Oggi si va in vigna a fare la vendemmia. Poche casse, preziosissime, da un pezzetto di terra letteralmente strappato all’incuria e all’abbandono proprio a due passi dall’albergo dove lavoro, dietro la seggiovia qui in Anacapri. Grazie Raffaele, grazie mille, per ieri, oggi e domani. Poi il report…
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Intervallo, vendemmia 2012 ad Anacapri. Faccio il sommelier e queste sono le mie mani oggi!
11 ottobre 2012Il Prosecco ieri, oggi e domani. E dell’ottimo “Ius Naturae” 2011 della famiglia Bortolomiol
12 settembre 2012La domanda del giorno è: cosa ne vogliamo fare di questo Prosecco oltre che continuare ad allungargli sempre di più il nome? 
La domanda me la pongo da un po’ di tempo, da quando, penso un paio d’anni fa, mi accorsi, leggendo dalle pagine di una delle ultime Duemilavini ricevute che gran parte dei produttori di “Prosecco di Valdobbiadene” erano passati, apparentemente così d’emblé, dall’utilizzo di uve prosecco al 100% al ben più “povero” e diffuso glera, chi in uvaggio, chi invece addirittura in purezza.
Ad un mio commento a caldo su Facebook, dove mi dicevo sinceramente un po’ confuso sull’argomento, qualche giorno più tardi, un giovane (bravo) produttore di prosecco di Asolo mi avvisava che non c’era tanto da stupirsi poiché in realtà in molti si preparavano semplicemente allo sbarco della nuova docg Valdobbiadene Prosecco Superiore che sarebbe arrivata di lì a poco.
Perché? Cosa stava per accadere al vino spumante italiano che da anni, secondo l’ex Ministro ed attuale Governatore della Regione Veneto Luca Zaia, va sfidando in giro per il mondo i consumi dello Champagne? Senza entrare troppo nel merito della faccenda è bene sapere che dal 1 Aprile 2010 la parola “Prosecco” è divenuta identificativa di un vino a denominazione di origine e non più di una varietà di uva. Quest’ultima ha assunto il nome di glera.
In parole povere oggi il “Prosecco è un vino ricavato da uve di varietà glera prodotto solo nel nord est d’Italia, rigidamente vincolato da un disciplinare che ne distingue le diverse varietà qualitative in base alla zona di origine”. Per dirne una, chiunque in Italia o nel mondo che vorrà acquistare barbatelle di glera (non più di prosecco) potrà chiamare il vino “Prosecco” solo se esse crescono nelle zone previste dal disciplinare, in caso contrario sarà “costretto” a chiamarlo “Glera” ed in etichetta potrà riportare solo il nome “Glera” (frizzante, Spumante, ecc.) senza nessun riferimento o legame al Prosecco. Più chiaro di così…
E’ evidente quindi che con queste prospettive in molti si stanno dando un gran da fare per migliorare sia la propria presenza sul mercato che, in senso più stretto, la qualità stessa dei vini proposti. Qualità che, sia chiaro, a certi livelli viene garantita da anni, ma è indubbio che questa svolta, che possiamo tranquillamente definire epocale sul Prosecco, è di grande stimolo per tutti produttori a fare sempre meglio.
Ecco quindi capitarmi a tiro lo Ius Naturae 2011 di Maria Elena, Elvira, Luisa e Giuliana Bortolomiol che, oltre al nome lunghissimo in etichetta, viene presentato come la sintesi del lavoro di anni di conversione al biologico di alcuni vigneti di famiglia proprio nel cuore di Valdobbiadene, all’interno del Parco della Filandetta.
Un Brut, Millesimato, molto interessante: ha bollicine abbastanza fini ed un colore molto invitante, paglierino assai luminoso. Il naso è sincero, ha un buon timbro minerale e i sentori sono fragranti e puliti. Il sorso è fresco, equilibrato, la sensazione zuccherina appare ben contrastata da una buona dose acida e dalla giusta sapidità. La strada mi sembra quella giusta, conserva – vivaddìo! – grande bevibilità ed è questo, al di là di lustrini e paillettes, che desidero non manchi mai a questo vino.
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Qui il viaggio nelle terre del prosecco di qualche anno fa.
Taurasi Vendemmia 2008| Le mie degustazioni
23 gennaio 2012Subito alcuni numeri: delle 36 aziende che hanno partecipato all’evento vi erano in degustazione alcuni aglianico di diverse annate recenti e vini Riserva 2007, 2006 e 2005. In generale l’annata 2008 ha fatto registrare un aumento della produzione di aglianico rispetto alla precedente 2007, tuttavia la denuncia delle produzioni destinate al Taurasi e al Taurasi Riserva diminuisce sensibilmente sino a ridursi a quasi un terzo degli ettari iscritti regolarmente all’albo (346ha su 1034ha iscritti). Queste che seguono le impressioni ricevute dal panel di degustazione, sul finale invece le poche considerazioni necessarie da fare.
Legenda: ***** Eccellente – **** Ottimo – *** Buono
****/* Taurasi Principe Lagonessa 2008 Amarano. Bella prova di questa piccola realtà di Montemarano: 7 ettari di vigna di cui 5 votati esclusivamente all’aglianico e collocati in contrada Torre. Bello il colore rubino molto vivace. Naso intriso di sentori di frutta, fresco e vibrante. Sorso asciutto, copioso, sapido, avvolgente, con un finale di bocca succoso, quasi materico, appagante. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
****/* Taurasi Primum 2008 Guastaferro. Il Taurasi di Taurasi si direbbe. 10 ettari in località Piano d’Angelo e il pieno diritto di primeggiare con pochi altri in questa interessante sessione di degustazione. Colore rubino ricco, poco trasparente. Naso poderoso, subito manifesto. Emergono perentorie note di piccoli frutti neri, poi confettura ciliegia e prugne, suadenti sfumature speziate. Il sorso è vigoroso, voluttuoso, conquista immediatamente e sparendo, lentamente, asciugando il palato completamente. Di vibrante soddisfazione! (Valle Centrale – Riva Destra).
****/* Taurasi 2008 Antico Castello. Ancora una gradita conferma dalla giovane e dinamica azienda di San Mango sul Calore. Cinque gli ettari di aglianico per un vino dal bel colore rubino e dal naso subito trasversale: frutta rossa, spezie, tabacco e sottobosco. Sorso integro, già di grande equilibrio, con tessitura di spessore ma ben integrata alla succosa materia. (Versante Ovest – Terre del Fiano).
****/* Taurasi Nero Né 2008 Il Cancelliere. Forse, tra i riconoscibili, il più riconoscibile. Colore rubino vivace e fitto. Naso subito invitante, fruttato, ben maturo, ma anche deliziosamente balsamico e vagamente boisé. In bocca è asciutto, denso e caldo. Quasi materico. Una tale vivacità espressa con estrema opulenza ma soprattutto eleganza e compostezza. 7 ettari in contrada Iampenne a Montemarano. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
**** Taurasi 2008 Pietracupa. Conosciamo la bella realtà di Montefrèdane più per le belle interpretazioni di fiano e greco che per l’aglianico, anche se, di tanto in tanto, chiari segnali pure sul versante rossista Sabino Loffredo non li ha fatti mancare. Di questo Taurasi mi è piaciuta, tanto, la cifra stilistica, assai elegante e fine. Colore rubino granato di buona concentrazione. Naso di buona intensità: viola, amarena, tabacco. In bocca è asciutto, fresco e con un tannino sottile, perfettamente integrato alla materia. Vigne a Torre le Nocelle. (Quadrante Nord – Riva Sinistra).
**** Taurasi Piano d’Angelo 2008 Sella delle Spine. Ancora Taurasi, ancora località Piano d’Angelo. Colore rubino/granato piuttosto vivace. Il naso qui è molto interessante, estremamente varietale, fitto e piuttosto verticale. Sentori fruttati anzitutto, poi spezie dolci, note balsamiche. Sorso asciutto e di nerbo, saporito, di buona profondità. (Valle Centrale – Riva Destra).
**** Taurasi 2008 San Paolo. L’azienda ha le mani in tutte e tre le principali denominazioni irpine, e il progetto enologico è affidato nelle mani di Vincenzo Mercurio, così è indubbio che l’ambizione sia tanta. Si registra col 2008 uno deciso scatto in avanti per questo vino, che nasce dalle vigne in Paternopoli, alcune delle quali arrivano sino a 600 metri d’altitudine. Colore rubino abbastanza concentrato. Naso che offre una buona intensità e subito una precisa chiave di lettura organolettica: piccoli frutti neri, uva fragola, visciola, liquirizia. Sorso anche qui copioso e orizzontale, nappa le papille con precisione gustativa quasi millimetrica sostenuto da una ottima trama acido-tannica. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
**** Taurasi Alta Valle 2008 Colli di Castelfranci. Tra le vigne più “alte” della denominazione vi sono senz’altro quelle di Castelfranci, e quando la vendemmia è favorevole e protratta sino a quasi metà novembre ciò che viene fuori può essere solo un grande vino. Colore rubino, fitto, e naso finissimo di frutti rossi “dolci” e note balsamiche. Il sorso è franco, ben teso, il tannino è fine e solo un ricordo di finale di bocca. Manca l’eccellenza di un soffio, con una spina dorsale più sostenuta infatti sarebbe stato inarrivabile. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
**** Taurasi 2008 Feudi di San Gregorio. I 55 ettari votati all’aglianico dovranno pur avere un valore aggiunto in quanto a dedizione e ricerca sull’argomento. E guarda caso, parlando di rossi, dopo anni spesi a rincorrere merlottoni e supercampani, i risultati migliori nel bicchiere continuano a venire dal Taurasi e da – ancora una volta – un superlativo Taurasi Riserva Piano di Montevergine 2007! Questo 2008 ha un colore rubino/granato assai elegante. Naso molto invitante, sottile, alla lunga fine: frutta rossa, tabacco, sottobosco. Il sorso è asciutto, vivido, con un nerbo sottile e cavilloso. Finale di bocca un po’ sovraestratto. Dopo il Radici di Mastroberardino (100.000) quello con i numeri più alti, circa 60.000 le bottiglie prodotte. (Valle Centrale – Riva Destra).
***/* Taurasi Terzotratto 2008 I Favati. “Fianisti” per eccellenza, nemmeno a Cesinali però si sono mai fatti mancare puntuali incursioni “taurasine”. Le uve, in prevalenza provenienti da 5 ettari in Venticano, hanno dato un vino con un bel colore rubino mediamente concentrato, poco trasparente. Naso subito teso sullo speziato e delicate nuances balsamiche e di caffé. Ma il legno è chiaro che la fa ancora da padrone. Pare avere però tanta buona materia e in bocca offre buone conferme distendendosi con buona profondità gustativa. (Quadrante Nord – Riva Sinistra).
***/* Taurasi Vigna Andrea 2008 Colli di Lapio. Lapìo, con Montefalcione, ricadono sia nella docg fiano di Avellino che Taurasi. E non mancano rivendicazioni sul fatto che qui l’aglianico ha una storia molto più luminosa che altrove; macchiata, si racconta, dal successo commerciale dei vini bianchi che man mano ha di fatto ridotto il vigneto “a rosso” a favore del più apprezzato fiano. Tant’è che il Vigna Andrea è, e rimane, uno dei Taurasi di assoluto riferimento: colore rubino vivace un naso decisamente variopinto: esordio fruttato, poi sentori di frutta secca, sfumature terrose, corteccia, pelliccia, accenni di ceralacca. Sorso ben calibrato, asciutto, di nerbo. Finale caldo e sapido. (Quadrante Nord – Riva Sinistra).
***/* Taurasi Mater Domini 2008 Rocca del Principe. L’azienda è balzata agli onori della cronaca vinosa negli ultimi anni per aver infilato, uno dietro l’altro, ottimi fiano di Avellino. Ma pare cavarsela bene anche sul versante rossista, e il felice millesimo 2008 ne “bagna” un esordio più che convincente. Bello il colore rubino abbastanza concentrato. Naso con un frutto invitante e palato integro, lineare, con tannino ben espresso e un gusto amabilmente sapido. Va detto che al momento si esprime più solido al naso (ricco di sfumature dolci) che in bocca (decisamente austero). (da più vigne, Assemblaggio).
***/* Taurasi Vigna Quattro Confini 2008 Benito Ferrara. Riprendendo vecchi appunti ricordo di averne saggiato le prime gocce direttamente dai legni in affinamento. Sergio e Gabriella hanno investito molto sull’aglianico, per ritagliare alla bella realtà conosciuta ai più per i suoi magnifici greco di Tufo anche una valida chance rossista, col tentativo però di emergere e non cadere nella banalità di un mero ampliamento di gamma. Così dalle vigne di Montemiletto, circa 3 gli ettari, questo Taurasi rubino vivace dal naso subito molto elegante, tenue ma ben espresso su toni fruttati e speziati, fini e di buona persistenza. Giustamente tannico il sorso, asciutto e accompagnato da un buon tenore alcolico. Un bell’esempio di bevibilità. (Versante Ovest – Terre del Fiano).
***/* Taurasi Hirpus 2008 Contrada Vini. A fare la conta, l’areale dell’Alta Valle consegna un 2008 assai felice, con vini ricchi eppure di rara eleganza. L’Hirpus pare fare tesoro del felice millesimo senza però abbandonare uno stile se vogliamo artigianale, rustico, capace di esprimere nel bicchiere tanta originalità. Colore rubino vivace, naso subito empireumatico, di cenere, pietra minerale, ma anche tabacco, china e cuoio. Sorso asciutto, con un tannino ben disteso e legato ad una materia polposa. Rosso che conserva nella sua autenticità grande piacevolezza degustativa. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
***/* Taurasi Poliphemo 2008 Luigi Tecce. Taurasi dei più caratterizzati dall’idea di vino del vigneron, uno di quelli che indubbiamente ami oppure rischi di non apprezzarlo del tutto. Dei vini in batteria, l’ho colto al primo approccio, debbo dire più per le sue peculiarità che per mia bravura, naturalmente. Colore rubino, di buona vivacità, più o meno concentrato. Primo naso sporco, quasi fungino. Si lascia aspettare, naturalmente quindi ci torno su con calma, perché solo così, armato di tanta pazienza, si riescono a cogliere buoni spunti gustolfattivi. Sorso asciutto e di buona sostanza, il 2008 pare lasciare alle spalle l’irruenza a cui ci aveva abituati a favore però di una migliore fruibilità degustativa. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
***/* Taurasi 2008 Donnachiara. Dalle vigne in località Campo Ceraso a Torre le Nocelle, forse il Taurasi di più “facile” lettura in batteria. Colore rubino vivace con ancora delle nuances porpora sull’unghia. Naso immediato, decisamente varietale. Sorso essenzialmente asciutto e di buona sostanza. Finale un poco amaro. (Quadrante Nord – Riva Sinistra).
*** Taurasi Santa Vara 2008 La Molara. Guardo sempre con vivo interesse a ciò che accade da queste parti, La Molara è un’azienda che mi piace molto, e che tra l’altro mi ha quasi costretto a coglierla in queste degustazioni in anteprima sempre con molta attenzione, sarà perché il Santa Vara ha più volte dimostrato di distendersi notevolmente col passare del tempo. Colore di un bel rubino tenue abbastanza trasparente. Naso molto particolare, incalzante: è terroso, di sottobosco, corteccia, cuoio, anche un po’ etereo. Sorso asciutto, abbastanza lineare, con il tannino ben fuso alla materia. Finale sapido, senza spigolature particolari. (Valle Centrale – Riva Destra).
*** Taurasi Opera Mia 2008 Tenuta Cavalier Pepe. Ancora Luogosano, con vigne delle più suggestive in località Carazita e Pesano di età minima di 25 anni. Continua la crescita della bella azienda di Milena Pepe, pur dovendo registrare un “ritardo” ormai cronico dei suoi Taurasi ad ogni anteprima. Colore rubino carico, con un naso ancora eccessivamente pervaso da un legno piuttosto incisivo, da qui il corollario speziato e tabaccoso che ne sovrasta il bel frutto, meglio espresso in bocca con decisa avvolgenza di frutti rossi macerati e un sorso denso e caldo. (Valle Centrale – Riva Destra).
*** Taurasi 2008 Villa Raiano. Anche qui l’assaggio ha mostrato un vino decisamente in ritardo, ma non si discute certo la qualità, semmai la tessitura espressa in degustazione ancora lontana dal disvelarsi del tutto. Colore rubino tenue, naso quasi ermetico, pur intuendone una sana bontà. Manca però di intensità, di quella verticalità a certi livelli necessaria. Il sorso è praticamente “acerbo”, soverchiato ancora da una certa scompostezza. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
*** Taurasi 2008 Di Prisco. Certe uscite dei greco di Tufo di Peppino Di Prisco sono memorabili, e non mancano agli annali anche interpretazioni di ottimi Taurasi. Esprimersi di netto su questo vino però è, al momento, secondo me, un azzardo; perché c’è buona materia e tanta classicità, dalla veste rubino vivace al naso intriso di aromi fruttati sottospirito e vivida mineralità. Il sorso è asciutto e calibrato, ma un po’ ritratto, appannaggio soprattutto delle durezze. Ha bisogno di distendersi. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
*** Taurasi 2008 Tenuta Ponte. Bella realtà in quel di Luogosano, 20 ettari di aglianico e già una quindicina di vendemmie alle spalle. Questo vino va riassaggiato tra qualche tempo, mostra una buona dose varietale ancora però preda dell’affinamento. Colore rubino vivace, con un naso che definirei classicheggiante, anche abbastanza invitante, ma che si disperde in bocca con troppa facilità. Un po’ scomposto. (Valle Centrale – Riva Destra).
*** Taurasi 2008 Urciuolo. La mappatura dice di vigne in parte a Montemarano e in parte a Castelfranci. Il bicchiere racconta di un vino ancora lontano da una chiara espressività. E apprezzabilità. Colore rubino vivace, naso lungamente disatteso, concentrico sulle sfumature minerali. In bocca ha buona intensità ma senza guizzi particolari. Rustico. (dalle vigne del Versante Sud – Alta Valle).
*** Taurasi 2008 Vigna Villae. Si fa davvero fatica a leggerne la cifra stilistica, pur registrando un passo in avanti rispetto alle uscite passate. Il naso è marcato da un frutto abbastanza semplice, e da quella nota di “caramella alla frutta” ormai praticamente sempre e solo sua. Sorso invitante ma niente di trascendentale. (Valle Centrale – Riva Destra).
Sosp. Taurasi Radici 2008 Mastroberardino. Ancora quest’anno un assaggio poco fortunato all’anteprima. Voglio credere a due bottiglie poco felici; il ripetuto assaggio infatti, anche a distanza di un’ora l’uno dall’altro non ha ben chiarito la questione, a causa di fastidiosissimi sentori di cartone e straccio bagnato. Vedremo più in là. (da più vigne, Assemblaggio).
Si colgono in linea generale impressioni più che positive, e il millesimo favorevole ha indubbiamente aiutato tutti nell’esprimere vini estremamente corretti e forgiati di buonissima materia, capaci probabilmente anche di un buon invecchiamento. Mancano senz’altro Eccellenze assolute, anche se alcune etichette sono apparse certamente più in forma di altre; ma, pur registrando una crescita verso l’alto di quasi tutti i campioni degustati, non è banale segnalare, per esempio, come molti di questi vini, a dirla tutta una buona parte di essi, siano “maneggiati” in cantina da un unico stesso enologo. E’ vero, un indizio, da solo, non è mai una prova, però è bene registrarlo. Perché? Beh, l’omologazione è sempre dietro l’angolo, anche se rivolta alla qualità o espressa da quelle piccole realtà a cui sempre più spesso si fa riferimento per vagheggiare una non mai ben precisata inarrivabile originalità.
