Archive for the ‘FATTI, PERSONE’ Category

Campi Flegrei, il vino che verrà

24 novembre 2011

Ho trascorso buona parte degli ultimi dieci giorni a camminare vigne e cantine qui nei Campi Flegrei. Un bel giro, di ritorno da Capri, per ritrovare vecchi amici, salutarne con piacere dei nuovi e toccare con mano ciò che di bello e nuovo il territorio avesse da esprimere. Piacevoli chiacchiere che unite alle belle passeggiate tra le vigne, alcune di notevole suggestione, ci hanno poi ricondotti in cantina, a cogliere, direttamente dalle vasche, le prime impressioni sulla vendemmia 2011 appena alle spalle.

Si è scritto e detto che in Campania, in via generale, si sia avuta una vendemmia caratterizzata per lo più da alti e bassi, con punte di eccellenza in alcune zone ormai notorie, vedi l’alto casertano, il taurasino, il Cilento, ma anche da risultati non trascurabili in altre microzone di altissima vocazione, come in costiera – per esempio a Tramonti – o a Roccamonfina. In definitiva però va registrandosi un’annata abbastanza difficile da leggere, che a detta di molti enologi saprà riservare sì buone chances ma solo se ben interpretata dal punto di vista tecnico. Ecco, l’aspetto tecnico, quello talvolta fondamentale, altre volte meno.

“In vigna – secondo assoenologi Campania -, sono risultate fondamentali, nella caratterizzazione dei singoli risultati, la gestione viticola e delle operazioni in verde come la palizzatura e la sfogliatura nonché la scelta della data di raccolta in relazione all’obiettivo enologico ed alle possibilità dei singoli vitigni”. Si aggiunge inoltre, nel comunicato diramato pochi giorni fa, che “in cantina un’oculata gestione delle temperature di fermentazione dei mosti da uve bianche, ricche di elementi nutritivi in relazione alla primavera abbastanza benevola, ha permesso buoni risultati con i vitigni più nobili. Per le uve rosse è risultata fondamentale la scelta delle metodiche di macerazione delle bucce per l’estrazione mirata e misurata degli abbondanti composti polifenolici”.

Già, perchè se questa vendemmia è risultata abbastanza omogenea, a fare la differenza sarà il manico, chi dunque ha ben inquadrato cosa si è colto dalle piante e come meglio intervenire in cantina; chi sa insomma cosa fare, con uve o certamente surmature o, per contro, vendemmiate precocemente per non averle. Si dovrà ad ogni modo fare i conti con la propria esperienza.

Detto questo, per quanto riguarda i Campi Flegrei, credo si palesi anche qui una certa eterogeneità qualitativa, soprattutto per i vini bianchi; questa è la mia prima sensazione venuta fuori dagli assaggi di questi giorni. La materia è interessante, con punte di ottimo livello qualitativo, ma ho avuto l’impressione che non ci dobbiamo aspettare vini di particolare profondità, ed eleganza, bensì ben inquadrati sulla tenue spinta olfattiva e la solita, caratterizzante, consueta bevibilità.

Fatte salve giusto una/due cose piuttosto interessanti, pensate da chi ha deciso per macerazioni un po’ più lunghe ma soprattutto da chi ha saputo leggere molto attentamente ognuna delle sue vigne, mi verrebbe da dire ognuno dei propri filari, grappolo su grappolo. E agire di conseguenza in cantina. Poi si sa, i lieviti, le correzioni dei mosti, possono – laddove non si hanno tanti scrupoli – dare una mano, ma alla lunga il risultato lascia il tempo che trova se non ben supportato da un corredo più complesso. Accontentiamoci quindi, ma non escludiamo anche piacevoli sorprese.

Altra storia mi è sembrata quella dei vini rossi, in uvaggio e non, in particolar modo il piedirosso, sicuramente in grande spolvero: teso e concentrato dove si ha avuto il coraggio – o più semplicemente l’intelligenza – di aspettare, assai espressivo in quei luoghi caratterizzati da terreni più complessi e ricchi di minerali. C’è un buon livello di concentrazione quindi, e sicuramente indubbie possibilità di evoluzione, pur augurandomi si tenda a conservare anzitutto lo spirito di un vino da lasciar bere e non che finisca, come tavolta accade, a fare da soprammobile nelle cantine sempre più affollate e impolverate; poi si sa, solo il tempo ci dirà. Da segnalare infine, le interessanti novità sul versante della d.o.c. che di recente ha subito alcune modifiche al disciplinare di produzione: molto interessante per esempio l’idea di un rosato doc Campi Flegrei. In un prossimo post tutte le novità.

Napoli, Falanghina Vigna del Pino ’06 Agnanum

21 novembre 2011

E di quattro chiacchiere distintive con Raffaele Moccia¤. Un assaggio può evocare tante belle sensazioni, soprattutto quando condiviso con una persona deliziosa come Raffaele, viticoltore in Agnano, alle porte di Napoli. Sono tornato a trovarlo, mancavo di venirci da due-tre anni, non molti – o forse troppi, chissà -, eppure il tempo qui appare immutato, lento e prezioso com’era. Com’è.

Rompiamo subito il ghiaccio: Raffaele, ci ricordi chi sei, e come nasce Agnanum¤? Niente di complicato: sono un vignaiolo, ma anche un allevatore, soprattutto un padre, e a meno di 50 anni, pure nonno! Vabbè… mio padre ha piantato la vigna qui su per la collina alla fine degli anni sessanta. A cinque anni la mia prima vendemmia e contemporaneamente aiutavo i miei con l’allevamento degli animali. Ne ho spalato di m…a!. Poi nel 2002 la prima imbottigliata. Agnanum¤ è il primo nome che mi è venuto in mente.

Caspita, 2002-2011. Siamo al decennale. Dieci vendemmie sono da celebrare? E’ una buona idea. Pensa tu cosa fare e fammi sapere. Le bottiglie ce l’ho.

Qualcosa è cambiato, dico qui in cantina? Beh sì, abbiamo messo un po’ di cose a posto, comprato qualche piccolo tino in acciaio per serbare meglio i vini. Adesso riesco a vinificare tutte e tre le vigne separatamente. Per il resto poco o nulla. Sono e rimango un artigiano.

Ci spostiamo in campagna. Con una Smart ci arrampichiamo su per la collina. Il maltempo degli ultimi giorni ha reso praticamente impossibile girare motorizzati. Decidiamo così di proseguire a piedi, una scalata in piena regola. Adesso non si sente più nemmeno il rumore di una sola auto nonostante là sotto scivoli via un bel pezzo della tangenziale di Napoli.

In vigna, come siamo messi in vigna? Con qualche reinnesto, tra le piante morte per qualche motivo, e quelle rimaste bruciate dagli incendi che di tanto in tanto hanno investito la zona, siamo oggi a quattro ettari pieni; il vigneto si può dire che ha una età media di quarant’anni. Più i nuovi impianti, lassù “sopra il bosco”, circa 400 nuove viti sul limitare del cratere degli Astroni.

Tornare qui è sempre bellissimo. E’ vero. Respira, tira su, questo è ossigeno allo stato puro, ha un sapore difficile da trovare là sotto. Ho terminato di raccogliere il 2 novembre scorso. Prima la falanghina, il 30 e il 31 ottobre, poi il per ‘e palummo. Al di là di quel muro c’è il Parco degli Astroni, un posto magnifico, per niente valorizzato; un bosco naturale tra i più vecchi d’Europa. Qualcuno ancora oggi vi s’intrufola dalle mie vigne a caccia di funghi. E qualcos’altro.

Raffaè, come vedi questa situazione di mercato? Ci difendiamo, con molte difficoltà. La doc è molto inflazionata, la stanno massacrando, ed è un peccato, per lavoro che c’è da fare è davvero un peccato. Certi vini meriterebbero ben altro. Sinceramente non riesco a capire come si faccia a proporre certi prezzi; è palese che altri non hanno speso fatica in campagna, dedicato abbastanza tempo alle proprie vigne. E’ indubbio che comprare e rivendere uva o addirittura vino bello e fatto rende economicamente molto meglio che spezzarsi le reni ogni giorno.

Spiegati meglio. Il mio vigneto è tutto qui, su per la collina; faccio tutto a mano, piantare, curare, raccogliere; e scavare canali per l’acqua, il continuo sovescio, tutto il ciclo naturale della campagna insomma. Io dico che i costi in cantina possono più o meno essere omogenei, fatte le dovute proporzioni; in campagna però c’è da buttare il sangue, io il vino lo faccio con la mia uva, coltivata nella mia terra.

Un vignaiolo a tutto tondo. Non potrebbe essere altrimenti. Guarda, se non fossi continuamente in campagna certe cose scapperebbero di mano; con tutta l’acqua caduta nei giorni scorsi per esempio, se non avessi scavato per tempo questi canali, sai dove avremmo rincorso questa vigna? Qui adesso mi tocca rimettere a posto, riportare le terrazze a un giusto livello. Il terreno qui è talmente povero, sciolto, che dopo certi disastri si rischia che l’acqua si porti via anche le piante.

Torniamo in cantina, e dopo un breve ma meditato passaggio tra le vasche, ad assaggiare “i vini nuovi”, ci accomodiamo nell’ampia sala degustazione nelle immediate adiacenze della cantina; un luogo spartano e rustico, ma accogliente, seppur in questo momento un tantino impicciato dai lavori in fermento in cantina per la vendemmia appena alle spalle. Qui Raffaele conserva almeno un centinaio di bottiglie di tutte le annate prodotte, sin dalla prima duemiladue. Apriamo un Vigna del Pino 2006, falanghina passata in legno ed affinata almeno due anni in bottiglia.

Come è andata la vendemmia 2011? Non male; come ti ho detto ho terminato da poco, sono riuscito a rispettare i miei tempi, quella della mia vigna. Vendemmiare il 2 novembre quest’anno per molti sarebbe stato disastroso. Qui è andata così.

Poca uva o che? Quella necessaria, la migliore possibile. Appena 20 quintali di per ‘e palummo, più o meno 50 di falanghina.

Là dentro che c’è? Qui ci metto parte della falanghina raccolta nella vigna più bassa, quella subito a ridosso della cantina, e tutte quelle poche cassette delle uve da sempre in vigna, piantate da papà come si faceva una volta, e che tu conosci bene: la gesummina, la catalanesca e un poco di biancolella e coda di volpe. Ci faccio l’igt.

Con Gianluca Tommaselli come va? Ho deciso per la continuità. Maurizio De Simone è stato un passaggio indispensabile per inquadrare bene il lavoro da fare, pur tra le mille difficoltà avute. Lui è un uomo di pancia, grande enologo ma prima ancora una grande persona. Gianluca è un tecnico, si muove bene, sa cosa fare, come seguirmi, e fin dove si può spingere. Poi, come è ovvio che sia, decido io.

Continua a dire la sua questo vino, ancora dopo più di 5 anni? Sei tu l’esperto. Però si, sono molto felice quando li riassaggio e riesco, evocandone la travagliata genesi, ancora a sentire la mia uva. E’ una sensazione molto bella.

In effetti sì, questo Vigna del Pino 2006 conserva ancora una certa espressività. Il colore è ben definito, oro, limpido e cristallino. Il naso conduce ancora al varietale, però buccioso, polposo, cremoso quasi. Piacevoli le note di uva spina ed albicocca che si sovrappongono senza confondersi; chiude con un finale ammandorlato e di zenzero candito. In bocca è secco, gode ancora di buona freschezza nonostante l’età, ma colpisce ancor più la soave rotondità che infonde lungamente al palato, ricca e persistente; particolarmente incisivo il timbro minerale che regala un sorso vibrante e sapido. Inaspettato.

Mentre parliamo, tra un assaggio e l’altro, gli arriva una telefonata: è una promoter di un noto Magazine settimanale; lo tiene al telefono non poco, lui interloquisce con una certa disponibilità, la sua, quella di sempre; dall’altro capo del telefono – adesso in viva voce – sento proporgli un paio di uscite sulle proprie testate e in più un passaggio sull’omonimo canale tematico satellitare, alla modica cifra di 1000,00 euri + iva. Lui è sibillino, non se lo può permettere, ringrazia e rimanda alla prossima; poi mi fa un gesto come a dire “ma c’è ancora chi ci crede a ‘ste cose?” Sorridiamo…

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

Chiacchiere distintive, sostiene il rappresentante

8 novembre 2011

Un caro amico rappresentante di vino (e altro), qualche mese fa mi mandò quattro righe scritte di suo pugno, aveva piacere ch’io le pubblicassi; approfondimmo l’argomento, parlandone (più volte) anche da vicino; a distanza di un bel po’ di tempo – non che me ne fossi dimenticato, ma avevo tanto altro di cui scrivere -, gli ho chiesto se ritenesse ancora opportuno far passare la cosa. “C’è dell’altro…” mi aggiunge. Così ho chiesto all’amico Fritz, nome naturalmente buttato lì così, di parlaci un po’ del suo lavoro.Fai questo mestiere ormai da un po’ di tempo, potremmo dire (ma non lo diciamo chiaramente) che sei “figlio d’arte”; ma come si comincia a girare con la borsa? Se hai meno di trent’anni, e sei uno sfigato che non ha trovato ancora altro da fare nella vita, quasi ci sei costretto. Diciamo pure che per me è andata così: avevo una porta là a disposizione, la chiave in tasca, ero però convinto di poter e saper fare altro, ma mi sbagliavo. O forse non c’ho creduto abbastanza.

Così hai scelto la strada. Sei soddisfatto, lo rifaresti? Beh, come possono non esserlo, faccio questo lavoro con grande dedizione, mi faccio il culo – e tu lo sai – e senza presunzione o mancare di rispetto ai colleghi, credo di stare facendo un bel lavoro, per me e per le aziende che rappresento.

Non facciamo nomi naturalmente, ultimamente però l’ambiente è diventato piuttosto caustico o mi sbaglio: come se ne esce? Come in tutte le professioni chi ha saputo costruirsi una credibilità, leggere il mercato, anticipandone magari i cambi di rotta, non ha di questi problemi, o almeno li subisce meno. Il problema grosso è di chi ha sempre fatto questo mestiere da mercenario, sfruttando il momento inconsapevole dei danni collaterali.

Spiegati meglio. Chi ha memoria lo sa bene, questa crisi arriva da molto lontano; già poco dopo metà anni novanta ci furono primi significativi segnali del cambiamento in atto nel mondo del vino, le grandi aziende stavano muovendo i primi passi nel guardarsi intorno, ricercando nuovi orizzonti da inglobare nel proprio pacchetto; il marchio da solo non bastava più, c’era un urgente bisogno di diversificazione: per vendere Chianti non bastava più essere leader, c’era bisogno di Prosecco. Così come per vendere in Giappone o Stati Uniti alle poche grandi aziende campane serviva il Lacryma Christi, un vino che in alcuni casi non sarebbe mai entrato nel listino aziendale, pur rappresentando il 20% del fatturato complessivo. Incredibile no?

Una Baraonda! Così è stato per il nostro lavoro, un gran casino. Le aziende a rincorrere i fatturati, noi le fatturazioni. Risultato? Chi non aveva “nomi” in borsa si è lanciato in grandi operazioni di riposizionamento sul mercato (sì, così le chiamavano), col risultato di bruciare prodotti, marchi, talvolta intere aziende; e persino i clienti più “sani”: te li ritrovavi talmente carichi di vino da non potersi permettere nemmeno di comprarti un cartone da 12 bottiglie! Ognuno poi sembrava avere necessità di un subagente, così si tiravano dentro ragazzini tutti laccati venuti fuori da chissà dove, o gente che s’è ritrovata a cinquant’anni a doversi inventare un lavoro: dal rappresentante di profumi e bigiotteria, al vino; il passo in effeti è breve (aargh!).

