore sino ad oggi prodotta al Castello e perdipiù particolarmente sottovalutata all’epoca, curioso come Renzo ci tenga a sottolineare quanto sia sorprendente per lui assaggiare bottiglie di questo millesimo, del bianco di punta in particolare, il Cervaro della Sala, che riesce costantemente a strappare grandi consensi unanimi al di sopra di ogni confronto con altri millesimi pur prestigiosi tirati fuori dalle tenute del Marchese Antinori. Colore e spettro cromatico inattaccabili, al naso come in bocca offre frutto e compostezza per tutta la degustazione, forse oggi nel suo momento migliore di degustazione.

Un salto di almeno otto anni ci consegna nel bicchiere il 2004, caratterizzato da un naso estasiante di fiori secchi, frutta disidratata ed erbe officinali che chiude su note iodate abbastanza marcate che delineano un spettro olfattivo di gran lunga più elegante e complesso di tutte le annate precedenti, pur rimanendo il ’91 una grande sopresa. In bocca è dolce ma costantemente fine ed elegante, delicatamente sapido. Si chiude con un delizioso 2006, il più giovane della batteria e quello attualmente in commercio, caratterizzato da un colore oro cristallino e perfettamente limpido. Il naso è ampio e fragrante, dolce di frutta bianca polposa e caramellato quanto basta, iodato sul finale. In bocca mostra una decisa dolcezza, sempre in equilibrio e mai stucchevole, ottimo il finale composto e delicatamente minerale.

Una bellissima avventura in sette annate tutte da ricordare, appuntare, godere. Un viaggio entusiasmante nella più profonda tradizione viticola entro le mura del Castello della Sala e al tempo stesso un’impressionante conoscenza della più moderna tecnologia oggigiorno a disposizione nelle cantine nuovissime di una delle tenute più suggestive e all’avanguardia della famiglia Antinori; l’antico che incontra il nuovo in un moto continuo, in effetti cos’è in sintesi il vino se non un moto perpetuo assoggetato alla conoscenza dell’uomo ed alla clemenza del tempo?

P.S.: le foto delle etichette sono di Monica Piscitelli.

Loreto Aprutino, il Trebbiano 2003 di Valentini

26 aprile 2010

Ci sono certi vini pronti a stravolgerti, sono lì ad aspettarti al varco; tu giochi a fare il ricercatore di sensazioni uniche, volgi lo sguardo altrove e loro sono pronti a scommettere di poterti smentire, addirittura a mani basse. Allora cosa fai? Continui a cercare e qualche volta trovi, bevi, a volte troppo, e credi di aver capito, ci cammini anche le vigne per essere certo di aver ben compreso, ma non hai fatto i conti con l’inatteso, appena dietro l’angolo, così pur rimanendo affascinato da certe sirene rimani della convinzione che c’è qualcosa che non va. No, ti sbagli, è la madre terra, che pulsa ogni volta in maniera nuova, e qui lo senti in ognuno dei sorsi del Trebbiano di Valentini: il 2003 pare a tratti cantare la vigna, la sua unicità!

L’azienda del compianto Edoardo, scomparso di recente, è oggi nelle mani di Francesco Paolo Valentini, è ubicata a Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, e si estende per circa duecento ettari di cui sessantaquattro interamente votati alla vite ed altri cinquanta circa destinati alla coltivazione delle olive. Per il giovane Francesco Paolo non è stato certo facile raccogliere l’eredità di un monumento della vitienologia italiana come è stato il padre, in verità non sempre osannato dalla grandeur mediatica specializzata ma pur sempre un uomo che ha fatto la storia, con idee proprie ed uno stile non certamente comune soprattutto in anni durante i quali la maniacale ricerca del vino era del tutto sintetizzabile nella semplice replicabilità e votata all’esile bevibilità, in particolar modo in riferimento ai vini bianchi, parametri questi assolutamente distanti, da sempre, dall’idea di vino della famiglia Valentini.

Il Trebbiano d’Abruzzo rappresenta perlopiù il vino di maggiore produzione dell’azienda, esemplare anche nell’esecuzione di altri due tradizionali vini abruzzesi come il Montepulciano ed il Cerasuolo d’Abruzzo, quest’ultimo davvero particolare soprattutto per l’estrema longevità dimostrata negli anni. Il Trebbiano 2003 ha un colore giallo paglierino con riflessi nettamente dorati e gode ancora di buona luminosità. Il naso non è immediatamente complesso ma lasciandolo respirare soprattutto ad una temperatura di servizio ottimale (12-14 gradi) offre un ventaglio olfattivo davvero delizioso, ampio e variegato, con sentori floreali e fruttati, su tutti fiori di ginestra ed esotiche nuances di ananas, poi ancora albicocca matura, note di burro di nocciola. In bocca è superlativo, al gusto mostra gran carattere, il 2003 è ricordato come un millesimo piuttosto caldo e questo vino in particolare ne ha sofferto soprattutto in fase di maturazione delle uve che sono state raccolte con un deciso ritardo sul calendario vendemmiale. Ciononostante il palato è pervaso da una gradevolissima vivacità gustativa, la beva è ampia, piuttosto grassa eppure fresca ed equilibrata, il finale di bocca risulta copiosamente avvolto in sensazioni salmastre ed accenna un ritorno di frutta candita.

Un grande bianco da bere su piatti importanti, la più grande qualità di un vino del genere sta nella capacità di sostenere benissimo abbinamenti diversi, anche durante tutta una cena, l’intuizione sta nel giocare sapientemente con le temperature di servizio. Fresco sui 10-12 gradi con antipasti di pesci, scottati ma anche salsati, oppure su primi piatti dai sapori iodati (es. con ricci di mare), oppure spingendosi oltre sino ai 14 gradi se si vuole inseguire l’approccio a carni bianche o arrosti di pesce. Un ultimo consiglio, scaraffarlo, se ne gioverebbe non poco!

Questo vino è il nostro vino bianco dell’anno.

Professione Sommelier, pillole di buona Francia

24 aprile 2010

No, non è una foto d’antan, ho solo sbagliato a non resettare la funzione “agè” della macchina digitale in dotazione. Da sinistra: Fabio Raucci (L’Olivo Restaurant Manager), Agostino Roberto, Marco Del Garbo, Fabio Di Costanzo, Albino Filippo e Yannick Kovac (Wijn Makelaarsunie), io, Pietro Di Palma, Fabio Vullo, Gennaro Caiazzo.

L’idea ci è venuta qualche mese fa, pensando all’opportunità di organizzare un laboratorio-formazione per lo staff del Capri Palace potendo contare sulla qualità professionale ed umana di Albino Filippo e Yannick Kovac, Directeur di Wijn Makelaarsunie Olanda il primo,  una delle compagnie leader della distribuzione vini in nord Europa, e pregiato Master of wine francese il secondo, grande professionista e pure simpatico nonchè appassionato assertore della grandezza dell’aglianico come uno tra i vitigni principi italiani (ruffiano 🙂 ).

L’appuntamento: ci siamo così riuniti un pomeriggio di un giovedì d’Aprile, queste giornate di tiepida primavera sono lavorativamente parlando, abbastanza tranquille, seppur gli orari di lavoro rimangono comunque gli stessi, ecco pertanto che abbiamo dovuto incastonare questo momento di alta formazione nelle due ore che quotidianamente dedichiamo al riposo mentale e fisico, l’agognato volgarmente detto “spezzato”.

L’obiettivo: Manager, Sommelier, Chef de Rang, Commis, chiamati all’appello per ascoltare, conoscere, approfondire, scoprire, sapere, bere, tradurre, finalmente capire.

Ecco le mie personali note di degustazione colte durante i lavori e sviluppate anche grazie alle preziose notizie di Albino Filippo e Yannick Kovac. Quale vino il migliore? Fate Vobis…

Sancerre Chevignol 2008 François Cotat bianco sicuramente poco incline al gusto di molti, dal colore molto scarico, verde decisamente pallido. Il naso è subito vegetale, nota di peperone verde, menta piperita, poi fruttato di mela cotogna. Gli bastano però pochi minuti nel bicchiere per virare decisamente su note terziarie anche piuttosto complesse e particolari, vicine a sentori del tipo idrocarburi. Notevole la spalla acida e la mineralità che profondono il palato sul finale di bocca.

Mersault Les Poruzots 2006 Henri Boillot Grandioso bianco! Basterebbero queste due sole parole a definirne l’entusiamo che ha accolto questo straordinario chardonnay borgognone. Merito del terroir non v’è dubbio, ma anche dell’annata 2006 che è stata piuttosto fresca, i bianchi borgognoni se ne giovano parecchio quando il clima rimane costante  e non soffre di picchi di canicola come per esempio è capitato nel 2005. Henri Boillot è un Negotians, ovvero possiede anche diverse particelle di vigne in Meursault ma non del 1er cru Les Poruzots pur curandone in maniera maniacale la selezione delle uve, rimane infatti uno dei più grandi conoscitori ed interpreti di una terra meravigliosa. Bellissimo il colore paglia, splendente; il naso è mastodontico, caldo ed avvolgente, erbaceo, floreale, fruttato, speziato: è menta, è ananas, è mango, è timo limone, vaniglia, grafite, ho dimenticato qualcosa? In bocca è grasso, voluminoso ma fresco, profondo e delicato, accattivante ed avvincente. Chapeau!