Se no magari va a finire di passare i prossimi anni a studiare come e dove cogliere certe differenze originali mentre nelle molte cantine si rincorrono con sciocchezza giusto quelle poche soluzioni interpretative che tanto piacciono ai mercati internazionali. Staremo a vedere…
Nota bene: tutti i vini qui recensiti sono stati serviti alla cieca e degustati dalle ore 10.10 alle 12.25; alcuni, quelli che tra l’atro trovate segnalati tra quelli più apprezzati, sono stati saggiati ancora una volta in un’unica successiva batteria. Il servizio è stato curato in maniera egregia dalla locale delegazione di Avellino dell’associazione italiana sommelier.
Per conoscere i comuni delle macro-aree leggi qui¤. Per saperne di più, se vi va, trovate altri riscontri qui¤ e qui¤ sul sito di Luciano Pignataro, mentre su LaVINIum¤ c’è un bel pezzo di Roberto Giuliani, e qui¤ su Winesurf l’opinione di Carlo Macchi.
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Così Taurasi Vendemmia 2007¤.
Così Anteprima Taurasi 2005¤.
Aspettando “Taurasi Vendemmia 2008”, subito una buona notizia per tutti gli appassionati…
16 gennaio 2012Per dirla con Raffaele Del Franco, noto sbevazzatore sommelier irpino di Aiello del Sabato formatosi – dicono insistenti voci – nel chiantigiano, “il più importante, preciso e completo approfondimento sulla storia reale e i territori del Taurasi Docg lo poteva fare solo Paolo De Cristofaro”.
Così, in attesa dell’anteprima 2008 in scena questo week-end prossimo, rilancio molto volentieri, per i fedelissimi seguaci di queste pagine, nonché per i grandi appassionati di vini campani sparsi in lungo e in largo nel mondo (ouch!), questo pregevole lavoro sul Taurasi, on-line da qualche giorno qui, grazie ai ragazzi di Miriade&Partners.
Giusto per darvi un’anticipazione, le ultime quattro annate in commercio per esempio, alle quali “anteprime” ebbi il piacere di parteciparvi e di raccontarle, qui come altrove, sono così magistralmente riassunte: la vendemmia 2007, valutata 16/20, viene descritta come un’annata “equilibrata, carnosa e accessibile, con un ottimo potenziale evolutivo”. La 2006 invece (rating: 15/20) come “un’annata “calda, capricciosa, eterogenea, con i migliori potenti e nervosi, da aspettare”. La vendemmia 2005, millesimo da 17,5/20, “fresca, articolata, elegante; da lungo invecchiamento”. Mentre la 2004 – non a caso, con l’88 e il ’90, ritenuta da molti addetti ai lavori un riferimento assoluto per gli ultimi vent’anni di Taurasi -, un’ annata da 18/20, di quelle, per dirla con la maniera toscana, a cinque stelle, “con un andamento regolare, tardiva, austera, da lungo invecchiamento”.
Insomma cari amici, un lavoro del genere, così prezioso e autorevole, oltretutto con moltissimi altri riferimenti imperdibili, non può assolutamente mancare nel vostro carniere da enostrippati.
Il Piedirosso dei Campi Flegrei, un passo avanti, due indietro (assaggi sparsi del 2010 e altro)
21 dicembre 2011E’ inutile girarci intorno, con questo piedirosso è proprio dura, ancor più dura di quanto ci aspettassimo. Il vitigno in effetti pare non fare assolutamente concessioni, e assaggio dopo assaggio ci siamo resi conto, bicchiere alla mano, che non è solo un luogo comune il fatto che da molti vignaioli viene indicato come una vera “brutta bestia”, per non parlare degli enologi per i quali rimane “una bella gatta da pelare” in cantina; così ci siamo dovuti dar pace e accettare, per lo più unanime, un verdetto finale più pesante del previsto: calma è sangue freddo, la strada è di parecchio in salita.
Perchè? Bene, riprendendo a grandi linee concetti già espressi sull’argomento su questo blog (leggi qui), per troppo tempo ci siamo abituati all’idea che certe puzzette o caratteri vegetali del piedirosso fossero tratti distintivi tipici del vitigno, quando non addirittura del territorio; ci sbagliavamo naturalmente, e lo abbiamo imparato in fretta. Bene ha fatto invece chi, dopo anni di penitenza e importanti investimenti in vigna e in cantina punta a ridare una certa dignità colturale, enologica, e quindi organolettica, a quello che personalmente ritengo invece essere il più interessante ed eclettico dei vitigni a bacca rossa campani.
Detto questo però, tale esempio appare disatteso da molti, che continuano – dannazione! -, ad accontentarsi di esserci anziché crescere e migliorare, in una parola: emergere. Non sta certo a me, a noi fans, indicare una via certa, però qui c’è da avviare subito una analisi ancor più profonda e tecnica sullo “stato delle arti” qui nei Campi Flegrei; mettere in campo, ognuno da più parti, le proprie conoscenze e competenze per il bene comune. Un lavoro sporco e duro, ma estremamente necessario, urgente direi, che richiami all’impegno, oltre che dei produttori, di tutti gli organi della filiera di produzione e tutela affinché si lavori di concerto – come è avvenuto per esempio, in maniera pregevole, per le recenti modifiche al disciplinare (leggi qui) – per il bene della denominazione e in particolar modo per il vino piedirosso dei Campi Flegrei. Tant’è che mi tocca essere sincero: l’impressione che si ha oggi nel mettere il naso in questi bicchieri, è che ognuno vada per la sua strada, e che alcuni, per quanto girino, lo facciano a tentoni.
E’ pur vero che il varietale occupa solo in minima parte il vigneto a denominazione, e impegna se vogliamo risorse ed energie talvolta antieconomiche per l’esigua produzione stessa, però salvaguardare il piedirosso, studiarne e approfondirne meglio le caratteristiche colturali, le attitudini enologiche, comprenderle, per vinificarlo meglio – vivaddio! -, rimane l’unica via per proporlo, imporre al mercato, un prodotto quasi esclusivamente flegreo e sempre più necessario con una domanda del vino sempre più indirizzata a scansare vini sovra strutturati e grassi in favore di quelli capaci di tessiture organolettiche snelle eppure serbevoli; vini insomma come solo il per ‘e palummo dei Campi Flegrei sa regalare in Campania.
Un paio di precisazioni: abbiamo preso in esame esclusivamente i vini fregiati con la doc, anzitutto dell’annata 2010 e, chi ce l’ha concesso, dei loro cru 2009 o 2008. Infine, è bene ribadire che la sequenza così proposta non è in alcun modo da intendere come una classifica di merito.
Campi Flegrei Piedirosso Colle Rotondella 2010 Cantine Astroni – Napoli. Bello il colore, rubino con ancora sfumature porpora sull’unghia del vino. Naso mascolino, vibrante ed elegante, di rosa passita, sorbe e muschio. Sorso asciutto e fresco, con buona intensità. Chiude con nerbo, ma discreto e gradevole.
Campi Flegrei Piedirosso Terracalda 2010 Cantine Babbo – Pozzuoli. Colore rubino granato; primo naso quasi infastidito da una leggera nota volatile; lentamente si affacciano accenni floreali di lavanda e rosa passita, poi ancora un sottile richiamo alla “terra bagnata”. Asciutto e gradevole al palato, caldo ma non troppo.
Campi Flegrei Piedirosso 2009 Cantine del Mare – Monte di Procida. Bello il colore di questo vino, rubino pienamente espressivo, cristallino e abbastanza trasparente. Naso tenue, pur giocato su un varietale dei più riconoscibili: geranio, rosa e violetta. In bocca è chiaro, asciutto e serbevole, marcatamente sapido, manca di un guizzo ma è indiscutibilmente gradevole.
Campi Flegrei Piedirosso 2010 Cantine Farro – Bacoli. Colore rubino con lieve tendenza al granato. Primo naso quasi idrocarburico, ma dura poco, così il tono olfattivo vira su fini sentori floreali passiti. Il sorso è maturo, pronunciato sul frutto, paga dazio in lunghezza ma rimane di estrema correttezza gustativa. Lineare.
Campi Flegrei Piedirosso 2010 Carputo Vini – Quarto. Colore rubino tendente al bruno, inaspettato aggiungo io. Naso a lungo in riduzione, quasi terroso. Al palato è discreto, offre un sorso abbastanza maturo che chiude asciutto e morbido. Da rimarcare, sul finale di bocca, un piacevole ritorno balsamico.
Campi Flegrei Piedirosso 2008 Contrada Salandra – Pozzuoli. Colore rubino granato, abbastanza gradevole per la maturità del millesimo; naso inizialmente concentrico su note animali, pelo e cuoio, con una lieve nota volatile a infastidirne l’approccio. Molto lentamente tira fuori anche dell’altro, su note comunque mature, definitive, evolute. Palato asciutto, di buono spessore e profondità gustativa. Risoluto.
Campi Flegrei Piedirosso 2010 Grotta del Sole – Quarto. Colore rubino porpora intenso e poco trasparente. Primo naso denso e voluminoso, i sentori viaggiano su riconoscimenti di viola passita, susina e spezie dolci. Al palato è asciutto e intenso, sorso appena caldo con un tannino ben risoluto. Chiusura balsamica e sapida.
Campi Flegrei Piedirosso Riserva Montegauro 2008 Grotta del Sole – Quarto. Inevitabilmente forse, il più riconosciuto della batteria, quel vino una spanna sopra tutti che per intensità, ampiezza e fittezza, di naso e bocca, ti fa fermare e riflettere. Pensare. Il colore è fitto e impenetrabile, il quadro olfattivo è avvincente, frutta sopra tutto; il sorso è denso e piuttosto lungo, sostenuto da puntuta acidità e fini tannini. Lo aspettiamo alla soglia del tempo, ancora una volta, per avere maggiore contezza della buona qualità varietale esaltata però, indubbiamente, dalla palese interpretazione, appannaggio di una ferrata memoria e senza dubbio di una cantina all’altezza.
Campi Flegrei Piedirosso 2010 Le Cantine dell’Averno – Pozzuoli. Colore rubino vivace, il timbro olfattivo è vinoso e varietale, offre poca intensità ma i sentori risultano puliti e molto gradevoli. Sorso asciutto e di pregevole finezza, manca di profondità, di spina dorsale come si suole dire, ma lascia cogliere buona materia.
Campi Flegrei Piedirosso Gruccione 2010 Az. Agr. Montespina/Antonio Iovino – Pozzuoli. Interessante il colore rubino tenue, abbastanza trasparente ma assai elegante; L’incipit olfattivo è di viola e geranio, un classico. Al palato è asciutto e lineare, appena vivace sul finale di bocca.
Campi Flegrei Piedirosso 2010 La Sibilla – Bacoli. Colore rubino granato, un tantino cupo. Naso inizialmente scomposto, il bel frutto è coperto per un po’ da una poco piacevole nota volatile. Lentamente si apre e finalmente ci lascia apprezzare l’immediatezza dell’approccio: olfatto sottile, fugace ma invitante. Sorso più interessante, giocato in leggerezza ma sempre vivace. Sul finale di bocca una lieve nota amarognola.
Campi Flegrei Piedirosso 2010 Tenute Matilde Zasso – Pozzuoli. Colore rubino porpora con buona intensità. L’aspettiamo per un po’, appare chiuso su sentori vegetali, terrosi e animali. Poi un leggero richiamo a frutti neri. Il sorso è asciutto e piacevolmente fresco, con un finale appena caldo, breve ma comunque appagante.
Campi Flegrei Piedirosso Agnanum 2010 Viticoltore Moccia/Agnanum – Napoli. In grande spolvero il colore, bel rubino con nuances porpora, intenso e vivace con un primo naso invitante e altrettanto vibrante. Frutto in primissimo piano, croccante e polposo, poi note di macchia mediterranea e spezie, origano fresco. Il sorso è succoso e nerboruto, fresco e parecchio lungo.
Campi Flegrei Piedirosso Vigna delle Volpi 2008 Viticoltore Moccia/Agnanum – Napoli. Colore rubino granato, primo naso di forte impatto emozionale, assai varietale e puntuto. Arrivano note di frutta polposa intrise di sfumature balsamiche e speziate; il legno è perfettamente digerito, tutt’uno con la materia. Molto elegante. Al palato è austero, regala un sorso discretamente asciutto, di buon spessore ma non prorompente, anzi. Rimane a lungo in bocca, gustoso e gradevolissimo. Da manuale.
Nota a margine: tutti i vini sono stati aperti due ore prima di essere serviti, alla corretta temperatura di servizio e alla cieca, in batterie da 6 assaggi alla fine di ognuna delle quali si è avuto un ampio confronto prima di svelarli. Con il sottoscritto, hanno partecipato al panel Giulia Cannada Bartoli, giornalista free-lance e sommelier, Michela Guadagno, sommelier, Tommaso Luongo, delegato Ais Napoli, Nando Salemme, ristoratore e sommelier professionista.
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Campi Flegrei, tutte le novità della doc dal 2011
11 dicembre 2011Lo scorso 26 ottobre 2011 è stato approvato con decreto ministeriale l’aggiornamento del disciplinare di produzione della d.o.c. Campi Flegrei, da tempo ferma ai dettami del ‘94, anno in cui era stata costituita.

Modifiche importanti, che diverranno pane quotidiano già col millesimo 2011 in cantina, in uscita nei prossimi mesi del 2012; uno scatto in avanti a parer mio, intelligente e lungimirante, per una denominazione in forte ascesa che così facendo va confermando tutti i buoni auspici di affrontare questo particolare momento del mercato del vino con impegno e serietà produttiva, nella costruzione di una prospettiva per il territorio sempre più alettante, come ho imparato a leggere camminandoci le vigne e come vi stiamo cercando di proporre con sempre maggiore vigore; un territorio quello flegreo, capace di proporre ormai un ventaglio di assaggi ogni anno di qualità superiore e sempre più eterogenei, corrispondenti alle particolari caratteristiche di un areale storicamente vocato e sempre meglio interpretato di zona in zona.
Senza stare ad elencarvi tutte le novità, tra le quali anche accorgimenti tecnico-colturali-analitici, che comunque potete consultare con calma qui sul sito della Regione Campania, dove trovate tra l’altro tutte le modifiche ben evidenziate, queste sono quelle salienti più attese: anzitutto la modifica della doc Campi Flegrei bianco e rosso, con l’aumento della base ampelografica ammessa alla produzione: si spera così di dare maggiore vigore ad una etichetta praticamente mai utilizzata dai produttori. L’introduzione poi nella doc Campi Flegrei Falanghina, della versione passito (insisteva solo col piedirosso) e, nella stessa, l’opportunità di uscire con uno spumante dry o extra dry; infine, forse la più gradita delle novità, almeno per me, l’introduzione della doc Campi Flegrei Piedirosso o Pér e palummo rosato.
Altra novità, con un iter già ben avviato ma in via di definizione legislativa, sarà la possibilità di iscrivere sulle etichette delle bottiglie il nome della “vigna” o i suoi sinonimi, seguita dal relativo toponimo o nome tradizionale che potrà essere utilizzata nella presentazione e designazione dei vini DOP (ex doc e docg) ottenuti dalla superficie vitata che corrisponde al toponimo o nome tradizionale, purché rivendicata nella denuncia annuale di produzione delle uve prevista dall’articolo 14 del disciplinare ed a condizione che la vinificazione delle uve corrispondenti avvenga separatamente e che sia previsto un apposito elenco positivo a livello regionale. Elenco, come detto, di cui presto ne sapremo di più.
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Pozzuoli, ancora una good news: Falanghina dei Campi Flegrei 2010 Le Cantine dell’Averno
10 dicembre 2011E’ una bella storia quella di Emilio e Nicola Mirabella, due fratelli che hanno a lungo rincorso questo sogno e che, finalmente, con questo bianco duemiladieci esordiscono sulla scena.
L’azienda è di quelle piccole, minuscole si può dire, ma che conserva tutta la vocazione ultramillenaria di questo piccolo e suggestivo lembo di terra affacciato sul Lago d’Averno a Pozzuoli. Poco meno di due ettari, per lo più piedirosso, con vista sulle rovine del Tempio di Apollo: ma qualcuno forse si ricorderà del vigneto storico Mirabella, uno dei più preziosi del circondario flegreo, per anni curato e valorizzato dalla famiglia Martusciello, Grotta del Sole; ebbene, sono proprio loro, smessi i panni di conferitori hanno deciso di buttarsi nel fuoco. Anima e corpo.

In vigna, di falanghina, appena milletrecento metri, proprio sul lungolago, allevata con il tradizionale sistema a Spalatrone Puteolano; poi un’altra quarantina di quintali arrivano dalle vigne confinanti dei parenti vicini. Davvero un bel bianco questo vino, esordio quindi più che convincente, benedetto in cantina dalle mani esperte di Carmine Valentino e baciato da una giusta evoluzione in bottiglia che disegna caratteri distintivi molto interessanti, per niente banali: il frutto, nonostante l’annata avesse offerto una “coda” piuttosto piovosa, si mostra ben maturo e in piena evoluzione. Il colore è paglierino carico, di vibrante vivacità; il primo naso è subito floreale e fruttato, il palato invece è asciutto, ma a tratti voluminoso, profondo. Molto gradevoli le nuances di ginestra e albicocca, poi, come la bocca conferma, tanta mineralità e avvolgenza sapida. Tredici gradi di estrema godibilità.
A conferma di quanto si voglia fare sul serio, manco ci fossero dubbi sulla qualità della materia prima e la vocazione del terroir, tra le prime opere intraprese dai Mirabella c’è stata quella di rimetttere a nuovo il vecchio cellaio di famiglia e comprare tutti i ferri del mestiere utili e indispensabili a garantire adeguato sostegno in cantina alla buona opera perseguita in vigna. Qui si tende ad un lavoro certosino, ad una lotta integrata per esempio per quanto riguarda “i trattamenti”, per invadere l’ambiente agricolo il meno possibile. Il vigneto è di quelli davvero suggestivi, per lo più terrazzato e di non facile gestione: l’impianto è tradizionale e a piede franco, con viti che viaggiano tra i 40 a i 60 anni d’età, e la raccolta in vendemmia avviene esclusivamente a mano, e il carico viaggia praticamente “a spalla” sino in cantina che è a poche centinaia di metri. Anche qui, senza l’intenzione di sventolare alcuna bandiera, nessun idealismo se non quello di lasciar “parlare” l’uva; si lavora in maniera convenzionale ma senza aggredire, violentare il vino.
Con l’annata appena in cantina si sta, tra l’altro, già lavorando per ottenere un vino ancor più complesso, che esalti ancor più la qualità della materia prima che viene fuori da queste splendide vigne; l’annata 2011 promette bene e i primi assaggi dalle barriques hanno mostrato risultati piuttosto interessanti. Legni vecchi, rigenerati, pensati come contenitori, per lasciare distendere la massa in fermentazione, null’altro. Ma è prematuro parlarne oggi, c’è tempo. Come per il piedirosso anche qui siamo sulle 2.000 bottiglie in tutto, un vin de garage in piena regola, si direbbe oltralpe. Ma restiamo coi piedi per terra, Pozzuoli non è certamente Mersault, ma soprattutto perché si sa, ultimamente coi francesi non è che ci prendiamo un granché!
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Taurasi, prove tecniche di Grand cru con il Coste e il Vigne d’Alto duemilasette di Cantine Lonardo
1 dicembre 2011A margine della splendida verticale storica di greco musc’ andata in scena iersera al ristorante Rosiello di Posillipo, i Lonardo’s ci hanno concesso, in anteprima, un prezioso assaggio dei due loro nuovi cru di Taurasi in prossima uscita a Gennaio: il Coste e il Vigne d’Alto, tutti e due 2007.
Ci riserviamo naturalmente di approfondire meglio l’argomento, in vista anche di una prossima incursione irpina proprio tra qualche giorno, poco prima di Natale, quando non mancheremo (promesso!) di fare un salto da quelle parti; vi lascio però volentieri alcune annotazioni di merito sulle prime sensazioni ricevute. Prove tecniche di Gran cru irpini.