Effettivamente. Senti questa: qualcuno continua a pensare che se hai meno di 5 aziende nella borsa, sei uno sfigato. Ma se ne hai più di una decina? C’è stato un periodo, forse tu sei troppo giovane per ricordarlo, che nel calcio, per vincere il campionato, non contava tanto quanto tu fossi forte, ma quanto invece fossero più deboli i tuoi avversari: ricordi Nando De Napoli passato dal Napoli scudettato al Milan di Capello? Avrà fatto, nei due o tre anni a Milano (lautamente ripagati) sì e no un paio di partite, mentre il Napoli andava sempre più ridimensionandosi, sino a sparire completamente dal campionato di A. Ecco, in fin dei conti nel mio ambiente è così: non conta quante aziende hai, ma quali. E di queste, più ne riesci a sottrarre al concorrente, più diventi capace di imporre la tua politica distributiva.Nota dolente: i pagamenti, gli insoluti, le questioni con i clienti. E’ un problema grosso, grossissimo, un male incurabile secondo alcuni; a dirla tutta non credo che se ne esca, soprattutto in un momento come questo. Eppure se provi a dire alla tua azienda di non servire più quel ristoratore perché ti paga male o mal volentieri, capita che ti ritrovi il proprietario una sera a cena da lui,  convinto che comunque bisogna essere presenti in quel locale.

Vacci a capire qualcosa. Capitolo Napoli, ma anche la provincia e l’hinterland: chi se la passa peggio? Mettici pure l’Italia intera; ultimamente le riunioni con i capi area e i colleghi di altre regioni sono diventate processioni senza soluzione di continuità, dove il leit motiv sono rosari ormai insopportabili; a Napoli la crisi è profonda, e anche certi nomi, storicamente solidi più di altri, vacillano; e in provincia sembra vada ancora peggio. Salvando la pace di poche, pochissime mosche bianche, conviene quasi non metterci più piede.

Un quadro disastroso il tuo, come si va avanti allora? A fatica, con tanta pazienza ed un lavoro certosino, senza dimenticare la stima costruita in anni di lavoro soprattutto sulla buona educazione e sulla cura del cliente, delle relazioni e delle innumerevoli questioni che si presentano ogni giorno. Diciamo che la sera si rientra sempre più tardi a casa, e che il mio è un telefono caldo, ma ho imparato che è bene tenerlo sempre acceso!

Chiudiamola così: e quel morellino così buono di cui mi parlasti? No beh, quell’azienda lì non capiva certe dinamiche, taluni credono di essere i soli sul mercato. Mentre qua siamo in guerra (sorriso, ndr).

Ah, vabbé. Ti hanno disdettato? Ma nooo, che dici mai. Sono io che li ho lasciati perdere (altro sorriso!)”.

Guide ai ristoranti d’Italia 2012, il Gambero Rosso

19 ottobre 2011

 

Punteggio: 87due forchette
Cucina: 52
Cantina: 16
Servizio: 18
Bonus: 1

Lo sapete, questo è uno degli alberghi più belli d’Italia. Il suo “Olivo” è di conseguenza un posto splendido (bonus), curato nei minimi dettagli, di grandissimo fascino e confortevole come pochi. Servizio attento, cortese e professionale, carta dei vini molto assortita e cantina da vedere. In cucina ora c’è  Andrea Migliaccio, mano felice ed equilibrata, inventiva ben dosata e miscelata con la cucina regionale, per un risultato notevole nei piatti assaggiati. Trilogia di cotto e crudo di mare (gamberi, cappesante e palamita), carpaccio di cefalo e tartare di scampi con caviale e cuore di bue alla colatura, risotto al limone con gamberi rossi e bisque, spaghetti ai ricci, maialino croccante con scarola e zuppa forte, babà con zabaione, frutti di bosco e Ratafià. Tutti piatti esenti da critiche, che risultano soddisfacenti e meritevoli di una cena, come tutto il complesso che ritorna meritatamente nei punteggi alti dell nostra Guida. Sulla terrazza da quest’anno troverete il Bistrot Ragù, con vista magnifica sul mare, che offre la possibilità di fare una sosta più informale, sempre in questa incantevole, e impagabile cornice. (da I Ristoranti d’Italia 2012 del Gambero Rosso)

Pollenzo, la Banca del Vino è morta?!

16 ottobre 2011

Il dubbio è palese. In effetti della Banca del Vino non è che se ne faccia più questo gran parlare. Mah… chissà perché? Io a Pollenzo ci sono stato in settimana, di passaggio prima di andare a cena dai fratelli Alciati, da “Guido”. E non è che tirasse proprio una bella aria…

Intendiamoci, il luogo è magnifico, lo scenario a dir poco suggestivo, i locali sotterranei dell’Agenzia che la ospita, ben arredati, pur se evidentemente scarni. Ma a fare un giro per le sale, al di là dell’apprezzabilissimo lavoro della guida – davvero brava e preparata –, è chiaro sin da subito che qualcosa qui non quadra; se ci si ferma al primo o al secondo caveau (più o meno tra il primo e il secondo corridoio) salta agli occhi come il territorio venga ancora egregiamente privilegiato: i nomi ci sono, forse non proprio con tutte le annate, ma il panorama è quantomeno autorevole e ben rappresentato. Basta però varcare “il confine regionale” per intuire come le lancette dell’orologio qui si siano da tempo fermate, a più di qualche anno fa, probabilmente già appena dopo la campagna promozionale (credo del 2004, ndr) che ne lanciava il progetto nato qualche anno prima da un’intuizione di Carlo Petrini¤.

A qualcuno infatti apparirà come “corredo” prezioso, ma quelle “due dita” di polvere che stazionano sulle casse qui conservate, vanno lette più come un indice di perenne immobilismo che come un suggestivo effetto scenico. E le annate, poche e piuttosto vecchie, non fanno altro che confermare la mancata fiducia riposta invece con un certo entusiasmo inizialmente. Basta fare poi un giro nella sezione dedicata al sud Italia o alla Campania per rendersi conto quanto il tempo qui si sia letteralmente dissolto in quelle prime (autorevoli) adesioni; quanto a memoria liquida quindi, è evidente che va disperdendosi inesorabilmente. Lo stesso loro sito¤ tra l’altro, conferma in pieno quanto percepito, e cioè che le aziende già da tempo non rinnovano più la loro adesione al progetto dell’istituto.

Senza entrare troppo nel merito – o se volete, argomentiamo pure – del “funzionamento” della Banca del Vino¤, che in verità non mi è parso nemmeno particolarmente complicato, viene da chiedersi cosa cavolo sia successo, in così poco tempo, ad un progetto che pure appare rivoluzionario come pochi e “nobile” come tante altre iniziative messe in campo negli ultimi trent’anni da Slow Food: chi è che non ci ha creduto fino in fondo? L’istituto, i finanziatori, i produttori o, come spesso accade in Italia, nessuno dei tre nonostante la buona idea?

Guide ai ristoranti d’Italia 2012, così L’Espresso

8 ottobre 2011
Voto: 15
Un Cappello: cucina buona, interessante.
Bicchiere: particolare cura nella ricerca e nel servizio dei vini, internazionali, nazionali o locali.

“A volte capita, nel corso della vita, che d’un tratto ci venga offerta una occasione imprevista e imprevedibile, una bella opportunità: è successo ad Andrea Migliaccio, trentenne chiamato dall’oggi al domani a prendere il posto del celebrato Oliver Glowig, come chef del ristorante e dell’albergo più blasonato dell’Isola Azzurra. E Migliaccio non si è fatto spaventare, ben spalleggiato da una squadra più che rodata, il sommelier Angelo Di Costanzo in primis, pronto a offrire con la stessa disinvoltura millesimati milionari o falanghine di nicchia. Una cucina delicata e avvolgente, con pochi angoli acuti, capace di entusiasmare una clientela curiosa e viziata. Gustosa la crema di cipollotti con scarola e acciughe, carico di agrumi il risotto all’astice, appetitoso il pollo di Bresse con salsa al fois gras e friarielli (broccoli campani). Trionfo di pani, piccola pasticceria e orgia di dolci: d’obbligo meringata e gelati. Degustazioni da 150 e 190 euro. Sui 130 alla carta.” (da Le guide de L’Espresso – I ristoranti d’Italia 2012)

A proposito di guide ai vini d’Italia…

27 settembre 2011

Sono anni che ci si scaglia contro le guide ai vini d’Italia per la loro immobile ripetizione, quel “copia e incolla” mai capace secondo molti di rappresentare chiaramente “i vini da non perdere” prodotti nelle vigne italiane. Eppure sembra che non si possa mai fare a meno di seguirle. Sembra.

Un elenco, in qualche caso infinito, che non sai mai se viene naturale dall’incredibile capacità di talune etichette di garantire tale costante qualità dal vederle sempre premiate anno dopo anno – anche in quelle annate cosiddette minori, addirittura in quelle secondo alcuni da bandire assolutamente dagli almanacchi, vedi il 2002 -, o più semplicemente una conveniente scelta editoriale per garantirsi quell’appeal imperdibile da parte del consumatore medio che ha bisogno fortemente del “solito nome” per comprare la tua guida piuttosto quella edita da altri.

Tant’è che produttori, cronisti, giornalisti (ivi compresi presunti tali), sommeliers, enotecari, bloggers eccetera non fanno altro in questi giorni che passarsi in rassegna le varie liste e spendere intere ore a scannarsi sul web; una faida senza peli sulla lingua tra commenti rancorosi e motivazioni delle più fantasiose “sul perché mai quel vino si e l’altro no”, o “è sempre lo stesso papocchio, ma daiii!”. Tutti, ma proprio tutti sentiamo quell’indomabile richiamo che ci spinge ad esserci, di dire pure magari “io quella guida non la comprerò mai e… bla bla bla” e, cosa assai comune, nemmeno rendersi conto di affermare talvolta tutto e il contrario di tutto pur di sputare sentenze.

Un dato cuorioso invece è che tutto ciò accade talvolta anche per vini che in alcuni casi non è nemmeno (più) possibile bere, a meno di imbattersi in qualche enotecaro o ristoratore sfigato; si perché vedete, parecchi di questi Trebicchieri, Supertrestelle, Eccellenze, 5Grappoli e – aspetto di essere smentito – Chiocciole che si voglia, sono già da tempo esauriti persino nelle stesse cantine che li producono. Mentre molti altri bisognerà addirittura aspettarli ancora a lungo prima di poterli trovare sugli scaffali o nelle carte dei ristoranti, in alcuni casi tanto di quel tempo da non ricordarsi nemmeno più che cavolo di premio abbiano ottenuto per costare così tanto! Qualcosa evidentemente non funziona…

Asprinio d’Aversa Extra Brut Ris. Grotta del Sole

25 settembre 2011

L’antefatto – un mio post su facebook che vantava delle grazie e dell’ottimo rapporto prezzo/qualità di questo vino – conduce a una riflessione più o meno azzeccata sul concetto sempre troppo poco chiaro su ciò che è percepito come caro e ciò che invece risulta più semplicemente costoso. O quantomeno più costoso di altri.

Questa è una delle più riuscite operazioni glamour di Louis Vuitton, si chiama Monogram Nova Minaudière; nome piuttosto altisonante per una mini borsetta che pesa un grammo ed è grande più o meno quanto una palla da albero di natale. E’ invece – dicono -, un piccolo capolavoro d’ingegneria nonché di salatissima manodopera (?): è infatti interamente ricoperta di minuscoli Swarovski argentati e neri, incastonati a mano uno ad uno. Costa circa 35.000 dollari, quanto una bmw, con tutti i confort s’intende.

Questa cosa invece è un cannolo siciliano, creato ad hoc da Carey Iennaccaro, pasticcere italo-americano all’opera presso il ristorante Jasper di Kansas City, nel Missouri, Stati Uniti. Preparazione di finissima arte culinaria è arricchita da una collana made in Italy costellata di purissimi diamanti e lavorata dalle mani esperte del gioielliere Tom Tivol che viene servita insieme al dolce, a sua volta ricoperto di foglie d’oro commestibili. E’ servita solo su prenotazione (!), a più o meno 26.000 dollari (si sa che il prezzo della ricotta subisce forti speculazioni negli Usa). Astenersi diabetici.

Questo qui sopra, come è noto a molti, è un vigneto di asprinio “ad alberata aversana”, un modo di fare viticoltura assolutamente fuori dal tempo, consegnatoci da generazioni tanto passate che si perdono nella memoria; loro erano convinti che ne avremmo saputo fare buon uso, noi ne abbiamo contezza da qualche tempo. Da queste uve così piantate nasce un vino sottile e particolarmente acido; tanto sottile da perdersi facilmente nel bailàm dei cento e più vitigni autoctoni campani. Quanto all’acidità invece, ne ha saputo fare vanto, e ne ha tratto solo giovamento, anzi, forse l’unica ragione che l’ha strappato all’oblìo dell’estirpazione e consegnato alle borgognotte della famiglia Martusciello di Grotta del Sole.

Non a caso, molti lo ignorano – in verità pochi lo sanno -, l’asprinio metodo classico di cui vi parlo si chiama proprio Riserva Grotta del Sole, a significare, ove ce ne fosse stato bisogno, quanto valore quest’uva e questo vino abbiano per la famiglia di vignaioli flegrei e quanto abbia contato in assoluto il loro impegno per la salvaguardia di questa antica produzione campana. Sul vino c’è da dire giusto quel poco che serve leggere: ha una spuma copiosa seppur non particolarmente persistente mentre le bollicine s’infilano sottili, fini e piuttosto insistenti. Il colore marca un bel giallo paglierino carico e luminoso, brillante; il naso è pulito, fragrante, offre un bel ventaglio olfattivo sgraziato e intrigante, che chiude su note di frutta secca ed eleganti rimandi speziati. Ciò che sbanca però è il sorso, asciutto ma ricco, profondo e avvolgente, dritto ma senza spigoli eccessivi. A venderlo caro, sui 18 euro in enoteca (un metodo classico così è da incorniciare a memoria d’uomo!).

Questa recensione esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it.

Cucina vs Sala. E il sommelier?

21 settembre 2011

Ci pensavo proprio ieri sera, ricordando a degli amici una scena del genere vista pochi giorni prima in un ristorante: “è una guerra continua, l’inizio della quale si perde nella notte dei tempi, e si protrae, con sempre nuovo vigore, quotidianamente – soprattutto al pass -, in tutte le cucine del mondo”.

La scintilla che ha di fatto scatenato il conflitto non ha origini ben definite, del resto ne l’una ne l’altra brigata contendente si arroga mai la presunzione di aver fatto il primo passo; ma, e questo è quantomeno da apprezzare, nemmeno l’ardire di sentirsi parte offesa per prima. Più semplicemente, è successo, succede, succederà. Così è questa guerra, vissuta sulla carne viva, e tra pentole e comande strappate al vento, va avanti – tra alti e bassi – continuando a segnare tra l’altro anche una straordinaria importanza storica e culturale per entrambe le professioni: “possiamo essere in perfetta sintonia, concentrati sull’obiettivo comune di una prestazione eccezionale, ma non saremo mai complici, siamo troppo diversi!” vi dirà lo chef, in quei rari momenti di tregua. “Sono loro che dipendono da noi, non viceversa; avanti così, giammai al soldo di una cucina qualunque!” ribatterà dalla sala il maitre (ancora visibilmente infuriato per la variazione non comunicatagli tempestivamente).

Insomma, tra una “chiamata” mancata ed una “uscita” in ritardo, ci sono i soliti echi di normale frustrazione professionale. Poi c’è il sommelier, the peacemaker, che quando sa il fatto suo, quando sa fare il proprio lavoro, è capace di mettersi proprio lì in mezzo al guado, giusto a metà strada, pronto a risolvere la situazione. Quando (e solo se) chiamato in causa.

Montalcino, in ragionevole ritardo

15 settembre 2011

Se n’è parlato tanto nei giorni scorsi, e certamente ha fatto bene all’opinione pubblica, quantomeno utile nel farsi un’idea di ciò che stava accadendo. Ha vinto il buon senso, il Rosso di Montalcino non si tocca! Bene…

Montalcino ha un grande passato, ricco di storia, blasone, successo; e senza dubbio un futuro immensamente luminoso, desto, da scommetterci su senza pensarci nemmeno un attimo. Stiamo parlando di sangiovese.