Gevrey Chambertin Les Evocelles 2005 Philippe Charlopin-Parizot Ecco l’altra faccia della medaglia: annata calda la 2005,  in Cote de Nuits se ne sono avvantaggiati i rossi, arricchiti soprattutto da un frutto più voluminoso, quasi polposo lasciando in degustazione un ruolo non certo di secondo piano ai tannini ma comunque meno invadenti del solito. Il Pinot Noir è risaputo è una gran bestia nera ovunque nel mondo, non certo a casa propria e non certo in una delle appellations più vocate per la sua coltivazione. Il colore è avvincente, piuttosto atipico con la sua vivacità così espressiva, ma è tipico del lavoro del vigneron che addirittura nelle annate più calde, 2003 su tutte, non usa nemmeno il legno per affinare i suoi Pinot, il sole fa già un gran bel lavoro di riduzione delle asperità; piccoli frutti rossi e neri al primo naso. Lamponi, ribes, solo sul finale sensazioni lievemente tostate. Palato assolutamente appagante, consistente, di una eleganza e finezza inaudita in un vino di cotanta freschezza.    

Pauillac Reserve de la Comtesse de Lalande 2005 Chateau Pichon-Longueville Bordeaux non è poi così lontana, o sì. Inutile nascondere che la crisi economica mondiale ha dato un bel colpo di assestamento al mercato dei Premier cru di Bordeaux, ed ecco che si affacciano con sempre maggiore crescita qualitativa ottime opportunità di investimento sui secondi e terzi vini di alcuni chateaux girondini: la reserve de la Comtesse de Lalande 2005 pare essere una di queste, tenete presente che certi secondi vini dei millesimi 2005 e 2006, in particolare il Carruades de Lafite-Rothschild o Les Forts de Latour sono praticamente apparsi come meteore sul mercato poichè andati letteralmente a ruba. L’eccezionale bontà dell’annata 2005 a Bordeaux ha fatto il resto. E’ composto dal 45% Cabernet Sauvignon, 35% Merlot, 12% Cabernet Franc e 8% Petit Verdot: un vino molto immediato, con note olfattive adirittura quasi vinose prima di divenire vegetali e fruttate intense e persistenti, sentore di peperone rosso e mirtillo, poi note balsamiche e tostate. In bocca è persuasivo, avvenente, asciutto e profondo. Finale di bocca caldo, appena al di sopra della soglia della perfezione la nota alcolica percepita, un ottimo bordolese. 

Sauternes 2001 Chateau d’Arche Non certo il vino per cui morire, nel senso che è certamente un buon Sauternes ma è altrettanto certo che dista anni luce da certi “conterranei” nettari della più affascinante appellations girondina. Prodotto da uve semillon, sauvignon e muscadelle offre una trama cromatica molto bella, oro splendente. Offre un bel ventaglio olfattivo giocato tutto su note di frutti candidi e piacevoli nuances mielose, in bocca è dolce seppur manifesti una discreta acidità, qualità che l’aiuta non poco a non affogare nella stucchevolezza ad ogni sorso sempre latente.

Conclusione: E’ stata senza ombra di dubbio una gran bella esperienza soprattutto gustolfattiva, full immersion proposta con elegante fermezza e maestria dai nostri educatori nonchè molto sentita dallo staff tutto che così ha avuto opportunità di respirare a pieni polmoni di un po’ di terra d’oltralpe di prim’ordine.

Adesso però mi (ci) sta frullando per la testa un’altra idea, più ambiziosa e dedicata a tutti i colleghi professionisti della regione, ma questa potrà prendere forma e sostanza solo a fine stagione, a bocce tranquille; per adesso schiena dritta, mento alto e, come si dice “non perdiamoci in dislin gui sconsi e… andèm a laurà!”

© L’Arcante – riproduzione riservata

Montefalcione, Vino della Stella 2009 Joaquin

23 aprile 2010

Chisto è pazzo! Inutile nasconderlo, è stato il primo pensiero che mi ha assalito quando l’ho conosciuto, a Capri, un mattinata estiva di giugno quando mi è venuto a trovare al Capri Palace per lasciarmi un saluto.

Era sull’isola azzurra con il suo enologo Sergio Romano per “visionare” alcuni vigneti dai quali trarre spunto per un nuovo progetto, molto ambizioso (oggi di prossima uscita, del quale però ne parlerò tra qualche settimana) per dare nuova linfa ad una viticoltura isolana un tantino assopita negli ultimi decenni. In effetti a guardar bene le idee messe in campo negli ultimi quattro anni da Raffaele nel suo personalissimo arcipelago Joaquin, l’ambizione, e in taluni casi la sfrontatezza, sembrano essere l’essenza vitale che riesce a tenere ancora labile la sottile linea che passa velocemente tra l’estrema ratio costruttiva del Pagano vigneron alla totale impulsività, ecco la pazzia, dell’artista creativo che rincorre l’opera perfetta e non esita a cercarla.

Raffaele è un vulcano in piena eruzione, e come un vulcano difficilmente accetta ostacoli insormontabili, le sue sono intuizioni folgoranti e idee talvolta estreme ma pur sempre espressioni di un ideale proprio, vero, autentico; Prendete ad esempio la vinificazione in bianco dell’aglianico, qualcuno ha fatto proclami, anche fuori regione, del proprio azzardo, ma in effetti di aglianico in certi vini vi era una bassissima percentuale, giusto quella per far gridare alla geniale primogenitura. “L’unico bianco con base 100% aglianico (di Taurasi!) è I Viaggi 2006 di Joaquin, perché io non credo alle mezze misure, ma, se vi sono, alle reali opportunità”. Non vi basta? Pensate allora all’utilizzo dei legni per la fermentazione e/o l’affinamento dei vini bianchi: in genere cavalcando l’onda di “tutti pazzi per il rovere” ne abbiamo visti di tutti i colori, a volte scempi inauditi, il Pagano s’impone di usare l’acacia, perché? “Perché è più prezioso, cede poco o niente al vino e pertanto il mosto che ci finisce dentro deve averne di carattere per uscirne glorificato”; non ha tutti i torti, il legno, come spesso ripete anche Luigi Moio, è un mezzo, non il fine, ma da questo malinteso di fondo in molti per troppo tempo hanno pensato alla barrique non come strumento di valorizzazione ma come artefice di caratterizzazione, un errore tra i tanti, che hanno fatto passare per buoni certi concetti stereotipati e vecchi già prima di nascere.

Il Vino della Stella 2009 è un Fiano di Avellino (in questi giorni in commissione d’esame della docg in attesa di approvazione), nasce dalle vigne in Montefalcione, sul versante che affaccia su Lapio (nello specifico, in linea d’aria, proprio di fronte alle vigne giardino di Clelia Romano), vendemmiato, per essere precisi, il 27 di Ottobre 2009 da un appezzamento di circa un ettaro e mezzo che ha dato solo 6620 chilogrammi di uve fresche, vinificate esclusivamente in acciaio (in serbatoi costruiti su richiesta in formato 1 a 1, vale a dire con superficie di contatto delle bucce quanta più ampia possibile) e dalle quali si sono ottenuti circa 4700 litri di vino, più o meno 6200 bottiglie circa.

E’ un vino intrigante, veste di giallo paglierino tenue ma di ottima vivacità, il naso ha bisogno di tempo, per cui lo lasciamo scorrere nel bicchiere e ad ogni sniffata ci accorgiamo della leggera virata, dall’erbaceo iniziale al floreale e fruttato conseguente, spiccate le note verdi che ricordano l’erba falciata, ma appena dopo un po’ ancora più affascinanti i profumi di melone bianco e fiore di tiglio che richiamano l’idea di un vino in continuo divenire. In bocca è secco, l’ingresso è fresco ed abbastanza caldo, cerco conferma della sua struttura alcolica e ne ho certezza, sopra i tredici e mezzo, eppure gradevolissimo. Adesso la temperatura è più alta e le note olfattive entrano in una orbita più fragrante rimarcandone piacevoli sensazioni dolci e morbide.

E’ certamente un azzardo delinearne adesso un profilo organolettico ineccepibile, lungi da me, ma credo sia un vino di buona stoffa, e tra qualche tempo sarà capace di esprimere un equilibrio ed una piacevolezza da vero campione, e senza dover aspettare due-tre anni dalla vendemia: ecco, ci sono! Forse questo fiano di Avellino non possiederà una prospettiva verticale assoluta ma dona certamente di sé già una immagine diversa dalle rincorse alle mineralità alsaziane o dalle sfaccettature tropicali di certi fiano cotti dal sole: ma certo, la terza via, possibile che esista una terza via che si divincoli dalle acidità marcate o svolti drasticamente dalle morbide curve dell’obesità californiana? 