Il Coste 2007 appare vibrante, direi un rosso d’impeto. L’annata calda certamente lo incoraggia in questa veste sprint, con un colore decisamente avvincente con ancora evidenti nuances porpora. Il naso è intriso di note spiritose di frutta croccante e macerata, e l’accompagna una sottile e intrigante connotazione pepata. Il sorso è decisamente austero, di gran carattere, seppur quando accompagnato, come abbiamo fatto, con dell’ottimo e arcigno formaggio pareva scorrere via dissolvendosi. Dalle vigne intorno a Taurasi, allignate per lo più su terreni argillosi e di età media sui 40 anni, con una maturazione delle uve precoce e rapporto buccia/polpa a favore di quest’ultimo, quindi un approccio in vinificazione più soft. Tonneau e bottiglia.
Altra impressione il Vigne d’Alto 2007. Naso pronunciato su toni più tradizionali – riferibili ai vini di Contrade di Taurasi intendo -, con note di rabarbaro, fervori terragni, ricordi di ceneri, spiccatamente minerale. Qui “parla” il terroir: le vigne sono allocate in contrada Case d’Alto, su terreni compositi dove affiorano lapilli e ceneri di origine vulcanica. Classici starseti taurasini di età compresa tra i 40 e gli 80 anni: poca uva, di gran nerbo, con una buccia più spessa favorita senz’altro da condizioni pedoclimatiche più consone e quindi una maturazione più omogenea. Nonostante l’annata, qui il colore pare cedere un po’ della sua brillantezza ma appare più denso e meglio calibrato. Su misura. Del naso s’è detto, poi l’aspettiamo ancora, aggiungerei forse voluminoso, e poi un sorso decisamente appagante. Soprattutto, in questa fase, per chi ama le accentuate spigolature di un “giovane” e pimpante tradizionale aglianico di Taurasi. Legni diversi – comunque grandi -, e bottiglia.
Monte di Procida, Cantine del Mare
28 novembre 2011Non è più da considerare una anomalia quella di un vino rosato della scorsa annata addirittura non ancora commercializzato, quando siamo praticamente sul finire del 2011: un anno è più dalla vendemmia, tra l’altro con la nuova già in cantina in affinamento nelle vasche d’acciaio.
Unico e prezioso. E’ così che Gennaro Schiano, volto nuovo della viticoltura flegrea, vignaiolo appena quarantenne, ha deciso debba essere il suo rosato ancora in affinamento in acciaio (!): uscirà infatti solo poco prima di natale prossimo, e solo per gli affezionati clienti che si recheranno a comprarlo in cantina da lui a Monte di Procida, o ne faranno magari richiesta esplicita. Una rarità insomma.
E la conferma arriva saggiandolo questo rosato, e viene in mente come in realtà troppo spesso si ha troppa fretta di mettere in tavola certi vini, quando invece potrebbero tranquillamente maturare per poi riproporsi con slancio maggiore. Ma in verità in questa iniziativa non c’è nulla di precostituito, pensato, più semplicemente vi è un numero di bottiglie, appena un migliaio, che sarebbero volate via in un battibaleno e senza nemmeno, forse, una logica commerciale costruttiva vista anche l’improbabilità di riproporlo quest’altro anno. E’ ricco e vivace il colore tra il cerasuolo e il chiaretto, con vivide nuances ramate; primo naso vibrante, intenso di note floreali, e poi officinali; in bocca è asciutto, fresco, il sorso è sapido, appena caldo. Una vera delizia.
Così l’idea di conservarlo per chi ha il piacere di venire qui in cantina, camminare le vigne, conoscere la loro giovane ma intensa storia. E infatti Cantine del Mare è davvero una bella scoperta, lo è stato per me che, scioccamente forse, avevo affidato quasi esclusivamente alla buona presenza ed espressione dei loro vini la sola tangibilità di quanto di buono si faceva da queste parti. E invece no, la sorpresa è stata, per rendere bene l’idea a chi legge, decisamente enorme!

L’azienda è annoverata tra le più giovani del comprensorio flegreo, stiamo parlando del 2003 come costituzione e forse del 2006 come prima vera vendemmia, quella realmente espressiva del progetto di Gennaro, aiutato in questa avventura dalla giovane moglie Sandra e per qualche tempo da suo cognato Pasquale Massa, che ha curato perlopiù soprattutto i primi passi commerciali dell’azienda. Circa due ettari di proprietà, che praticamente cingono la piccola e suggestiva cantina di via Cappella Vecchia a Monte di Procida, più altri 6 in conduzione diretta sparsi qua e là sul territorio: “La mia idea di vino nasce in vigna, in ognuna di esse, e quindi solo gestendole in prima persona potrei dedicarmici a pieno. Ragion per cui, per tutti i vini da me prodotti nei Campi Flegrei, siano essi doc o igt, come per lo spumante e per il passito, non compro uve (nè vino, ndr) da terzi”.
I vigneti in conduzione sono collocati nelle aree tra le più vocate della denominazione, tra Bacoli, Monte di Procida e Pozzuoli; alcuni, dei quali si possono ammirare le splendide immagini qui riportate, sono davvero sorprendenti. Personalmente non ne avevo contezza prima d’oggi, e di questa scoperta sono davvero felice. Il vigneto “stadio” per esempio, praticamente sulla panoramica di Monte di Procida, da dove vi si accede per una piccola viuzza che discende una scarpata di recente ripristinata al passaggio, è di una suggestione unica: un catino di poco più di 2 ettari e mezzo, piantato con sola falanghina – a piede franco, già in produzione -, letteralmente affacciato sul golfo, con vista sulla prospiciente Procida e più in la l’isola d’Ischia.
Un luogo un tempo letteralmente abbandonato a se stesso e recuperato in maniera splendida proprio grazie all’operato di Cantine del Mare. L’impianto è moderno, piuttosto regolare e fitto, e nonostante sia facile immaginare le alte temperature agostane e altrettanto evidente, data la posizione, il beneficio della frescura della brezza marina e delle escursioni termiche che qui già a fine agosto si fanno sentire importanti.
Altra storia è la vigna sul Belvedere, ai più è già conosciuta perché di proprietà della famiglia Vitale che, per qualche anno, ha prodotto in proprio – con l’aiuto di Luigi Di Meo – col marchio dell’Azienda Agricola Il Ramo d’Oro. A loro, una volta decisi a mollare, è subentrato nella conduzione delle vigne Gennaro Schiano: da qui arriva oggi una parte del loro piedirosso “base”. Un vigneto anch’esso suggestivo, caratterizzato da un terreno piuttosto povero e quindi capace di stressare per bene il varietale e dare buona uva. Soffre però particolarmente l’esposizione ai venti forti che soprattutto in settembre, un momento delicatissimo per la vigna, spazzano decisi, talvolta violenti, questo costone collocato tra il Fusaro, Baia e Bacoli. Non è difficile infatti vedere perso tutto o in parte il raccolto, come è già successo per esempio due anni fa.
Ma questo delizioso Rosato, da piedirosso in purezza, è solo una delle chicche della preziosa proposta dell’azienda montese degli Schiano, guidata oggi in cantina dal giovane tecnico Gianluca Tommaselli, subentrato a Maurizio De Simone; e gli assaggi, praticamente di tutti i vini, anche quelli 2011 in vasca e in elevazione tra acciaio e legno, non hanno fatto altro che confermare le già solide mie personali convinzioni di un lavoro sempre costruito con integrità e vivida espressione, in vigna così come in cantina. Queste che seguono alcune tra le più interessanti impressioni.
V. S. Q. Brezza Flegrea Spumante di Falanghina. Assaggio prima il “vino base” appena a fine fermentazione; il prossimo Marzo questa piccola cisterna, così com’è, verrà caricata e spedita a Valdobbiadene per la spumantizzazione in autoclave: ha buona acidità, un buon tenore alcolico, darà un brut quasi al limite con l’extra dry, di indubbie qualità. Poi il vino dell’anno scorso (che al momento però è terminato); offre sensazioni organolettiche naturalmente più compiute: è brillante, fragrante nei profumi varietali, sorso immediato, secco e godereccio. Da bere a fiumi! (per saperne di più, leggi anche qui).
Falanghina dei Campi Flegrei 2010. colori sempre particolarmente cristallini quelli dei vini di Gennaro Schiano, baciati dal sole e rinfrescati dal mare. Naso floreale e agrumato, tenue ma gradevolissimo. Il sorso è secco, ben dritto e di felice bevibilità.
Piedirosso dei Campi Flegrei 2010. Colore intenso, vivo e maturo, con qualche sfumatura ancora porpora sull’unghia. Il primo naso vinoso, floreale e finemente speziato, comunque molto varietale. In bocca è asciutto e rotondo, non manca di nerbo. Un guizzo pepato sul finire.
Campania igt bianco passito Vento di Grecale 2007. Da sole uve falanghina. Splendido il colore oro, ricco e intenso. Naso molto invitante, pronunciato su note candite, confettura di albicocca e cioccolato bianco. Forse solo un tono dolce di troppo, ma il sorso rimane interessante e chiude con una delicatissima nota di crema pasticcera assai persistente.
Falanghina dei Campi Flegrei Sorbo bianco 2006. Parzialmente fermentato in legno, poi in acciaio e quindi in bottiglia. Lungamente affinato in bottiglia. Naso ancora caratterizzato dall’evidente passaggio in rovere, si esprime meglio e molto bene in bocca: voluminoso e di buona persistenza.
Piedirosso dei Campi Flegrei Sorbo rosso “Annata Riserva” 2006. Vino decisamente intenso. Ne avevo già bevuto e scritto in passato, conferma l’ottima trama gustolfattiva e la capacità di reggere il tempo senza particolari sofferenze. Forse solo il naso esprime toni un po’ avanti, maturi, qui la prugna si fa confettura, ma il sorso sa regalare ancora buona intensità e profondità.
Falanghina dei Campi Flegrei Sorbo bianco 2011 – atto a divenire elevazione in castagno. L’idea è quella di ritornare all’utilizzo del “nostro” legno di castagno anziché insistere sul rovere francese. Così una parte di riserve sta venendo affinata in tonneau di castagno. Il naso qui è ancora marcato da note fermentative, siamo ancora agli albori, ma rimangono piacevolmente evocativi i sentori agrumati e fruttati. Vabbè, il lievito, selezionato, è di quelli giusti, ma c’è tanta buona materia, quindi svaniti i primi accordi si dovrà attendere la musica vera. Sorso già pulito.
Piedirosso dei Campi Flegrei Riserva Sorbo rosso 2011 – atto a divenire elevazione in castagno. Qui il discorso pare avere già un profilo molto interessante, e più promettente. Colore molto vivace, intenso e di ottima consistenza. Naso varietale, esplosivo in questa fase, tra classica vinosità ma anche tanta frutta rossa polposa. Nessuna traccia del legno. In bocca è arcigno, ancora acerbo, certo, ma v’è tanta materia. Interessante.
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…e venerdì 24 Giugno a L’Olivo c’è Biondi Santi
16 giugno 2011Nuovo appuntamento imperdibile a L’Olivo con la cucina d’autore e la storia del vino in Italia: protagonisti assoluti venerdì prossimo 24 giugno saranno due ospiti eccezionali, Luciano Zazzeri, chef e patron del ristorante La Pineta di Marina di Bibbona e Jacopo Biondi Santi, in rappresentanza della omonima storica azienda montalcinese che ha letteralmente inventato il Brunello di Montalcino (e non solo).
Il mare di Capri quindi, la strada dei fortini, pervasi e percorsi dalla brezza marina della costa toscana e dalla suggestione unica di terre nobili e radicate nella tradizione enoica come solo quella di Montalcino può vantare di avere; insomma, l’isola azzurra come vero e proprio crocevia sulla via enogastronomica d’autore.
A lui, allo chef-pescatore di Marina di Bibbona, toccherà deliziare i palati con un Millefoglie di baccalà mantecato con vellutata di porro, un chiaro omaggio alla sua e alla nostra tradizione, quindi il piatto che forse più lo rappresenta, il mitico Caciucco della Pineta.
Andrea invece, con i piedi ben piantati in terra, si cimenterà con le Eliche con ragù di bufala, cipolla rossa e pecorino di fossa, un secondo di pura succulenza, lo Stinco di vitello con carciofi glassati e purea di patate al limone e, sul finale di serata, una delicata divagazione sul tema dessert con una sua personalissima Variazione di Provolone del Monaco.
Con noi, a raccontare la sua terra, la storia ed i vini che hanno accompagnato l’epopea dei Biondi Santi nel mondo, Jacopo Biondi Santi in persona. Si comincerà con il suo Morellino di Scansano 2008 di Castello di Montepò, in cantina, come benvenuto; poi, con tutta la suggestione delle parole di Franco che idealmente ci raggiungeranno durante la cena, verranno serviti il Rosato del Greppo 2007 – vino a lui carissimo e dedicato a sua moglie -, il Rosso di Montalcino 2007, il Sassoalloro 2008 e, a chiudere – non poteva essere altrimenti – il Brunello di Montalcino Tenuta Greppo 2005. L’evento è naturalmente sold out! già da tempo, ma era comunque doveroso segnalarvelo come tutti quelli passati e futuri di questa stagione!
Per informazioni dettagliate e prenotazioni per i prossimi eventi in programma, non esitate comunque a contattarci. Capri Palace Hotel & Spa Ristorante L’OLivo Via Capodimonte, 14 80071 Anacapri – Isola di Capri – ITALIA Phone: (+39)081 978 0225 Fax: (+39) 081 978 0593 www.capripalace.com olivo@capripalace.comIl naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso #2
7 giugno 2011Una faccenda simile a quella descritta nel finale del post precedente, che vuole cioè difetti originati da una cattiva gestione del vigneto o della vinificazione nonché dell’affinamento, proposti ed insidiati nell’immaginario collettivo come tipicità, è stata per anni propinata raccontando del nostro piedirosso dei Campi Flegrei, che ha, guarda caso, una spiccata tendenza sia alla riduzione, durante le fasi di lavorazione in cantina e, se le uve raccolte non godono di perfetta maturazione, al vegetale.
I napoletani e l’apologia del piedirosso. Per lungo e troppo tempo abbiamo sentito affermare che la puzzetta del piedirosso è un tratto caratteriale tipico del vitigno, o del territorio: affatto! Il carattere vegetale poi, come detto, è riconducibile solo ed esclusivamente ad una non corretta maturità dell’uva, derivante da una non ottimale gestione del vigneto (pirazine), mentre la riduzione è dovuta dalla produzione di idrogeno solforato (uova marce) e metantiolo (acqua stagnante, straccio bagnato) ad opera del lievito, sia esso indigeno o selezionato, quando è in condizioni di particolare stress per carenza di ossigeno o per carenza di azoto. I suoli vulcanici composti principalmente da sabbie sono terreni sciolti, poveri di azoto, tale macroelemento è indispensabile per il corretto metabolismo del lievito, quindi avendo valori di azoto prontamente assimilabile (APA) bassi – in media tra 80-120 mg/l quando solitamente ne occorrono circa il doppio -, non è difficile decifrare quale fosse l’origine del male di certi piedirosso sempre troppo sospesi tra l’inferno ed il purgatorio. A questo aggiungiamoci certe pratiche enologiche che definire scorrette è poco, dalla cattiva gestione dell’ossigeno, o un eccesso di anidride solforosa in fase di ammostamento, alla noncuranza delle uve in fase di pre-lavorazione con il doppio effetto negativo di produzione di esenoli – note erbacee – e l’eccessiva produzione di feccia vegetale che tende a sottrarre ossigeno al lievito. Bisogna fare pertanto attenzione quando si parla di tipicità e soprattutto di territorio. Il territorio negli ultimi quarant’anni ha subito notevoli trasformazioni, per di più il clima è cambiato, le buone pratiche di campagna abbandonate e le stalle, quelle vere, scomparse.
Il sovescio per esempio, veniva applicato sistematicamente in tutte le vigne del circondario flegreo, e qualcuno ancora riesce a mantenere, con non poca fatica, questa tradizione; consiste nel seminare in autunno leguminose, in modo particolare favino e lupinella, per interrarle poi in primavera; un sistema naturale atto ad arricchire il terreno anzitutto di azoto, ma anche di ferro grazie alla congiunta semina del rapestone. Il letame proveniente dalle stalle, stabulato e maturato, arricchiva il suolo di sostanza organica e carbonio, aumentandone così capacità di scambio cationico (C.S.C), cioè la capacità intrinseca del terreno di rendere disponibile i macro e i microelementi all’apparato radicale delle piante. Il letame, inoltre, ripristinava ogni anno la carica batterica del suolo fondamentale per rendere “vivo” il terreno.
Anziani contadini delle mie parti di sovente mi raccontano che il vino piedirosso presentava al tempo colore rubino brillante e spesso gradazioni alcoliche sostenute e buona struttura tannica, ovviamente il tutto in zone vocate e in particolare da vini prodotti con uve da viti vecchie.
Oltretutto le temperature erano più fresche e di conseguenza anche l’acidità era più alta ed il Ph più basso, ciò era molto interessante per tutte le ricadute microbiologiche e chimico-fisiche e per la capacità del vino di tenere nel tempo. Inoltre, il mosto veniva fermentato in tini di legno aperti con grande disponibilità di ossigeno per i lieviti indigeni, aspetto di fondamentale importanza per quanto detto prima. Infine, l’affinamento, anzi, a quel tempo era un mero stoccaggio in previsione di un trasporto che avveniva generalmente in fusti di castagno e ciliegio, non certo quindi per velleità ma per necessità; tra l’altro, il ciliegio a poco alla volta andava sostituito nel corso del tempo dal castagno, a causa della sua elevata porosità e quindi incidente sulla diminuzione di quantità di vino. In ogni modo anche questi legni conferivano tipicità al prodotto.
Il castagno, se ben stagionato, conferiva struttura e probabilmente al primo passaggio anche una nota amarognola e mentolata, con il tempo di sicuro il suo contributo migliorava perché meno aggressivo e comunque restava la capacità di ossigenare il vino attraverso il cocchiume e le doghe, cosa sicuramente positiva per l’evoluzione. Il ciliegio, fintanto che è stato presente nella filiera, in perfetto equilibrio con il castagno, donava dolcezza e frutto. Oltre a queste perdite naturali che hanno definito in passato la cosiddetta tipicità del piedirosso, un forte aggravio lo si è avuto dall’introduzione dell’acciaio in cantina. Il vitigno, si può dire quindi, è vittima del mal d’acciaio. Essendo l’acciaio un contenitore inerte, non traspirante, incide notevolmente sulla tendenza che ha il vitigno alla chiusura ed alla riduzione, talvolta irreversibile se non si ha l’accortezza di gestire bene i travasi, oppure adoperando la tecnica della micro ossigenazione; il per e’ palummo vinificato in acciaio è come un uomo stretto da una morsa al collo, che ha non poche difficoltà a respirare.
Come si evidenzia da quest’ultimo breve periodo, tante cose sono cambiate, ma una appare chiaramente non mutata nel tempo, la fretta del napoletano. Il napoletano è fast, comprende poco o nulla della cultura Slow, vive di precarietà da secoli e l’aforisma Carpe Diem pare cucitogli addosso in maniera calzante: poco, maledetto e subito!