Sul presente, l’abominevole querelle aperta (ancora una volta) dal Consorzio nel tentativo di cabernetizzare ovvero merlottizzare il Rosso, e l’insistenza, direi alquanto furbesca (e pure un poco ignobile) con la quale si cerca una terza via “commerciale” – gradita certamente ai più ma salvifica per chi se non per pochi? -, anziché rimboccarsi le maniche e – siamo o no in uno dei distretti enologici mondiali di maggiore ricchezza? – pensare a nuove formule promozionali, è meglio stendere, giunti a questo punto, un velo pietoso.

Intervallo. Il vino, il sogno di una vita, la felicità

4 settembre 2011

Buon Compleanno Feudi di San Gregorio!

25 agosto 2011

Azienda parecchio chiacchierata quella dei Feudi di San Gregorio; criticata, talvolta sino all’inverosimile, tale dall’essere addirittura demonizzata; per contro, come smentirlo, ci sono centinaia di migliaia di professionisti e consumatori che ne hanno fatto una icona, un riferimento assoluto ed indiscusso per i loro acquisti.

La verità, come sempre sta nel mezzo: i Feudi hanno tracciato la storia contemporanea del vino campano in maniera indelebile, sino agli anni novanta senza protagonisti di rilievo fatto salvo i soli Mastroberardino e giusto uno o due nomi in più. C’è stato, come negarlo, una Campania del vino prima dei Feudi, dal sapore romantico, quasi nostalgico ma mai incisiva e persuasiva sul mercato del vino; e una dopo e con loro: attenzionata, rivisitata, finalmente considerata, rivalutata e rispettata, lanciata come non mai; un lavoro ai fianchi che per vent’anni ha visto l’azienda di Sorbo Serpico protagonista indiscussa sulla scena italiana e internazionale, a far da apripista, e in molti casi da traino, a centinaia di nuovi piccoli e audaci produttori.

Al centro di un circo mediatico tanto utile e funzionale al progetto di crescita quanto talvolta deleterio e deterrente per quella territorialità sempre evidenziata ma mai espressiva sino in fondo, o quantomeno immediatamente riconoscibile. Insomma, allori, fama, prestigio e primati indiscutibili; ma anche errori e orrori – di cui si è discusso tra l’altro infinitamente, sino alla nausea – che ne hanno fatto troppo spesso capro espiatorio di una visione del mondo del vino speculativa e globalizzata, per molti da condannare, ma essenzialmente segno del nostro tempo piuttosto che marchio di fabbrica depositato. In fin dei conti, tutti ben sanno che solo chi non fa non sbaglia mai.

Tant’è buon compleanno Feudi di San Gregorio!. Questo 2011 ci consegna i tuoi primi 25 anni di attività; agli occhi di molti possono sembrare tanti ma chi sa di vino (e vigne) conosce bene invece che è un tempo assai breve per sedersi sugli allori, quindi, aggiungo Ad maiora!. E il Campanaro, questo duemiladieci non fa altro che confermarlo, rimane il bianco più rappresentativo dell’azienda, forse il modo migliore con il quale salutare questo importante avvenimento. Personalmente l’ho sempre considerato, con il Taurasi Riserva Piano di Montevergine, il loro vino simbolo. Qui vivace, cristallino, dal naso davvero interessante e in lento divenire, come via via negli anni sa rinnovarsi voluttuoso, austero e adulatore, giustamente minerale.

Buon Ferragosto! (e attenzione agli squali!)

15 agosto 2011

L’evangelizzazione del nulla

8 luglio 2011

Nelle ultime settimane gira sul web (e non solo) la pubblicità di una iniziativa messa su da una delle aziende più cool ed attive sul mercato vitivinicolo italiano ed estero, una di quelle che si può tranquillamente definire, senza rischio di smentita alcuna, come tra le principali promotrici della cultura enogastronomica italiana.

Senza entrare troppo nel merito dell’opportunità del concorso promosso (qui tutti i dettagli), mi sovviene però di sollevare qualche perplessità sulla scelta fatta dall’Associazione Italiana Sommeliers di aderire all’iniziativa in quanto premio a supporto “di una degustazione dei migliori vini dell’azienda a casa del vincitore”; l’iniziativa, che nasce certamente da una mente ispirata, visto che mira a sensibilizzare, anzi – vista la portata dell’impegno – direi letteralmente a catechizzare una bella fetta di consumatori quasi-quotidiani, nasconde in se, a mio modestissimo parere, l’insidia del “pregevole quanto inutile”.

Non oso mettere in dubbio quanta passione possa profondere in questa iniziativa, una volta vinto il premio “un sommelier a casa tua”, la signora Clara; lei, quarantenne attempata di Rho – con un marito assente per quasi tutta la giornata – intento com’è a sbrigare le ultime comunicazioni di cassa integrazione prima delle agognate ferie agostane – non ci sta più nella pelle: “wow, sarà una serata speciale!”. Non oso nemmeno dubitare quanto impegno le richiederà mettere su una cenetta di degustazione coi baffi (altro che i crackers promessi nel regolamento!) con gli amici più cari; primo in lista, Carlo, quello che l’ha praticamente introdotta al meraviglioso mondo di Bacco dopo quella sera a cena in vacanza a Milano Marittima; Ada ed Enrica, le immancabili amiche dell’aperitivo al “Gonna Bar”, e poi Arturo e sua moglie Nadia; lei non ne capisce un granché di vino (continua a pensare che il dolcetto sia un vino dolce del Trentino), ma lui, Arturo, il commercialista dei grandi industriali brianzoli, ha una cantina di vini francesi da paura e non può certo mancare in una serata a tutta Val d’Adige! A questo, mettici pure quanto sarà entusiasta Guidobaldo, suo marito, che finalmente si vedrà svelate tutte le risposte ai suoi tremendi interrogativi che lo stanno attanagliando in questi giorni di caldo torrido. Che serata ragazzi! E non mancheranno, e qui di dubbi non ne ho proprio, di trovare un sommelier all’altezza della situazione.

Ricordo d’aver letto una volta da qualche parte che nell’800, e nella prima metà del ‘900, nei circhi andavano di moda i cosiddetti freaks, uomini (e donne) con varie deformità che si esibivano come fenomeni da baraccone ed erano delle vere e proprie celebrità del loro tempo. Erano quelle celebrità non sempre a lieto fine, e spesso, una volta esaurito il proprio numero da applausi si vedevano ripiombati nella nuda e cruda realtà dell’indifferenza che li circondava, che li emarginava, sino a renderli, appunto, fenomeni da baraccone buoni giusto il tempo per compiacere il “padrone di turno”. Bene, io, il mio lavoro, lo vedo differente.

Chi lo desiderasse, ecco qui l’avvincente epilogo del concorso.

A mio padre

2 luglio 2011

Avere un rapporto meraviglioso con i propri genitori non è facile, soprattutto quando la differenza di età, negli anni, volge a sottolineare sempre di più una distanza tra le parti che pare addirittura correre sul filo di quasi tre generazioni; ma il sentimento rimane forte, forse ancor più di quanto si possa immaginare vivendolo tutti i giorni. A mia madre, e a mio padre, devo tanto, molto più della vita stessa.

A lui, 81 anni suonati proprio oggi, non ho mai fatto troppe domande, forse nella consapevolezza di non poter ricevere quelle risposte che uno s’attende, o forse, più semplicemente, perché non ce n’è mai stato bisogno. Ho imparato però a leggergli fino in fondo gli occhi, in ogni momento di vita che abbiamo condiviso, quegli stessi occhi che ne hanno visto tante, davvero tante, dalla guerra vissuta in piena adolescenza – età frantumata che nessuno gli ha più restituito -, alla fatica, quella vera, profusa ogni giorno nel mestiere più affascinate, autentico e dannatamente duro del mondo, il pescatore; una via maestra imprenscindibile. Sessant’anni c’ha speso in mezzo al mare, tanti quanti non basterebbero a ripercorrere tutti i suoi passi a ritroso nel tempo. Buon compleanno papà!

Depressione* professionale

18 giugno 2011

Una bottiglia di vino può nuocere gravemente alla salute, quella mentale prima che fisica. Ciò è un dato di fatto, dicono. Quella della salubrità del nettare di Bacco d’altronde, è questione millenaria, inutile ribadire che rimane un concetto caldo strettamente legato all’uso sobrio od improprio che se ne riesce o meno a fare; bevetela pure tutta la bottiglia, e quando c’è, pure la storiella di turno, ma siate almeno in due, un testimone fa sempre comodo, più dello spartirsi l’ebbrezza; e quando vi è possibile, raccontatela in giro, con la stessa moderazione con la quale l’avete scelta da uno scaffale o da una carta dei vini.

Seguono alcuni pensieri e parole a margine di riflessioni raccolte qua e la, se vi fa piacere dategli un’occhiata. Il resto è solo un brutto momento, ma va bene così.

A proposito di guide ai vini d’Italia: “per fare un buon vino, pluripremiato dalle migliori guide, può bastare comprarne una giusta quantità dall’azienda a cui da sempre conferisci le tue uve e chiedergli di etichettarne qualche centinaio di bottiglie con la tua partita iva. Fa niente se fai l’imbianchino o il ginecologo, tanto diciamolo francamente, non è che ti sia mai importato più tanto di sto’ cazzo di mondo del vino, ma oggi è un must e tu vuoi esserci.” Da gran Viveur…

I buoni propositi campanilisti: “il miglior aglianico mai prodotto in Irpinia sotto i cinque euro franco cantina lo produce un’azienda che sta in provincia di Napoli; nessuno però lo scriverà mai, perché?” Perché nun se fanno ancora capaci!

Giro in cantina: …ho visto una vasca di aglianico “Atto a divenire Taurasi” con il cartellino “Merlot 100% al I travaso”. Mi sono dato subito due pizzicotti. Un sogno ad occhi aperti?

Insindacabile. “L’Oslavje 2000 di Radikon bevuto l’altra sera era una vera cioféca, checché se ne dica sullo stimatissimo produttore; l’avessi pagata vorrei subito indietro i miei euri”. In effetti non l’ho pagata.

Italia-Francia. “Sì è vero, i francesi sulla comunicazione “ci fanno il culo”, ma voi quando imparerete a fare vini “cazzuti” come quelli dei cugini francesi?” Altro che testate.

Mea culpa. “Chiedo scusa, forse quel vino non meritava tanto entusiasmo; se qualcuno l’ha beccato quel pacco forse un po’ di colpa è anche mia che ne ho parlato con tanto rigore”. Onestà intellettuale 1.

Il duro lavoro del recensore. “Non mandatemi campionature omaggio, i vini da degustare e, quando meritevoli, da recensire, preferisco venirmeli a bere in cantina o semmai andarmeli a comprare nelle enoteche”. Onestà intellettuale 2.

Una carriera specchiata. “Scrivo di vino da sempre, ricordo che quando iniziai fui tra i primi a raccontare del Torchiato di Fregona; eravamo alla fine dell’88, quando il mio editore tagliò i fondi alla redazione e decise di sana pianta che doveva essere solo uno ad occuparsi di giardinaggio, così ebbi l’intuizione, il futuro è del vino”. Il cosiddetto circolo virtuoso del fai da te…

A proposito di enoteche: “ci sono scoperte sorprendenti, delle quali non si può non ringraziare chi, attraverso i suoi viaggi riesce ogni volta a portarci in dono certe dritte; questo vino, credetemi, saprà come emozionarvi, ne scrivo sentendone ne l’aere ancora il fittissimo quadro empireumatico; e pensate che costa soltanto 7 euro o giù di lì. Davvero un grande affare, da comprare assolutamente (Possibilmente nella mia enoteca). Disonestà intellettuale, che ne dite?

* Depressione [de-pres-sió-ne] s.f.

  • 1 In geologia discontinuità di livello per cui una parte risulta più bassa di quelle circostanti. SIN appallamento avvallamento, abbassamento: d. del terreno || d. continentali, quelle inferiori al livello del mare e che si trovano nell’interno dei continenti.
  • 2 In meteorologia d. barometrica, zona di bassa pressione atmosferica, area ciclonica.
  • 3 In economia fase recessiva del ciclo economico.
  • 4 Comportamentale stato caratterizzato da malinconia, senso di vuoto, caduta di ogni interesse vitale venale: cadere in d.
  • 5 In ambito della sommellerie a lavare la testa all’asino si perde tempo e si spreca oltretutto prezioso vino; d. professionale.

Un po’ di noi, oggi su Nonsolodivinoblog

13 giugno 2011

Gli amici Stefano Ghisletta e Giorgio Buloncelli, grandissimi appassionati di vino e autori di uno dei blog più interessanti che gira on line, soprattutto in materia di vini francesi (quelli bevuti per davvero, ndr), mi hanno chiesto di raccontare un po’ di noi e della nostra terra ai loro lettori; questa che segue è la piacevole chiacchierata venuta fuori. (A. D.)

“Con Angelo Di Costanzo inizia una nuova rubrica titolata “quattro chiacchiere con …”. Uno spazio dove vogliamo presentarvi amici del vino o produttori che meritano di essere conosciuti. Partenopeo verace, Angelo, oggi occupa la posizione di capo-sommelier presso il Capri Palace Hotel di Capri, ma ammiriamo soprattutto la sua grande passione nel comunicare i vini della sua regione. Uno degli amici che coinvolgiamo quando dobbiamo scegliere una bottiglia campana. Vediamo di conoscerlo meglio con alcune domande.“(Stefano&Giorgio) Continua a leggere qui…

Una buona idea

1 giugno 2011

Non ho nessuna intenzione di parlarvi del Greco di Tufo di Cantine dell’Angelo e men che meno del Fiano di Avellino particella 928 di Cantine del Barone. Pur ammettendo che è difficile, dopo certe bevute intendo, non dedicargli spazio; ma chissà, non si può mai dire, o forse aspetto solo di camminarci le vigne.

Perché allora non scriverne comunque? Perché da almeno un paio d’anni non si fa altro, e forse – anzi, molto probabilmente – anche per questo non se n’è fatto mai niente. Quello che invece mi preme segnalarvi è l’intuizione che hanno avuto Angelo Muto e Luigi Sarno (quest’ultimo tra l’altro è anche enologo di Cantine dell’Angelo) prima di uscire con l’annata 2009; idea che spero vivamente possano continuare a sviluppare sempre con maggiore entusiasmo e fattibilità. Se date infatti un’occhiata alle bottiglie qui a sinistra vi renderete conto che il restyling a cui entrambe sono state sottoposte, e le nuove etichette in particolar modo, le avvicinano in maniera così palese tanto dal poterle intendere come prodotte dalla stessa azienda.

I due, raccogliendo forse anche l’invito che molti (me compreso) fanno di sovente ai piccoli produttori specializzati di non snaturare la propria vocazione al monovarietale (seppur Luigi si cimenti già da tempo anche con l’aglianico e il greco, ndr) andando a caccia di quel consenso che, ahimè, li costringerebbe a comprare uve o addirittura vini “belli e fatti” da terzi – a volte di qualità che c’entra poco o nulla con i propri standards – pur di soddisfare la domanda di questo o quel cliente che, ostinatamente, oltre al fiano di Avellino (o Greco di Tufo) – quello per cui sei riconosciuto e apprezzato – ha per forza bisogno anche del greco di Tufo (o Fiano di Avellino) per farti un benedetto ordine!

Ad esser sincero non so nemmeno se a questo mio pensiero corrisponda o no una formale intesa commerciale tra i due; ad oggi infatti mi risulta che abbiano sì l’agente in comune e che cerchino di ottimizzare gli ordini, ma è certo anche che entrambi continuano a vendere con la propria società; è interessante – direi quantomeno intelligente – che si vada sviluppando un progetto di tali fattezze invece che, come hanno preferito in molti, lasciarsi condizionare dal mercato andando così alla ricerca di ampliare il portafoglio prodotti a discapito del proprio talento.

Wine&Web, dopo i lustrini e i premi delle guide la controprova 2.0: ma quali i blog più affidabili?