Il Sagrantino non è un vino per signore…

21 aprile 2010

Anche quest’anno si è svolto il Sagrantino Day International che ha visto, in contemporanea in tutto il mondo, i sommeliers AisWSA delle varie delegazioni territoriali tenere laboratori di degustazione e banchi di assaggio dei vini di Montefalco ed in particolare del vitigno più austero e tra i più autentici d’Italia, il Sagrantino. Tantissime le tappe su e giù per l’Italia, in Campania l’evento è stato organizzato dalla delegazione Ais della Penisola Sorrentina in quel del Crowne Plaza di Castellammare di Stabia dove ho avuto l’onore di parteciparvi come relatore assieme alla “padrona di casa” Nicoletta Gargiulo, Gianni Aiuolo e Salvatore Correale, con i quali, guidati dal presidente regionale Antonio Del Franco ed il giornalista de Il Mattino Luciano Pignataro, abbiamo raccontato i vini in degustazione selezionati per noi dal Consorzio Tutela vini di Montefalco.

Il più nobile dei rossi di Montefalco  non è un vino per signore, e questo è un dato di fatto, a meno che, certe signore non abbiano che ricercare profumi e sapori forti, autentici, maschi! E’ un vino di grande struttura ottenuto esclusivamente da uve Sagrantino e grazie al ricchissimo corredo di polifenoli e di tannini, questo vino ha una longevità straordinaria ed esprime sin dalla sua giovane età tratti caratteriali inconfondibili che spesso l’accompagnano per tutto il corso della sua vita. Trascorre perciò, di norma, un lungo periodo di affinamento/invecchiamento, sino ai 30 mesi, prima di essere commercializzato.

Queste le mie impressioni sui vini presentati al panel di degustazione di Castellammare di Stabia, ho volutamente escluso dall’analisi il passito, siceramente “non pervenuto”:

Montefalco Sagrantino Taccalite 2006 Tiburzi Colore rubino piuttosto trasparente, il primo naso è incentrato su un frutto spiritoso ma molto gradevole, polposo che non manca di esprimere una certa riconoscibilità varietale. In bocca asciutto, austero, tannino in primo piano, sapore intrigante giocato su di una freschezza appena sormontata dalla carica glicerica. Non lunghissimo il finale di bocca, alla fine si rivekerà il meno convincente della batteria.

Montefalco Sagrantino 2006 Di Filippo Colore rubino abbastanza carico, poco trasparente. Il naso è molto interessante, floreale e fruttato, balsamico e speziato, caratterizzato da mora e ribes nero ed un delizioso rincorrere di percezioni dolci di liquerizia. L’annata 2006 è stata caratterizzata da un inverno freddo ed asciutto che ha comportato un germogliamento piuttosto tardivo per il varietale. Anche l’estate è stata caratterizzata da intense giornate piovose, ma il periodo di maturazione dell’uva sino al raccolto è stato costantemente caldo ed asciutto pertanto il frutto non ne ha risentito più di tanto anche se si esclude un’annata a cinque stelle. Chi ha saputo lavorare bene in cantina ha tirato fuori un Sagrantino integro, con strutture certamente non all’altezza delle annate più regolari ma comunque rappresentative del vitigno, godendo magari di una minore tannicità espressa nel vino. Ottima beva questa di Di Filippo, finale di bocca armonicamente equilibrato.

Montefalco Sagrantino 2005 Rocca dei Fabbri Una volta svelate le bottiglie ed annunciati i vini sono rimbombate in sala voci ed espressioni del tipo “lo sapevo, è lui, come si fa a non riconoscerlo?” o affermazioni tipo “non poteva esser che lui!”. In effetti quello di Rocca di Fabbri è il vino che tutti (o quasi) abbiamo subito associato alla piacevolezza, alla rotondità, alla maggiore predispozione alla beva rispetto agli altri vini in batteria, più crudi, austeri, pur nei limiti di alcuni di essi, decisamente Sagrantino. Il colore è di un bel rubino tendente al granato con sfumature aranciate sull’unghia; Il naso è intenso ed abbastanza complesso, frutta macerata e lievi note di cannella aprono il ventaglio olfattivo, fine ed abbastanza elegante. In bocca è secco, senza dubbio caldo, rotondo e piacevole, quasi masticabile per la dolcezza del frutto. Il finale è lungo, avvolgente, una carezza inattesa da una mano tesa in un pugno deciso.  

Montefalco Sagrantino 2005 Scacciadiavoli Il colore è molto invitante, rosso rubino netto, cristallino, abbastanza trasparente. Il naso offre un bel ventaglio olfattivo che va dai fiori rossi a piccoli frutti rossi e neri e note balsamiche, solo a tratti speziate. Anche qui è emblematico il riconoscimento di mora e di ribes nero, sfumature di inchiostro e chiodi di garofano. In bocca mostra un bel caratterino, è secco, a dir poco asciutto, il tannino accompagna tutta la beva e si guadagna certo un ruolo da protagonista sino alla fine, quasi graffiante. Un vino imperdibile per chi ama le durezze, una gran bella sfida degustativa da maritare a piatti grassi ed aromatici, ad una cucina schietta e sincera.

Montefalco Sagrantino 2004 Terre de’ Trinci Il 2004 a Montefalco è stata una annata caratterizzata da una straordinaria piovosità, acqua abbondante sino a primavera che ha ritardato la ripresa vegetativa delle viti e ne ha rallentato l’andamento, ecco perchè alla fine, in epoca vendemmiale, si è dovuto attendere sino alle tre settimane per portare a termine la raccolta protratta sino alla fine di ottobre. Tutto ciò non ha consegnato certo una vendemmia a cinque stelle, ma ha comunque consentito di avere una materia prima più “docile” e chi ha saputo interpretarne al meglio le caratteristiche ha tirato fuori comunque un ottimo prodotto da consegnare al mercato, per qualcuno più fine ed elegante delle vendemmie successive degustate, anche se non posso non sottolineare che per finezza ed eleganza, a parlar di Sagrantino, c’è da mettere quasi sempre le mani avanti: escludiamo infatti certi parametri comuni a tante altre uve nel nostro paese poichè non certo facilmente riscontrabili nelle primissime caratteristiche di un vitigno come il Sagrantino, che vuole essere sempre e comunque un vino uguale a se stesso: possente, importante, dal carattere superbo e senza mezze misure. Non un vino per signore insomma! Il vino di Terre de’ Trinci, una delle prime aziende a credere nel potenziale del Sagrantino vinificato secco, mi è piaciuto molto, dal colore splendente, dal naso lieve ma costante, orizzontale, dal gusto deciso, asciutto ma corroborante e non aggressivo, con un finale equilibrato e dalla beva armonica.

Il Sagrantino Day è una manifestazione certamente originale voluta fortemente dal Consorzio di Tutela dei Vini di Montefalco e che vede l’Ais promotore e comunicatore di grande qualità, devo dire che l’ambiente in cui ci siamo mossi lo scorso lunedì 19 Aprile concedeva un gran bel colpo d’occhio a chi vi ha partecipato. Queste le etichette oggetto della degustazione (foto Giovanni Lamberti). Come sempre, comunicare il vino con tutto l’amore (e la professionalità) possibile!

Trento, una giornata tra i masi trentini a camminar le vigne, raccogliere storie…in Ferrari!

16 aprile 2010

Ho da tempo imparato a misurare, nel senso letterale del termine, l’amore per il vino; qualche amico, ridendo con scherno ha sempre avanzato come ipotesi (a dire il vero una delle più plausibili) un metro a suo dire infallibile, del tipo “a litri”, o quantomeno a bottiglie.

Mi spiego meglio: più si ama un vino e più se ne beve, più se ne beve e più se ne racconta un gran bene. Io dal canto mio, avendo da tempo recuperato la coscienza nel rimanere appena al di sotto della sottile linea dell’ebbrezza, ho cominciato a misurare, sempre nel senso letterale del termine, la mia passione per il vino in grassi chilometri; più se ne macinano per esso e più ci si può ritenere innamorati, più vigne si camminano e più si alza l’indice di probabilità di poterne capire qualcosa, almeno si spera.

Dieci ore, filate, oltre ottocento cinquanta chilometri, tanto è bastato (per qualcuno c’è voluto!) per raggiungere casa Ferrari in quel di Trento, o meglio, ad un tiro di schioppo dal suo centro storico, in località Ponte di Ravina. Partenza ore 5.45 da Pozzuoli, tra le mani una Alfa 159 jtd prestante ma nella mente siamo costantemente stizziti dal controllo elettronico della velocità; una breve sosta (un’ora tonda!) in Roma, zona raccordo anulare per prelevare alcuni amici, e subito di nuovo direzione nord. Arriviamo “puntuali” alle 15.45, con solo due ore di ritardo: l’importante è dare adito alla migliore prospettiva possibile, quantomeno una giusta interpretazione al proprio punto di vista. Simmo e’ Napule o no?

Trento, Località Margone, tra le pergole trentine del Maso Margon.

Ci accoglie Franco Lunelli, il ragioniere dei fratelli, si dimostrerà una delle più belle e cordiali persone che abbia mai incontrato sulla mia strada del vino negli ultimi quindici anni. Non ci lascia nemmeno il tempo di respirare che è già ora di arrampicarsi su per i masi, ci fa segno di seguirlo e non possiamo fare altro. Ci conduce a Villa Margon, la tenuta dei primi del ‘500 che la familgia Lunelli ha avuto in donazione, con l’obbligo morale di preservarne lo splendore dal fu Baron Salvadori che l’ha abitata sino al 1970. Un luogo d’incanto, ameno ma dal grande fascino, le stanze della villa come un vero e proprio museo, arricchite come sono da dipinti dal valore inestimabile e da una collezione di raffigurazioni murali in perfetto stato di conservazione che riprendono tra le altre cose le gesta dell’imperatore Carlo V e del vecchio e nuovo testamento. Un bel colpo d’occhio, e di cultura.