Così per il vino, un prodotto da consumare subito, entro l’anno. Per fortuna oggi c’è qualche segnale di cambiamento, c’è qualcuno, qualche mosca bianca che inizia a rallentare ad andare più Slow, a sperimentare quell’arte di “saper attendere” anche sulla produzione dei vini. Questi segnali sono più che evidenti nell’ultimo decennio, tangibili nelle aziende storiche flegree come pure in quelle piccole realtà venute fuori negli ultimi tempi; di questi ci sono alcuni piedirosso, nomi e cognomi alla mano, La Sibilla, Contrada Salandra, Agnanum, dei quali godere appieno, e nessuno di questi caratterizzato, pur rappresentati come espressioni tipiche del territorio, da quella “tipica puzzetta” fastidiosa e certamente ben lontana, per quanto detto, dal varietale e dai Campi Flegrei; evidentemente quindi tutti lavorati bene e figli della scienza e di una enologia pulita. Si, perché dietro ad ognuna di queste aziende c’è un bravo enologo: a Bacoli, a La Sibilla c’è il giovane e bravo enologo di famiglia Vincenzo Di Meo, Giuseppe Fortunato di Contrada Salandra si avvale dei preziosi consigli di Antonio Pesce, che tra l’altro con i vini delle sabbie vulcaniche ha grande dimestichezza, mentre Raffaele Moccia, Agnanum, ha potuto beneficiare dell’imprinting iniziale dello start-up del vulcanico, competente ed estroso Maurizio De Simone.
In definitiva, il piedirosso incarna forse anche la marginalità di Napoli, a volerlo dire con una espressione greca usata nelle scritture apocalittiche, Napoli e il piedirosso si trovano sempre Parà ta éscheta ovvero prossimi ai limiti estremi, vicini alle cose ultime, sull’orlo dell’abisso, in bilico, sempre a un passo dalla resurrezione ma anche ad un passo dal precipizio. Infatti, uno dei grandi problemi irrisolti di questo vitigno è la scarsa produttività e quindi la definizione di un modello viticolo moderno, capace di esaltarne le peculiarità limitandone le avversità; intanto i contadini, proprio per questo motivo lo stanno estirpando, sostituendolo nella migliore delle ipotesi con la falanghina, di certo più plastica e generosa; quindi è d’obbligo lanciare un appello al mondo della ricerca, della produzione e della comunicazione, per lavorare uniti al fine di preservare il valore assoluto di questo straordinario vitigno, l’orgoglio agricolo nonché ancora di salvezza, rinascita viticola della nostra città. Save the piedirosso!
Qui “Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso” – parte prima.
Qui l’articolo in versione integrale su www.lucianopignataro.it.
Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso #1
7 giugno 2011Premessa: il vino è storia e cultura, è arte e poesia, ma soprattutto è natura; è però – indiscutibilmente – anche scienza.
Il naso. Fiori freschi bianchi, colorati, fiori appassiti e secchi, frutta fresca, matura, cotta e secca; profumi erbacei, vegetali, aromatici, speziati, pungenti o meno, ma anche minerali, tostati, animali; terragni, eterei.
Quando si parla di vino non si può non parlare anche di naso. Questi è uno strumento di precisione infallibile, o quasi; un software collegato ad un hardware ancora più complesso e potente qual è il cervello. Mille e più recettori differenti di cui ognuno di noi è capace al massimo di attivarne appena un centinaio, e a livello assai differente tra loro in quanto è scientificamente provato che esiste una predisposizione genetica all’olfazione, e che in ognuno matura e migliora solo attraverso un continuo allenamento e non di certo dall’oggi al domani. Le cellule nervose olfattive hanno inoltre la capacità di rigenerarsi con una certa frequenza tant’è che si può dire che in media ogni tre mesi abbiamo un naso del tutto “nuovo”; può capitare infatti che dopo uno shock, come ad esempio un forte raffreddore, per riacquistare una completa funzionalità dei recettori olfattivi dobbiamo attendere almeno 2-3 mesi.
Ma cosa sentiamo quando avviciniamo le narici al calice? Come anticipato, non tutti hanno la capacità di cogliere tutte le sfumature, il 50% degli individui per esempio non percepisce nemmeno il più semplice dei sentori, quello di violetta per esempio, o il succoso lampone (β-ionone); senza dire poi della fatica a ricordare il tabacco, l’amarena matura, figli di quel β-damascenone caratteristico dei vari Syrah, Gamay e non ultimo Pinot Nero? Una gran faticaccia! Tali composti varietali, tra l’altro presenti in tutte le varietà a bacca rossa, sono derivanti dalla degradazione dei carotenoidi ad opera della radiazione luminosa; ai fini strutturali non sono molto importanti per la loro espressione aromatica diretta, dato che difficilmente raggiungono concentrazioni superiori alla soglia di percezione, ma, anche a basse concentrazioni, sono in grado di funzionare come esaltatori di aromi primari fruttati. La loro concentrazione aumenta con l’aumento dell’esposizione dei grappoli alla luce, per questo motivo, non è blasfemico, ma scientificamente provato, poter ritrovare in dei vini bianchi prodotti da uve sovraesposte dei sentori che ci rimandano ai frutti rossi.
Altra molecola aromatica interessante è il 4-metilmercaptopentanone (4MMP), che appartiene alla famiglia dei tioli – il Sauvignon Blanc ad esempio -; questi, a basse concentrazioni corrisponde alla nota fruttata di frutto della passione, o all’erbaceo del bosso, mentre ad alte concentrazioni è spesso associato alla nota pungente della pipì di gatto – nota non sempre apprezzata – caratterizzante certi particolari sauvignon blanc della Loira, di Sancerre in particolare, dove sono state identificate per la prima volta, seppur presenti, in minor concentrazioni in molti altri vini europei. Le molecole aromatiche variano in base alla soglia di percezione che corrisponde alla quantità minima di una singola molecola che viene percepita da almeno il 50% di un campione in condizioni standard, la soglia può variare da qualche nanogrammo/litro fino ad alcuni milligrammi/litro per le molecole più pesanti.
Un altro fattore interessante da non sottovalutare, che incide talvolta non poco, è la pre-percezione che sovviene ad opera di altri sensi che partecipano all’analisi organolettica di un vino, come nel caso della vista; si, perché già il solo colore tende ad influenzare notevolmente la verbalizzazione; in un recente esercizio di degustazione, un bianco tra i più classici, colorato di rosso per l’occasione, ha condotto immediatamente tutti a riconoscere in quel vino aromi tipici di frutti e fiori rossi; altro esempio calzante è quello dell’idea che va maturando l’opinione pubblica della piccola cantina a confronto di una più grande, e non solo in relazione a termini numerici: una chiara pre-percezione di piccolo è bello e grande industriale; decisamente negativo per la seconda. Lo stesso vino inoltre – è noto – degustato in un posto evocativo, magari con il produttore presente, ha un sapore diverso da quello bevuto magari in altre occasioni meno suggestive: risulta decisamente più buono!
Ritornando alle molecole, altro elemento davvero interessante è 2-metossi-3-isobutilpirazina (IMBP) che è di sovente responsabile del carattere vegetale avvertito nei vini; il vegetale va distinto dall‘erbaceo che è generato invece da altre molecole aldeidi ed alcoli a 6 atomi di carbonio (esanale – esenale), che si formano con l’eccessivo maltrattamento dell’uva in fase di lavorazione (cattiva vendemmiatrice, cattiva pigiadiraspatrice, eccessiva pressatura). Fortunatamente la concentrazione di tali molecole è spesso inferiore alla loro soglia di percezione pertanto hanno un’influenza limitata. Il carattere vegetale è dunque da associare nella maggior parte dei casi alle pirazine piuttosto che agli esenoli. Il carattere vegetale, spesso riscontrato nel cabernet sauvignon, franc, merlot e sauvignon blanc, corrisponde al peperone verde, all’ortica, alle fave crude, ha una soglia di percezione di 15 nanogrammi/litro e la sua concentrazione diminuisce con l’avanzare della maturità dell’uva. Quindi in generale tutte le uve a bacca rossa se non ben mature generano vini vegetali. Il vegetale come già anticipato, si degrada con l’esposizione diretta alla luce, ma è anche presente nei vini prodotti da uve provenienti da zone calde dove la vigna non è stata opportunamente gestita (parete fogliare troppo espansa, eccessivo ombreggiamento dei grappoli) o l’annata è stata eccessivamente fredda e piovosa. In alcune zone viticole impossibilitate ad eliminare “il carattere vegetale” a causa delle avverse condizioni climatiche in cui si opera, si è addirittura arrivati a sbandierare questo “difetto” quale tipicità del territorio quando non peculiarità di quel determinato prodotto.
Stessa cosa è avvenuta ed avviene ancora in parte in alcune zone viticole per un’altra categoria di molecole odorose: i fenoli volatili (divisi in vinil-fenoli ed etilefenoli) di origine microbica prodotti dal lievito Brettanomyces. I vinil-fenoli che corrispondono a note farmaceutiche, di medicinali, di cerotto sono più presenti nei vini bianchi; mentre gli etilfenoli associati all’odore di sudore di cavallo, alla stalla, sono più presenti nei vini rossi. I fenoli sono sempre negativi, perché coprono l’aroma del varietale! In un viaggio di alcuni anni fa fatto in Spagna nella zona della Rioja buona parte delle cantine visitate presentavano vini con altissime concentrazioni di etilfenoli, questi per loro erano “vini tipici”, quegli aromi di stallatico ci venivano enunciati come markers del territorio, ma in realtà erano solo frutto dell’inquinamento delle botti da loro utilizzate ad opera del Brettanomyces. C’è da aggiungere che le molecole fenoliche purtroppo creano assuefazione, e dopo un certo tempo se si ha un inquinamento ambientale sarà difficile identificarle soprattutto per chi lavora da anni in quella stessa cantina.
Qui “Il naso, i napoletani e l’apologia del piedirosso” – parte seconda.
Qui l’articolo in versione integrale su www.lucianopignataro.it.
Napoli, storica verticale di Taurasi Struzziero: un lungo viaggio nel tempo a caccia di emozioni…
23 Maggio 2011Ecco una di quelle occasioni di confronto e crescita professionale che mai mi sarei perso di vivere; le ultime settimane di lavoro sono state particolarmente impegnative, dure, volendone sottolineare lo stress fisico, ma una verticale storica come quella messa su dall’amico Luciano Pignataro, che rincorre, indietro nel tempo, dal 2004 al 1977, oltre trent’anni di Taurasi, era un appuntamento da non mancare.
Sull’azienda ci sono poche altre parole da spendere se non la promessa, da parte mia, di continuarla a seguire con maggiore attenzione; chi volesse saperne di più, può dare un’occhiata qui e qui per avere contezza dell’entusiasmo che si palesa dalle note di degustazione che seguono. Bene ribadire forse che Struzziero, dopo solo Di Marzo e Mastroberardino, è la terza azienda per storicità in Irpinia, e che, come solo la concorrente azienda di Atripalda può fare, è ancora capace di offrire tangibilità liquida di annate di Taurasi così lontane nel tempo. Alla sessione di degustazione, coordinata in maniera egregia dal gruppo servizi dell’Ais Napoli, hanno partecipato, con il sottoscritto, Antonio Paolini, storica firma del Messaggero di Roma e grandissimo conoscitore di vini, Alberto Capasso, docente Slow Food, Mario Struzziero, enologo e proprietario dell’azienda di Venticano e naturalmente, in grande forma, Luciano Pignataro.
Taurasi Riserva Campoceraso 2004 (campione da botte) Si offre con grandi aspettative, per molti l’annata è di quelle da ricordare, tra le migliori che si ricordino nell’areale in epoca moderna; qualcuno addirittura la indica come riferimento assoluto, l’inizio del nuovo corso di una denominazione che non si può dire certo avulsa dall’enorme confusione interpretativa venutasi a creare soprattutto nell’ultimo decennio a causa – non a caso – dell’acuirsi della crisi delle vendite; a dire il vero ci aggiungerei anche quel peccato di vanità (leggi improvvisazione) che taluni proprio non si sono fatti mancare. Un bel rubino a vedersi, concentrato e vivace; il primo naso risente ancora della lunga, lunghissima sosta in legno – siamo ad oggi ai sette anni – ma esprime, in maniera quasi disarmante, una integrità e compostezza di eccellente fattura. Sentori fitti e fini di frutta matura carpiti subito appena svolte le nuances tostate, addolciti da spunti alcolici evidenti ma non ingombranti; lentamente poi emergono sentori balsamici e note che sanno di terra: l’imprinting, si direbbe, dei Taurasi di Struzziero; poi il tempo avrà modo di ricomporre a modo il puzzle. Beva asciutta, vigorosa, di ottima persistenza. Finale di sostanza, appena sopra le righe i tannini, in evidenza, crespi ma di pregiata finitura.
Taurasi Riserva Campoceraso 2001 L’ho subito accolto come il migliore della batteria, sin dal primo assaggio passatomi dai bravi sommelier del gruppo Ais di Napoli a cui era affidato il compito di governare la storica sessione di degustazione. Migliore non perché una spanna sopra gli altri, che tranne il ’77 – e per la verità soltanto al naso – erano perfettamente, aggiungo oltre ogni mia aspettativa, integri e godibili; semplicemente, in maniera evidente, quello più vicino, a mio modesto parere, a quel modello di riferimento “tradizionale” che in molti ricercano nel Taurasi. Colore di uno splendido aranciato maturo e vivace, abbastanza trasparente, il primo naso è subito invitante ed inebriante di aromi finissimi di frutta secca, corteccia, spezie e note balsamiche sottili e dolcissime: carrubo, china, pepe bianco e liquerizia. In bocca neppure il tempo di pensarci un attimo, secco, austero, intenso e persistente; tannino in grande spolvero ed equilibrio, non certo un campione di morbidezza, guai a pensarlo dinanzi a certe bottiglie, ma perfettamente bilanciato e pacato nel finale lievemente amaro. Davvero un gran bel bere, sull’immediato ed in prospettiva.
Taurasi Riserva Campoceraso 1997 Dell’annata si tessono lodi da sempre, per qualcuno addirittura “l’annata del secolo scorso”; personalmente è la prima che ricordi, vissuta, come “grande”. Un riferimento su tutti, che ha ovviamente poco a che spartire con l’aglianico, il Solaia ’97 di Antinori, bevuto in compagnia di splendidi amici, una sera a Santa Cristina, appena dopo aver ricevuto la nomina di “vino dell’anno” da Wine Spectator. Ma torniamo a noi, ovvero al Taurasi di Mario Struzziero. Il colore offre una splendida verve aranciata, trasparente quanto basta per esaltarne le sfumature sull’unghia. Naso inizialmente empireumatico, sporco, ma con la giusta attenzione non si fa certo fatica a riprendere le note lasciate nei calici precedenti; qui ancora sentori evidenti di frutta secca e spezie; poi terra, humus, in lento e finissimo divenire. Palato asciutto, oltremodo austero: l’alcol, come i precedenti sui tredici gradi e mezzo, pare sparito dal contesto ma in effetti qui da padrona la fa l’acidità – viva, espressiva, caratterizzante – ed il tannino, finissimo e infinitamente elegante. Un capolavoro per chi non ha paura delle durezze del Taurasi, per me, che paura non ho, rimane comunque una incollatura sotto alla duemilauno, e non solo per il naso inizialmente scomposto.
Taurasi Riserva 1990 Annata calda, la prima vissuta in prima persona da Mario in cantina; e a distanza di un ventennio ancora in piena evidenza nel bicchiere. Il colore rimane di un aranciato vivo e compiuto, seppur lievemente opaco rispetto ai precedenti, abbastanza trasparente. Il naso è subito dolce, le note di frutta secca e corteccia qui emergono come macerate, liquorose, di finissimo spessore ma un tantino più scontate rispetto ai precedenti ventagli olfattivi. Di tanto in tanto una sbuffata cioccolatosa e ancora di liquirizia. In bocca è secco ed abbastanza caldo, qui l’alcol – come tradizione a quel tempo raggiunge di poco i dodici gradi e mezzo – pare dominare eccessivamente il sorso, che rimane sì di buona persistenza ma esce meno incisivo dei precedenti, più corto, sicuramente meno emozionante pur non essendo affatto scontato. In perfetto stato di conservazione ma probabilmente nella sua fase di compiuta espressività.
Taurasi 1977 L’avessimo beccata tutti quell’unica (credo) bottiglia in quasi perfetto stato di forma saggiata al momento della “verifica tappo”, ne staremmo a parlare in altri termini; ma ahimé così non è stato, e probabilmente non poteva essere altrimenti; a quei tempi, in quegli anni dico, gli obiettivi erano essenzialmente altri e non certo votati alla speranza di ritrovarsi dopo oltre trent’anni a discutere di Taurasi così vecchi. Avendo la capacità di berlo dimenticandone subito il naso intriso di dolci note marsalate, se ne potrebbe trarre un quadro gustativo di tutto rispetto: secco, oltremodo asciutto, in perfetto stato di grazia e compostezza, con un tannino dissolto ma con un nerbo ancora non del tutto sopito. Un bel bere si direbbe, ma null’altro. Al netto, naturalmente, dell’unicità e dell’indimenticabile esperienza.
Qui invece da non perdere il report della brava collega sommelier (e giornalista) Monica Piscitelli pubblicato in contemporanea su www.lucianopignataro.it. Altre interessanti impressioni le trovate qui su Percorsi Di Vino, il blog di Andrea Petrini.
Novi Ligure, Filagnotti ’09 Cascina degli Ulivi
20 Maggio 2011Qualcosa non andava, sarò stato io, o la sottile insistenza di quella volatile incipiente; al che mi son convinto nel prendere tempo. Lasciar andare su la temperatura, aspettare e profondere maggiore attenzione. Decisamente dovuta.
E’ chiaro che, al momento, non sarò mai un fan della biodinamica, o di quel dire “così è se vi piace, e non può essere altrimenti” intendo, rimangono troppi punti oscuri che il mio intelletto fa ancora fatica, e parecchio, a decifrare: su tutti, dove finisce “il pensiero filosofico” e dove invece comincia l’opportunità commerciale? Un classico insomma! Ciononostante non riesco a fare a meno di ritornarci su, di tanto in tanto, ed infilarci le mani in pasta, ovvero il naso nel bicchiere. Un po’ come dannarsi l’anima con il cubo di Rubik, senza perdere però il sottile piacere della sfida.
Poi c’è il Filagnotti duemilanove di Cascina degli Ulivi, un vino decisamente complesso, per non dire complicato; contorto e scomposto di primo acchito, ma che sa, pieno di sé, cosa vuole dire e come vuol farlo: è lui l’altro Gavi, o quello che non c’è più, dato che dalla vendemmia 2008 è fuori disciplinare docg: una scelta meditata, dicono, sofferta ma necessaria. Nasce da uve cortese coltivate in località Tassarolo, da vigne con esposizione a sud ovest, su terreni rossi e argillosi. La raccolta 2009 del cortese, “tra le migliori mai avute” – mi racconta Sonia Torretta, l’enologa, raggiunta al telefono per aver più chiaro il quadro produttivo -, è avvenuta quell’anno verso metà settembre, poco dopo aver tirato giù dalle piante il moscato, subito prima del dolcetto; E’ stato vinificato esclusivamente in botti di legno di acacia di 25 hl, in ognuna è stata lasciata una quantità pari a 25 kg di grappoli non diraspati. Così, dopo un primo (ed unico) travaso per eliminare le fecce più grossolane, è rimasto per tutto un anno sulle fecce fini, sur lies si direbbe, sempre in legno prima di finire in bottiglia.
Il colore è un giallo paglierino carico, tendente all’oro, naturalmente non limpidissimo ma consistente e pieno di fascino. Il primo naso, come detto, allontana, però merita attenzione; una volta superata una prima fase di evidente empasse comincia a tirare fuori carattere e franchezza, qualità tra l’altro confermate certamente al gusto. Naso buccioso, vinoso, con sottili note di erbe officinali e frutta passita che rincorrono sentori di fieno e foglie secche, nocciola e frumento.