15 Maggio 2011

In tempo di elezioni, non poteva mancare il sondaggio dell’anno! Ecco quindi che a pochi giorni da Squisito 2011, ci arriva fresca fresca, un’altra bella goodnews; (Dai su, che un po’ di autoreferenzialità, ogni tanto, non nuoce mica alla salute).Un’analisi sulle fonti web più frequentate dagli appassionati di vino, condotta da eXtrapola, azienda leader di mercato nel monitoraggio e nell’analisi dell’informazione online,  ha misurato l’influenza dei giudizi delle bibbie enologiche, le sempre più celebrate guide ai migliori vini nazionali. Per 5 settimane gli analisti di eXtrapola hanno quindi raccolto dati che misurano la popolarità in rete delle 62 etichette sempre premiate negli ultimi tre anni con uno dei riconoscimenti più famosi (ed inseguito, ndr) del circuito enoico italiano: il Tre Bicchieri della Guida Vini d’Italia del Gambero Rosso.

E dove vanno a cercare conferme gli enonauti? I blog emergono come il naturale contenitore di contributi sul vino di qualità e fra questi quelli che hanno fatto registrare più commenti sui vini presi in esame sono stati il blog di Luciano Pignataro, quindi Tigulliovino e, parimerito con Intravino, tenetevi forte, L’Arcante!

Qui il documento scaricabile in formato Pdf con l’evidenza della ricerca effetuata.

Crema di cipollotti con scarola, acciughe e tocchetti di pane croccante by Andrea Migliaccio

6 Maggio 2011

Vi presento Andrea Migliaccio, il nuovo executive chef del Capri Palace Hotel&Spa. Nato ad Ischia 30 anni fa, Andrea si muove con disinvoltura nelle cucine del Capri Palace già da sette anni; sino al 2009 è stato sous chef di Oliver Glowig a L’Olivo, poi per due anni è passato in executive al Ristorante Il Riccio, sempre di proprietà del Palace, che nella scorsa stagione ha strappato la promessa alla Stella Michelin sulla Guida Rossa 2011. Sul proprio curriculum figurano alcune esperienze formative importanti, tra le quali quella con Xavier Pellicer e, a Parigi, al Plaza Athenee di Ducasse; in ultimo una breve esperienza all’Espadon del Ritz con Michel Roth. La sua idea di cucina si rifà ad un concetto semplice e circolare, composto da una giusta dose di innovazione e tradizione, tradotto: nuovi piatti ma assoluta valorizzazione dei classici contemporanei, con un occhio attento al Mediterraneo, culla di sapori e suggestioni di cui lui stesso è figlio e mentore.

Questo è solo uno dei piatti che più mi ha convinto della nuova Gran Carta; un rimando, per me, alla mia infanzia, una zuppa di gradevolissima lettura che si sposa bene sia con un vino bianco di carattere, mettiamo sia il caso del bellissimo Fiano Trentenare 2010 di Peppino Pagano, oppure, giusto per citare un’altra novità assoluta per quest’anno, il buonissimo Pinot Nero Rosé 2010 di Franz Haas; naturalmente io sono di parte, guai a non sottolinearlo, ecco perché qui di seguito trovate la ricetta con tutti i passaggi previsti. Mettevi alla prova e fatemi sapere.

Ingredienti per 4/6 persone:

  • 2 scarole
  • 2 kg di Cipollotti
  • 1 cipollotto intero lesso (per la decorazione)
  • 600 gr patate tagliate a cubetti di 2 cm
  • 80gr di burro
  • 200 ml di panna fresca
  • 400 ml di vino bianco
  • 1 foglia di alloro
  • 4 spicchi d’aglio
  • 3 filetti di acciughe diliscate
  • brodo vegetale
  • sale, pepe, peperoncino e noce moscata q.b.
  • tocchetti di pane croccante q.b.

Preparazione: rosolate  i cipollotti tagliati a julienne nel burro con due spicchi d’aglio (che poi andranno tirati via), unirvi quindi le patate e bagnate il tutto con tutto il vino bianco; aggiungere la panna, allungare con il brodo vegetale, la foglia di alloro per aromatizzare, un pizzico di sale, del pepe e la noce moscata; lasciate cuocere per circa 30 minuti a fuoco lento: quindi frullate il tutto e lasciate raffreddare; frattanto sbollentate in acqua salata la scarola e strizzatela per bene; a parte, fate rosolare in padella dell’aglio con un pizzico peperoncino e le tre acciughe, aggiungetevi la scarola, lasciate cuocere per circa 10 minuti.

Servite questa buonissima zuppa in un piatto bianco fondo, disponendo dapprima la crema di cipollotti, al suo centro la scarola con sopra una parte di cipollotto lesso, tutt’intorno i tocchetti di pane croccante e le acciughe. Completare la preparazione con un filo d’olio extravergine a crudo.

Ricetta di Andrea Migliaccio, executive chef del Capri Palace Hotel&Spa.

Chiacchiere distintive, Gerardo Vernazzaro

5 Maggio 2011

Una laurea in Viticoltura ed Enologia in tasca, conseguita a Udine nel 2001, poi alcune esperienze formative pregnanti prima di ritornare a casa: su tutte, una presso l’azienda agricola Leonildo Pieropan a Soave, l’altra, indimenticata, in Argentina, presso l’azienda Luigi Bosca di Mendoza; Gerardo Vernazzaro, amico di bevute memorabili, oltre ad essere un tecnico di elevatissimo talento prima che di conoscenze, è una gran bella persona, di quelle capaci di risolverti una giornata con una battuta folgorante. E’, tra l’altro, segretario regionale dell’Assoenologi Campania. Cura, di tanto in tanto su questo blog, una delle rubriche che dedichiamo alla viticoltura di qualità.

Allora Gerardo, le lunghe chiacchierate tra “amici di bevute” trovano finalmente una via di confronto più ampia; partiamo dalle origini, l’inizio di tutto: perché uno “scugnizzo” della periferia napoletana decide di fare il tuo mestiere? Non ho mai pensato di diventare enologo fino a quando nell’ estate del ’97, durante una vacanza a Ibiza, mi ritrovai a tirare le somme della mia vita vissuta sino a quel momento. Avevo appena finito le superiori, fresco di qualifica di perito informatico (mio malgrado) e con ben poche prospettive se non quella di vedermi, dopo anni di precariato, mal pagato, seduto per ore dietro a una scrivania; proprio non mi garbava. Ripensai così a quando da bambino giravo in cantina, dai miei zii, per sbarcare il lunario durante la pausa estiva e per mettere da parte qualche lira per i miei sfizi; Così da cantiniere qual ero – e per la verità dopo un po’ non mi andava nemmeno più di tirar tubi, lavar serbatoi e riempir damigiane – decisi che ne dovevo saper di più, così corsi ad iscrivermi a enologia e viticoltura, consigliato dall’amico, oggi collega, Maurizio De Simone che mi indirizzò a Udine; lì, in quegli anni, la formazione era specifica e di buon livello. Preferire Udine col tempo si è dimostrata la scelta giusta, in quegli anni la passione è maturata e cresciuta in maniera esponenziale, e ciò grazie anche alla quotidianità che vivevo in Friuli, dove al posto del caffè si beve vino sin dal mattino. Qui ho colto quale fosse la mia strada.

Il fattore che mi ha fatto innamorare del mio mestiere e’ stata la concretezza, cioè la possibilità di mettere subito in pratica gli insegnamenti scolastici; al primo anno di studi già mi ero attrezzato con un piccolo laboratorio ed alla fine del secondo (1999-2000) ho gestito interamente la mia prima vendemmia: 6000 quintali di uva, con il quaderno degli appunti ed il “Ribereau Gayon”, la bibbia degli enologi; alla fine ero soddisfatto, ma oggi quando ripenso a quei vini rabbrividisco!

Meno male averti conosciuto molto dopo allora! Quindi gli studi, la laurea, le prime esperienze: ma cosa ti rimane di quegli anni? Mi rimangono le amicizie vere, in quanto mi sento e mi vedo frequentemente con tanti amici e colleghi dell’Università con i quali ho trascorso anni bellissimi, divertenti e costruttivi; tra l’altro, ricordo come fosse grande la soddisfazione di aver sovvertito ogni pronostico inizialmente a mio sfavore: “Eccolo qui, il napoletano fancazzista, che non studia, non lavora, mi sentivo dire…”; ed invece dopo appena 6 mesi gli stessi erano costretti persino a chiedermi gli appunti!

Poi il ritorno a casa, in famiglia, a smanettare in cantina; ma fuori dal lavoro? Aver studiato fuori mi e’ servito tanto, mi ha fatto vedere con occhi diversi la mia citta’ e la mia famiglia, con maggior apertura, spirito critico e lucidità. Sai, quando vivi a Napoli è come essere coinvolti in una rissa senza alcuna colpa, solo avendo la fortuna di guardare il tutto da fuori decidi se entrarci o meno.

Non posso negare un certo disagio nel ristabilirmi a Napoli, ho sofferto il riadattamento, il ritorno alla quotidiana frenesia, al caos; in più sopraggiungeva un fattore nuovo, direi inaspettato: la “solitudine professionale”; cioè la mancanza di persone con le quali poter condividere la mia passione per il vino, e non solo nel farlo, ma anche nello scoprire, confrontarsi; all’inizio è stata davvero dura! Poi per fortuna le cose sono cambiate, nella mia vita oltre ad Emanuela sono entrati nuovi amici e colleghi con i quali poter parlare e finalmente condividere tante cose e passioni, non solo il lavoro: Ivan Pavia, Antonio Pesce, Massimo Di Renzo, Fabio Gennarelli, Fortunato Sebastiano, Gennaro Reale, Michele d’ Argenio, Francesco Martusciello Jr e tanti altri; per me stare insieme, condividere è una necessità irrinunciabile, ho un continuo bisogno di confrontarmi.

E’ stato così anche in famiglia? Mi spiego: la storia, le tradizioni, valori così radicati, sono sicuramente pregnanti, riferimenti assoluti, ma talvolta si corre il pericolo di scontrarsi con convinzioni ataviche, stereotipi difficili da superare. O no? La famiglia e’ un valore fondamentale e la storia e le tradizioni sono altrettanto importanti; in verità ogni volta che ho proposto dei cambiamenti, anche radicali, come certe innovazioni, la mia famiglia era già all’ opera nel realizzarli; hanno capito, e i fatti hanno sempre anticipato le chiacchiere.

Piuttosto era far comprendere all’esterno i cambiamenti in corso; il fatto di appartenere ad una famiglia del vino a Napoli con una storia così forte, per taluni appariva un limite invalicabile, e quando proponevo il mio lavoro, i miei vini, c’era sempre qualcuno che diceva “ah si, Varchetta, quelli del vino sfuso!”, senza nemmeno assaggiare i vini. Una pre-percezione negativa che ha reso il “gioco” più duro di come lo immaginassi, diciamo un condannato a priori. Ma dopo dieci anni di duro lavoro e tanti investimenti, per fortuna di scettici ne son rimasti pochi, anche perché crediamo di aver operato sempre in maniera trasparente: che la mia famiglia vendesse vino sfuso (cosa che tra l’altro continuiamo a fare) era logico oltre che normale; abbiamo oltre un secolo di storia nel vino, e come si sa, quello imbottigliato è presente (ed apprezzato) sul mercato, campano in particolar modo, da poco più di 20-25 anni. C’e’ stata una evoluzione repentina che abbiamo attraversata tutta, dai fusti di legno in castagno a quelli di ciliegio, al cemento, per poi passare al vetroresina e quindi all’acciaio, per finire, negli ultimi vent’anni appunto, col vetro. Cambiamenti epocali, da commercianti di uve e vini a vinificatori, e nell’ultimo decennio vignaioli a pieno titolo, con investimenti importanti e mirati ad una viticoltura sostenibile ma di precisione, specializzata in produzioni di qualità, e soprattutto orientata al recupero e alla valorizzazione di luoghi impensabili dall’immaginario collettivo. Ecco la risposta che attendevi, la storia e la tradizione per me oggi non sono affatto ostacoli ma punti di forza su cui costruire il futuro!

Ecco, veniamo ai tuoi di ideali, dal lavoro in vigna alla cantina, qual è il tuo approccio? Il buon senso anzitutto. E il basso impatto. Agli inizi, fresco di studi, mi sentivo super, con le mie conoscenze in enologia pensavo di poter fare tutto, sempre ed in ogni annata. Dunque, poco più che ventenne pensavo che nulla era impossibile, e che in cantina si potesse fare davvero il bello e il cattivo tempo.

Da quando ho iniziato a mettere le mani realmente in pasta, a vinificare l’uva sul cratere degli Astroni, ma anche altre uve di qualità provenienti da diversi areali campani, ho capito che c’era una grande differenza in termini di lavoro in cantina e sui vini finiti. Fare il vino in vigna è d’altronde persino più conveniente. Oggi, dopo le mie prime 12 vendemmie, ritengo sia fondamentale conoscere bene il terreno, attraverso analisi del suolo, per intervenire ove mai fosse necessario in modo scientifico, ma anche e soprattutto analisi fogliari, per capire gli assorbimenti dei macro e microelementi presenti nel vigneto; lavorare di fino sulla dotazione azotata delle uve per diminuire gli interventi di nutrizione al lievito, sia esso indigeno o selezionato, in fermentazione alcolica. Per buon senso intendo anche sviluppare quella conoscenza e sensibilità in vigna per poter limitare al minimo tutti gli interventi invasivi sulla pianta, quindi sull’ uva, e di conseguenza sul suolo: se malauguratamente uno prende la tosse non deve mica ricorrere alla chemio…

Non mi ritengo un interventista quindi, ma se l’ annata non e’ buona, quindi come si dice, ostile, non mi va di perdere il raccolto; quello che è certo è che da quell’uva non faremo un gran vino, ed in quanto tale va proposto in maniera coerente al mercato. Credo infine che attualmente produrre vini dal basso impatto sia divenuto quasi un dovere per un produttore; bisogna limitare l’uso di fitofarmaci invasivi, che oltretutto il più delle volte possono compromettere la fermentazione e rilasciare residui certamente non genuini al vino, limitare l’uso di additivi chimici, ridurre l’uso della solforosa, ma non solo per un discorso etico, come lo vogliono far passare in molti, ma piuttosto per la salubrità del vino e da ultimo perché un vino stabile e buono, con un contenuto basso di solforosa si lascia bere con più faciltà, e quindi, presumibilmente, se ne dovrebbe vendere di più.

Quali sono invece i tuoi riferimenti, chi ti ha ispirato di più? Come stimolo professionale il mio professore Roberto Zironi, e non di meno il grande Gennaro Martusciello, per tutti “O’ duttore”: due persone da cui ho tratto grande ispirazione. Ricordo ancora il primo giorno di Università, quando il Prof. Zironi mi chiese da dove venivo ed io gli risposi “dalla Campania, da Napoli…”; lui mi disse, “lì da voi avete un grande enologo, Gennaro Martusciello, lo conosci?” E poi ancora, rivolgendosi stavolta alla classe tutta: “sapete, questo tecnico campano ai convegni mette in seria difficoltà tutti noi relatori con domande intelligenti e quasi sempre spiazzanti”. Fu molto bello ascoltare tali lodi per una persona che ho imparato poi negli anni a conoscere ed apprezzare sempre di più. Infine, la persona forse più importante, mio zio Vincenzo, che è stato, e lo è tutt’ora, un riferimento assoluto per la mia vita prima che per il mio lavoro.

Si dice, sempre più frequentemente, che è proprio nel passato il futuro della viticoltura moderna; una frase di comodo o c’è del vero? Sicuramente basta leggere il De agri cultura di Marco Porzio Catone, il De re rustica di Columella, o qualsiasi scritto di Plinio il Vecchio,Varrone per capire che in 2000 anni le buone pratiche agricole sono veramente cambiate poco: i sovesci, le concimazioni organiche con letame stagionato, le rotazioni in campagna, le buone regole per impiantare un vigneto, la vocazione dei terreni e tanto ancora; nulla o quasi è stato inventato oggi.

E l’enologia, la scienza che studia il vino e la sua produzione, come si pone dinanzi a queste prospettive? Il vino deve essere prima buono e sano, poi se biologico, biodinamico, raro, vero, ecc. ancora meglio.