Una curiosità. Le nuove barbatelle, una volta innestate, vengono rassicurate con delle speciali protezioni in rete per evitare che le prime fioriture vengano “rubate” dai Cerbiatti che scendono dalla montagna per cibarsene.

Ci spostiamo in cantina, inutile raccontare la mastodonticità di certi ambienti ed attrezzature, nonchè della mole di lavoro quotidianamente svolta tra queste mura, per un colosso del vino italiano appare quasi scontato l’esigenza di una tecnologia assolutamente avanti ed una organizzazione perfettamente sinergica. I caveaux invece sono un’altra cosa, qui si respira aria di storia e tanta lentezza, quella necessaria per far nascere vini unici e straordinari, puro spettacolo per gli occhi di oggi, nettari prelibati¤ per i palati di domani. Anche qui un piccolo museo allestito tra le centinaia di migliaia di bottiglie in maturazione sui lieviti racconta della storia dell’azienda e della famiglia, quella di Giulio Ferrari prima, di Bruno Lunelli poi, e di come nasce e si consolida nel mondo il metodo classico prodotto nelle loro cantine.

Ci accomodiamo a questo punto nella sala degustazione, Franco Lunelli, che conduce personalmente il servizio dei vini per i convenuti, ci racconta della sua esperienza in cantina e dei suoi primi passi quando rifuggiva dalle commesse impartite dalla mamma per raggiungere il papà nella mescita allestita nel pieno centro di Trento, della sua passione e del mondo Ferrari, senza ombra di dubbio, uno dei marchi del vino italiano più apprezzati nel mondo; rimaniamo rapiti dalle sue storie, dal blasone conquistato sul campo, dai vini concessi in degustazione, delle gran belle bevute: in sequenza, Chardonnay Villa Margon 2007, Perlè 2004, Riserva Lunelli 2002, Perlè Nero 2002 e, dulcis in fundo, dopo appena una parentesi dedicata alla nuova tenuta in Montefalco, il Giulio Ferrari Riserva del Fondatore¤2000. Ma questa è un’altra storia, da raccontare in un prossimo post.

C.mmare di Stabia, Sagrantino day al Crown Plaza

12 aprile 2010

Torna in scena l’appuntamento con il “Sagrantino Day International 2010”, l’evento organizzato dal Consorzio Tutela Vini Montefalco in collaborazione con l’AIS e la Worldwide Sommelier Association, giunto ormai alla sua 4° Edizione.

La manifestazione sarà presentata al prossimo Vinitaly durante la conferenza stampa “Sagrantino Day International 2010 – L’autoctono di Montefalco fa il giro del mondo con l’Associazione Italiana Sommelier”, che si terrà Venerdì 9 Aprile alle ore 11,00 presso la sala A, Centro Servizi Brà (PAD. 8/9). A seguire una degustazione guidata di 6 Montefalco Sagrantino D.O.C.G., organizzata in collaborazione con Enoteca Italiana e condotta dal Vice Presidente Nazionale AIS Antonello Maietta. Le sedi che lunedì 19 Aprile, ore 19.00, ospiteranno in contemporanea mondiale le degustazioni sono 34, in particolare in Italia si dislocheranno nelle città di Abano Terme, Pescara, Aosta, Arezzo, Belluno, Genova, Reggio Calabria, Modena, Siracusa, Montefalco, Casamassima (Ba), Castellammare di Stabia (NA), Torino, Olbia, Udine, Potenza, Roma, Treviso, Varese, Venezia, Rovigo, Verona, Firenze, Savona, Crema, Rovereto, Isola d’Elba, La Spezia, Pesaro, Isernia mentre all’estero sono state selezionate prestigiose sedi nelle capitali europee Londra, Amsterdam, Bruxelles ed infine in Lussemburgo.

Per la sessione di Castellammare di Stabia, lunedì 19 Aprile alle ore 19.00, le degustazioni saranno a cura di Nicoletta Gargiulo, Primo sommelier della Campania e d’Italia 2007, Angelo Di Costanzo, Primo sommelier della Campania 2008 e Salvatore Correale Primo Sommelier Campania 2009. Aprirà l’evento un saluto di Antonio Del Franco, presidente Ais Campania e la presentazione a cura del relatore Gianni Aiuolo.

Per informazioni generali relative all’adesione e/o partecipazione all’evento di Castellammare di Stabia contattare la responsabile di delegazione dell’associazione sommeliers Campania: Delegazione Ais Penisola Sorrentina
Via Campanella 51 
80061 Massa Lubrense (NA)
tel. 081/8081686 – cell. 338/6398521
nicolettagargiulo@irgilio.it

Per informazioni generali invece, e per avere gli indirizzi delle varie sedi sparse in Italia e nel mondo, contattare gli uffici del Consorzio Tutela Vini Montefalco al numero di tel./fax. (+39) 0742/379590 oppure mezzo email a info@consorziomontefalco.it .

Vinitaly, alcune buone ragioni per esserci stato

10 aprile 2010

Di ritorno a Verona dopo quattro anni. Ho raccolto queste impressioni, del tutto personali.

Prologo: in verità Vinitaly e la partecipazione all’evento è stata una scusante, nel senso di un buon motivo per ritornare nella fatal Verona; Venire al Vinitaly è stato per alcuni anni un grande entusiasmante viaggio alla scoperta ed alla ricerca di tante buone bevute, da condividere con amici, sommeliers, compagni, amori. Rifuggire tra gli stands dei padiglioni scaligeri era un divertimento ed una goduria (apparentemente) incredibilmente costruttiva: all’epoca. Poi è divenuto quasi un lavoro, a dire il vero una faticaccia, ed ecco che mi ci sono un tantino allontanato. Quest’anno il ritorno, dopo quattro vendemmie, di striscio ma non spocchioso, ho preferito approfondire prima alcuni altri argomenti da sempre a me cari, come per esempio camminare le vigne, quelle del Trento doc e del Franciacorta, Trentino quindi e Lombardia, ma comunque fermo e convinto a portare il risultato a casa: buone nuove, conferme, smentite. Nessuno slogan, ne snobismo, solo tempi più giusti ed obiettivi mirati. Questo in pillole, in ordine assolutamente sparso dovuto al continuo passaggio tra un padiglione e l’altro, il resoconto di alcuni assaggi meritevoli di attenzione che non mancherò di approfondire su queste pagine nei prossimi giorni.

Fiano di Avellino Vino della Stella 2009 di Raffaele Pagano-Joaquin, l’unico vino campano in questa batteria ma solo perchè è veramente l’unico che ho bevuto appena prima di partire nel mentre ero già sulla via del ritorno: Raffaele, forse, è un matto, ma la stima che ho di lui e per il suo alacre impegno si rinnova ogni volta di più; E’ un gran bel vino, da attenzionare nei prossimi mesi. In uscita ad Ottobre, forse. I Vermentino, tutti, della famiglia Isoni di Pedra Majore, in particolare il Vermentino di Gallura Superiore Hysony 2008 e il passito dolce Mjuru, eccellente il primo, stratosferico il secondo. Cannonau di Sardegna Jerzu Riserva 2005 di Alberto Loi e dello stesso produttore l’isola dei Nuraghi rosso Tùvara 2005, blend di Carignano, Cannonau e Muristeddu, davvero impressionante per tipicità e complessità. Poi, un vino raccomandato la sera prima dal bravo patron e sommelier Massimiliano Peterlana dell’Osteria “a le due spade” di Trento, il Vallagarina Marzemino 2007 di Eugenio Rosi, grande frutto ed equilibrio gustativo. Poi, il Veltliner 2008 di Nossing, il Sauvignon 2008 di Falkenstein, il Sauvignon Voglar di Dipoli, il 2007 più del 2008, ancora in divenire. Stupendo il passaggio in Colterenzio, 14 vini, più di un’ora di degustazione, in privato, con il disponibilissimo Martin che solo alla fine ci rivela di essere l’enologo dell’azienda: che esperienza conoscitiva! A parte i Lafòa ormai sulla bocca di tutti, ho molto apprezzato il Pinot Bianco Cornell 2007, estremamente varietale, quasi didattico e giovanissimo, poi lo Chardonnay Cornell 2007, il Sauvignon Prail 2009, il sempre amato Lagrein Riserva Sigis Mundus versione 2006 ed il sempre difficilissimo Blauburgunder che proprio non ne vuole sapere di moderare la possenza, anche nel base Mantsch 2007! Un breve passaggio in Toscana, per salutare alcuni amici ed in particolare Luciano Ciolfi di Podere Sanlorenzo che sta facendo un gran bel lavoro in quel di Montalcino: da provare il Brunello Bramante, ancora il 2004 nonostante sia già fuori con il 2005. Buonissimo il Rosso di Montalcino 2007, ad avercene ancora, uno dei più gradevoli assaggiati in fiera. E la Campania? beh, quella la porto nel cuore, non devo mica arrivare a Verona per berne il nettare; Poi ancora bollicine, quelle buone, vigne e cantine stratosferiche e cucine e piatti creativi (maddechè!); Rimanete collegati, ne leggerete delle belle.