Vino di carattere, nonostante i 12 gradi e mezzo, di buon corpo; offre una beva non certamente facile, a tratti ruvida e graffiante, eppure espressiva, oltretutto di una buona prospettiva di vita. Difficile accostarlo a tavola sui classici piatti di pesce, meglio su primi piatti sugosi, anche aromatizzati, o preparazioni a base di carni, non necessariamente bianche, o ancora su formaggi mediamente stagionati. Attenzione a non servirlo troppo fresco, bene sui 12°/14°. Utile segnalarvi che non v’è assolutamente aggiunta di solforosa. Importante ribadire che chi non ama questa tipologia di vini, me compreso, difficilmente se ne innamorerà anche dopo questo assaggio; ma mettiamola così, perché non concedersi, ogni tanto, una stravagante avventura?
Per saperne di più sull’azienda o il pensiero Biodinamico di Stefano Bellotti date pure un’occhiata qui al sito di Cascina degli Ulivi.
Lievito autoctono? Ok, ma serve una definizione
9 Maggio 2011Il lievito? solo quello autoctono! Bene, perfetto, e allora? Prendo spunto dall’ennesima chiacchierata con l’amico Gerardo Vernazzaro per aprire una nuova discussione: lievito autoctono, ok, ma che differenza c’è? Credo sia fondamentale far chiarezza, e dare al consumatore conoscenza e coscienza per non continuare a passare per una vittima di mode e di tendenze che occupano, alla fine, se non ponderate con la giusta cognizione, il tempo che trovano; dire lievito autoctono (o indigeno) non significa necessariamente tipicità e territorio, e salubrità, come ama affermare qualcuno particolarmente accorto alle “nuove sensibilità” commerciali; così come “lievito selezionato”, non necessariamente volge al significato di omologazione e standardizzazione. Eccovi una interessante prospettiva che vale la pena leggere segnalatami dall’amico Gerry per aprirmi, ed aprirvi, ad una sana e distaccata riflessione.
Ceppo vinario autoctono. Sulla base della approfondita e fattiva discussione avvenuta in occasione della riunione del gruppo di Microbiologia del vino dell’AIVV poco più di un anno fa, l’11 febbraio 2010 a Bologna, è stato possibile definire (almeno come tentativo) il termine ceppo vinario autoctono: “trattasi di (lievito o batterio lattico) un ceppo selvaggio (non commerciale) isolato in una cantina specifica (nicchia ecologica), nella quale è dominante, persistente nell’arco di una vendemmia , e ricorrente per più annate. Tale ceppo, utilizzato nella stessa cantina di isolamento è in grado di conferire al vino caratteristiche peculiari rispondenti alla tipologia del prodotto programmato”.
In questa definizione vengono quindi considerate sia implicazioni di ordine ecologico che tecnologico. Anzitutto, un punto importante che è stato chiarito durante la discussione, e che rappresenta un fattore di forte confusione nell’uso del termine autoctono, è la definizione della nicchia ecologica. Considerato che la nicchia ecologica è l’ambiente in cui avviene la selezione del ceppo autoctono e che tale termine si riferisce a ceppi fermentativi, non si può considerare come nicchia ecologica il terreno, la vigna, l’acino d’uva o il mosto appena giunto in cantina. Tutti questi elementi possono essere definiti come un serbatoio di biodiversità. La selezione avviene, invece, nella cantina, intendendo con essa l’ambiente in cui avviene la trasformazione del mosto secondo un determinato protocollo biotecnologico.
Altri elementi essenziali nella definizione di autoctono sono i concetti di dominanza, persistenza e ricorrenza. Infatti un ceppo autoctono, perché possa effettivamente influenzare le caratteristiche di un vino, deve essere in grado di guidare, anche in associazione, la fermentazione. Dato che la cantina ove avviene la trasformazione del mosto in vino è la nicchia ecologica ove si attua la selezione, questa deve procedere favorendo il ceppo più adatto allo stile o alla tecnologia impiegata; il ceppo più adatto è verosimilmente destinato a diventare quello numericamente più rappresentato, tanto da divenire dominante e, se non avvengono cambiamenti drastici nello stile o nella tecnologia, anche persistente durante diverse fasi della fermentazione in uno stesso tino o in processi fermentativi in tini diversi. Infine il termine ricorrente si riferisce alla possibilità di isolare il ceppo autoctono individuato nel corso di annate diverse (consecutive ma non solo).
Ovviamente durante la fermentazione possono essere presenti diversi ceppi di lievito, che possono essere dominanti e persistenti a seconda della fase della fermentazione che si considera (inizio, metà, fine). Per questo motivo è importante definire con precisione il momento in cui effettuare le analisi microbiologiche sul mosto. Considerata la necessità di legare il termine autoctono alle caratteristiche del prodotto finito, questa selezione andrà fatta da metà fermentazione in poi se si considerano i lieviti del genere Saccharomyces e in altri momenti della fermentazione o della vinificazione in genere se si considerano i lieviti non-Saccharomyces e i batteri lattici.
Ultimo elemento considerato è relativo alla influenza del ceppo autoctono sulle caratteristiche di qualità del vino. E’ possibile, infatti, legare il termine autoctono alle caratteristiche del prodotto finito e non al territorio di produzione. Ne deriva che l’equazione ceppo = territorio è impossibile da dimostrare. È inoltre difficile dimostrare che il miglior ceppo per la fermentazione di uno specifico mosto debba necessariamente essere un ceppo isolato da quello stesso mosto. Infatti è possibile, ed altamente probabile, che i caratteri in grado di valorizzare una produzione possano appartenere anche ad un ceppo alloctono.
Autore: Prof. Giovanni Antonio Farris, dell’Università di Sassari. Per chi volesse, può approfondire questa ed altre interessanti letture su argomenti e trattati enologici su www.infowine.com.
Chiacchiere distintive, Benny Sorrentino
24 aprile 2011Laureata alla facoltà di agraria di Portici nel 2006, Benny Sorrentino è l’unica enologa in Campania campana; un’ importante esperienza formativa presso il Centro Ricerche per l’Enologia di Asti e nel 2008, a Torino, la specializzazione in scienze viticole ed enologiche. Nello stesso anno, l’abilitazione alla professione di agrotecnico laureato. Con il fratello Giuseppe, si occupa a tempo pieno dell’azienda di famiglia, venti ettari nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio.
Togliamoci subito dall’imbarazzo: dal pettinar le bambole a smanettare in cantina; sono io che la vedo dura o il percorso è più breve di quanto si possa pensare? In realtà fin da piccola ho sempre vissuto molti momenti tra campagna e cantina, e le bambole erano mie compagne di avventura. Effettivamente tra pettinare le bambole e stare in cantina ci sono delle differenze, richiedono ‘sforzi’ diversi. Ma
sono due cose indirettamente collegate, hanno dei punti in comune quali l’ordine e la massima cura. Nel primo caso forse maggiore cura e minore sforzo pratico, mentre nel secondo si intensifica la praticità. Mettiamola così, pettinare le bambole è stato un buon allenamento per la definizione dei particolari, dell’eleganza e dell’immagine dei miei vini. Poi in cantina ho cominciato a sviluppare altri aspetti di gestione e di forza! Tutto sommato mi è andata bene.
Quali sono stati gli ostacoli più duri da superare? Forse la difficoltà maggiore è stata il cercare il miglior metodo di lavoro e di organizzazione, conciliare cioè tutto ciò che era teoria con la pratica perseguendo gli obiettivi prefissati. Da piccola passeggiavo tra le vigne, raccoglievo l’uva in vendemmia, entravo in cantina e osservavo tanti movimenti; ora che ho maggiori basi di conoscenza tutto assume diverse prospettive e tutti quei “movimenti” diventano specifici e determinanti.
La vigna, la cantina, il mercato; nel mezzo la sostenibilità, un tema molto ricorrente ultimamente, qual è il tuo pensiero, il tuo ideale? La sostenibilità è un tema molto ricorrente perché credo che col passare degli anni si sia diffuso un uso incontrollato di prodotti di sintesi in agricoltura e in enologia convenzionale che possono aver provocato uno squilibrio naturale. Non tutti conoscono bene l’azione ad esempio di alcuni principi attivi che sono somministrati in vigna ma soprattutto gli effetti che possono provocare a lungo termine il loro uso improprio.
Ovviamente la sostenibilità si propone di non sconvolgere gli equilibri naturali e di rispettarli. Usare quantitativi minimi di risorse “artificiali” limitando così sempre più l’impatto su di essi. E’ indubbio che alcuni tipi di mercato sono interessati alla sostenibilità più di altri, ma ognuno bada ovviamente alla qualità, alla tipicità, e non ultimo alla piacevolezza del vino. Pertanto ritengo che se si rispetta l’ambiente e dalla terra si hanno prodotti sani che vengono trasformati senza sconvolgere le loro potenzialità, siamo sulla strada giusta.
Il Vesuvio nell’immaginario collettivo è una icona, eppure l’areale vesuviano rimane tra i più martoriati della provincia di Napoli; possibile che le amministrazioni (locali, regionali, nazionali) non riescono a vedere ciò che avete colto e valorizzato voi? A volte non tutti conoscono le realtà che costituiscono il territorio e in taluni casi nelle persone rimane l’immagine poco felice che viene trasmessa in seguito a diverse situazioni che vedono l’areale in forte difficoltà. Ritengo invece che l’area vesuviana assieme a tutte quelle vicine al mare siano importantissime e da tenere in grande considerazione; anzitutto per l’antica vocazione viticola e, come nel nostro caso, trattandosi di una zona vulcanica tra le più vaste in Europa continentale, con un vulcano ancora attivo e, per l’ambiente pedoclimatico davvero particolare.
Il problema sostanziale credo sia rappresentato dall’età media elevata delle persone che si sono fatti carico in passato della crescita e della valorizzazione del territorio, soprattutto per le difficoltà di strutturare un’efficace interlocuzione, come spesso è accaduto, non adoperando i giusti mezzi di comunicazione. Ecco perché confido molto nelle nuove generazioni, le associazioni, spero nei consorzi locali, affinché possano svolgere il loro lavoro nel migliore dei modi al fine di diffondere al meglio la cultura, le colture vesuviane e i prodotti da esse derivanti.

Il Lacryma Christi del Vesuvio, croce e delizia dell’enologia campana, ambìto da tutti per il suo storico prezioso valore di mercato, eppure mai nessuna grande azienda se l’è sentita di investire seriamente in loco; un bene, un’occasione mancata oppure… Il Lacryma Christi del Vesuvio è una tipologia di vino che viene ottenuta da differenti tipi di varietà distinte sia per il bianco che per il rosso. Le varietà, le loro peculiarità devono essere studiate e seguite a lungo ed attentamente, per poterne migliorare la coltivazione ed affinare quindi la qualità dei vini che vi si ottengono. Bisogna conoscere ovviamente l’areale, il suolo, il clima e cercare quelle “combinazioni” giuste per raggiungere il loro massimo equilibrio. Mi rendo conto che ciò è dispendioso, in particolar modo per chi si approccia al Vesuvio non vivendolo costantemente; si tratta di un vero e proprio investimento, anzitutto programmatico, che richiede tempo, conoscenza e supporti tecnici all’altezza. Ogni azienda ha una propria filosofia, si prefigge quindi gli obiettivi che più ha nelle corde, decide quindi dove, come e se investire.
Vigna Lapillo rosso, Natì, Catalò giusto per citarne alcuni; i tuoi vini, rossi e bianchi, sono indiscutibilmente tra i più rappresentativi dell’areale, sprizzano energia ad ogni sorso: qual è quello che ti assomiglia di più? Quelli che citi sono vini a cui siamo arrivati dopo un’attenta analisi e selezione delle nostre migliori uve; la volontà di esaltare quanto più possibile le potenzialità viticole ed enologiche delle varietà vesuviane, attraverso meticolose scelte dei tempi e dei modi di coltivazione, di vinificazione e quindi di affinamento. Gesti di sapienza che si fondono con quelli provenienti dall’innovazione. L’idea è quella di raggiungere un equilibrio che parte in primis dalla vigna, continua in cantina e termina con l’affinamento che renderà complesso e armonico un vino pur non essendo d’annata.
Ogni bicchiere di vino cerca di essere un piccolo vulcano, direi che forse quello che più mi assomiglia è il Catalò, da uve Catalanesca, a cui tengo particolarmente ed al quale mi sono molto dedicata. Le uve vengono raccolte in zone molto circoscritte dell’areale vesuviano, e questo lo rende ancor di più aderente alla sua tipicità; la cosa più interessante di questo vino è che a distanza di anni di affinamento, ho constatato conservi buone caratteristiche di freschezza, oltre che persistenza ed un notevole bouquet. Questo forse è l’esempio più rappresentativo della conciliazione della teoria acquisita nel corso dei miei studi sperimentali e della pratica.
Ecco, la Catalanesca: c’è, non c’è, si può fare, no? La Catalanesca è conosciuta anche come Catalana o uva Catalana, la sua presenza attualmente è limitata solo ad alcune zone dell’areale vesuviano e sembra risalire al 1500. Sono state ritrovate alcune descrizioni risalenti al 1804 fatte da Columella Onorati che la inserisce tra ‘le uve buone a mangiare’, nel 1844 Gasparrini, poi nel 1848 Semmola e tanti altri in anni successivi ne forniscono sintetiche ma efficaci descrizioni che sottolineano la morfologia del grappolo grande e spargolo con bacche grosse e il suo stadio tardivo di maturazione.
Per salvaguardare i vitigni autoctoni è stato realizzato un sistema di protezione attraverso gli accordi Stato-Regioni, in particolare la Catalanesca è stata inserita nella classificazione delle varietà di vite da vino coltivabili nella Regione Campania grazie al D. D. n.377 del 11 ottobre 2006. Nel corso della riunione del Comitato Nazionale Vini DO e IG del 23 e 24 febbraio 2011 è stato dato parere positivo per il riconoscimento della IGT Catalanesca del Monte Somma, prodotta nelle tipologia “bianco” e “passito e la cui zona di produzione delle uve è ubicata in provincia di Napoli. Pertanto alla luce di quanto scritto sopra la Catalanesca si può vinificare e il vino prodotto potrà anche riportare la denominazione IGT/IGP.
Bene, un po’ di chiarezza non guasta mai. Da qualche tempo producete, a mio modesto parere, uno tra i migliori vini rosé in regione, il Vigna Lapillo rosato; mi chiedo, e ti chiedo, fare rosato sul Vesuvio può essere una vocazione da valorizzare maggiormente? Certamente! Produciamo rosato da quando è nata l’azienda, e l’esperienza maturata vendemmia dopo vendemmia, il miglioramento delle tecniche viticole, ci hanno solo aiutato a migliorarlo. Generalmente il rosato è un vino che fa breccia solo nel cuore dei fans, ma chi si è avvicinato al Vigna Lapillo per la prima volta, pur con un certo distacco, ha dovuto ricredersi sino a rimanerne rapito.
Ne sono testimone. Torniamo a noi, chi fa il tuo mestiere è costantemente proiettato al futuro, non potrebbe essere altrimenti; spesso però bisogna fare i conti col passato, chiamiamola pure tradizione; tu come la vedi? Domanda che richiederebbe un argomentazione abbastanza lunga e complessa; diciamo che dal passato c’è sempre da imparare, anzi, spesso è il nostro riferimento per intraprendere con perizia nuovi progetti e studi. La viticoltura vesuviana è costituita perlopiù da contadini che gestiscono piccoli vigneti; da una parte hanno saputo conservare le vecchie tradizioni ma anche il prezioso materiale viticolo su piede franco, ma dall’altra non si prestano facilmente a fare investimenti sul miglioramento di alcuni aspetti legati alla coltivazione. E’ questo è senz’altro un limite che impedisce al territorio un immediato salto di qualità; tuttavia il potenziale rimane altissimo.

Oltre alla formazione, spesso ci sono incontri decisivi nella vita professionale di ognuno; nel tuo caso ce n’è stato uno? Gli anni della permanenza torinese mi hanno decisamente segnata, infatti ho vissuto molte esperienze che mi hanno vista a diretto contatto con una mentalità in continua evoluzione che ricerca lavori per poter migliorare il settore vitivinicolo e che è sostenuta dagli enti di ricerca attrezzati con strumenti di analisi all’avanguardia da poter mettere al servizio anche di piccoli enti.
Probabilmente questo modo di agire e di voler studiar meglio i processi è stato determinante senza aspettare che una cosa accada solo perché è legata ad una particolare vendemmia (certo potrebbe sicuramente incidere) o all’incrocio casuale o non ben rintracciabile di alcuni fattori. Ho ritrovato questa stessa determinazione nel voler analizzare con accuratezza e con la giusta tempistica gli aspetti viticoli ed enologici nell’enologo Carmine Valentino con cui condivido molti dei miei momenti di crescita e che per me rappresenta un forte stimolo di miglioramento.
In chiusura, per ringraziarti della chiacchierata, vorrei offrirti da bere: mi dai tre vini da proporti per fare centro? Ultimamente ho avuto modo di assaggiare dei vini di altre zone vulcaniche ed ho colto inaspettatamente delle analogie pur essendo vitigni differenti! La prova cioè di quanto possa essere forte la territorialità ed in particolare l’incidenza del suolo vulcanico. Il Soave Classico vigneto du Lot- 2009 di Inama; Garganega in purezza che all’assaggio mi ha evocato i sentori del Caprettone non d’annata! Buon corpo, intensità aromatica ed una interessante spiccata mineralità.
Oppure il Quota 600 2009 di Graci, Nerello Mascalese e sempre dalla Sicilia, il Koiné 2007 di Antichi Vinai, anche questo da uve Nerello Mascalese.Il primo esprime freschezza e bouquet molto interessanti, al gusto un buon tannino. Sembra di bere un Piedirosso della mia terra con note fruttate, balsamiche e minerali, fresche ed abbastanza pronunciate. Nel secondo rosso invece ho rivisto il Lacryma Christi rosso da invecchiamento, con note speziate miste a quelle balsamiche in evidenza. In entrambi i casi si tratta dello stesso vitigno che sembra mantenere delle caratteristiche basilari di riconoscimento ma che ovviamente risente della diversa esposizione dei vigneti e del grado di affinamento in legno. Un po’ come analogamente accade anche sul Vesuvio, dove le uve conferiscono ai vini tipiche note distintive che però possono subire delle modifiche a seconda dell’iter di lavorazione, dettato naturalmente dalla filosofia aziendale.
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Taurasi, Grecomusc’ 2008 Cantine Lonardo
14 aprile 2011Ecco un esempio di come la ricerca rimanga un valore assoluto da non perdere mai di vista, un assunto per niente opinabile e, men che meno, subalterno a questo o quel giochino politico di turno; il lavoro portato avanti su questo raro e, a quanto pare, straordinario vitigno campano dal prof. Giancarlo Moschetti & co., ci induce oltretutto a pensare, qualora qualcuno non ne avesse ancora colto il valore, non senza una sana presunzione, che la Campania del vino ha tutto quanto necessario per ambire a primeggiare nell’affollato e sempre più omologato calderone del mondo del vino italiano.
Quel che è certo, è che non abbiamo i numeri per competere con regioni ben più prolifiche della nostra, e a dirla tutta manchiamo anche di annali storici degni di nota, ma da qualcosa bisogna pur partire, e non è certo sul breve, in vitivinicoltura più che mai, che si costruiscono e si affermano ambizioni di questo genere; sono quindi altri gli elementi su cui fare leva e spianarsi al successo. Se ai numeri ed al blasone degli altri si è capaci di contrapporre elementi ancor più preziosi come la continua valorizzazione, come in questo caso, e la riscoperta del nostro straordinario patrimonio ampelografico, soprattutto in virtù di una loro precisa collocazione territoriale, della loro identità, che in certi luoghi, e per certi mercati in particolare, esprimono un valore che va ben oltre la normale esperienza degustativa, ecco svilupparsi un potenziale a dir poco eccezionale, invidiabile, un potere culturale di suggestione unica, un significato antropologico ineludibile; in altri termini, percorrendo questa strada non ci sono ragioni che tendano ad ostacolarci, il futuro è certamente nostro!