Qui ti voglio: biologico, raro, vero, naturale, biodinamico, convenzionale, tecnologico; giusto perché qualcuno non pensasse che invece basti dire rosso, bianco o rosato. Ma cos’è tutta questa confusione? Partiamo dall’assunto che il vino biologico non esiste, ma solo il vino prodotto da uve da agricoltura biologica; del resto ad oggi non esiste ancora un disciplinare per la produzione di vino bio, e spesso succede che in cantina si fa di tutto e di più, e ancor più spesso si trovano in commercio vini detti impropriamente bio che hanno però, per esempio, dosi di solforosa altissime; non v’è coerenza. Per me il biologico non si può fare ovunque, e soprattutto non si può fare sempre, a patto di essere disposti a perdere anche tutta la produzione; certo è che non lo possono fare tutti, ci vuole grande sensibilità, conoscenza del territorio e delle vigne; anzi, di ogni singola vite

Sulla possibilità di vinificare senza solforosa o comunque ridurre l’utilizzo della stessa, come detto è una strada obbligata per tutti i produttori contemporanei; ritengo tuttavia che ci siano varietali più predisposti di altri a questo approccio e quindi bisogna stare sempre attenti a ciò che si comunica e ciò che si è capaci di garantire; ad esempio, per rimanere in regione, io stesso ho provato a vinificare il Greco di Tufo senza solforosa, e sono certo che si può fare, come l’Asprinio, come il Tintore di Tramonti e l’Aglianico di Taurasi. Tutte queste uve però possiedono acidità altissime e ph molto bassi, quindi a ph3 vi è nel mosto un’azione antisettica e antibatterica naturale, pertanto possiamo rinunciare tranquillamente alla So2; addirittura per i due bianchi citati è, se vogliamo, raccomandabile; perché senza So2 non c’è protezione dall’ossigeno e quindi avviene un ossidazione immediata di tutta la frazione fenolica instabile, già partendo dal mosto, così da ridurre anche l’utilizzo di chiarificanti. Per il Tintore poi non utilizzare So2 è auspicabile, altrimenti con tenori alcolici così sostenuti ed il ph a 2.9-3, con buone probabilità la fermentazione malolattica può non avvenire .

A proposito di Tintore, e di Alfonso Arpino cosa mi racconti? Alfonso è un grande! L’ incontro con lui è avvenuto nel 2004, venne ad Astroni con Anna sua moglie, mi portarono una bottiglia del loro rosso 2003, uno spettacolo, un colore mai visto prima, rimasi talmente affascinato dal vino nella sua interezza che lo ricordo ancora come fosse ieri; Alfonso mi disse che cercava un enologo giovane, ma io gli dissi che non potevo seguirlo, non avrei trovato tempo da dedicargli, e lui, impassibile, mi disse: “Vieni a vedere le mie vigne, poi decidi…”. Quando arrivai a Tramonti e vidi le sue vigne rimasi impietrito, non avevo mai pensato prima di allora che potessero esistere viti così antiche, credimi la commozione mi pervase, accettai. Di ritorno verso Napoli pensavo all’onore di vinificare uve da viti secolari, a quanti uomini avessero vendemmiato quelle uve, a quante vendemmie, a quante storie. E adesso anch’io ne entravo a far parte. Mi sentii e mi sento un privilegiato. Alfonso ed Anna poi sono persone eccezionali e mi hanno dato tanto in questi anni, oltre che buoni consigli, mi hanno trasferito l’amore per la terra, loro sì che sono Slow! Oggi a Monte di Grazia l’enologo e il cantiniere è Alfonso, io mi limito a dare qualche consiglio ma poi è lui che fa quello che vuole e ritiene opportuno; questo secondo me è un buon rapporto tra tecnico e produttore, cioè tra il tecnico che si limita a dare consigli e proporre al produttore diverse strade, ma alla fine è il produttore a scegliere quale percorrere. Il vino così è figlio del territorio e del produttore e non dell’enologo!

Approfitto di questo spazio per chiarire un altro concetto, spesso sento dire “non vogliamo il vino dell’enologo!”. Mi verrebbe da dire “e che vuoi il vino del salumiere?”. Il vino è scienza, e lo fa l’enologo, o quantomeno l’enologo moderno, che deve saper leggere un terroir e ben interpretarlo, senza mai stravolgere la sua vocazione, ma comunque producendo vini puliti, fini, ed ove possibile eleganti e soprattutto digeribili. L’equazione vino dell’enologo=vino costruito o peggio ancora vino chimico non mi piace proprio.

L’enologia degli anni 70-80 quella era sì chimica, dissociata dalla viticoltura; quella moderna è biotecnologica (microbiologia, biochimica) e sempre più saldamente legata alla viticoltura; l’enologo moderno si affaccia sempre di più alla viticoltura e all’agronomia e, purtroppo, in giro c’e’ troppa gente che confonde il chimico con il biochimico e la chimica con la microbiologia. Quante persone parlano in modo molto superficiale di enzimi, lieviti, solforosa, brettanomyces e altro senza sapere cosa siano realmente? Tante, troppe!

Quindi anche la comunicazione ha le sue responsabilità. Dal tuo punto di vista di consumatore prima che di tecnico, tra l’altro particolarmente appassionato – ne sono testimone – dove si sbaglia? Non so dove si sbagli, la comunicazione ha giocoforza il suo ruolo, ma ti posso dire dove sbagliano i produttori e i tecnici: bevono poco e spesso solo i loro vini, e questo è un grande limite; per formare nella propria mente una idea di vino più ampia, completa, come spesso asserisce anche il prof. Luigi Moio: “il vino nasce prima da un’idea che prende forma nella nostra mente…”. Un altro tabù è l’aggiornamento tecnico e lo scambio di conoscenze, ma su queste problematiche ci stiamo lavorando anche noi come Assoenologi Campania assieme al nostro presidente Roberto Di Meo.

Una cosa sulla comunicazione, in generale, te la posso dire; sono stato diverse volte in Cina e lì ho capito quanto sto per affermare: quando usciamo fuori dai nostri confini, e abbiamo la presunzione che tutti ci conoscono, non per i vini, ma di certo per le nostre bellezze: Napoli, Ischia, Sorrento, Capri, sbagliamo! E di grosso. Questi non sanno nemmeno dov’è posizionata l’Italia sul mappamondo, figuriamoci tutto il resto; qualcuno conosce Roma, alcuni Milano per la moda o per il calcio. Incredibile! Noi purtroppo continuiamo a presentarci in questi luoghi con una proposta troppo frammentata e spesso la “diversità” più che un valore aggiunto rischia costantemente di divenire un punto debole della nostra offerta, perché mal comunicati. Da questo punto di vista in Italia non è mai stato costruito nulla di solido e valido su cui puntare veramente per noi aziende, c’è troppo campanilismo, per non parlare poi nella dimensione regionale. Una catastrofe!

L’esempio continua ad essere la Francia, hanno saputo inculcare nelle menti dei consumatori mondiali che i migliori vini (ma anche i formaggi per esempio) sono solo francesi, e non sud, nord, centro o isole; tutti. Poi, se uno vuole bere grandi rossi di struttura beve i bordolesi, se ricerca finezza beve Borgogna, se bollicine Champagne e così via. Noi italiani invece continuiamo a flagellarci, un esempio lampante è stato lo scandalo del Brunello; ricordo quell’anno al Vinitaly, in molti tra i produttori di altre regioni se la ridevano, “gli sta proprio bene ai Toscani, così imparano!”, senza pensare che il fango colpiva un vino patrimonio della storia d’Italia e che sotto accusa non era certo solo la Toscana, ma tutto il “sistema vino” nostrano.

Ma veniamo a noi, ci parli un po’ di Cantine Astroni, come nasce e dove vuole andare, quale direzione ha deciso di seguire? Cantine Astroni nasce dalla volontà di valorizzare la proprietà sul costone del cratere degli Astroni, ma anche come percorso obbligato per l’evoluzione vitivinicola della mia famiglia; non abbiamo un punto di arrivo, ma di certo una direzione, quella di preservare quanto più possibile il bello rimasto nel nostro areale e di puntare nel tempo ad eccellenze che conservino un’anima tutta partenopea.

Parte delle vigne sovrastano appunto il Parco Monumentale degli Astroni, un luogo suggestivo ed evocativo di storie straordinarie; chi si affaccia da lì non può non rimanerne rapito; qual invito ti senti di fare a chi vive con non poca frustrazione l’assedio della metropoli? Come il grande Eduardo ogni tanto ci tocca pensare pure a noi “Fujitevenne!”, ma non è cosi decisivo; a chi non passa per la testa di scappare da Napoli in questo momento?Agli assediati consiglio di visitare e conoscere meglio la nostra città, di cogliere ed apprezzare le sue bellezze nonostante tutto e soprattutto di ritornare a studiare un po’ della nostra storia per capire chi ha calpestato la nostra terra prima di noi e perché stiamo come stiamo; oggi si vive quel che qualcuno ha inteso come “immobilismo frenetico”, ma che cela un bello ineguagliabile sepolto non dalla spazzatura ma dalla troppa ignoranza, la madre di tanti mali che affligge la nostra città, e dall’ arroganza; due aspetti pregnanti della nostra società civile d’oggi, ed ahimé della nostra politica.

Hai scelto, pur potendo cercare altre vie, di vivere e lavorare nella tua terra; ci sarà mai il riscatto per questa Napoli “siccome immobile”? Dice Aldo Masullo: “La nostra Napoli è una città sempre in bilico, sempre a un passo dalla resurrezione ma anche a un passo dal precipizio, in un continuo alternarsi dei suoi mutevoli stati d’ animo di esaltazione e depressione, città piena di dualismi e di forti contrasti estremi”. Bene, io mi sento spesso come la mia città. E non credo di essere l’unico. Mi piacerebbe un giorno ascoltare un Tg bianco, dove per almeno 10 minuti vengano trasmesse solo notizie positive, perché sono sicuro che c’é tanta gente nella nostra città che si impegna nel sociale, che fa cose belle e soprattutto buone! In fin dei conti sì, sono ottimista, credo che ci sarà un riscatto per Napoli, ma il processo sarà lentissimo; la cosa più preoccupante secondo me è che purtroppo stiamo assistendo nel frattempo ad una “napoletanizzazione” di tutto lo stivale, ed ahimé nel senso più negativo del termine, con sceneggiate, commedie e teatrini il cui finale è ancora tutto da scrivere!

Bene. E secondo te, la terra, la vite, il vino, hanno ancora un valore per questa città e la sua provincia? Oggi più che mai, la terra, la vite e il vino hanno gran valore per questa città e per la sua provincia, sono la roccaforte delle tradizioni e la risposta alla cementificazione e al brutto, serve tanta specializzazione e le poche vigne rimaste secondo me devono divenire dei veri e propri giardini, le vigne metropolitane forse hanno più valore delle altre perché sono delle oasi nel deserto di cemento, avamposti da salvaguardare e tutelare!

Chiudiamola così: ti invito a pranzo domani, prima però dimmi cosa porti da bere? Angelus ’93. Basta poco, chéccevo’!

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Chiacchiere distintive, Benny Sorrentino

24 aprile 2011

Laureata alla facoltà di agraria di Portici nel 2006, Benny Sorrentino è l’unica enologa in Campania campana; un’ importante esperienza formativa presso il Centro Ricerche per l’Enologia di Asti e nel 2008, a Torino, la specializzazione in scienze viticole ed enologiche. Nello stesso anno, l’abilitazione alla professione di agrotecnico laureato. Con il fratello Giuseppe, si occupa a tempo pieno dell’azienda di famiglia, venti ettari nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio.

Togliamoci subito dall’imbarazzo: dal pettinar le bambole a smanettare in cantina; sono io che la vedo dura o il percorso è più breve di quanto si possa pensare? In realtà fin da piccola ho sempre vissuto molti momenti tra campagna e cantina, e le bambole erano mie compagne di avventura. Effettivamente tra pettinare le bambole e stare in cantina ci sono delle differenze, richiedono ‘sforzi’ diversi. Ma

sono due cose indirettamente collegate, hanno dei punti in comune quali l’ordine e la massima cura. Nel primo caso forse maggiore cura e minore sforzo pratico, mentre nel secondo si intensifica la praticità. Mettiamola così, pettinare le bambole è stato un buon allenamento per la definizione dei particolari, dell’eleganza e dell’immagine dei miei vini. Poi in cantina ho cominciato a sviluppare altri aspetti di gestione e di forza! Tutto sommato mi è andata bene.

Quali sono stati gli ostacoli più duri da superare? Forse la difficoltà maggiore è stata il cercare il miglior metodo di lavoro e di organizzazione, conciliare cioè tutto ciò che era teoria con la pratica perseguendo gli obiettivi prefissati. Da piccola passeggiavo tra le vigne, raccoglievo l’uva in vendemmia, entravo in cantina e osservavo tanti movimenti; ora che ho maggiori basi di conoscenza tutto assume diverse prospettive e tutti quei “movimenti” diventano specifici e determinanti.

La vigna, la cantina, il mercato; nel mezzo la sostenibilità, un tema molto ricorrente ultimamente, qual è il tuo pensiero, il tuo ideale? La sostenibilità è un tema molto ricorrente perché credo che col passare degli anni si sia diffuso un uso incontrollato di prodotti di sintesi in agricoltura e in enologia convenzionale che possono aver provocato uno squilibrio naturale. Non tutti conoscono bene l’azione ad esempio di alcuni principi attivi che sono somministrati in vigna ma soprattutto gli effetti che possono provocare a lungo termine il loro uso improprio.

Ovviamente la sostenibilità si propone di non sconvolgere gli equilibri naturali e di rispettarli. Usare quantitativi minimi di risorse “artificiali” limitando così sempre più l’impatto su di essi. E’ indubbio che alcuni tipi di mercato sono interessati alla sostenibilità più di altri, ma ognuno bada ovviamente alla qualità, alla tipicità, e non ultimo alla piacevolezza del vino. Pertanto ritengo che se si rispetta l’ambiente e dalla terra si hanno prodotti sani che vengono trasformati senza sconvolgere le loro potenzialità, siamo sulla strada giusta.

Il Vesuvio nell’immaginario collettivo è una icona, eppure l’areale vesuviano rimane tra i più martoriati della provincia di Napoli; possibile che le amministrazioni (locali, regionali, nazionali) non riescono a vedere ciò che avete colto e valorizzato voi? A volte non tutti conoscono le realtà che costituiscono il territorio e in taluni casi nelle persone rimane l’immagine poco felice che viene trasmessa in seguito a diverse situazioni che vedono l’areale in forte difficoltà. Ritengo invece che l’area vesuviana assieme a tutte quelle vicine al mare siano importantissime e da tenere in grande considerazione; anzitutto per l’antica vocazione viticola e, come nel nostro caso, trattandosi di una zona vulcanica tra le più vaste in Europa continentale, con un vulcano ancora attivo e, per l’ambiente pedoclimatico davvero particolare.

Il problema sostanziale credo sia rappresentato dall’età media elevata delle persone che si sono fatti carico in passato della crescita e della valorizzazione del territorio, soprattutto per le difficoltà di strutturare un’efficace interlocuzione, come spesso è accaduto, non adoperando i giusti mezzi di comunicazione. Ecco perché confido molto nelle nuove generazioni, le associazioni, spero nei consorzi locali, affinché possano svolgere il loro lavoro nel migliore dei modi al fine di diffondere al meglio la cultura, le colture vesuviane e i prodotti da esse derivanti.

Il Lacryma Christi del Vesuvio, croce e delizia dell’enologia campana, ambìto da tutti per il suo storico prezioso valore di mercato, eppure mai nessuna grande azienda se l’è sentita di investire seriamente in loco; un bene, un’occasione mancata oppure… Il Lacryma Christi del Vesuvio è una tipologia di vino che viene ottenuta da differenti tipi di varietà distinte sia per il bianco che per il rosso. Le varietà, le loro peculiarità devono essere studiate e seguite a lungo ed attentamente, per poterne migliorare la coltivazione ed affinare quindi la qualità dei vini che vi si ottengono. Bisogna conoscere ovviamente l’areale, il suolo, il clima e cercare quelle “combinazioni” giuste per raggiungere il loro massimo equilibrio. Mi rendo conto che ciò è dispendioso, in particolar modo per chi si approccia al Vesuvio non vivendolo costantemente; si tratta di un vero e proprio investimento, anzitutto programmatico, che richiede tempo, conoscenza e supporti tecnici all’altezza. Ogni azienda ha una propria filosofia, si prefigge quindi gli obiettivi che più ha nelle corde, decide quindi dove, come e se investire.