Sarà che Vinitaly è ormai un gran carrozzone, ma a quanto pare non si smette mai di salirci sopra, a torto o a ragione?

C’è del nuovo a L’Olivo: coda di astice allo zafferano con lenticchie nere e fave di cacao, 2010

4 aprile 2010

  • Ingredienti: per 4 persone
  • – 4 code di astice
  • – 100 foglie di spinaci di media grandezza

Preparazione: legare l’astice in maniera da evitare che si pieghi su stesso durante la cottura e passarlo per non più di un minuto nel court bouillon; Ultimata la cottura, lasciarlo raffreddare, separare la coda dalle teste ed eliminare le carcasse. Avvolgere accuratamente le code di astice con la preparazione allo zafferano e pesce avendo cura successivamente di avvolgere il tutto nelle foglie di spinaci che avrete sbollentato e raffreddato precedentemente.

Ingredienti per la zuppetta di lenticchie nere di Lenforte:

  • – 500 gr lenticchie nere di Leonforte
  • – 60 gr di carote tagliate a brunoise
  • – 60 gr sedano tagliate a brunoise
  • – 50 gr scalogne tagliate a brunoise
  • – 2 spicchi aglio
  • – 10 pomodorini di Corbara
  • – 40 gr aceto di Xeres
  • – 200 gr fondo di pollo
  • – 800 gr brodo di pollo
  • – 60 gr colatura di alici
  • – 2 foglie alloro
  • – 2 rametti timo al limone
  • – burro freddo e fave di cacao q.b.

Ingredienti per la farcia allo zafferano:

  • – 400 gr ritagli di pesce bianco preventivamente sbollentati e diliscati
  • -1 albume d’uovo
  • – 5 gr di sale fino
  • – 60 gr panna fresca
  • – 10 gr di Martini dry
  • – 2 buste di zafferano in polvere
  • – 100 gr di panna fresca

Preparazione della farcia allo zafferano: mischiare i ritagli di pesce con albume, sale, il Martini dry, la panna e lo zafferano, congelarli per almeno 12 ore in un contenitore del Pacojet, per la preparazione prima del servizio, coprire fine al bordo con panna fresca e passare la farcia due volte nel Pacojet per renderla omogenea e soffice.

Ingredienti per la gelatina all’aceto di Barolo:

  • – 200 gr di acqua
  • – 100 gr aceto di Barolo
  • – 6 gr di agar agar (addensante)
  • – 1 gr di sale fino
  • – 3 fogli di gelatina

Per la pennellata di cioccolato:

  • – 100 gr cioccolato Guanaja
  • – 50 gr acqua

Per il servizio: predisporre in un piatto piano bianco la coda di astice tagliata in tre-quattro parti a seconda della sua grandezza, posizionare il tutto centralmente nel piatto, nella parte superiore del piatto predisporre le lenticchie nere in maniera parallela agli anelli appena sovrapposti di coda di astice, unendovi alcuni cubetti di gelatina al Barolo, in quella inferiore invece verrà eseguita la pennellata di cioccolato.

Il confine tra i sapori di questo piatto è meno lontano di quanto appaia, provare per credere! 

Per gentile concessione di Oliver Glowig , Executive chef del ristorante L’Olivo del Capri Palace Hotel&Spa.

Suvereto, Redigaffi ovvero mister Merlot

4 aprile 2010

Qualcuno non ama merlot, qualcun altro non fa niente per nascondere di odiarlo proprio, io stesso mi ritrovo spesso a discutere con amici ed ospiti sull’opportunità o meno di banalizzare certi vini “tagliandoli” con il merlot o storpiare certi territori piantando ettari di uvaggi bordolesi con il solo intento di seguire mode e onde più o meno lunghe del mercato del vino, soprattutto internazionale.

Il Redigaffi di Tua Rita, quantomeno può aiutare a capire che se di merlot vogliamo parlare (e bere) certe bottiglie dobbiamo andare a cercare, inevitabilmente. La storia ci dice che l’azienda nasce come “buen retiro” per Virgilio Bisti e Rita Tua che nel 1984 decidono di ritirarsi in un luogo tranquillo dove trascorrere gli anni della pensione coltivando la terra, la loro grande passione, scegliendo questo piccolo pezzo di maremma toscana in località Notri, a Suvereto. La tenuta si estende su circa 22 ettari di cui 12 a vite già in produzione proprio dal 1984, anno dei primi impianti di cabernet sauvignon e merlot; gli impianti sono stati strutturati in maniera molto fitta sullo stile bordolese ed infatti le varietà coltivate sono perlopiù, oltre a quelle già citate, il cabernet franc e lo chardonnay nonchè syrah e l’autoctono sangiovese. I tratti caratterizzanti del terroir sono innanzitutto la vicinanza del mare ed il composto dei terreni che sono di medio impasto, argillosi e ricchi di microelementi come ferro e zinco che contraddistinguono tutti i vini di Tua Rita in particolar modo proprio il Redigaffi. L’azienda è seguita dall’ enologo Stefano Chioccioli

Toscana rosso Redigaffi 2003 Annata certamente calda che se da un lato aiuta nel concedere maggiore rotondità (oltre quanto aspettato per il vino rotondo per antonomasia) dall’altro non rappresenta certo un presupposto ideale per concedergli la giusta spina dorsale per durare nel tempo. Il colore è di un bellissimo rubino vivace, consistente e poco trasparente. Il primo naso è immediatamente maturo, dolce, insistente su note di confettura di frutta rossa e nera, poi nuances balsamiche che si rincorrono tra sentori di liquerizia e rabarbaro. A tratti, ma evidenti, le note iodate, a conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, di una appartenenza certa, quell’espressione particolarmente minerale tra le poche in Toscana a poter essere immediatamente riconducibile all’areale di Suvereto. In bocca è secco, un vino ricco di piacevoli spunti degustativi: l’ingresso al palato è ampio e profondo, il tannino praticamente dissolto, piacevolissima mineralità a sostegno di un frutto voluttuoso, caparbio, presente. Un vino certamente dalle spalle larghe, da stappare almeno un paio d’ore prima del servizio e da accostare a piatti importanti o a formaggi particolarmente decisi, chissà se il guru Robert Parker oltre che assegnargli 95/100 ne abbia previsto la longevità. 

Toscana rosso Redigaffi 2002 Contrasti, ecco il leit motiv per questa mini-verticale del rosso di punta di Tua Rita. Due millesimi profondamente diversi, con tratti caratteriali in congiunzione, guai se non ve ne fossero, ma pur sempre lontani da una augurabile soluzione di continuità: il colore rimane rubino, appena una spanna meno vivace ma integro ed invitante allo stesso modo del precedente, il vino è consistente e poco trasparente. Il primo naso ha tratti caratteriali immediatamente differenti dal precedente: il frutto marca presenza ma rimane defilato, vengono subito fuori una deliziosa trama speziata e sentori terziari gradevolmenti fusi a note salmastre, a tratti espressamente iodate. Un profilo alfattivo certamente meno orizzontale del precedente, ma comunque di carattere, giocato su quella eleganza che ci si augura di riuscire ad esaltare in assenza di tratti caratteriali primari come forza e voluttuosità varietale, quantomeno capace di rinnovare l’entusiamo anche in una annata definita minore visto l’andamento climatico da “annus orribilis”. In bocca è secco, meno “alcolico” del precedente, la percezione al palato è di un vino più equilibrato, come detto meno possente, più docile delle aspettative. Quando si dice: si fa presto a dire merlot

C’è del nuovo a L’Olivo, i piatti di Oliver Glowig

31 marzo 2010

Veduta panoramica al tramonto del golfo di Napoli dalla terrazza de L’OLivo

Ci siamo, domani mattina apriamo le porte ai primi ospiti del Capri Palace Hotel&Spa; Una settimana intensa di lavoro per preparare un avvio di stagione a quanto pare già scoppiettante per quella che si prefigura come una estate piena di impegni e grandi prospettive di crescita. Cantina, carte dei vini, ordini, organizzazione, varie ed eventuali non hanno certo mancato di darci grattacapi, ma pare essere ad un buon inizio; Come la prova dei piatti durante il briefing di quest’oggi, circa una quarantina tra quelli storici e quelli nuovi: all’approccio alcuni di questi mi sono apparsi davvero molto interessanti, nella loro lineare espressione tradizionale, anche campana, votata alla condivisione internazionale, come nello stile, strano ma verissimo, e dell’inventiva di Oliver Glowig. Attendiamo il confronto con i nostri ospiti, nel frattempo ne presentiamo qui alcuni di questi che vi passeremo di volta in volta: la stagione è lunga, il lavoro è tanto, ma cercherò di non mancare all’appuntamento con il Diario Enogastronomico.

Quaglia con fois gras, asparagi ed uova di quaglia; (n.b.:la foto è solo rappresentativa dell’idea della ricetta, è stata rubata durante le prove di alcuni giorni fa, non vi sono per esempio, le uova di quaglia che sono sostituite da piccoli fiocchi di ricotta, ndr) E’ un piatto dalle ottime consistenze, ha una preprazione laboriosa e meticolosa, coniugata con il fois gras per dargli il giusto respiro internazionale. Una bella sfida l’abbinamento, per scoprire il quale non resta che passare dalle nostre tavole.