La ricerca dicevamo; quella genetica, ampelografica ed agronomica messa in campo sul Rovello bianco ha pochi altri precedenti nel recente passato in regione, e ciò la dice lunga sul fascino che questa varietà ha subito destato agli occhi dei ricercatori che se ne sono occupati, oltre che naturalmente sulla fermezza dei Lonardo’s a riguardo del progetto scientifico. Lo studio ha evidenziato che la varietà, allocata perlopiù a Taurasi e nel comune di Bonito, gli unici in Irpinia dove è ancora possibile rinvenire il Grecomusc’, si differenzia nettamente da altri vitigni sia regionali che nazionali italiani. Storicamente poi, si sapeva che il Roviello o Greco moscio fosse un varietale abbastanza diffuso anticamente in tutto l’areale tanto dall’essere annoverato in diverse citazioni ampelografiche ottocentesche, sin dal 1875; lentamente però pare che il vitigno sia stato soppiantato da altre varietà, fiano e greco su tutte, probabilmente a causa della sua precocità, e quindi destinato praticamente all’estinzione se non fosse stato per quei pochi ceppi vecchi sparsi qua e là nelle vigne, spesso ancora a piede franco, più a preservarne una sorta di memoria storica, un valore affettivo, che per fini produttivi.
Qui il grande merito di un’azienda come Cantine Lonardo, che sin dai suoi esordi, pur rappresentando appieno lo spirito enoico più tradizionalista, e se vogliamo integralista del comprensorio taurasino, non ha mai smesso di ricercare e sperimentare al fine di migliorare e far crescere la qualità espressiva dei suoi vini, finanche dei già superlativi Taurasi; non a caso è venuta per esempio la scelta di avvalersi, dopo la decisione del bravissimo Maurizio De Simone di prendersi un periodo sabbatico, della collaborazione dell’ottimo Vincenzo Mercurio, profondo conoscitore del terroir irpino nonché tecnico brillante e misurato in cantina.
Ne avevo già di molto apprezzato il duemilasette, annata non certo favorevolissima per i bianchi irpini, ancor meno per una varietà precoce come questa che si offre matura già alla terza decade di settembre, ma questo duemilaotto pare rivelarsi, a distanza di tempo, e cosa ancor più stupefacente, in prospettiva, a dir poco straordinario; bel paglierino nitido, cristallino, offre, a chi ama rincorrere certe sensazioni, un impulso emozionale che ha poco a che spartire forse con l’intero panorama bianchista nazionale; per questo, senza ombra di dubbio, superiore. “Il Grecomusc’ è una varietà che ha una quantità notevole di catechine che è necessario preservare dall’ossidazione durante la vinificazione e l’affinamento”, mi dice, interpellato, Giancarlo Moschetti; “quindi oltre ad una diraspa-pigiatura molto soft, in riduzione, gli concediamo un tempo di permanenza sui lieviti abbastanza lungo, e di deproteinizzazione naturale mediante precipitazioni a freddo di cantina, per evitare di utilizzare chiarifiche”. Tra l’altro, aggiunge, “essendo un vitigno di tipo tiolico”, caratterizzato cioè da markers piuttosto netti (pensate al bosso o alla ginestra di certi sauvignon, ad esempio), “per preservarne una certa integrità espressiva, vengono preferiti lieviti ambientali selezionati in vigna che possiedono degli enzimi denominati “B liasi”, che tramutano i caratteristici aromi tiolici” – chiare note agrumate, sottile frutto della passione, pietra focaia in lento ma marcato divenire –,“da criptici a presenti”, così da consentirgli di esprimere caratteristiche odorose tipiche di queste tipologie di uve, che certamente non sono per tutti i gusti ma offrono una complessità eccezionale, e che in più mira a garantire al vino una longevità davvero interessante, di cui certo non possiamo ancora avere piena contezza, ma per come si esprime nel bicchiere questo duemilaotto, ricco, tagliente, minerale, non possiamo che apprezzarne l’interessante prospettiva.
Non nego che è piuttosto difficile pretenderlo, soprattutto in un momento di mercato così difficile e complesso dove basta poco per perdere la bussola, però ritornando a noi, al valore assoluto della nostra vitivinicoltura, la specializzazione rimane l’unica via praticabile, e questo vino ne è l’esempio più illuminante; pensare che sia possibile presentarsi ai propri consumatori con un vino bianco così insolito, e non per completare la gamma aziendale – se ci pensate, sarebbe bastato, come fanno tra l’altro in tanti, comperare una o due vasche di fiano di Avellino o greco di Tufo per annata – ma per raccogliere una opportunità di recuperare e valorizzare un vitigno misconosciuto altrimenti disperso, non è mica male come idea vincente, non trovate?
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Giro di vite a Montalcino, Podere Sanlorenzo
2 marzo 2011Quando arriviamo a Podere Sanlorenzo è più o meno ora di pranzo, la mattinata spesa in cantina dalla famiglia Martini ci ha fatto per un attimo perdere la bussola oltre che la cognizione del tempo; gli assaggi, tanti, forse troppi contando che alla fine erano praticamente tutte le scorse vendemmie, sin dalla 2004, han fatto il resto.
Così, profittando della disponibilità di Luciano Ciolfi gli chiediamo di fare quattro passi in vigna per respirare un poco e rinsavire. Luciano è una persona deliziosa, l’ho conosciuto più o meno tre anni fa attraverso il web – lui è uno che con la comunicazione on line ci sa fare e come – e dopo l’incontro “de visu” allo scorso Vinitaly ho avuto modo anche di testare l’alto gradimento del suo Brunello da parte di molti miei clienti a cui l’ho proposto, non senza particolare entusiasmo. Se date un’occhiata al suo sito¤ troverete, tra le tante informazioni offerte, una frase, che a me ha colpito molto tanto da spingermi subito a conoscere lui ed i suoi vini, convinto, non so dirvi nemmeno perché, che non fosse solo l’ennesima trovata pubblicitaria; dice: “arrivò in punta di piedi, osservando il lavoro del nonno e del padre, acquisendo i loro valori, il loro bagaglio di esperienza e tutta la tradizione che portavano con sé. Ma a Luciano fare un buon vino non bastava: cercava l’eccellenza”. Ecco, se vai affermando cose del genere e non sei un tipo in gamba, e non fai le cose per bene, sei finito; per questo Luciano val la pena conoscerlo, i suoi vini di essere bevuti almeno una volta appena possibile.
Vignaiolo giovane – è tra gli ultimi arrivati sul panorama ilcinese – ha saputo però immediatamente cogliere quale fosse la strada da seguire per affermare la sua idea di sangiovese; l’azienda conta una proprietà di circa 60 ettari, appena quattro e mezzo a vite, a regime dal duemilatre; pochi esercizi di stile, sul Rosso di Montalcino¤ dove il rischio è sempre grosso – a mia recente memoria, tutte le annate tirate fuori a Sanlorenzo godono costantemente di buona e nobile nerbatura -, giocato su un frutto integro e ben ammantato di una mineralità pregnante ma sempre in discreta evidenza; nessuna nota boisè, anzi, il legno è ben dosato e tutt’altro che scontato; il Brunello poi ogni anno che passa matura in finezza ed eleganza senza mai ostentare grassezze inutili e, alla lunga, stancanti.
Il Bramante 2006 per esempio, conferma, oltre un annata qui certamente di ottima levatura, tant’è che anche Luciano uscirà l’anno prossimo – per la prima volta – con un Brunello Riserva, una impostazione di base dell’idea vino a Podere Sanlorenzo che trova modelli cui ispirarsi nel lontano, lontanissimo passato pur mantenendo una pulizia (soprattutto olfattiva) certamente figlia della moderna dotazione tecnologica in cantina, dove c’è acciaio prima che legno. “l’uva portata in cantina quell’anno era perfetta e sin dai primi assaggi effettuati ci siamo convinti di poterci mettere alla prova, e pensa te, che il 2006 è appena il nostro terzo anno di raccolta…”. L’assaggiamo, la Riserva, dopo un’attenta ossigenazione, e al netto delle spigolature del legno ancora in evidenza parrebbe proprio un gran bel bere, soprattutto per l’eleganza e la finezza che ne caratterizza la trama gusto-olfattiva; non ci resta quindi che aspettarlo un anno ancora!
Ecco, si conclude, ma solo per ora, questo breve ma intenso viaggio per le terre montalcinesi. Un percorso che a noi ci è apparso affascinante, suggestivo, che ci ha condotto a toccare con mano realtà che a torto o a ragione rappresentano la storia, non solo vitivinicola, di Montalcino e della Toscana tutta e che nel tempo, il loro tempo, hanno segnato o segneranno indiscutibilmente quella del Brunello. Luoghi, vini, tante memorie che siamo felici di aver incrociato sulla nostra strada e persone che possiamo solo ringraziare per l’estrema cordialità e sensibilità mostrata nell’accoglierci; ognuno, a suo modo, ci ha raccontato una storia, il suo Brunello, ci ha indicato una direzione da seguire, la loro; a noi adesso, a ragion veduta, la capacità di scegliere quale di queste strade seguire, quale Brunello proporre e mettere nel bicchiere, quale consacrare alla storia e quale invece lasciare consegnata alle algide pagine degli almanacchi o dell’accesa critica enologica, che spesso, ancora in questi giorni, continua a dire di amare Montalcino ed il Brunello ma non smette, inesorabilmente, di picchiare duro!
Qui la passeggiata tra le vigne de Il Paradiso di Manfredi;
Qui la spassosa ed indimenticabile visita a Diego e Nora Molinari a Cerbaiona;
Qui la visita del pomeriggio da Gianfranco Soldera a Case Basse;
Qui la visita a Pian dell’Orino di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach;
Qui la straordinaria visita in Biondi Santi e l’incursione da Casanova di Neri;
Giro di vite a Montalcino, Il Paradiso di Manfredi
28 febbraio 2011L’indomani, è mattino presto quando arriviamo a Il Paradiso di Manfredi, in via Canalicchio; la mattinata è decisamente grigia, la luce fatica non poco a trapassare la spessa coltre di nubi e la nebbia, fitta, stenta nel diradarsi stagliando all’orizzonte un panorama sì fosco ma di affascinante suggestione.
Ci viene incontro Florio Guerrini, che assieme alla moglie Rosella e le due giovani figlie animano oggi questa splendida piccola realtà ilcinese, nata, poco più di cinquant’anni fa, per opera di Manfredi Martini, prematuramente scomparso e viticoltore a Montalcino della prima ora; tanto era l’entusiasmo che l’aveva coinvolto in questa grande avventura dall’essere proprio lui tra i primi, nel 1967, a credere e lavorare per la fondazione del Consorzio di Tutela del vino Brunello. E’ il 1950 quando con la moglie Fortunata, anche lei impegnata sin da piccola in campagna, acquistano il podere “Il Paradiso” in via Canalicchio avviandolo lentamente alla produzione di uve di qualità da conferire dapprima alla locale cantina sociale e pian piano, per dirla alla dolce maniera della sig.ra Fortunata, “da farne vino ‘bono ‘dda vendersi a’ signori”; così Manfredi, dopo anni tra le vigne della già famosa Tenuta Greppo della famiglia Biondi Santi, realizza il suo sogno. Oggi l’azienda conta una superficie vitata di poco più di due ettari e mezzo, perlopiù votati al sangiovese grosso. Le piante sono allevate a cordone doppio speronato con un sesto d’impianto di 90 cm per 2,7 m con circa 3.300 ceppi per ettaro esposti tutti a nord/est. L’età media della piantagione è di circa 30 anni.
Facciamo così un giro in vigna, per quello che ci è concesso visto il frescolino che pervade la collina in queste ore. Florio ci accompagna raccontandoci, devo dire con maniere estremamente gentili ed animo appassionato, il ciclo del lavoro che accompagna ogni anno la nascita di ognuna delle bottiglie di Rosso (poche) e Brunello di Montalcino che vengono fuori da questo piccolo angolo di paradiso. “Sulla vite si comincia a lavorare sin da gennaio con la potatura secca, durante la giusta fase lunare”. “Poi più o meno ai primi di maggio, poco prima dell’allegagione, facciamo una prima potatura verde: dalle viti togliamo le gemme superflue, i germogli e alcuni piccoli grappoli in modo da agevolare tra i filari ventilazione e quindi un’allegagione ottimale”. “Così nel corso dei mesi continuiamo, dove necessario, ad intervenire in vigna, sino all’invaiatura, contando così di portare a maturazione solo pochi grappoli per pianta che prima della raccolta vengono passati ulteriormente a selezione prima di raggiungere la cantina e quindi la vinificazione”.
Ci spostiamo a questo punto nella piccola cantina, dove – ci racconta sempre Florio, raggiunto frattanto da una delle due figlie – appena dopo una soffice pigiatura il mosto passa, per caduta, in vasche di cemento vetrificato di piccola e media dimensione. La fermentazione è generalmente prolungata a seconda delle caratteristiche dell’annata, avviene comunque lentamente e a basse temperature e con soli lieviti indigeni. Dopo la svinatura e con il passare dei giorni il vino illimpidisce decantando naturalmente, di qui le masse passano in botti di rovere dove vi rimangono per tutto il tempo necessario prima dall’esser pronti per l’immissione sul mercato. Dopo gli assaggi dalle botti – proviamo praticamente tutte le ultime annate dalla scorsa 2010 alla 2008 – raggiungiamo il caldo focolare di casa Martini dove ci attendono le bottiglie di Brunello di Montalcino 2004, 2005 e 2006; assaggi che ancora una volta confermano, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno, quanto i cosiddetti vini da agricoltura biodinamica, e qui siamo – in maniera evidente – su posizioni abbastanza integraliste, siano profondamente ed inesorabilmente segnati dall’annata ed in quanto tale tanto vicino all’eccellenza in quelle per così dire “baciate dalla natura” quanto poco emozionali in caso di problematiche causate da millesimi meno lineari o quando condizionate da accadimenti imprevisti.
Così, in sintesi, siamo passati da un più che sufficiente duemilasei, ricco di frutto e di sfumature minerali, estremamente godibile nonostante i tannini un po’ disgiunti, ad un duemilacinque decisamente più diluito, qui dal tannino sopito e di estrema bevibilità mentre, infine, il duemilaquattro si è rivelato estremamente complicato, indecifrabile per buona parte del tempo, tanto che nonostante l’avessimo aspettato a lungo, ci ha fatto a lungo dibattere – sulla sua naturalità, sulla digeribilità, tipicità nonché sulla sua capacità di attraversare il tempo – ma in definitiva, sinceramente, ci ha lasciato discutere senza riuscirne a trovare, a coglierci, quel piacere di bere indubbiamente tanto espressivo nei primi due.
Qui il passaggio a Podere Sanlorenzo di Luciano Ciolfi;
Qui l’imprevista e l’imprevedibile visita a Cerbaiona;
Qui la visita da Gianfranco Soldera a Case Basse;
Qui la visita a Pian dell’Orino di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach;
Qui la deliziosa mattinata in compagnia di Franco Biondi Santi e la visita a Casanova di Neri;
Giro di vite a Montalcino, due ore a Cerbaiona
25 febbraio 2011Quando sull’uscio di Case Basse salutiamo Gianfranco Soldera il sole è già calato all’orizzonte, lui – quasi se lo fosse conservato come ultimo dire – ci invita a buttare un occhio al polso e l’altro lì, all’orizzonte, poi sorridendo di gusto ci fa: “andate a dirglielo voi… che io ho smesso più o meno una dozzina d’anni fa: quale altra vigna a Montalcino gode di luce quanto la mia?”.
Con chi ce l’avesse non l’abbiamo mica capito, ma è certo che un personaggio come Gianfranco Soldera e vini come il suo Brunello ti entrano dentro così prepotentemente che se non hai spalle belle larghe e sani principi rischi di perderti, e con te tutto quello che pensavi di sapere, conquistato sul campo al netto di tutte le fandonie che ti hanno raccontato e che ti sei fatto scivolare addosso, pur passate per buone da qualcun altro di cui ti fidavi o magari sul quale contavi. Una vita da sommelier insomma, mica altro!
Mentre mi accingo a pescare il telefono finito da qualche parte nel camper, chiedo a Nando e Dino se non sia disdicevole chiamare a quest’ora – sono da poco passate le cinque del pomeriggio – per una visita in azienda; ma quando, non ricordo nemmeno chi dei due, si ricorda di rispondermi, farfugliando qualcosa, ho già avvisato il sig. Molinari del nostro arrivo lì a Cerbaiona, più o meno in una decina di minuti. Di Diego Molinari non si può dire certo che sia, tra i produttori di Montalcino, il più disponibile; a detta di molti è invero tutt’altro che accomodante; dicono che è più facile scovare una bottiglia delle sue nel New Mexico piuttosto che ti apra le porte della sua cantina.
Chissà, sarà stata la serata giusta, che gli girava bene, forse la gran vena della splendida moglie Nora, tant’è che il maestro (tal è per molti) o altrimenti detto, il comandante – per i suoi trascorsi di pilota d’aereo di linea – quella sera non solo ci ha aperto le porte di casa sua e della splendida suggestiva cantina, ma ci ha intrattenuto a lungo regalandoci momenti di vita vissuta incredibili, dalle prime faticate vendemmie alle “prime folli uscite di testa”- come le chiama lui – di guide e “contractors”; nel mezzo la passione più che l’amicizia dello stimato Cernilli per il Brunello Cerbaiona – “ci ha sempre seguito e spronato a fare meglio” – e l’insaziabile ma sempre turbolento mercato americano; “perchè nella convinzione di accontentare tutti va sempre a finire che scontenti qualcuno, così noi non ci siamo mai fatti strane idee, abbiamo sempre tirato dritto, anche quando – durante i giorni dello scandalo, ndr – qualche sprovveduto è andato in giro a dire che avevamo venduto Cerbaiona a chissà chi; ma tu guarda cosa s’inventano pur di cavalcare l’onda!”.
Nei giorni precedenti per la verità gli avevo a lungo chiesto di accoglierci nella sua graziosa cantina, e girando per il paese, conoscendolo, in molti ci davano per spacciati: “E’ un tipo particolare il Molinari, riottoso, poco socievole, provateci pure ma non credo che vi offrirà più d’un saluto telefonico”. E come spesso accade, è stata proprio questa particolare chiusura che ci ha ispirati di più, un po’ come la ricerca di quel forziere dimenticato chissà dove di cui tutti ne parlano e ne vanno alla ricerca ma nessuno sa veramente cosa c’è dentro. E della Cerbaiona, l’azienda di Molinari, se ne parla e come da sempre, sin dalla sua fondazione, alla fine degli anni settanta; il suo Brunello è indiscutibilmente tra i più acclamati ed apprezzati del comprensorio, la stoffa dei suoi vini, forse la più pregiata di questo versante montalcinese, in certe annate quasi inarrivabile, per questo irripetibile.
Dicevo della splendida moglie Nora, donna dinamica e risoluta come poche altre incontrate sino ad ora, è lei, oggi, il vero motore della piccola azienda agricola; basta osservare con quale cordiale osservanza ruba lentamente la scena al marito – giunto frattanto alla decima sigaretta, e siamo qui da poco meno di un ora – sino a coinvolgerci rapiti: intuitiva, solare, affabile, anche quando ha dovuto giustificare al marito che avevamo ritrovato in cantina una bottiglia di Brunello 2004, che lui – precedentemente al suo arrivo nella stanza – ci aveva categoricamente escluso che potesse ancora avere. Assaggiamo con loro, il Rosso 2007, davvero sorprendente, e, in anteprima, il Brunello Cerbaiona 2006, da sgranare gli occhi e… praticamente da masticare a lungo; Ci sottopone poi all’assaggio, senza in verità crederci più di tanto – che sagoma! -, anche il Cerbaiona rosso igt: “beh, c’è stato un momento che m’hanno rotto le balle, loro e ste’uve internazionali, gliel’ho fatto, et voilà; oggi però non lo vuole più nessuno, va in malora!”.