Vigna Lapillo rosso, Natì, Catalò giusto per citarne alcuni; i tuoi vini, rossi e bianchi, sono indiscutibilmente tra i più rappresentativi dell’areale, sprizzano energia ad ogni sorso: qual è quello che ti assomiglia di più? Quelli che citi sono vini a cui siamo arrivati dopo un’attenta analisi e selezione delle nostre migliori uve; la volontà di esaltare quanto più possibile  le potenzialità viticole ed enologiche delle varietà vesuviane, attraverso meticolose scelte dei tempi e dei modi di coltivazione, di vinificazione e quindi di affinamento. Gesti di sapienza che si fondono con quelli provenienti dall’innovazione. L’idea è quella di raggiungere un equilibrio che parte in primis dalla vigna, continua in cantina e termina con l’affinamento che renderà complesso e armonico un vino pur non essendo d’annata.

Ogni bicchiere di vino cerca di essere un piccolo vulcano, direi che forse quello che più mi assomiglia è il Catalò, da uve Catalanesca, a cui tengo particolarmente ed al quale mi sono molto dedicata. Le uve vengono raccolte in zone molto circoscritte dell’areale vesuviano, e questo lo rende ancor di più aderente alla sua tipicità; la cosa più interessante di questo vino è che a distanza di anni di affinamento, ho constatato conservi buone caratteristiche di freschezza, oltre che persistenza ed un notevole bouquet. Questo forse è l’esempio più rappresentativo della conciliazione della teoria acquisita nel corso dei miei studi sperimentali e della pratica.

Ecco, la Catalanesca: c’è, non c’è, si può fare, no? La Catalanesca è conosciuta anche come Catalana o uva Catalana, la sua presenza attualmente è limitata solo ad alcune zone dell’areale vesuviano e sembra risalire al 1500. Sono state ritrovate alcune descrizioni risalenti al 1804 fatte da Columella Onorati che la inserisce tra ‘le uve buone a mangiare’, nel 1844 Gasparrini, poi nel 1848 Semmola e tanti altri in anni successivi ne forniscono sintetiche ma efficaci descrizioni che sottolineano la morfologia del grappolo grande e spargolo con bacche grosse e il suo stadio tardivo di maturazione.

Per salvaguardare i vitigni autoctoni è stato realizzato un sistema di protezione attraverso gli accordi Stato-Regioni, in particolare la Catalanesca è stata inserita nella classificazione delle varietà di vite da vino coltivabili nella Regione Campania grazie al D. D. n.377 del 11 ottobre 2006. Nel corso della riunione del Comitato Nazionale Vini DO e IG del 23 e 24 febbraio 2011 è stato dato parere positivo per il riconoscimento della IGT Catalanesca del Monte Somma, prodotta nelle tipologia “bianco” e “passito e la cui zona di produzione delle uve è ubicata in provincia di Napoli. Pertanto alla luce di quanto scritto sopra la Catalanesca si può vinificare e il vino prodotto potrà anche riportare la denominazione IGT/IGP.

Bene, un po’ di chiarezza non guasta mai. Da qualche tempo producete, a mio modesto parere, uno tra i migliori vini rosé in regione, il Vigna Lapillo rosato; mi chiedo, e ti chiedo, fare rosato sul Vesuvio può essere una vocazione da valorizzare maggiormente? Certamente! Produciamo rosato da quando è nata l’azienda, e l’esperienza maturata vendemmia dopo vendemmia, il miglioramento delle tecniche viticole, ci hanno solo aiutato a migliorarlo. Generalmente il rosato è un vino che fa breccia solo nel cuore dei fans, ma chi si è avvicinato al Vigna Lapillo per la prima volta, pur con un certo distacco, ha dovuto ricredersi sino a rimanerne rapito.

Ne sono testimone. Torniamo a noi, chi fa il tuo mestiere è costantemente proiettato al futuro, non potrebbe essere altrimenti; spesso però bisogna fare i conti col passato, chiamiamola pure tradizione; tu come la vedi? Domanda che richiederebbe un argomentazione abbastanza lunga e complessa; diciamo che dal passato c’è sempre da imparare, anzi, spesso è il nostro riferimento per intraprendere con perizia nuovi progetti e studi. La viticoltura vesuviana è costituita perlopiù da contadini che gestiscono piccoli vigneti; da una parte hanno saputo conservare le vecchie tradizioni ma anche il prezioso materiale viticolo su piede franco, ma dall’altra non si prestano facilmente a fare investimenti sul miglioramento di alcuni aspetti legati alla coltivazione. E’ questo è senz’altro un limite che impedisce al territorio un immediato salto di qualità; tuttavia il potenziale rimane altissimo.

Oltre alla formazione, spesso ci sono incontri decisivi nella vita professionale di ognuno; nel tuo caso ce n’è stato uno? Gli anni della permanenza torinese mi hanno decisamente segnata, infatti ho vissuto molte esperienze che mi hanno vista a diretto contatto con una mentalità in continua evoluzione che ricerca lavori per poter migliorare il settore vitivinicolo e che è sostenuta dagli enti di ricerca attrezzati con strumenti di analisi all’avanguardia da poter mettere al servizio anche di piccoli enti.

Probabilmente questo modo di agire e di voler studiar meglio i processi è stato determinante senza aspettare che una cosa accada solo perché è legata ad una particolare vendemmia (certo potrebbe sicuramente incidere) o all’incrocio casuale o non ben rintracciabile di alcuni fattori. Ho ritrovato questa stessa determinazione nel voler analizzare con accuratezza e con la giusta tempistica gli aspetti viticoli ed enologici nell’enologo Carmine Valentino con cui condivido molti dei miei momenti di crescita e che per me rappresenta un forte stimolo di miglioramento.

In chiusura, per ringraziarti della chiacchierata, vorrei offrirti da bere: mi dai tre vini da proporti per fare centro? Ultimamente ho avuto modo di assaggiare dei vini di altre zone vulcaniche ed ho colto inaspettatamente delle analogie pur essendo vitigni differenti! La prova cioè di quanto possa essere forte la territorialità ed in particolare l’incidenza del suolo vulcanico. Il Soave Classico vigneto du Lot- 2009 di Inama; Garganega in purezza che all’assaggio mi ha evocato i sentori del Caprettone non d’annata! Buon corpo, intensità aromatica ed una interessante spiccata mineralità.

Oppure il Quota 600 2009 di Graci, Nerello Mascalese e sempre dalla Sicilia, il Koiné 2007 di Antichi Vinai, anche questo da uve Nerello Mascalese.Il primo esprime freschezza e bouquet molto interessanti, al gusto un buon tannino. Sembra di bere un Piedirosso della mia terra con note fruttate, balsamiche e minerali, fresche ed abbastanza pronunciate. Nel secondo rosso invece ho rivisto il Lacryma Christi rosso da invecchiamento, con note speziate miste a quelle balsamiche in evidenza. In entrambi i casi si tratta dello stesso vitigno che sembra mantenere delle caratteristiche basilari di riconoscimento ma che ovviamente risente della diversa esposizione dei vigneti e del grado di affinamento in legno. Un po’ come analogamente accade anche sul Vesuvio, dove le uve conferiscono ai vini tipiche note distintive che però possono subire delle modifiche a seconda dell’iter di lavorazione, dettato naturalmente dalla filosofia aziendale.

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Le 10 domande più “cool” da fare ai produttori per ravvivare l’atmosfera al prossimo Vinitaly

6 aprile 2011

Quest’anno passo la mano, ma solo perché ho ancora troppe cose da fare e troppo poco tempo a disposizione prima che inizi la nuova stagione; mi scuseranno i tantissimi, che per piacere o semplicemente per dovere, non m’hanno fatto mancare l’invito a passarli a trovare; ci saranno altre occasioni. Vinitaly quindi è alle porte, qualcuno lo aspetta sempre mi verrebbe da dire, c’è però chi lo snobba (non serve! dicono), altri lo ignorano proprio, altri ancora sanno che sta lì, prima o poi ci andranno. Forse.

Si accendano quindi le telecamere, le fotocamere, i tablets di ogni marca e generazione, notebooks, telefonini, caricatori di; per i più nostalgici, si sfoderino pure le vecchie penne e i taccuini in finta pelle nera! Poi i biglietti – oddio i biglietti! – la rubrica telefonica con tutti i numeri utili, l’invito. Con questi, masse di professionisti, enotecari, salumieri, ristoratori, trattori, rappresentanti, sommeliers, giornalisti (quelli veri), bloggers – da non confondersi con i giornalisti, anche quando si spacciano di esserne colleghi – e semplici appassionati si apprestano a partire alla volta di Verona per trascorrere uno, due o cinque giorni all’insegna di grandi rivelazioni, delusioni o nuove esaltanti esperienze e, faccenda non certo di secondaria importanza, bevute e mangiate irripetibili; o almeno si spera.

A tutti quanti dico: divertitevi, e bevete tutto quello che pensate vi possa appassionare! Fate esperienza, allenate il vostro palato, incontrate persone, stringete più mani che potrete; non fate i fighetti, portate pazienza se gli stands saranno affollati e non vi lamentate alla prima occasione perché non vi hanno riconosciuto; capita, forse nemmeno vi rendete conto cosa significa per un produttore stare lì cinque giorni ed essere assaliti (si spera) costantemente da orde di genti da ogniddove! Fate di questo evento una bella passeggiata tra persone, bottiglie e bicchieri, e non la vostra idea definitiva del mondo del vino; cogliete l’occasione magari per allacciare nuove conoscenze, chiedete magari quando e come sarà possibile poi fare un salto in cantina, a camminare le vigne.

Infine una dritta, aggratis: le dieci domande, secondo me, più cool da fare ai produttori ai loro banchi d’assaggio qualora intuite un calo di attenzione nei vostri confronti. Attenzione però, leggere attentamente le avvertenze prima dell’uso! N.B.: tra parentesi un suggerimento di alcuni passaggi utili da tenere, in prima istanza, solo come un pensiero.

1 – Sono sempre stato affascinato dai vostri vini, li preferisco da sempre, quel vostro Riserva poi… che annata è in commercio adesso? Assicuratevi di stare parlando della stessa azienda, e che frattanto non siano trascorsi vent’anni dall’ultima volta che avete assaggiato un loro vino!

2 – Barrique di primo, secondo o terzo passaggio? Un classico, un caposaldo si direbbe seppur un tantino inflazionato; però se beccate quel piccolo produttore alla sua prima esposizione, avete fatto centro!

3 – Quante ne fate di questo? Se non siete dei maghi non impelagatevi in numeri che mai più ricorderete appena girato le spalle.

4 – Questo vino non fa malolattica, (e se la fa, solo in parte) dico bene? Domanda ficcante, da vero esperto; girate però alla larga da quegli stands con coltri di amerrecani in fila :-).

5 – Avete rappresentanti nella mia zona (sa perché è da un po’ che vorrei inserirvi in carta)? Astenersi se pensate di farla franca, magari il Vostro ve lo propone almeno da un paio d’anni mentre voi ve ne siete convinti solo ora giusto perché qua e là un paio di articolini ne parlano bene.

6 – Davvero notevole (si sente però l’annata calda), duemilasette vero? Schiere di grandi vini vi attendono, fate attenzione però a non relegarli nell’accezione più morbida del significato “grande vino”.

7 – Che portainnesto utilizzate, 140 Ruggeri o 779 Paulsen? Questa è proprio figa, ma tenetevela just in case siete sicuri di poter strappare un appuntamento per il dopo cena. E solo se la produttrice vi ispira, naturalmente; e comunque, occhio, in nessun caso citare il Kober 5 BB.

8 – Lieviti indigeni o selezionati (no perché le spiego, ormai ho maturato una certa sensibilità)? Attenzione a non avvicinare il calice all’altezza degli occhi mentre vi scappa di farla (sta domanda), e fissate bene il vostro interlocutore mentre vi risponde. Se gli vibra l’orecchio destro, mente spudoratemente!

9 – Mica ha un biglietto d’ingresso omaggio in più da offrirmi per un amico? Confidenziale, a dirla tutta, la più sputtanata delle domande che vi possa venire in mente. Qui serve un sorriso immenso e/o una gran faccia tosta, fate voi!

10 – Quanti milligrammi per litro di solforosa ci mettete in questo vino? La più cool di tutte, la domanda con “D” maiuscola, la madre di tutte, quella da 10 e lode, la più gettonata e all’altezza del trend attuale; badate bene però a chi la rivolgete, astenersi da omaccioni bio naturalqualcosa, caschereste male!

E ricordatevi, comunque vada, sarà un successo! 🙂

Chiacchiere distintive, Antonio di Gruttola

16 marzo 2011

“I vini di Antonio fanno impazzire i bianchisti macerati a lungo, ma secondo me lo stacco più interessante rispetto agli altri enologi è proprio sui rossi. Il motivo è semplice: quando bevi i suoi bianchi avverti la ricerca anche concettuale dell’estremo, mentre nei suoi rossi la diversità appare essenzialemente semplice e diretta, naturale insomma”. (L. Pignataro)

Nessuna presentazione potrebbe essere più esaustiva del concetto che ha Antonio di Gruttola di fare vino, di quel suo modo di approcciarsi ad un mondo che continua a disvelare di se mille e più sfaccettature e chiavi di lettura, qui impresse da un ideale fuori dal tempo, una naturalità ricercata ed espressa senza se e senza ma. (A.D.)

Nel preparare questa intervista mi era d’obbligo non cadere in domande troppo convenzionali perché a pensarci bene, il tuo approccio al mestiere è alquanto non convenzionale; ci spieghi cosa significa, in cosa consiste la tua filosofia di produzione? Devo fare una piccola premessa. Dopo gli studi ho lavorato per alcune industrie del settore vinicolo ed ho capito che ero nel posto sbagliato. Nella vita bisogna seguire il proprio istinto ed essere un po’ folli e quando ho deciso di abbandonare quel tipo di lavoro l’ho fatto in maniera radicale. Ho voluto e voglio seguire solo aziende a cui interessa seriamente fare i vini in modo artigianale-naturale e purtroppo al sud sono poche le persone che credono in questo approccio.

Il suolo, che per troppo tempo è stato considerato insignificante e per questo maltrattato e lasciato morire, rappresenta invece il punto di forza, l’inizio di tutto, per qualsiasi coltura. Ed io sono il tipo di persona che ama sentire il sapore dei prodotti che ci dà Madre Natura. E quando un suolo è vivo, allora la vite sta meglio e tutti gli interventi che avvengono nel vigneto sono legati al mantenimento di questo equilibrio. Senza lottare con la Natura ma assecondandola rispettandola.

In cantina non esistono protocolli di vinificazione ma solo annate diverse, forse anche questo va contro le logiche dell’enologia moderna, in realtà niente di così trasgressivo, io non sono uno di quelli che firma i vini, questo mi sa tanto di industria, sicuramente per Cantina Giardino decido io tutto, però chi mi sceglie come consulente sa che potrà ritrovarsi nel proprio vino.    

Biologico, Biodinamico, Vini Naturali: senza dover fare per l’ennesima volta l’ennesima precisazione, ci dai però il tuo punto vista in merito? Io sono nettamente per i vini naturali senza certificazioni, ho molti amici produttori che pur avendo le certificazioni non le utilizzano, ho clienti che sono biologici certificati, alcuni fanno biodinamica ma non è questo che è importante, è il valore etico che portano con sé i produttori che seguono queste strade. Non c’è diversità se si rispettano i suoli, le viti, le persone, se in cantina non si manipolano i vini per ragioni commerciali.