Ingredienti per 4 porzioni:

  • 4 quaglie disossate di media grandezza
  • 4 pezzi di foie gras da 15 grammi
  • 12 uova di quaglie
  • 12 punte di asparagi verdi
  • fondo di pollo
  •  Per la farcia:
  • 500 g  petto di pollo
  • 1 albume
  • 5 g sale
  • 100 g panna fresca
  • sale e pepe q.b.
  • 10 g Cognac
  •  Per finire la farcia:
  • 30 g scalogno tritato
  • 30 g sedano tagliato a brunoise  (tocchetti quadrati piccoli, tutti uguali, ndr)          
  • 30 g carote tagliate a brunoise  
  • 30 g zucchine tagliate a brunoise  
  • ½ spicchio d’aglio
  • 8 g funghi porcini secchi
  • 5 g crostini di pane
  • 200 g farcia di pollo
  • 20 g burro
  • foglie di spinaci sbollentate q.b.
  • Preparazione:
  • della farcia:– passare i petti di pollo nel tritacarne e condire con panna, sale, pepe, albume e Cognac, congelare per almeno 12 ore in un contenitore, chi possiede il Pacojet ne avrà in dotazione alcuni. Coprire la farcia fine al bordo con panna fresca e passare due volte al Pacojet, setacciare quindi il composto ottenuto e condire con sale e pepe.
  • Per finire la farcia: rosolare le verdure in burro e aggiungere i porcini tritati, successivamente mischiare il tutto con la farcia ed aggiungere i crostini; Avvolgere il foie gras nelle foglie degli spinaci.
  • Per finire le quaglie: aprire le quaglie disossate, condire con sale e pepe, stendere la farcia e mettere il fegato al centro e chiudere le quaglie e legarli aiutandosi con la carta alluminio, condire quindi con sale e pepe; A questo punto procedere alla rosolatura delle quaglie, aggiungere un pezzettino di burro e finire la cottura al forno a 180 °C per 10 minuti, a parte sbollentare gli asparagi e le uova di quaglie che completeranno l preparazione.

Per il servizio: tranciare ogni quaglia con un taglio centrale obliquo e posizionarle in un piatto piano bianco, porre tutt’intorno gli asparagi sbollentati e le tre uova cotte a bassa temperatura “a decorazione”, completare il piatto con un filo di fondo ridotto sparso tutt’intorno alla preparazione.

Ricetta di Oliver Glowig, executive chef del Capri Palace Hotel & Spa

Ti lascio una canzone, dolce melodia…

30 marzo 2010

Urlatori è il nome attribuito dalla stampa italiana dell’epoca a una corrente canora che ha segnato una stagione musicale relativamente breve nel nostro paese, all’epoca del boom economico, fra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta. La cifra stilistica di questa sorta di tecnica interpretativa, favorita dal diffondersi dei primi juke-box, era data da una voce ad alto volume, espressa in maniera disadorna e priva degli abbellimenti tipici del canto “melodico”.

Il termine era mutuato dal vocabolo di lingua inglese shouter (appunto, urlatore) che etichettava fin dalla fine degli anni quaranta star del rock statunitense come Howling Wolf (il Lupo solitario poi ricordato in American Graffiti) e Joe Turner, rispettivamente icone del nuovo sound nascente, che mescolava il boogie-woogie bianco alla durezza ritmica del blues di matrice nera, così come veniva praticato a Memphis o a Kansas City. I maggiori esponenti degli urlatori, prevalentemente collegati a etichette con sede a Milano, a quel tempo capitale del mercato discografico, furono cantanti all’epoca molto giovani, destinati – sia pure in misura diversa – a percorrere carriere di successo, come Tony Dallara, Joe Sentieri, Adriano Celentano, Clem Sacco (ve lo ricordate?), Ricky Gianco, Giorgio Gaber, Gene Colonnello, e, fra le voci femminili, Betty Curtis, Jenny Luna, nonché Mina, poi divenuta celeberrima com’è.

Ci fu, in quel tempo, una polemica che fece particolare scalpore, creata e amplificata ad hoc dalla stampa dell’epoca, che contrapponeva gli urlatori agli interpreti della melodia all’italiana (vedi Claudio Villa, Nilla Pizzi, Luciano Tajoli, ecc…). Negli anni in cui prendeva campo anche in Italia la musica rock, diventata fenomeno di costume con Elvis Presley, Claudio Villa fu uno dei pochi a capire che l’unico modo per combattere l’offensiva dei cantanti della nuova ondata era quello di usarne gli stessi mezzi di propaganda: questa fu la funzione dei fan club del “reuccio” e dei suoi atteggiamenti provocatori che a lungo fecero notizia in quegli anni.

Il fenomeno degli urlatori faceva pensare a una rivoluzione in atto del gusto e del mercato che coinvolgeva autori, arrangiatori, editori e cantanti. Così non è stato, appena qualche anno dopo, gli urlatori lasciano il posto, grazie anche all’avvento della british invasion e il conseguente arrivo in Italia di gruppi pop la cui musica era ispirata a quella dei Beatles, ad artisti che sarebbero stati, di lì in avanti, etichettati come rocker o cantanti beat: ad esempio, Gianni Pettenati e Patty Pravo fra i solisti, e The Rokes, Equipe 84, Camaleonti, Dik Dik tra i gruppi.

Ai numerosi lettori di questo blog, più di 15000 in appena quattro mesi, questo post risulterà quantomeno fuori tema, “off topic” come amano dire certi blogger più affermati ed affamati di blogosfera: è un piccolo omaggio alla tradizione centenaria della musica popolare in Italia, che ha visto, forse, il suo più alto gradimento proprio negli anni più laboriosi e virtuosi che ha vissuto il nostro bel paese, anni di duro lavoro, spesso sommesso, indirizzati ad affermare per ognuno il proprio ideale di vita, sociale e professionale, pur rimanendo nell’assoluto rispetto dei ruoli. E’ anche, poco velatamente, un invito ad abbassare i toni,a quanto pare un tantino “alticci” nelle utlime settimane, dal caso striscia in avanti sino ai presunti striscianti seguaci di poliphemo, del tipo grande e grosso nella sua “caverna”, meno tra la gente comune quando diviene piccolo e defilato. Anche perchè, come ampiamente raccontato, storia alla mano, gli urlatori hanno avuto vita breve, chi seppe gestire al meglio il proprio talento ebbe grandi opportunità di crescita ed affermò naturalmente stili e proposte, divenute nel tempo patrimonio della nostra musica, Mina e Celentano su tutti; Gli altri, a parte l’istrionico Gaber, hanno poi consumato il resto della loro vita professionale tra comparsate e festival di Sanremo “per buon cuore degli organizzatori” sino a rimanere vagabondi nel dimenticatoio.

Ecco perché dico: abbasso gli urlatori! Nel vino come nella musica, abbiamo bisogno di melodie e non di isterismi galoppanti da frustrazione cronica dilagante, ed incipiente; Oltretutto, ma questa è solo una nota a margine, taluni urlatori, come hanno dimostrato i fatti, di talento, manco alla Gianni Pettenati, assolutamente niente, non pervenuto; Io, dal canto mio, scusate il gioco di parole musicale (sono pure stonato), di Claudio Villa possono ritenermi un esimio ammiratore, ma sono assolutamente poco incline alla sua epocale ficcante vocazione propagandistica, pertanto, e qui chiudo questo post, posso affermare con certezza che certi ritornelli, seppur piacevolmente orecchiabili, alla lunga possono stancare; Ecco perchè, per quanto amaro possa essere il boccone, buttiamolo giù, gridiamo abbasso gli urlatori, loro se ne faranno una ragione (forse) e noi, beh, almeno sapremo cosa ci abbiamo bevuto sopra.

Tramonti, verticale storica Monte di Grazia rosso

22 marzo 2010

Comunicare il vino, con tutto l’amore possibile! E’ una promessa che ho fatto a me stesso, che ho maturato negli anni, che ho consegnato, spero nella maniera più chiara possibile, attraverso i miei scritti: un approccio al vino, sano, condiviso, meticoloso, fruibile, che continuerò a sviluppare in tutti gli anni a venire.

Credo nelle belle persone che ho incontrato sulla mia strada, camminando vigne e girando cantine, stappando e assaggiando (tantissime) bottiglie, correndo (tanto di più) tra i tavoli dei ristoranti dove ho avuto la fortuna di lavorare rincorrendo clienti dei più diversi e, grazie a questi e ai loro buoni consigli, tante belle esperienze raccolte in giro, utili ad insegnarmi come stare al mondo, in questo mondo del vino che mi appassiona sempre più e che rispetto sempre di più.