Qui il passaggio a Podere Sanlorenzo di Luciano Ciolfi;
Qui la passeggiata tra le vigne de Il Paradiso di Manfredi;
Qui la visita da Gianfranco Soldera a Case Basse;
Qui la visita a Pian dell’Orino di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach;
Qui la deliziosa mattinata in compagnia di Franco Biondi Santi e la visita a Casanova di Neri;
Giro di vite a Montalcino, di Pian dell’Orino e dell’uomo che sussurrava alle piante…
15 febbraio 2011Quando Caroline Pobitzer è giunta a Montalcino dall’Alto Adige, dove è nata e dove prima di allora si occupava della proprietà della sua famiglia, un grande castello rinascimentale – Castel Katzenzungen– ai cui piedi vive un’immensa vite di oltre seicento anni d’età, aveva certamente le idee già ben chiare su quale fosse la filosofia da seguire nella nuova splendida proprietà a Pian dell’Orino; poco più di tre ettari giardino sistemanti ad un tiro di schioppo da quel Greppo dei Biondi Santi tanto famoso nel mondo quanto, per molti, icona inarrivabile.
L’incontro con Jan non ha solo consolidato un progetto aziendale se vogliamo già forte, rendendolo oltretutto univoco dopo il loro matrimonio, ma lo ha reso sensibilmente proiettato nel futuro di una terra fortemente contesa che solo nelle radici più forti sta lentamente ritrovando, dopo brunellopoli, la sua vera essenza, quell’autenticità da tutti sospirata ma da pochi palesata in maniera così pregnante come qui a Pian dell’Orino.
Jan Hendrik Erbach è invece nato e cresciuto a Karlsruhe, in Germania, ha studiato a lungo viticoltura prima di arrivare alla prestigiosa Accademia di Geisenheim dove ha completato la sua formazione professionale; da qui, dopo gli studi, ha vissuto e lavorato per alcuni anni in Francia, maturando una lunga esperienza soprattutto in merito alla viticoltura cosiddetta naturale, una vocazione questa che lui stesso difende strenuamente dalla volontà di molti che tendono stupidamente alla sua banalizzazione – i suoi rimedi e le pratiche antiche e consolidate nel tempo, per esempio – nel solo intento di etichettarla per meri fini commerciali. E’ per questo che ci tiene a sottolineare quanto “in una viticoltura sana ed equilibrata non si deve aver necessità di sposare questa o quella teoria, fare sfoggio di questa o quella filosofia”, “la terra ci parla, ci chiede e ci racconta, basta saperla ascoltare o meglio, leggere”; ecco perché alla fatidica domanda “ma siete biodinamici?” non si scompone: “Non abbiamo necessità di sfoderare una filosofia produttiva, la nostra bibbia è la nostra esperienza, il vino si fa a questo modo, devi conoscere il tuo terreno, le tue vigne, l’ambiente in cui crescono e qui devi sapere dove e come poter e non poter mettere le mani; il resto, la cantina, c’entra tanto o poco a seconda di che uva ci porti dentro, il tempo poi ti dirà dove puoi arrivare con i tuoi vini, a te basta saggiarli e decidere”.
Prima di partire per questo viaggio era doveroso cercare di carpire quante più informazioni possibili sulle aziende e sui vini che saremmo poi andati a scovare, riducendo così al minimo, dove possibile resettandole, le antiche e conservatici memorie in materia. “Il Brunello di Montalcino di queste terre, di questa in particolare – ci dice in sintesi Jan – altro non è che lo specchio del sangiovese cresciuto sui terreni sassoso-galestrosi di questa regione a nord del Monte Amiata”, esprime quindi, “proprio tutte quelle asperità, quelle complessità di un ambiente inoltre fortemente condizionato dalla particolare situazione pedoclimatica, difficile, ma forse proprio per questo, unica al mondo”. A Pian dell’Orino si seguono poche regole e fermamente radicate in quella che per ragioni di sintesi chiamerò biologica (o se preferite un estremismo tanto amato, ancor più conservatore, biodinamica) ma che in effetti rincorrono ed esigono un risultato finale di tal finezza ed eleganza – pienamente colti in tutti gli assaggi effettuati, dalle botti come nelle bottiglie – che mi verrebbe da dire, a certi soloni del biopensiero in particolare, che prima di sparare cazzate su certe “caratteristiche e tipiche puzzette” vengano un paio di mesi a lezione da Jan e Caroline!
Complessivamente il vigneto aziendale conta circa 6 ettari di cui almeno tre proprio qui intorno alla casa-cantina, piantati con una densità di impianto di 4.500 piante/ha dalle quali si ottiene mediamente una resa massima che a seconda dell’annata si aggira fra i 30 e i 60 qli. La biodiversità qui è un valore assunto ineludibile, come detto, pertanto per incrementarla nelle vigne, viene praticato costantemente un sostanzioso inerbimento con semi di leguminose, graminacee, cereali ed erbe officinali – queste ultime tra l’altro utilizzate per le tisane somministrate per rafforzare il loro sistema immunitario – cercando di creare così un ambiente favorevole allo sviluppo di popolazioni variegate di insetti, rettili, volatili e piccoli animali utili all’incremento della vitalità del terreno ed alla competizione biologica verso parassiti nocivi. Poco, ma indispensabile l’utilizzo del solfato di rame per alcuni trattamenti che comunque non prescindono da principi ancor più rigidi dei vari “protocolli” sviluppatisi intorno alla biodinamica e fortemente caratterizzanti la conduzione del vigneto da parte di Jan e dei suoi collaboratori.
In cantina non vengono perseguite tecniche invasive durante la fermentazione (tipo rotatori, pale ecc…) che avviene lentamente ed in maniera spontanea, con fermenti indigeni e quindi non di colture batteriche commerciali; le varie pratiche di decantazione avvengono per caduta naturale seguendo i diversi livelli su cui è costruita la cantina – essenziale, senza cioè nessun viaggio introspettivo architettonico, e tra l’altro perfettamente integrata nel paesaggio, ndr – mentre per i vini non v’è chiarifica se non la naturale precipitazione dei depositi; è bassissimo l’uso della solforosa, “affinché si riesca a garantire al vino piena salubrità ma anche che rimanga perfettamente digeribile”.
La produzione prevede essenzialmente tre vini, il Piandorino, un rosso giovane, da consumare velocemente e che esce come igt, un Rosso di Montalcino, dove è già espressamente tangibile lo straordinario lavoro in vigna – il 2008 mi è parso tra i più buoni mai bevuti prima – ed il Brunello Pian dell’Orino propriamente detto, che nelle migliori annate, come il 2006 bevuto praticamente in anteprima, rappresenta secondo me, un vero e proprio piccolo gioiello di vino-frutto e ficcante mineralità; fattostà che proprio con il 2006, il prossimo anno uscirà anche, per la prima volta, una Riserva, con le uve raccolte perlopiù a pian Bossolino e Cancello Rosso in località Castelnuovo dell’Abate, tra i più vocati del territorio e dove tra l’altro ricadono le vigne di un altra azienda fuoriclasse, Stella di Campalto, che non riusciremo a visitare in questi giorni solo per mancanza di tempo ma di cui possiamo solo pensarne bene tanta è la considerazione che gli stessi Caroline e Jan, di cui ormai ci fidiamo ciecamente, manifestano apertamente.
Qui il passaggio a Podere Sanlorenzo di Luciano Ciolfi;
Qui la passeggiata tra le vigne de Il Paradiso di Manfredi;
Qui la spassosa ed indimenticabile visita a Diego e Nora Molinari a Cerbaiona;
Qui la visita del pomeriggio da Gianfranco Soldera a Case Basse;
Qui la deliziosa mattinata in compagnia di Franco Biondi Santi e la visita del pomeriggio a Casanova di Neri;
Giro di vite a Montalcino, Gianfranco Soldera e quell’insostituibile legge naturale dell’essere…
14 febbraio 2011Mi è sempre risultato difficile pensare a chi produce vino – dei sublimi piaceri, quest’ultimo è se vogliamo, quello più effimero – come un idolo o un mito, ma allo stato dei fatti non posso negare che presentarmi dinanzi al cancelletto di Case Basse e ritrovarmi un attimo dopo il sorriso di Gianfranco Soldera lì di fronte, un certo effetto, debbo ammettere, me lo ha fatto eccome!
Di lui si dice che sia un tipaccio, dal carattere fumantino, che sia oltremodo schivo, alquanto solitario, poco socievole, presuntuoso: e direi che non è poco. Io credo di aver conosciuto una persona che sa molte cose di vino, e già prima di farlo a Montalcino, quando vi è arrivato nel ‘72 dopo aver vanamente cercato di stabilirsi in Piemonte, nelle Langhe; certamente è uno molto sicuro di se – e a parlarci francamente, tremendamente severo con gli altri – convinto del fatto che per raggiungere il massimo bisogna fare almeno un po’ meglio di quanto si abbia intenzione di fare. Personalmente ne sono rimasto sinceramente impressionato, dalla sua dotta franchezza più che dall’inutile presunzione che sì, su certe argomentazioni, traspira parecchio, ma in fin dei conti ciò che pensa Gianfranco Soldera del vino e di come si faccia il vino a Montalcino o come si possa fare un grande Brunello, lo pensano in tanti, il problema è che non tutti hanno il suo stesso coraggio nel farlo per davvero così!
Dicevo del suo arrivo a Montalcino, 39 anni fa, in questo pezzo di terra che mai aveva visto una vigna prima di allora, ma nemmeno del grano o altro, tanto era povero ed austero. “Ideale per piantarvi il Sangiovese Grosso!”ci dice sorridendo. Per almeno vent’anni, sino a metà anni ottanta ha fatto avanti e indietro per Milano dove ha continuato a curare i suoi affari prima di stabilirsi definitivamente a Case Basse. L’azienda agricola, di circa 23 ettari ha appena una manciata di questi, 8 per la precisione, a vigneto – suddiviso perlopiù tra Case Basse propriamente detto (6,5 ha), il primo impianto, e Intistieti (1,5 ha), più giovane di qualche anno – poi ulivi, un bel pezzo di bosco di querce ed un parco botanico immenso tanto quanto i dintorni della casa che si allungano sino ad un piccolo stagno artificiale (“il brodo primordiale”, ndr), a due passi dalla cantina, giardino di cui se ne occupa ancora oggi in prima persona la signora Graziella, grande appassionata; qui troviamo, proprio dietro la casa, l’antica fontana con al centro il delfino disegnato sulle etichette del Brunello di Montalcino Riserva Case Basse (finalmente!), poco più in la invece, a leggere alcuni cartelli sbiaditi dalle ultime ghiacciate e poggiati ai piedi delle aiuole, non si fa fatica a capire della enorme passione per la ricerca di piante e rose dal valore antico ed arbusti unici nel loro genere: ma oggi non riusciremo certo a goderne appieno delle bellezze, non fosse altro perché siamo in pieno inverno ed oltretutto ha da poco nevicato, ma da come è strutturato tutto il giardino non è difficile intuire come qui in primavera sia un festival di colori e profumi perfettamente calzante all’ideale naturale alla base del progetto Case Basse ed alle intenzioni dei Soldera di dare rifugio e nutrimento ad uccelli ed insetti e a i vari impollinatori notturni tanto indispensabili per ristabilire costantemente l’ecosistema circostante.
Le uve vengono vinificate solo in tini e botti di rovere che stando alle naturali condizioni di cantina non necessitano di controlli di temperatura o altro, ai mosti non si aggiungono lieviti, il processo fermentativo è assolutamente naturale e con lieviti indigeni. Vengono invece effettuati parecchi rimontaggi sino alla naturale saturazione della fermentazione. A guardarsi intorno è evidente come il volume della cantina, disegnata dallo stesso Soldera e realizzata dall’architetto Lambardi, costruita oltre i quattordici metri sotto terra e solo con materiali naturali, “senza nemmeno un spolverata di cemento”, sia particolarmente sproporzionato rispetto alle botti che contiene e soprattutto al numero di bottiglie che vengono fuori da queste, appena 15.000, ma evidentemente l’idea di grandezza che nutre Soldera per il Brunello passa anche dalla mastodonticità delle spesse mura di roccia naturale che circondano e proteggono le sole 12 grandi botti di rovere di Slavonia, talune da 65 ettolitri, altre da 75, incastonate tra le grosse travi in ferro Corten.
Sempre guidati dal buon Gianfranco assaggiamo a questo punto qualcosa ancora in elevazione nelle botti, scegliamo la Riserva Case Basse 2005, già straordinariamente fine ed elegante, nonché particolarmente sapida, e poi un suggestivo quanto incredibile 2010, che per quel che vale un assaggio del genere, già appare come materia viva finemente plasmata, e che se non fosse uno spreco del signore, ce ne saremmo volentieri scolato un paio di bottiglie, tanto succoso e ricco ci è apparso! Infine, è curioso sapere che Soldera mette in bottiglia il suo Brunello direttamente da ogni singola botte, senza fare quindi massa unica prima di passarle all’imbottigliamento; gli abbiamo chiesto, non si rischia così di avere sul mercato bottiglie della stessa annata con caratteristiche peculiari che possano differire tra loro? “E chi mai ci dice che facendo massa unica non accada lo stesso?” poi ancora, “Le dirò di più, trovo assolutamente insensato creare una omogeneità per vini che comunque evolveranno in bottiglia per almeno dieci o vent’anni, in maniera completamente autonoma e diversa le une dalle altre?”. Beh, come seconda giornata, credo possa bastare, non male direi…
Qui il passaggio a Podere Sanlorenzo di Luciano Ciolfi;
Qui la passeggiata tra le vigne de Il Paradiso di Manfredi;
Qui la spassosa ed indimenticabile visita a Diego e Nora Molinari a Cerbaiona;
Qui la visita a Pian dell’Orino di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach;
Qui la straordinaria visita in Biondi Santi e l’incursione da Casanova di Neri;
Giro di vite a Montalcino, alla scoperta del mito Brunello da Biondi Santi a Casanova di Neri…
8 febbraio 2011E’ notte fonda quando arriviamo a Montalcino, sulla strada, sin dalle prime curve che da Chiusi-Chianciano ci hanno condotto qui, la neve, copiosa, riveste i tetti e le mura di cinta delle piccole case in pietra che scorrono ai lati lungo la via. Troviamo riposo nella piccola area di sosta comunale, giusto ad un tiro di schioppo dalla Fortezza; l’aria lì fuori è gelida, il termometro sfiora lo zero, ma il camper è a dir poco confortevole ed il nostro entusiasmo arriva praticamente alle stelle, a guardar fuori, da qui luccicanti e splendenti come non mai.
L’indomani, il giorno uno, ci incamminiamo sulla strada per il Greppo, la storica dimora della famiglia Biondi Santi, 25 ettari di giardino sotto al cielo, a pensarci bene la casa del Brunello, nato tra l’altro proprio qui, tra queste vigne e queste mura verso metà ‘800, per opera di Clemente Santi, nonno di quel Ferruccio – frattanto divenuto già Biondi Santi – che proprio sul finire di quel secolo faceva muovere i primi, importanti passi in giro per il mondo a quel “vino brunello” consacrato poi alle grandi tavole dal figlio Tancredi, e che oggi continua a vivere per mano di suo figlio, Franco, classe 1922 e maniere da galantuomo da vendere: insomma, in definitiva un mito, non più classificabile semplicemente come un vino! Con me pochi amici, uno imperdibile, tal Nando Salemme e poi Dino e Alessandro, con i quali cammineremo nei prossimi giorni le vigne più suggestive di Montalcino alla ricerca di quel Santo Graal tanto prezioso ed ambìto – pur vituperato dall’ignobile scandalo di brunellopoli che è inutile nasconderlo, aleggia ancora nell’aria – quanto praticamente introvabile.
Arriviamo al Greppo a metà mattinata, sono passate da poco le dieci, il lungo viale di cipressi che dalla strada statale conduce alla tenuta pare accompagnarti nella storia, ed in verità lo fa; ai lati, s’intravedono giù per la collina le vigne spoglie, alcune già potate e rilegate, tutte tinte di un bianco candido come se stessimo in paradiso. Bussiamo ad una piccola porticina, ad aprirci lui, Franco Biondi Santi in persona: che emozione! Si può pensare ai successivi dieci/quindici minuti come un tuffo nella più comune delle situazioni del genere, dove l’imbarazzante atmosfera accademica rischia sempre di prendere il sopravvento, un classico dovuto insomma; saranno invece più di due ore di appassionante storia di vita vissuta, cominciate con una piacevolissima chiacchierata intorno al focolare di casa, vis à vis con almeno cento anni di storia sociale e culturale di Montalcino e non solo, e terminate, dopo una accurata e particolareggiata visita in cantina (che suggestiva!) – accompagnati stavolta da una brava e cordiale collaboratrice – con la degustazione di tutti i vini prodotti al Greppo: il Rosato, annata 2007, nato come omaggio all’amata moglie del dottor Franco, stufa – si dice – di veder macchiate di rosso le tovaglie di casa ed oggi vino particolarmente amato dai francesi; il Rosso 2008, austero e risoluto come pochi altri della denominazione, e per finire, il superbo Tenuta Greppo Annata 2006, un Brunello di Montalcino manifesto di un territorio, di questa vigna, e a guardarci in faccia, con molta probabilità la migliore delle porte che potevamo imbroccare per vivere poi con il giusto piglio le esperienze dei giorni a venire; non a caso, è questo, a detta di molti appassionati storici alla tipologia, quell’archetipo del Brunello da molti ricercato e (quasi) impossibile, a quanto pare, da replicare altrove!
Il sole inizia a farsi tiepido, è già primo pomeriggio, lasciamo il Greppo e riprendiamo la strada statale verso Montalcino, ci attende a pochi chilometri, sulla strada per Torrenieri, Giacomo Neri; il suo vino è da molti considerato l’altro Brunello, la sua azienda, Casanova di Neri, indubbiamente capace in poco più di un ventennio di stravolgere letteralmente gli equilibri locali, affermandosi in tutto il mondo come un nuovo riferimento assoluto, certamente di slancio moderno, diciamolo pure, con vini dai tratti caratteriali palesemente internazionali – l’uso della barrique, e qualche legno di poco più grande, qui hanno praticamente sostituito in toto le grandi botti – ma senza alcun dubbio ognuna delle bottiglie che viene fuori da questa cantina non si può certo additare per mancanza di carattere, tutt’altro, magari ci si potrebbe interrogare su quanto risultino marcate dal manico più che dal terroir, ma stilisticamente rimangono ineccepibili e, avendo avuto la fortuna di bere dei suoi Brunello, del Cerretalto in particolare, più di un millesimo, chiaramente riconducibili all’autore.
L’azienda, nata a fine anni settanta, vanta oggi poco più di 36 ettari di vigneto suddivisi in quattro appezzamenti collocati nel circondario ilcinese in posizioni diverse e ben distinte: Le Cetine a Sant’Angelo in Colle, il Cerretalto ed il Fiesole nei pressi dell’omonimo casolare di fronte a Montalcino (sede della cantina) ed il Pietradonice, a Castelnuovo dell’Abate, destinato però alla piantagione delle varietà internazionali lavorate secondo la d.o.c. Sant’Antimo. La cantina è di quelle belle grosse, delle più moderne, l’acciaio, tanto, reso fondamentale nelle fasi di vinificazioni; camminando i locali, distribuiti su più livelli sottoterra, sono certamente differenti le sensazioni provate alla Tenuta Greppo, piccola e suggestiva com’è, ma come si è detto, qui siamo ad un approccio più moderno, figlio senz’altro di quell’espansione sui mercati esteri tanto discussa, e discutibile per certi versi, ma assolutamente indispensabile per dare continuità e vigore ad un territorio, diciamolo pure fuori dai denti, ritrovatosi nel dopoguerra praticamente abbandonato a se stesso ed in poco più di vent’anni, siamo negli anni settanta, pietra miliare ricercata da tutti nel mondo. E Giacomo Neri di questo ne ha saputo fare tesoro, e di quanto sia stato bravo nel vestire i suoi vini di carattere e personalità te ne accorgi non appena metti il naso nei calici colmi dei suoi vini; dalla coscritta ruvidezza del suo Rosso di Montalcino, all’immediata espressività del suo Brunello “Etichetta Bianca”, rimasto, ci dice, “tal quale a come lo amava papà Giovanni”. I fuoriclasse però rimangono il Cerretalto, prodotto solo nelle annate eccezionali, con quella sua spiccata mineralità e quell’inconfondibile timbro ferroso ed il Tenuta Nuova: di quest’ultimo, il 2006 è a dir poco spettacolare, di una compostezza fuori dal tempo, succoso e potente ma di rara, rarissima eleganza.