Quali sono secondo te le principali difficoltà, ammesso che ve ne siano, che incontrano questi concetti con le moderne tecniche enologiche? Non si incontrano, di conseguenza nessuna difficoltà.

In una recente pubblicazione, il prof. Attilio Scienza, un luminare per quanto attenente alla viticoltura, ha affermato, pur lodandone alcuni aspetti, che le pratiche naturali e la biodinamica in particolare, rimangono “agricoltura da presepe”, cioè fine a se stessa e privata di qualsiasi possibilità di sperimentazione e ricerca; secondo te ha torto o ha ragione? Non ne ho idea, non sapevo che il professor Scienza avesse lodato alcuni aspetti della biodinamica, so solo che i prodotti che vengono da questo tipo di agricoltura sono più buoni, più sani, digeribili, gustosi, invitanti.

C’è stato un tempo in cui la Campania era vissuta come terra di conquista per consulenti enologi, anche di fama internazionale; un fenomeno bruscamente ridimensionatosi negli ultimi anni: merito del genius loci o un limite della nostra cultura conservatrice che li ha allontanati? Veramente i consulenti enologi di fama internazionale li vedo ancora presenti. Il numero di aziende negli ultimi anni è aumentato in maniera esponenziale, dunque si sono formate sul territorio molte figure professionali in questo settore.

Chi sono stati, se ci sono stati maestri, i tuoi riferimenti in materia? I miei maestri sono e continuano ad essere, tutte quelle persone con cui ho degli scambi interessanti, soprattutto di bottiglie! Ho amici produttori in tutto il mondo che vado a trovare, che mi vengono a trovare, con cui mi confronto e con cui ci si scambia liberamente informazioni.

Veniamo a Cantina Giardino, cosa rappresenta per te? Cantina Giardino rappresenta per me la scelta più folle ed importante della mia vita, dove grazie a mia moglie e ai miei migliori amici ho potuto dare libero sfogo ad ogni sperimentazione di vinificazione che mi è passato per la testa. Non è stata una scelta commerciale, è un fantastico laboratorio enoculturale, che ha consentito ai nostri viticoltori di sentirsi parte di una squadra e di continuare a vivere di questo mestiere senza estirpare le loro radici, ha dato l’opportunità a noi soci di continuare a sentirci dei ragazzi ed infine, secondo me, ha dato una bella scossa al mondo dell’enologia campana.

I tuoi vini indubbiamente sorprendono, più di una volta conquistano, talvolta dividono; perché? I miei vini devo dire che mi hanno sorpreso, soprattutto sulla distanza. Intanto posso consigliare di non avere fretta quando li si ha nel bicchiere, in modo da permettere loro di esprimersi, un vino naturale cambia è dinamico è vivo. Poi posso aggiungere che quando si assaggiano vini come questi non si possono utilizzare i propri parametri di riferimento formativi, a meno chè non ci si sia formati solo con i vini senza aggiunte. Considera che molti dei nostri vini sono anche senza solforosa aggiunta e forse pochi sanno che questa cosa ne aumenta la piacevolezza e la digeribilità in quanto presentano meno spigoli e limitazioni.

Fiano, Greco, Aglianico, Coda di Volpe nera (di cui conservo ancora qualche bottiglia di duemilaquattro!), dove pensi sia più facile e dove più difficile esprimere appieno il così detto terroir? In nessuno è difficile eprimere il terroir se si lavora come ho spiegato. Il fatto che tu abbia qualche bottiglia di Volpe Rosa 2004 la dice lunga secondo me; conservare un rosato 2004, 12 % vol, senza protezione di solforosa, o è da pazzi oppure è da persone consapevoli anche della longevità dei vini naturali.

Qual è secondo te il limite più evidente della viticoltura Campana? L’utilizzo della chimica in vigneto e non avere la capacità di guardare oltre considerando il nostro patrimonio ampelografico rispetto alle altre regioni.

Quello della critica enologica? La critica enologica è cresciuta molto in Campania, ci sono persone molto competenti che non si dimenticano delle piccole realtà.

L’aglianico, quello irpino in particolar modo, è considerato tra i più interessanti vitigni italiani eppure esprime vini a cui sembra sempre mancare qualcosa per consacrarli definitivamente, che conquisti definitivamente il consumatore, l’appassionato, perchè? Manca la storia, non quella dell’aglianico d’Irpinia ma quella delle bottiglie. Infatti nell’ultima anteprima Taurasi 2007 hanno fatto una retrospettiva con il 2001 reperendo poco più di 10 campioni. Senza la storia rimane interessante ma non ci sono le prove materiali per consacrarlo al grande pubblico. Io sono tra quei fortunati che hanno assaggiato qualche Aglianico d’Irpinia di più di 30 anni e posso dire che è un vitigno che può competere con molti mostri sacri.

Togliendoti dall’imbarazzo di dire “…quello di Cantina Giardino”, qual è secondo te un modello cui fare riferimento oggi? Non mi metti in imbarazzo perché Cantina Giardino una pecca l’ha sempre avuta, non ha vigneti di proprietà. Il mio nuovo progetto è un’azienda agricola che è nata nel 2010 a Montemarano in contrada Chianzano, con piante di oltre cento anni, su una collina dove si produce uva da sempre, con un sistema ben isolato e tutto a raggiera tradizionale avellinese come piace a me, dove nascerà una cantina in bioedilizia e dove potrò nuovamente dare sfogo alla mia follia. Ecco, spero che in futuro possa diventare questo un modello di riferimento.

Ricordi invece un vino per te memorabile, che magari avresti voluto firmare tu? Io non firmo, comunque sono due i vini che mi sono piaciuti davvero molto. Il primo è stato il Barbacarlo 1972 di Lino Maga il cui tappo è praticamente uscito da solo grazie alla spinta della carbonica e il secondo è stato il Rkasiteli di una vecchietta di 94 anni , in Georgia, nella regione del Kakheti ai confini con la Cecenia, che mi è stato servito dopo l’apertura di un’anfora di 4000 litri interrata in cantina.

Tre vini che invece secondo te non devono mancare nella esperienza di un appassionato? Riesling Domaine Gérad Shueller, il Barbacarlo di Lino Maga, il Barolo di Bartolo Mascarello; Drogone, Cantina Giardino (ah, sono quattro, ma mancava una cantina del sud e comunque potrei fare un elenco molto più consistente, l’appassionato deve bere!).

Domenica prossima, a Bacoli, ritorna “Parlano i Vignaioli” giunto alla seconda edizione; ci puoi anticipare qualcosa? Ci sono produttori molto interessanti, spero che il pubblico sia numeroso, mancava nel Sud una manifestazione di questo tipo e da anni ne parlavamo. L’educazione ha bisogno di un giusto ritmo. Ogni anticipazione, come ogni ritardo, porta a delle alterazioni. Il Sud in questo momento storico è pronto ad ascoltare e capire le scelte di questi vignaioli e a mettere in dubbio chi produce con metodi convenzionali.

Quest’anno abbiamo una presenza molto importante che è Giovanni Bietti, il quale ha scritto e sta scrivendo dei Manuali sul bere sano intitolati “Vini Naturali d’Italia”, recentemente i manuali di Bietti sono stati premiati a Parigi come “Best Wine Guide in the World”. Antonio Fiore, il critico maccheronico, ci ha confermato la sua presenza e cosa di cui siamo molto fieri più di trenta tra i migliori chef e sommeliers della Campania parteciperanno alla tavola rotonda del lunedì, in questa settimana uscirà un comunicato stampa dettagliato su questo momento.

Un’altra parte interessante di Parlano i Vignaioli sono i laboratori, ai quali bisogna iscriversi, quest’anno ne faremo cinque nella giornata di domenica 20 marzo, il programma è sul sito www.parlanoivignaioli.it; il lunedì sera sei locali di Napoli e provincia hanno accettato di ospitare alcune delle cantine presenti a Parlano i Vignaioli: Abraxas, Capo Blu, Dal Tarantino, Da Fefè, Veritas e La Stanza del Gusto. Vorrei fare un ringraziamento al Comune di Bacoli per la grande ospitalità che ci sta dimostrando; e grazie a te per avermi concesso questo spazio.

Questo articolo esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it.

Chiacchiere distintive, Fortunato Sebastiano

1 marzo 2011

Ecco uno di quegli enologi che non smetteresti mai di stimare, dal profilo basso e dalle altissime prestazioni professionali. Così, da una piacevole chiacchierata, tiriamo fuori parecchi argomenti, sviscerati quanto basta tanto dal decidere di farne una intervista, lunga ma indubbiamente interessante. Fortunato Sebastiano si occupa di viticoltura ed enologia dal 1998. Dopo la maturità scientifica lascia Ariano Irpino alla volta di Roma quindi in Toscana dove si laurea alla Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa con una tesi in viticoltura sulle possibilità espressive del vitigno Fiano, con il Prof. Giancarlo Scalabrelli come relatore. Le prime esperienze professionali lo hanno visto al lavoro dapprima in Toscana, in Sicilia, nelle Marche e poi, di ritorno, in Campania dove nel 2002 fonda il gruppo di lavoro Vignaviva.

Come nasce la tua vocazione per l’enologia e per il tuo mestiere? Decisamente da una reale passione per il vino come momento conviviale ed elemento fondamentale della nostra cultura. Negli anni ‘90 in Irpinia, la mia terra natale, si muovevano i primi passi di quello che sarebbe stato il rinascimento vitivinicolo della regione ed era facile restare affascinati dal mondo del vino; altro aspetto fondamentale della mia decisione nell’affrontare questo mestiere è stato l’amore per la natura, la continua ricerca della comprensione dei sottili meccanismi che regolano il “nostro” meraviglioso mondo vegetale. Mai ho pensato di scindere i due aspetti della produzione agricola ed enologica nel mio mestiere e per fortuna il mondo del vino, anche se alla lunga, mi sta dando ragione. Da ciò deriva la mia ferma convinzione di dover approfondire il più possibile lo studio della viticoltura per ottenere vini degni di questo nome.

Quali sono secondo te i riferimenti indispensabili per diventare un buon enologo? In parte ho già risposto precedentemente ma sottolineo che il nodo fondamentale per fare questo lavoro, per come lo intendo io, è la decisiva continuità tra il lavoro in vigna e quello di cantina. Spesso ho assistito, nel lavoro come nella comunicazione di settore a delle vere e proprie aberrazioni riguardanti la produzione del vino. Il massimo cui si possa aspirare nel produrre vino è arrivare ad avere piante sane che portino a vini di personalità e territoriali, apprezzati nelle loro particolarità varietali e soprattutto salubri. L’enologo può e deve garantire tutto questo. E poi di certo la capacità di confrontarsi e di ascoltare, evitando atteggiamenti accademici ed anzi essendo sempre pronti a rimettere in discussione un concetto, un’idea, un’intuizione. Fare questo mestiere attiene alla pratica, alla preparazione ed all’immaginazione, molto meno ai proclami mediatici. Non mi fiderei mai di un tecnico che non avesse mai fatto il cantiniere o che non sapesse “leggere” una pianta di vite. Ho imparato tanto dai miei incontri e dalle mie esperienze e questo è al servizio delle aziende che lavorano con me.

In regione, negli ultimi anni, stanno venendo fuori tanti giovani enologi motivati, e a quanto pare anche piuttosto preparati; un fenomeno passeggero o stiamo assistendo alla nascita di una vera e propria scuola campana? Credo che non sia un fenomeno passeggero ma occorre fare delle precisazioni. La scuola campana è secondo me di là da venire, visto che alcuni dei miei più brillanti colleghi hanno studiato fuori dalla nostra regione che è stata un po’ arroccata su posizioni scolastiche e “di chiusura” per diversi anni, a differenza di ciò che accadeva per esempio in Piemonte, Toscana, Veneto, dove vi è stata ferma volontà di rendere competitivo il mestiere dell’enologo o comunque del tecnico vitivinicolo. Chi in Campania è riuscito nella professione di enologo lo deve esclusivamente a grandi doti personali. Ciò è ancora più grave se si pensa che la nostra Scuola Enologica di Avellino è stata la seconda ad essere aperta in Italia nei primissimi anni del ‘900. Oggi abbiamo bisogno di un enorme passo in avanti nel lavoro di campo, di grande interesse verso la viticoltura, di aggiornare la figura dell’enologo inteso non più come esperto delle sole pratiche analitiche, di cantina o amministrative che pure, ovviamente, sono di enorme importanza. Le moderne scuole di viticoltura ed enologia possono adempiere a questi compiti ma vanno dirette con lungimiranza e strizzando l’occhio alle più attente regioni viticole del mondo. L’enologo può essere il perfetto ponte tra gli obiettivi aziendali ed il loro raggiungimento. Ci sono enormi sfide che debbono essere vinte, oltre che nel campo viticolo anche in quello enologico: lo svecchiamento di metodiche riproposte pedissequamente, la riduzione drastica dei conservanti nella matrice vinosa, l’adattamento delle pratiche enologiche ai singoli vitigni, la caratterizzazione sensoriale del nostro patrimonio viticolo, la zonazione dei territori in relazione ai risultati enologici, il raggiungimento di alti vertici qualitativi anche sulle grandi produzioni, solo per citarne alcune. Ed in questa direzione ci si sta muovendo per fortuna, sia nell’ambito dell’associazione di categoria (leggi Assoenologi) – del cui consiglio in regione ho l’onore di far parte – sia nelle singole realtà aziendali.

Detto questo ben vengano nuove leve, tutti assieme si metterà più in alto l’asticella della qualità, soprattutto perché pare superata l’era dei consulenti a distanza e c’è sicuramente spazio per le competenze “autoctone”. Sia ben chiaro, lavoro anch’io fuori dalla Campania ma spendo davvero molte energie per colmare le mie lacune rispetto ai territori in cui mi trovo ad operare. Infatti occorre conoscere profondamente un territorio per interpretarlo e rendergli onore, anche a costo di produrre vini non immediatamente allineati ai gusti di massa. La mia speranza è rimessa in questo, nella convinzione che ci sia spazio per centinaia di grandi vini molto diversi fra loro ma espressione del territorio e delle persone di cui sono figli, ivi compresa la figura dell’enologo come principale collaboratore delle aziende. Per questo ho fondato Vignaviva, per rendere fattibili questi concetti.

Chi sono stati, se ci sono stati maestri, i tuoi riferimenti in materia? Ho avuto la fortuna di lavorare e studiare con grandi colleghi. Oltre al già citato Scalabrelli che mi ha trasmesso nozioni e passione fondamentali inerenti l’ampelografia e la viticoltura, cito volentieri Giacomo Tachis, l’artefice del rinascimento enologico italiano, dei grandi vini toscani degli anni 80,  che è stato sempre gentilissimo con me sin dall’Università, un uomo di grande intelligenza ed umiltà. Ricordo con piacere i pomeriggi a casa sua in cui mi ha descritto l’importanza di questo o quel testo di chimica o viticoltura. Ed il suo archivio!! Ricordo volentieri anche Francesco Saverio Petrilli, enologo di Tenuta di Valgiano in provincia di Lucca, con cui ho avuto l’onore di confrontarmi agli inizi del mio percorso professionale quando lavoravo per un’azienda del Cilento di cui lui era consulente. Saverio è una persona speciale,  profondamente interessato alla viticoltura e per questo ha sempre avuto il mio massimo rispetto. Con  lui ho avuto modo di ragionare su molti concetti relativi al mondo del biologico e del biodinamico attraverso discussioni sempre interessantissime e pervase dalla curiosità.