Credo nei cronisti del vino, non nei guru, guardo con attenzione, talvolta con ammirazione e rispetto agli “industriali del vino”, quando per industriali s’intendono due, tre, a volte cinque/sei generazioni di viticoltori; e credo nei loro vini, sani, puliti, acquistabili e che sono stati, indiscutibilmente, da esempio e modello, anche di contrasto, per tanti produttori nati successivamente: ci pensate ad una Irpinia senza Mastroberardino o ai Campi Flegrei senza Grotta del Sole, alla Toscana senza gli Antinori o i Frescobaldi, la Sicilia senza i Planeta? Credo infine nella biodiversità, ma non quella che ci hanno voluto propinare, strumentalizzandone il senso, con tutte le sigle del mondo e le fisime del momento, biodinamico e controculturale compresi, bensì quella che rispetta l’originalità e ne preserva l’autenticità riconoscendo tutti i limiti ad essi legati, piccole produzioni comprese. Stiamo sempre parlando di vino, o no?

Il Monte di Grazia rosso di Alfonso Arpino è un esempio lampante di ciò che può essere, in maniera disarmante, il prodotto di un terroir specifico, di un uva, ai più misconosciuta, eppure non viene prodotto su Marte, o grazie alla luna, e nemmeno usando corni e bicorni, solo amore per la propria terra, intraprendenza tecnica indispensabile e tanta tanta passione.

Monte di Grazia rosso Campania igt 2003 L’inizio di tutto. Si potrebbe presentarlo come un gioco, un hobby da puro “garagiste”, o più semplicemente come un (in)cosciente tentativo di dare libero sfogo ad una propria idea di coniugazione dell’amor per la propria terra, fattostà che dalle vigne secolari di Madonna del Carmine parte con il raccolto 2003 l’avventura di Alfonso Arpino-vigneros: appena 3 dame da 54 litri, per allietare le domeniche del sempre austero inverno o come spesso è accaduto, da offrire agli amici più stretti. L’annata la si ricorda in generale per l’andamento piuttosto siccitoso nonchè per il tremendo caldo agostano, ma qui a Tramonti, per il tintore in particolare, è stata un’ottima annata: uve sane, ricche di frutto, giunte a piena maturazione senza particolari problemi. Il colore è affascinante, pare di un Taurasi della prima ora, decisamente virato su note granato-aranciate e limpido. Il vino possiede ancora una decisa consistenza, ne è testimone la poca trasparenza. Il naso appare inizialmente esile, e non ha, per tutta la sessione di degustazione, espresso particolare complessità, ma il varietale è pienamente riconoscibile, il timbro speziato è nitido, sottile ma continuo come i sentori di frutta secca e terra che si presentano man mano che il vino è rimasto nel bicchiere. In bocca è secco, l’ingresso è caldo e piuttosto compatto sino alla deglutizione, ha conservato un buon equilibrio gustativo e solo sul finale viene fuori una nota lievemente amarognola. Un vino sicuramente evocativo.

Monte di Grazia rosso Campania igt 2004 Annata difficile, particolarmente fredda, disarmonica come poche prima e nessuna dopo, uve con acidità senza freni e poco e nulla da contraltare. Colore tendente al granato, trasparente, quasi nebbioleggiante. Naso subito terziario, etereo, note smaltate, resinose, alla lunga anche note di cuoio ed il sempre presente speziato di pepe nero. In bocca è particolarmente asciutto, secco e caldo, tannino e acidità quasi a rincorrersi e del frutto poca corrispondenza, solo sul finale di bocca si aggiunge una nota lievemente minerale . Il vino meno espressivo della batteria, che di qui alla fine mostrerà note davvero esaltanti di un uva, il tintore, e di un vino, il Monte di Grazia rosso dal futuro certamente, per così dire, roseo.

Monte di Grazia rosso Campania igt 2005 Di nuovo una annata con temperature al di sopra della media, non certo alla stessa stregua del 2003 ma comunque calda. Il vino ha conservato una espressività encomiabile, il colore è rubino, è limpido e consistente. Il naso si esprime subito su note floreali ma soprattutto di frutta matura, delizioso il sentore di ciliegia ed amarena sottospirito e di piccoli frutti neri che si lasciano il testimone continuamente. Poi l’imprinting aromatico-speziato, un rincorrersi di sentori di pepe e di sottili note di origano. In bocca è secco, caldo, senza dubbio di buona struttura, il sapore pare accompagnato da decisa freschezza, con il frutto sempre in primo piano, lungo e persistente. Si potrebbe dire, come accennato, che proprio questa sia l’annata di riferimento per godere pienamente dell’idea di vino di Alfonso Arpino, un millesimo utile per chiudere il breve ciclo di sperimentazione e per aprire quella che sarà la chiave di lettura di ognuna delle vendemmie future, il territorio e l’uva prima di tutto, con l’uomo a fare la sua parte, integrante, fondamentale, per preservare la biodiversità del primo e l’integrità della seconda.

Monte di Grazia rosso Campania igt 2006 Tappa fondamentale per prendere coscienza dell’esperienza vissuta sino ad oggi in azienda, ma più in generale per tutto l’areale. Si inizia a percepire con maggiore interesse quel che di buono arriva dalle vigne di Tramonti e del suo tintore, anzi del suo Aglianico tintore. Gaetano Bove di Tenuta San Francesco inizia a far parlare di se e dei suoi vini, lui ha personalità da vendere ed i suoi vini eleganza sorprendente, il suo Per Eva su tutti, gli Apicella poco più in là raccolgono i primi (veri) consensi con il loro A’Scippata, vino misconosciuto ai più ma già un must per i frequentatori dei locali top della costiera; Gigino Reale tira fuori il suo secondo millesimo ma a tutti gli effetti il suo primo vero tintore Borgo di Gete, Alfonso Arpino consegna ai pochi, fedelissimi amici-clienti questo bellissimo vino che inizia ad esprimere in tutto e per tutto il carattere proprio di un territorio e di un uva straordinari, confidando in uno scenario futuro sempre così preservato e garantito. Il colore è rosso rubino vivace, appena un unghia violacea, limpido e poco trasparente. Il primo naso è molto fragrante, davvero interessante: floreale e fruttato in primo piano, ma al contempo sentori di lieve evoluzione e terziarizzazione, puliti, franchi, non senza quindi finezza ed eleganza. Frutta a polpa rossa macerata, poi pepe, onnipresente, poi ancora note balsamiche, sentori di cuoio e resina. In bocca è secco, caldo, di eccelsa freschezza e piacevolezza di beva da vendere, sapido. Da ricordare e rivangare ogni qual volta si è in cerca di un confronto (qui una precedente degustazione).

Monte di Grazia rosso Campania igt 2007 Tanto lavoro per evitare surmaturazione delle uve, poco tempo per verificare i possibili rischi di un’annata ancora una volta piuttosto calda, ma alla fine si è comunque ottenuto un buon risultato di integrità di frutto e complessità del vino. Il colore è rosso rubino, vivace, abbastanza consistente. Il primo naso è subito ampio e complesso, floreale e fruttato innanzitutto, poi tenui strascichi vegetali: come detto nonostante l’annata calda avrebbe dovuto consegnarci un vino succoso e dolce, si è tirato fuori un nettare delizioso e particolarmente equilibrato in tutte le sue sfumature, ne è testimone il gusto, che ha conservato un nervo acido discreto, un tannino sottile e ficcante, capaci di garantirgli uno spessore per niente scontato, rivolto certamente alla morbidezza ma preservando una beva fluida, briosa, a tratti copiosa ma non stancante. Ecco la mano dell’enologo, non la supposizione della conoscenza ma il polso della situazione, l’istinto di chi non ama fermarsi di fronte alle difficoltà.

Monte di Grazia rosso Campania igt 2008 Il Tintore di Tramonti è una varietà certamente particolare, e senza dubbio, preservandone al meglio le peculiarità, senza cioè cadere in quel vortice vizioso di voler piacere, per forza, a tutti, non mancherà di ritagliarsi un ruolo di primo piano sul mercato dei vini rossi campani e del sud Italia in generale. Il tintore però si accompagna di tanto in tanto ad un’altra varietà rossa tradizionale indigena, localmente chiamata O’Muscio, un uva certamente meno nobile, anzi, a sentirne parlare, del tutto sconsiderata, ma che in effetti, ci dice Alfonso Arpino, può avere, soprattutto in certe annate piuttosto fredde, un ruolo importante nel gioco degli equilibri acidi del vino. Ha buccia sottile, frutto lieve ma finissimi profumi e difficilmente sviluppa gradazioni alcoliche importanti, materia viva insomma per stemperare le velleità, soprattutto gustative, del tintore. Il primo naso è vinoso, frutto macerato in primo piano, anche una sottile nota vegetale, foglia di pomodoro, poi però riprendendolo a debita distanza si apre su note certamente più complesse, inchiostro, sentori quasi ematici, ed animali, cuoio. In bocca è secco, il timbro gustativo è prorompente, caldo e profondo, scivola in bocca con una certa persistenza gustativa, freschissimo, minerale, molto piacevole. Da segnare in agenda!