Ci concediamo da Giacomo e la splendida cordiale moglie Enrichetta, ci mettiamo alle spalle questa prima giornata a Montalcino; il mito, Franco Biondi Santi, ci ha donato con le sue parole, la sua esperienza, l’essenza di questa terra; Giacomo Neri, come noi figlio del nostro tempo, ci ha mostrato, forse, il futuro. Noi crediamo di aver colto un sacco di cose in più, un mare di sensazioni, palpabili, che ci lasciano pensare che a volerlo solo immaginare quanto sia esaltante un tour per le terre montalcinesi, solo una prima tappa del genere può riuscire ad azzerare tutto quello che credi di aver imparato, che sei convinto di sapere, su questi luoghi, su queste persone, questo vino, per poi capire e comprendere, sino in fondo, tutto quello che verrà nei prossimi giorni.
Qui il passaggio a Podere Sanlorenzo di Luciano Ciolfi;
Qui la passeggiata tra le vigne de Il Paradiso di Manfredi;
Qui la spassosa ed indimenticabile visita a Diego e Nora Molinari a Cerbaiona;
Qui la visita a Case Basse di Gianfranco Soldera;
Qui la piacevole scoperta di Pian dell’Orino di Caroline Pobitzer e Jan Hendrik Erbach;
Casale di Carinola, quando fare Falerno diviene una scelta di vita: il sogno di Tony Rossetti
17 novembre 2010Ci lasciamo alle spalle Falciano del Massico, le vigne di Antonio Papa – al quale chiedo di continure con me il viaggio – e gli olivi secolari, un paese dall’atmosfera d’altri tempi dove tutti si conoscono e dove il forestiero – che sarei io – salta agli occhi come una macchia di caffè su di un kaftano di lino bianco. Direzione Casale di Carinola, il limitare sud della denominazione Falerno del Massico, più semplicemente la patria degli “aglianicisti”.
Il titolo di questo post non nasce per caso, spesso si fa della frase “faccio vino per scelta di vita, non per soldi” un vero e proprio abuso, a quanti l’ho sentita dire? A molti, ma faccio sempre più fatica a crederci fino in fondo, in un mondo che continua ad insegnare come sia l’inopportunità il seme più rigoglioso per mille idee e progetti quasi sempre senza testa ne coda, dove vigili urbani si arrogano la presunzione di cucinare da stella Michelin e rappresentanti di profumi s’inventano degustatori per sbarcare il lunario, tanto che differenza c’è? Ma la morale non mi aiuta certo a capire, soprattutto quando non mancano poi le eccezioni alla regola, che essendo tali divengono feticci da ostentare e pertanto ancor più pericolosi: ma più che limitarsi ogni volta a rivangare il fango sceso a valle non sarebbe opportuno strutturare e rinforzare argini, ripulire canali di scolo, o meglio, costruire con criteri più solidi? Ecco, per farla breve, c’è chi nasce con una vocazione, chi la scopre più tardi, chi ha bisogno di inventarsela, il problema subentra quando il risultato finale è la confusione, il disastro per l’appunto, non la diversità.
Tony Rossetti quella vocazione l’ha incubata più o meno per una trentina d’anni, portatore sano di un ideale incontenibile che l’ha spinto un bel un giorno a seguire finalmente il cuore, non più la testa. La testa, tempo prima gli aveva ben consigliato di trasferirsi nella vicina e più grande Caserta, una specializzazione in tasca e tanta voglia di emergere che non gli hanno mancato di dare importanti soddisfazioni professionali. Il cuore però ritornava sempre nella terra di origine, nel vicino carinolese dove con la famiglia, di parte di madre, i Bianchini, che producevano da sempre uva e vino, non ha mai smesso di coltivare la terra e di nutrire il sogno di rinverdire i fasti di un tempo e gettare le basi di una solida piccola realtà nell’Ager Falernus, l’azienda Bianchini Rossetti, che produce oggi due tra i migliori Falerno a base aglianico in circolazione, il fresco e pimpante Mille880 ed il rosso Riserva Saulo dalle grandi prospettive evolutive.
C’è in paese, a Carinola – a testimonianza di una tradizione forte che lega la famiglia tutta alla terra e al vino qui prodotto – l’antico Palazzo Bianchini, una costruzione di fine ‘800 dislocata su tre livelli e sin da allora dedicata completamente alla trasformazione delle uve coltivate nel circondario carinolese, con tanto di stanza di cernita delle uve, torchio circolare, canali di filtraggio e tubazioni di scolo del mosto sino alle sottostanti vasche di decantazione statica, luogo di raccoglimento del vino, posto quindi nei sotterranei dove con le temperature più basse era più semplice preservarne le qualità. Tutto questo oggi è tangibile recandosi alla Locanda 1880, l’Osteria di famiglia ospitata nel suggestivo seminterrato del palazzo.
Prima però, con Tony, abbiamo con piacere (e non poca fatica) camminato le sue vigne, in particolare non ci siamo fatti mancare una scarpinata sulla collina di San Paolo, senza dubbio un luogo di una suggestione unica, non solo per quanto fu proprio questa una delle ultime tappe del santo martire sulla via per Roma, ma anche perché in questo momento della stagione il vigneto, con i suoi filari imbruniti e rossicci offrono un bellissimo colpo d’occhio di colori nonché, come se non bastasse, un panorama sull’orizzonte infinito, che nei giorni più tersi si apre addirittura alla vista delle isole del golfo, Ischia ma anche Procida e Ventotene.
I terreni qui sono generalmente di origine tufacea, ma non mancano versanti caratterizzati da argilla come in gran parte la presenza di rocce calcaree e sedimentarie che sembrano una costante per tutti e quattro gli ettari circa di vigna. Qui sono piantati aglianico e piedirosso, il primo più del secondo oltre che alcuni filari di falanghina che in via sperimentale serviranno a capire quanto questo vitigno, ammesso dal disciplinare ma a quanto pare poco appetito nell’areale, sia veramente utile alla causa bianchista di un territorio comunque votato soprattutto alla produzione di rossi di buona struttura e non di meno buona longevità. La piccola cantina è più che altro il covo dei sogni di Tony Rossetti, ma invero poco mi interessava trovarvi architravi e stucchi preziosi, qui, per fortuna, la terra ha ancora il sopravvento sul cemento, e il cuore, come detto, sembra contare quel giusto che serve in più rispetto alla testa. E l’assaggio, per me nuovo, del Falerno del Massico rosso Mille880 2008 ha potuto solo confermare questa interessante prerogativa, un vino che in primo piano sfoggia un interessante frutto ma ancor più una bella spalla acida ed una certa, piacevole consistenza gustativa. Insomma, un vino – come la terra qui intorno – che affascina l’occhio, avvolge i sensi ed accontenta la pancia!
Qui la precedente presentazione del breve viaggio nell’Ager Falernus: la storia, la d.o.c., i vini.
Qui la nostra visita dello scorso Febbario a Masseria Felicia a San Terenzano.
Qui la passione di Antonio Papa nell’azienda di famiglia a Falciano del Massico.
Il Falerno del Massico, di Papa e Primitivo amore
15 novembre 2010Quando si lascia la superstrada che dal litorale flegreo ti accompagna su quello domizio ti sembra di fare un balzo indietro di almeno una quindicina di anni. Quel lungo tratto di asfalto lucido ed usurato che da “Ditellandia Park” conduce al “grattacielo”, poco prima dell’incrocio per Cancello e Arnone, in qualsiasi momento dell’anno tu lo attraversi pare sempre vivere in pieno clima agostano: le piccole fabbriche artigiane, i saloni d’automobili, i grandi bar pasticceria ed i ristoranti, le botteghe tutte che affacciano direttamente sulla strada statale – per anni, a causa dello scorrimento veloce delle auto, una tra le più pericolose d’Italia – sono costantemente piene di vita, gente, colori, cose, per vocazione o per finta non importa, sono lì e come detto sembrano non avere conto del tempo che passa, insolente.
Così un sabato di novembre, mentre mi accingo a svoltare per Falciano del Massico mi viene in mente per quanti anni ho superato questo incrocio con la più assoluta noncuranza e nella sola aspettativa di raggiungere le spiagge di Serapo o Sperlonga; sulla via, ricordo, lasciavi a malapena una o due occhiate all’indirizzo dello storico piccolo punto vendita del caseificio San Vito, tappa di ritorno obbligata per fare incetta di buona mozzarella di Bufala da mangiare a sera tardi a casa degli amici. Poi magari, quando in tempo, ma sempre sulla via di ritorno, una sosta a comprar due o tre bocce da litro di “nero falerno primitivo” da messer Michele Moio. Erano quelli altri tempi.
La strada per Falciano s’incunea attraverso una serie di campi incolti, grandi serre che mi scorrono di qua e di là della strada e vere e proprie distese di frutteti (peschi innanzitutto) che offrono un colpo d’occhio – in questo momento della stagione – spoglio, ma non di meno affascinante. Sono da poco passate le dieci, il sole è alto, caldo e la giornata si preannuncia tersa, clima ideale per una passeggiata tra le vigne, ed in verità non ne vedo l’ora: ad attendermi in terra di Falerno, Antonio Papa, Giovanni Migliozzi e poco più tardi, Tony Rossetti.
Papa è giusto nel cuore di Falciano, appena cinquecento metri più in là girato l’angolo che conduce nel centro del paese, le vigne poco più lontane risalendo la zona pedecollinare e collinare del Monte Massico. Mi accoglie Antonio, colui che assieme al padre Gennaro, dal ’99 ha deciso di fare del suo vino uno dei migliori Falerno in circolazione. Ben inteso, non che prima il vino qui non fosse una cosa seria, tutt’altro, la famiglia – le generazioni precedenti – coltivano uva da vino sin da fine ottocento, ma da quel momento il giovane Antonio, classe ’78, oggi fresco di laurea in lettere antiche, si convince e convince pure il papà che da quelle vigne si può tirare fuori qualcosa di meglio che un buon vino per l’autoconsumo, addirittura da mettere in bottiglia e consegnarlo al giudizio di un mercato, proprio in quegli anni, assai favorevole a vini di tale struttura e voluttuosità come il loro primitivo, in zona per’altro già conosciuto ed ambìto da tutti i compaesani. L’inizio, come spesso accade, è stato duro. Convincere lo stesso papà a dimezzare la resa per ettaro sino agli attuali 45-50 quintali non è stato facile, ma i risultati ad oggi gli danno ragione ed in poco più di un decennio l’azienda, nonostante la piccola produzione, appena 15.000 bottiglie, si può ritenere a tutti gli effetti un piccolo gioiello della vitienologia campana, ed in quanto a primitivo senza dubbio una spanna al di sopra degli altri, e non solo nell’areale.
Alcune vigne, come accennato, sono allocate non lontano dalla cantina, in località Campantuono, dove insistono poco più di tre ettari e mezzo, dislocati su aree terrazzate poco distanti tra loro ma con evidenti differenze di terreni ed esposizione ma che comunque non vanno oltre i 230 metri slm, piantati a primitivo e poi, a macchia, con il piedirosso; Dico così perché le piante di piedirosso, in verità non tantissime, sono sparse qua e là tra un filare e l’altro di primitivo, così voleva la tradizione e Antonio, pur riducendo drasticamente il carico di frutti per pianta, non se l’è mai sentita di spiantarle del tutto. Poi ancora poche piante di moscato e appena una decina di filari di barbera, questi proprio in prossimità della cantina. A tal proposito mi sovviene di sottolineare un ricorso curioso proprio su questo vitigno, di origine certamente alloctona, che viene spesso tirato in ballo come un refuso della nostra viticoltura regionale, per qualcuno, Nicola Venditti¤ per esempio, è figlio di una sballata conquista vivaista datata fine anni cinquanta/inizio anni sessanta, soprattutto per quanto concerne l’area del beneventano. Eppure qui la barbera c’è da almeno inizio secolo scorso, e a testimonianza di ciò vi sono proprio questi filari che giacciono qui più o meno dagli anni venti: forse anche questo un refuso, magari voluto dai reduci della prima guerra mondiale; Chissà, fatto sta che ad Antonio questi pochi frutti sembrano fargli molto comodo, e nonostante la bassissima resa che ne ottiene, assolutamente anti-economica, continuano ad offrirgli ogni anno uve particolarmente interessanti, sane, ricche, e quando possibile, volendo, utili a dare maggiore slancio acido-tannico ai suoi vini, per altro, mantenendo queste la stessa epoca vendemmiale del primitivo non richiedono nemmeno una gestione colturale particolarmente dedicata.
Le etichette, come prevedibile dai numeri, sono appena tre, due cru di Falerno del Massico, il Campantuono ed il Conclave, ed un particolarissimo vino dolce, il Fastignano, ottenuto con base primitivo ma che viene prodotto solo molto raramente, come il moscato passito assaggiato in cantina e riservato però solo agli amici. Se volessi condensare in poche parole una descrizione sintetica dei vini di Papa, potrei rifarmi ad una vecchia pubblicità di pneumatici tanto efficace passata in tv qualche tempo fa, che in maniera piuttosto incisiva asseriva che “la potenza è nulla senza il controllo!”. Ecco, i Falerno di Antonio, il Campantuono più del Conclave, sono senza dubbio vini potenti, ma hanno dalla loro una freschezza, una profondità minerale tale da farne nettari assolutamente godibili, sin da giovani, nonostante le spalle belle larghe ed il volume alcolico importante. Ma l’aspetto organolettico degli assaggi effettuati sarà argomento di prossima trattazione, se no che viaggio è…
Qui la precedente presentazione del breve viaggio nell’Ager Falernus: la storia, la d.o.c., i vini.
Qui la nostra visita dello scorso Febbario a Masseria Felicia a San Terenzano.
Qui invece l’esperienza di Tony Rossetti, produttore a Casale di Carinola con l’azienda Bianchini Rossetti.
Il Falerno del Massico, tante anime per un vino sulla bocca di tutti da oltre duemila anni
9 novembre 2010La Campania è una terra straordinaria e me ne convinco sempre di più, girarla in lungo e in largo poi, per quanto dispendioso, riserva costantemente delle piacevoli sorprese quando non vere e proprie scoperte. Sul piano vitivinicolo poi, credo che non esistano al mondo eguali in fatto di storia, radici, origini.
La storia, quella scritta, è ricca di riferimenti che conducono all’amata Campania Felix e ancora oggigiorno in qualsiasi provincia campana si decida di camminare le vigne non mancano testimonianze vive, tangibili di come la cultura e l’arte di fare vino siano parte integrante della nostra storia sociale da sempre. Basti pensare per esempio al Falerno, il vino prodotto in quel lembo di terra che va da Sessa Aurunca a Casale di Carinola, girando per buona parte tutto intorno al Monte Massico al quale è legato storicamente anche dalla denominazione di origine controllata, nata nel 1989 ma che trae origini lontanissime nel tempo, sin dall’epoca romana.
Il Falernum, già allora era una vera e propria rarità enologica tanto dall’essere addirittura riconosciuto con ben tre sottodenominazioni a seconda della sua provenienza geografica. Era chiamato comunemente vino Falerno tutto quello prodotto qui nell’Ager ma generalmente da vigne allocate in pianura; il Faustianum invece era quello tralciato nell’area appena pedecollinare mentre veniva riconosciuto Caucinum solo quello più prezioso, proveniente dall’alta collina. A seconda poi delle caratteristiche organolettiche che tali vini esprimevano, vi era anche una distinzione per tipologia del tipo austerum per i vini austeri e/o astringenti, dulce se appunto dolci o tenue quando leggiadri e beverini. Parliamo certamente di vini che in generale avevano poco a che vedere con l’odierna qualità espressa in terra di Falerno, ma la particolare attenzione riservata a questo vino fa intendere quanto fossero già allora vocate alla vitilcutura queste terre e, per i palati di allora, apprezzati i vini qui prodotti.
La d.o.c. Falerno del Massico, nata come già accennato nel 1989, abbraccia cinque comuni tutti in provincia di Caserta, che sono nell’ordine, Sessa Aurunca, Cellole, Mondragone, Falciano del Massico e Carinola; sono previste sia una tipologia bianco, a base falanghina e due rossi, di cui preferiamo occuparci in particolare in questo caso. Da disciplinare per la tipologia Falerno del Massico rosso sono previsti quattro vitigni, l’aglianico (al 60-80 %), il piedirosso (20-40 %), il primitivo e la barbera (max 20 %) con una gradazione alcolica minima richiesta in percentuale del 12,50 % in volume ed un invecchiamento minimo di 1 anno; la produzione massima ammessa è di 100 qli/Ha. Il Falerno del Massico rosso, se invecchiato per tre anni, di cui uno in botte, può riportare in etichetta la dicitura Riserva.
Per la tipologia Falerno del Massico primitivo è richiesto l’85 % minimo del vitigno citato in etichetta con possibilità di aggiunta di aglianico, piedirosso e/o barbera al massimo del 15 %. La gradazione alcolica minima richiesta in questo caso è del 13 % in volume mentre l’invecchiamento minimo richiesto è di 1 anno; la produzione per ettaro ammessa non prevede differenze dalla precedente. Con un invecchiamento minimo di due anni, di cui uno in botte, il Falerno del Massico Primitivo può riportare in etichetta la dicitura Riserva o come appariva in passato sulle bottiglie dello storico produttore Michele Moio, Vecchio.
Queste due facce della stessa denominazione sono storicamente legate anzitutto al nome di due grandi famiglie campane, i Moio di Mondragone e la napoletana Avallone di Villa Matilde, che attraverso un grande lavoro di sensibilizzazione prima e valorizzazione poi hanno promosso, sin dagli anni settanta, il Falerno del Massico come vino di assoluta qualità. Ma negli ultimi 15 anni però si è assistito nell’area ad una grande spinta imprenditoriale che ha fatto nascere tante nuove piccole realtà, qualcuna intenta a rivalutare il prezioso testimone passatogli dalle generazioni precedenti, qualcun’altra mossa dalla gran voglia di rinverdire più semplicemente i fasti di un passato per troppi anni lasciato sopire nel silenzio della tranquillità della campagna casertana.
Ecco, in questo panorama così dinamico abbiamo scelto tempo fa alcuni indirizzi, occupandocene già lo scorso febbraio (vai qui), ma continuando il nostro cammino abbiamo fatto visita ad altri non di meno validi di cui vi avevamo già raccontato i vini (qui, qui e ancora qui) ma che necessitavano di una visita di cui vi renderemo conto e cronaca fotografica nei prossimi giorni. Venite con noi alla scoperta di un vino, il Falerno del Massico, che nonostante sia da oltre duemila anni sulla bocca di tutti continua a stupire!
© L’Arcante – riproduzione riservata




























































