Quali secondo te le principali difficoltà che incontra oggi un enologo? Beh, questa è una bella domanda davvero. Tralasciando le difficoltà che ogni lavoro porta con sé in merito all’impegno che richiede ed il fatto che si può fare questo mestiere in tanti modi diversi, dico senza dubbio: interpretare la professione alla luce della modernità guardando contemporaneamente alla vendibilità dei prodotti, alla loro presenza sul mercato. Per modernità intendo le sfide che alcuni errori di impostazione degli anni scorsi hanno prodotto: si è infatti creduto per qualche anno che fare il vino fosse un fatto di semplice metodo, una pratica facilmente ripetibile a parità di tecniche, attrezzature e metodiche. Questo atteggiamento ha prodotto a sua volta una diffidenza verso la comprensione e la gestione della vinificazione che può avere diversi risvolti negativi sulla qualità dei vini. Qui in Campania poi vanno ancora sviscerate le potenzialità dei singoli terroir, adattate le pratiche enologiche persino alle singole aziende. Spesso si dimentica, magari in buona fede, che il vino non può e non deve essere accostato a prodotti di altro tipo, a bevande “seriali”, ma neanche a prodotti che hanno la veste del risultato “casuale”. Quindi occorre tentare sempre nuove strade per capire quali possibilità ci possa offrire ognuno degli areali.

Il vino è l’unico prodotto di trasformazione agricola che sfida i decenni con integrità, a volte, col tempo, migliorando. Ciò può accadere verosimilmente per tre, quattro annate per decennio, anche a parità di lavoro ed impegno. La vera difficoltà restano le annate di media o bassa qualità viticola, dove ad entrare in gioco è la capacità del vinificatore di leggere tra le righe il potenziale inespresso e portarlo a buon fine sino alla bottiglia, non potendo sbagliare nulla. Il vino non si fa usando ricette precostituite ma nemmeno mettendo l’uva in un contenitore ed aspettando. È frutto del caso nella misura in cui l’uomo ne comprenda i risvolti, o almeno ci provi. La professionalità dell’enologo è al servizio di questa comprensione. Per spiegarmi meglio: ricordarsi che cosa sia esattamente il vino dovrebbe dare a tutti gli operatori del settore la dimensione di ciò che ci si può aspettare da un’annata piuttosto che da un’altra. Ed il vino è frutto anche dell’intuizione dell’uomo. Occorre collegarlo alla natura e contemporaneamente immaginarlo fedele ad un idea, ad un’ambizione legittima di qualità. È quello che lo rende diverso da qualsiasi altra bevanda, che spinge ad acquistare una bottiglia, per averne piacere con un buon pasto, per soddisfare una curiosità o per appropriarsi di quel piccolo viaggio nel tempo che può essere un vino.

D’altronde, al giorno d’oggi, il vino è un bene di consumo di tipo edonistico, non certo un alimento come percepito per esempio negli anni ’50 e ’60. Il tentativo, secondo me, deve essere quello di fare sempre il meglio possibile, calandosi completamente nella realtà dell’annata, tenendo fermi i punti saldi della personalità dei territori e dei vitigni accanto alla schiettezza, alla salubrità, alla digeribilità dei vini, ciò che si tradurrà – aspetto non secondario – anche in vendibilità e soddisfazione del consumatore finale.

Se dovessi illustrarmi in poche righe la tua filosofia di produzione? Quando mi approccio ad una nuova azienda cerco di capire anzitutto che tipo di persone ho davanti. Sono interessato a quelle che hanno voglia di confrontarsi, che hanno la voglia di trasferire un po’ di se stesse in quello che fanno, nel vino che immagineremo insieme. Subito dopo mi relaziono al territorio, studio le caratteristiche geomorfologiche, l’adattamento dei vitigni, la salute dei vigneti, le metodiche di gestione, le apparenti possibilità produttive. Poi, nelle aziende consolidate ed in piena produzione, cerco di capire se tutto quello che ho avvertito è leggibile nei vini prodotti, cosa che spesso non accade e di cui la proprietà è consapevole. Così iniziano una serie di ragionamenti che debbono necessariamente portarci ad un risultato aderente alle aspettative e cioè ad un vino equilibrato, armonico e complesso, nei limiti del vitigno e vigne permettendo.

In campagna, mi dedico da anni ad una gestione biologica dei vigneti, quindi nessun diserbo, prediligendo sovesci e lavorazioni del suolo mirate, potatura dolce, puntuale analisi sensoriale delle uve, rese equilibrate e attenzione maniacale all’epoca ed alla qualità della raccolta. Sono molto “laico” in cantina, avendo come punti fermi la riduzione dell’uso dell’anidride solforosa ed una certa tendenza al “minimo intervento” (che non è esattamente un “lasciar stare”, anzi). Tengo molto alla riconoscibilità “aziendale” dei vini, alla loro aderenza ad uno stile. Conduco vinificazioni con lieviti indigeni e selezionati, faccio lunghe macerazioni su vitigni bianchi e rossi ed anche normalissime vinificazioni in bianco o rosato, in relazione al risultato che vogliamo ottenere ed alle possibilità strutturali e logistiche delle aziende, alle risorse umane e commerciali. Sono convinto, ad esempio e per restare su un tema “d’attualità” di cui abbiamo parlato ultimamente, che più del lievito, sia la gestione invasiva della fermentazione alcoolica a banalizzare il risultato su molti vini  bianchi “moderni”. In definitiva, miro alla personalità dei vini attraverso la personalità degli uomini, cercando di non rovinare nulla nel frattempo.     

Segui ormai da tempo diverse aziende collocate in più aree vitivinicole; quali sono secondo te le terre maggiormente vocate qui al sud? Sicuramente l’Irpinia come terra d’elezione per bianchi eleganti da fiano e greco e, in alcune sue giaciture collinari, anche per l’aglianico da grande affinamento. Il Vulture mi ha sorpreso come anni fa fece il Cilento per le potenzialità che ha per i rossi, enormi; a volte mi strappa un po’ di invidia, da irpino quale sono. La Costa d’Amalfi con i suoi vitigni straordinari come il tintore, la ginestra, il fenile e la pepella, un terroir del tutto particolare ed in parte sconosciuto. Il Sannio Beneventano e la provincia di Caserta per il piedirosso e la falanghina ben espressa anche sui suoli vulcanici dei Campi Flegrei. La Puglia offre espressioni piuttosto eleganti, come i primitivo di Gioia, coltivati fino a 500 metri di altitudine. La Calabria con l’equilibrio di certi Cirò. In generale il sud ha solo da approfondire il proprio approccio, le basi, anche se non dappertutto, ci sono tutte.

Il vitigno che non rinunceresti mai a lavorare? Uno è troppo poco: l’aglianico ed il fiano. E vorrei lavorare ancora la barbera del Sannio, vitigno che amo particolarmente.

Quello di cui faresti veramente a meno? Il merlot.

Qual è la tua prossima sfida? Il metodo classico da fiano, greco e piedirosso, ci sto già lavorando per una importante azienda irpina (Villa Raiano, ndr). Ed un fiano del Cilento (Casebianche, ndr) rifermentato in bottiglia in maniera “integrale”, ad affinamento breve e senza sboccatura, che uscirà in primavera.

E quella che vorresti vivere in futuro? Un nebbiolo in Piemonte o in Valchiavenna, un cesanese nel Lazio, un sangiovese nel Chianti Classico.

Ti faccio tre nomi: Sannio, Cilento, Ager Falernus, terre e vini secondo me formidabili ma sempre in secondo piano; dove la Campania sta perdendo l’occasione più grande? Forse l’Ager Falernus, o il Cilento, ma in tutti e tre i territori ci sono ottimi produttori. Occorre provare a definire uno stile o più stili, una riconoscibilità, anche se sono territori molto estesi e con una eterogeneità varietale enorme.

Ricordi un vino memorabile? Tra i tantissimi mi piace ricordare il Taurasi Radici Riserva 1990 della Mastroberardino; ne parlai una volta con il dott. Antonio e lessi nel suo sguardo una piena condivisione nell’apprezzamento di quello che per me era stato un vero e proprio archetipo della tipologia, come la loro famosissima annata 1968.

Diciamo che ti chiedano di rinunciare a tutti i tuoi impegni per seguire una sola azienda: qual è il nome che non ti farebbe batter ciglio? Questa è una domanda cattivella, diciamo la Taylor’s, a Vila nova de Gaia in Portogallo; amo i Porto.

Mi dai tre vini che secondo te non mi devo perdere? Valtellina Superiore Sassella Riserva Rocce Rosse 1999 di Ar.Pe.Pe., tutti i vini dell’Etna del gruppo Vigneri di Salvo Foti, il Verdicchio San Paolo di Pievalta 2004.

E tu cosa bevi stasera? Un prosecco senza solforosa di Costadilà, del mio amico Mauro Lorenzon, alla vostra salute!

Fortunato Sebastiano è stato nominato da questo blog “Enologo dell’anno” allo scorso L’Arcante 2010 Wine Award. Questo articolo esce in contemporanea anche su www.lucianopignataro.it.

Tu quoque, Rex Bibendi! Ovvero di uno o due passi di filosofia spiccia di un sommelier

19 febbraio 2011

Leggo – lungi da me una tal dotta citazione – che la parola “senso” in filosofia indica la facoltà di percepire l’azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso. Ebbene, questa che segue è una mia – giuro! – breve e personale riflessione sui vari “sensi” con i quali chi come me o voi ci siamo ritrovati, almeno una volta, a fare i conti.

Il senso ideologico, quello che pretende di conoscere i misteri dell’intero processo storico – i segreti del passato, l’intrico del presente, le incertezze del futuro – in virtù della logica inerente alla sua idea. Nel mondo del vino, si nutre di una filosofia, dotta e fine, che ne analizza le origini – della terra e delle persone – fornendone sempre profili suggestivi e storie melanconiche. Non c’è spazio per la nobiltà di taluni, consacrata già dalla storia, ma comunque non tanto ispiratrice; l’ideale è l’uomo (quasi) qualunque, persona dalle mani ruvide, solcate dal tempo e levigate dal freddo, e non importa se può permettersi di giocare in borsa, l’immagine dipinta è di colui che con voce roca richiama l’attenzione del mezzadro del podere vicino e assieme fanno segnale all’orizzonte: dapprima un gesto di stizza, poi di sfida, il raccolto è alle porte. Da berci su secchiate di Lambrusco come dio comanda!

Il senso estetico, ovvero del giudizio di gusto che vuole, il vino – biondo o bruno che sia – bello ed artistico; per taluni muscoloso, anzi, aitante, tanto dal sentirne il profumo non appena gli si tira via il tappo, intriso d’inchiostro e note ferrose, catrame: è ampio, avvolgente, smaliziato, è maschio, virile, avrà mille e più cose da dire! Ebbene, la mia ricerca è volta al fascino delle sottili nuances, della luce che ne attraversa le trame, della profondità negata alla vista ma garantita una volta in bocca, l’insostenibile leggerezza dell’essere. Non è proprio questo il limite del giudizio estetico, dove la teoria del bello soggettivo si scontra con quella naturale che in quanto tale risulta oggettiva? Da berci su un paio di calici di Taurasi di Luigi Moio.

Il senso ludico del vino ti sfiora alla prima sbronza. Per Sigmund Freud il gioco ha una funzione catartica, liberatoria: è lo strumento ideale per liberarsi da cariche emotive e scaricare le tensioni generate dalle pulsioni, come l’aggressività o la libido. Il “piacere” che si accompagna al gioco sarebbe in quanto tale liberazione. Ecco che alla prima interrogazione andata male, un litigio inaspettato con l’amico di sempre, “quella stronza” che continua a fare la stronza, che fai? Aspetti che tutti vadano a letto, convinti che di lì a poco lo faccia anche tu, speri che tua madre – come fa solitamente – rimanga la tavola così com’è senza levarla. Tiri giù il primo bicchiere, non ne sai granché, ma quanto ti basta per capire che tuo padre, alla fine, non è che ne capisca tanto di vino, ma tiri dritto, hai solo piacere di bere, di quella sensazione che poi imparerai a chiamare pseudo-calorica ma che oggi ti provoca solo una certa eccitazione, vana sensazione di sentirti leggero, libero. Invero, libero lo sarai solo quando avrai maturato la consapevolezza di approcciarti al vino con sana sobrietà! Da misurare con una qualsiasi delle amate bottiglie di Falanghina.

Il senso critico, l’obiettività nel giudicare, un vino in questo caso, è cosa per pochi, pochissimi e non di rado questi stessi deludono inesorabilmente. Ecco perché preferisco di gran lunga passare per un folle innamorato del mio lavoro piuttosto che un mediocre cronista di astute e meditate fisime! A parlarne con un bastian contrario qualunque, per esempio Gianfranco Soldera, con un suo Brunello Riserva alla mano.

Il senso pratico l’ho imparato presto, molto presto. Alla prima scala sconti, alla prima promozione lancio, agli albori di quella crisi che molti fanno fatica ancora a deglutire ma che inesorabilmente li ha posti di fronte alla nuda realtà. Chi fa vino e si dice un benefattore, mente. Chi millanta di farlo per il solo piacere di sporcarsi le mani, presto farà due conti e ne converrà che forse è meglio sporcarsi con altro. Chi lo fa per vivere, credetemi, non gli va proprio di lusso ma ha dignità da vendere. Ho sentito – con le mie orecchie – addirittura qualche produttore enunciare frasi di finissima intuizione: “il vino è talmente un dono prezioso del Signore che dovrebbe essere addirittura proibito commercializzarlo!”. Evidentemente ha ben altro di cui vivere. Per qualcuno questo può apparire un senso pratico alquanto sfacciato, a tratti crudo, ma è mai possibile che stiamo ancor lì a menarla? Passerina a vagonate!

L’Arcante arriva in edicola, dal 23 gennaio su POZZUOLIdice la nuova rubrica di enogastronomia

20 gennaio 2011

“[…] Il grande problema, nel nostro lavoro,  sono gli stimoli e l’umiltà; Se sei capace di rinnovare costantemente i primi e rafforzare la seconda, hai due qualità fondamentali su cui crescere senza preoccuparti del tizio o caio di turno che scrive o degusta più di te perchè ha più tempo. Nessun potrà mai avere la possibilità di maturare un senso critico migliore del tuo – che stando a contatto con il pubblico tutti i giorni – potrebbe essere capace di affinare anche la benchè minima sfumatura di un argomento. Però bisogna essere capaci di discernere ciò che è banale da ciò che ha valore, e questa è una qualità umana che c’entra poco con l’essere un bravo sommelier o no, è semplicemente intelligenza”. ( A. D.)

Un paio di settimane fa leggevo su facebook di POZZUOLIdice, la nuova iniziativa editoriale messa su da Luigi Ciccarelli, amico di vecchia data e giornalista (collabora con Il Mattino), che assieme ad un nutrito gruppo di giovani motivati pubblicano questa newsletter quindicinale per dare una nuova voce al territorio flegreo. Così mi è passato per la testa quanto potesse essere utile raccontare di enogastronomia, magari di territorio, al territorio stesso. Invero, la velocità con la quale la tecnologia va “pre-pensionando” ogni qualsivoglia forma di giornalismo stampato lascia senz’altro riflettere su quanto possa rappresentare un passo indietro trasferire – contrariamente a quanto accade oggi –  contenuti scritti per il web al cartaceo; Ma, se solo pensassimo a quanti continuano a subire ancora troppo passivamente la rete (tra l’altro, spesso additata di essere superficiale, quando non autoreferenziale) soprattutto laddove si parla poco del nostro comprensorio se non in riferimento a fatti di mera cronaca e comunque quasi sempre con accezioni negative, ecco che l’idea di ritornare all’origine di una comunicazione più tangibile mi ha subito conquistato lasciando acquisire all’idea iniziale forme e sostanza piuttosto considerevoli, uno strumento decisamente alla portata di tutti.

Così dopo una piacevole chiacchierata con il direttore responsabile, L’Arcante sbarca in edicola, su POZZUOLIdice, e lo fa – spero – nel migliore dei modi possibile e con i migliori auspici: parlare, con parole semplici, di territorio, al territorio!

Da domenica 23 Gennaio quindi, con uscita quindicinale – salvo la ferma volontà da parte dell’editore di rendere la pubblicazione più frequente – su POZZUOLIdice troverete una intera pagina dedicata all’enogastronomia, flegrea anzitutto ma che non disdegnerà di guardarsi intorno per dare voce e visibilità a ciò che più ci colpisce, piace, conquista della nostra straordinaria terra. Uno spazio dedicato ed aperto a tutti, che vuole raccontare diVino, diCibo  e di tutto quello che ruota intorno all’enogastronomia; Se son rose, fioriranno.