Monte di Grazia rosso Campania igt 2009 – campione da vasca – Lo scenario che si apre agli occhi dal porticato del casale di Monte di Grazia è di una suggestione incredibile, da qui si riesce a vedere, a 360° tutta la conca di Tramonti e nelle giornate normali, senza cioè la nebbia fitta che ci ha accompagnati per tutto il giorno, il mare blu della Costa d’Amalfi. Questa è la seconda casa di Alfonso Arpino, dalla fine della vendemmia, ogni anno, ci trascorre tutto il tempo libero dalla sua opera di medico condotto del paese, tra fermentini, pompe e le poche botti che si è riusciti ad incastrare nei piccoli locali ricavati nel vecchio cellaio al pian terreno. Come dire, non v’è “vin de garage” senza un vero e proprio garage! Il colore è nero-viola, puro inchiostro, praticamente impenetrabile. E’ curioso sapere, e ciò la dice lunga sulle peculiarità del tintore, che nonostante le raccomandazioni profuse dall’enologo Gerardo Vernazzaro, Alfonso (giura di essersene dimenticato) non ha inoculato il mosto con i ceppi di lievito per lui selezionati, pertanto, il vino così come lo peschiamo dalle vasche, ci arriva, si potrebbe dire, direttamente dalla vigna franco da ogni condizionamento “esterno”. Il naso è un effluvio di frutta macerata, poi sempre pepe nero, ma composto, integro, molto affascinante e suggestivo. In bocca si fa fatica a tenerlo a bada, è preponderante nella sua veemenza acido-tannica ma non potrebbe essere altrimenti in questa fase, buonissima materia prima e a detta anche dei convenuti, gran bella prospettiva!

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Tramonti, suggestioni invernali… a primavera!

10 marzo 2010

Nonna Lucia, madre di Luigi (co-fondatore con Gaetano Bove di Tenuta San Francesco) intenta con la raccolta della Pepella, una delle tante donne della vigna a cui si deve forse la conservazione della viticoltura qui a Tramonti. Sino a pochissimi anni fa da qui si partiva per emigrare per mete più fortunate, spesso oltreoceano, e difficilmente si ritornava. Ecco che la vigna come gli allevamenti di bovini divenivano lavoro per le donne e gli anziani in particolare, molto restii a lasciare la loro terra di origine. (foto di Gaetano Bove)

Arriviamo con la nebbiolina e con una incessante pioggia, sarà così per tutta la giornata. Un tempaccio però che nulla toglie alla suggestione di un territorio straordinario come quello di Tramonti, ed alla bontà delle persone che poi abbiamo incontrato.

Località Madonna del Carmine, uno dei tralci ultracentenari di tintore nella vigna di Alfonso Arpino, Monte di Grazia. E’ incredibile la sostanza di un ceppo che in qualsiasi altro posto del mondo avrebbero estirpato da tempo, non qui, non dove sono patrimonio storico inestimabile.

Gete. Veduta dai filari della famiglia Reale, anche qui abbiamo incontrato persone di grande disponibilità, e bevuto il rosso Borgo di Gete di Gigino Reale, un grande vino, dal valore simbolico e dal grande fascino gustolfattivo. L’impegno comune è quello di ritornare a primavera inoltrata per pranzare all’Osteria, che ci dicono avere una cucina di grande qualità.

Tramonti, Amici di Bevute a caccia di Tintore

6 marzo 2010

Amici di Bevute

professional

Martedì 9 Marzo, ore 9,30

una giornata a Tramonti a caccia di Tintore

Con gli amici Gerardo Vernazzaro e François Di Domenico abbiamo pensato ed organizzato questa giornata evento dedicata gli amici sommeliers di alcuni tra i più prestigiosi ristoranti della Campania, a caccia di Tintore (e dei vini bianchi) di alcune delle più piccole realtà vitivinicole della Costa d’Amalfi più alta, da promuovere e comunicare con maggiore cognizione di causa anche (soprattutto) in quei luoghi, spesso vetrine internazionali, dove questi vini alcune volte possono soffrire di poca visibilità anche per le sole questioni legate alla loro pronta reperibilità. 

E per questo che abbiamo chiesto a Gaetano Bove dell’azienda agricola San Francesco, Alfonso Arpino dell’azienda agricola Monte di Grazia  e Luigi Reale dell’azienda omonima situata nel fascinoso Borgo di Gete, di aprirci le porte delle loro cantine e farci assaggiare i nettari prelibati di questo piccolo lembo di terra letteralmente strappato alla montagna dove si coltiva una viticoltura a dir poco eroica.

L’evento è completamente gratuito, per chi ancora volesse accreditarsi (solo sommelier professionisti) può farlo inviandoci una mail a larcante@libero.it con nome, cognome e luogo dove si presta la propria professione. Muoveremo con mezzi propri, seguirà nel primo pomeriggio, per chi lo volesse, pranzo informale all’Osteria Reale di Tramonti. 

Comucare il vino, con tutto l’amore possibile! Conoscendo, si può.

Angelo Di Costanzo

Castello della Sala: terre, uomini e vini che hanno fatto la storia in Italia e nel mondo

17 febbraio 2010

 

Il salottino ha le luci basse, l’atmosfera è molto rilassata proprio come quando si è tra amici. Gli argomenti di discussione sono tra i più disparati, vino, cibo, mercato (ma và!) e le soluzioni ai problemi alle difficoltà espresse in questi ultimi anni, tra le più irrazionali, e non perché siamo ciucchi, tutt’altro, dobbiamo ancora metterci a tavola, ma perchè ci accorgiamo che proprio la semplicità disarmante, dei nostri buoni propositi, appare come un’arma paradossalmente lontana da ciò che in realtà si sta mettendo in campo in questi anni, per frenare l’emorragia in atto nel mondo del vino: territorialità a prezzi centrati, alta qualità espressiva, originalità innanzitutto, servizi e professionalità. Comunque, tra un bicchiere di Bramito del Cervo 2008 e dell’eterno incompiuto Pinot Nero, nel millesimo 2006, si arriva al clou della serata: ci raggiunge Renzo Cotarella, a.d. di Antinori ed in tutto e per tutto il fautore numero uno del successo e dell’affermazione di Castello della Sala, del Cervaro in particolare, come riferimento assoluto dell’enologia bianchista italiana nel mondo. Delle chiacchiere con il responsabile di tutta la produzione delle aziende della famiglia Antinori ne parlerò a breve, la cronaca di una giornata speciale in questo meraviglioso lembo di Umbria tanto vicino a questo territorio quanto suggestiva finestra sulla Borgogna si è guadagnata  priorità e mia profonda devozione.

Il primo pomeriggio lo abbiamo dedicato esclusivamente a camminare, a lungo, le vigne; Siamo stati fortunati, nonostante la temperatura rigida ci ha accompagnato un sole tiepido ma efficace a non farci flagellare oltremodo dalle lievi folate di vento gelido che tagliano in questi giorni il fondovalle del fiume Paglia, lungo il quale si estendono a perdita d’occhio i centosettanta ettari di chardonnay, grechetto, riesling, sauvignon, semillon e procanico del vigneto ai piedi del castello, tutto piantato a cordone sperato con una densità di circa 5.500 ceppi ed una resa quasi sempre al di sotto degli 80ql per ettaro. A monte invece, sulla collina terrazzata denominata “Consola”, l’impianto di Pinot Nero, sfida e ostinazione di Renzo Cotarella alla ricerca di una quadratura del cerchio ancora lontana su quello che è, senza dubbio, l’unico vino tra tutti quelli prodotti nelle tenute del Marchese Antinori, dal Piemonte alla Puglia, ancora incompiuto. Ci accompagnano in questo percorso i giovani e bravissimi Massimiliano Pasquini, direttore in loco della produzione a Castello della Sala e Federica Amicone, anch’essa enologa, che l’indomani ci aprirà anche le porte di La Braccesca a Montepulciano.

La tenuta qui in Umbria è di proprietà degli Antinori dal 1940, è collocata geograficamente giusto al centro tra Roma e Firenze, in provincia di Orvieto, ad un tiro di schioppo dal confine regionale con la Toscana. Come detto, gli ettari sono 170, una cantina di vinificazione, terminata nel 2006, perfettamente integrata nel paesaggio, con le più moderne tecnologie produttive a disposizione ed il castello con la bellissima e maestosa “torre del rifugio” che domina a perdita d’occhio tutta la tenuta a 360°, nel ventre del quale si intersecano centinaia e centinai di metri di cunicoli ed anfratti, perfettamente restaurati, che ne fanno uno dei luoghi del vino più suggestivi ed affascinanti che abbia mai camminato negli ultimi anni. Qui giacciono migliaia di bottiglie, oltre a tutte le annate prodotte nella tenuta, tutte quelle altre di maggiore prestigio, dal Solaia al Tignanello, che appena possono Piero Antinori e lo stesso Renzo Cotarella vengono a degustare per comprovarne l’evoluzione stilistica e la tenuta nel tempo: millesimi eccezionali e minori, sparsi ordinatamente qua e là nel caveau, oggigiorno introvabili in giro, assolutamente impossibili da riavere, a memoria storica liquida degli ultimi trent’anni della produzione di maggiore pregio delle tenute del marchese.

Un viaggio emozionante, evocativo di un passato nobile e laborioso e suggestivo di un presente e di un futuro straordinario, votato all’assoluta intransigenza nella ricerca della qualità, della massima espressione territoriale che un vino può donare di sé, che un bicchiere di vino possa riportare alla mente e fissare nella memoria. Camminare queste vigne, strusciare queste mura, odorare queste atmosfere non può che riappacificare l’animo, donare l’impossibile sensibilità tattile per immaginare il passato e sognare il futuro. Poi, Il Cervaro della Sala ’87 bevuto, fa tutto il resto!