Archive for the ‘Camminare le Vigne’ Category

Campi Flegrei, dove eravamo rimasti

6 giugno 2016

C’è del nuovo nei Campi Flegrei, una bella ventata di freschezza nel panorama enoico della regione, un brivido che punta a scuotere gli animi che da qualche tempo sembravano un poco assopiti, come rassegnati ad un campionato perlopiù di metà classifica.

Tenuta Camaldoli, Campi Flegrei - foto Cantine Astroni

Eppure, da più parti, mai come negli ultimi 4/5 anni non sono mancati apprezzamenti ed attenzioni su molti vini bianchi qui prodotti oltre naturalmente su certi piedirosso, vino che sta vivendo un vero e proprio momento d’oro, salutato con sempre maggiore rispetto non solo dagli appassionati ma soprattutto dai professionisti del vino.

E’ un nuovo corso? Ci crediamo fortemente,  l’auspicavamo e rivendicavamo con forza da un po’ – leggi qui¤ e qui¤ -; quello flegreo è un territorio davvero unico e suggestivo dove nascono vini di grande valore storico, culturale ed emozionale, caratterizzati da profili organolettici invidiabili, oltre che estremamente funzionali con la cucina di tutti i giorni. Una rivincita bella e buona.

Una crescita che non abbiamo mai scordato di spronare e seguire con attenzione, che può contare su solide radici ed un repentino cambio generazionale in atto che ha saputo rifarsi velocemente dei molti errori del passato, superando l’ostinazione di smarcarsi sino all’isolamento, rivedere seriamente la conduzione della vigna e molte pratiche di cantina in molti casi fuorvianti, favorendo così colture più sostenibili e protocolli sempre più alleggeriti a tutto favore di vini finalmente espressivi più delle varie anime del territorio che del manico del consulente. E i bicchieri ”parlano” chiaro.

Più in là scriveremo con maggiore dovizia dei rossi flegrei, per il momento ci piace sottolineare quanto tra i bianchi il risultato su alcuni recenti assaggi sia davvero incoraggiante: i vini hanno profili ben definiti, alcune bottiglie sono davvero coinvolgenti.

Vigna Stadio, Campi Flegrei - foto Cantine del Mare

Falanghina Campi Flegrei 2015 Michele Farro. Vino sempre di grande pulizia ed equilibrio quello di Michele¤. Dal naso invitante tutto giocato sull’erbaceo e la frutta a polpa bianca, melone e pesca, colpisce la prossimità al cru aziendale, il Le Cigliate; ha sorso sottile e teso, mai così appagante.

Falanghina Campi Flegrei Sintema 2015 Cantine Babbo¤. Una bella sorpresa il bianco della piccola azienda di Tommaso Babbo, tra le prime a mettere in bottiglia vino d.o.c. Campi Flegrei. E fa piacere che il lavoro di cantina giri adesso tutto intorno alla giovane enologa Alessia, figlia di Tommaso, che ha pienamente preso le redini in mano raccogliendo il testimone da Vincenzo Mercurio. Naso suggestivo ed invitante, sorso fresco e caratterizzato da spiccata vivacità gustativa. Immediato e di gran gusto.

Falanghina Campi Flegrei 2015 Cantine del Mare. Il lavoro di Gennaro Schiano non lo scopriamo certo oggi, lavora vigne stupende¤ e certe sue bottiglie¤ sono capaci di reggere il tempo in maniera stupefacente! La falanghina, croce e delizia della piccola azienda di Monte di Procida, si è scrollata di dosso qualche piccola imprecisione del passato e ci dà oggi un vino estremamente varietale e minerale. Ci senti il mare dentro.

Falanghina Campi Flegrei Colle Imperatrice 2015 Cantine Astroni¤. È il suo momento migliore, ha messo alle spalle la timidezza dei primi mesi in bottiglia che un po’ lo imbrigliavano, adesso scorrazza nei meglio bicchieri ‘capelli al vento’. Sottile e sapido.

Falanghina Campi Flegrei Vigna Astroni 2014 Cantine Astroni. Ci ha lavorato un po’ Gerardo¤ per trovarci una prima quadratura. Certo l’evoluzione del vino non è una scienza esatta, sarà quel che sarà, oggi quello che ti lascia finire la bottiglia in 2 è la complessa avvenenza del naso (ampio, varietale, parecchio coinvolgente) e soprattutto la succosa piacevolezza del sorso. Tradotto: il primo bicchiere ne richiama subito un altro e un altro ancora. E’ saporito e solare.

Falanghina Campi Flegrei 2014 Agnanum. Raffaele¤ ama firmarle le sue bottiglie, così chi le beve sa chi ne racconta la storia; sì, perchè una bottiglia di Agnanum è ognuna una storia, il racconto di un anno, di un pezzo di terra, la fatica dell’uomo che la lavora. Al naso ci senti il profumo del cratere, la sabbia vulcanica dove affondano le radici della vigna. Il sorso è una spremuta d’uva delle coste d’Agnano, nettare succoso e tonico. Vino bianco essenziale e profondo.

Falanghina Campi Flegrei 2014 Cantine dell’Averno. È la strada giusta quella intrapresa da Nicola ed Emilio Mirabella, sono vini molto territoriali quelli di Cantine dell’Averno¤, magari non proprio facilissimi per qualcuno di prima mano, ma godono di un’impronta varietale calda e polposa. Una manciata di bottiglie da una delle più belle vigne flegree nel cuore del Lago d’Averno¤.

Le strade del vino dei Campi Flegrei¤.

Piccola Guida ai vini dei Campi Flegrei¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Barile, del ritorno nella Vigna di Mezzo e dell’Aglianico del Vulture Basilisco 2005

4 giugno 2016

Torno a Barile sempre con grande entusiasmo, la Basilicata, il Vulture appaiono come sospesi nel tempo, luoghi dove il tempo va un po’ meno del solito, in certi momenti avanzando lentamente.

Barile, Basilisco Vigna di Mezzo - foto L'Arcante

Tutto cominciò allora, eravamo a fine anni ’90, a Barile¤ ci arrivai per conoscere Michele Cutolo, poi ci tornai per la Locanda del Palazzo¤, i primi vini di Macarico, per questi luoghi da pazzi. Erano anni in cui ci sorbivamo fiumi di nero d’Avola¤, nel mezzo dell’onda lunga dei grandi classici toscani dal blasone intoccabile e l’onda un po’ più cortina a dire il vero del Morellino di Scansano. Insomma, eravamo convinti del nostro futuro, ce l’avevamo tra le mani, lanciatissimi sulla strada del successo, masticavamo Gambero Rosso e sognavamo un tavolo da Nadia Santini a Canneto sull’Oglio. Eppure il cuore era altrove, a sud.

Basilisco è stata una bella scoperta, la porta aperta sul Vulture, un luogo nel quale ti piacerebbe starci ma con forti dubbi di rimanerci. Oppure te lo porti dietro più o meno per sempre con la speranza di poterci tornare appena puoi.

Barile, Viviana Malafarina - foto L'Arcante

Viviana Malafarina avrà pensato più o meno la stessa cosa. O forse no. Tuttavia c’è tanto di suo in Basilisco oggi, Feudi di San Gregorio ne ha fatto pietra preziosa ma non sta certo a me ribadirlo, sono di parte, però è sotto gli occhi tutti ed è bello poterne godere.

E’ lei, Viviana, a prendersi cura e a portarlo in giro con sano orgoglio questo gioiello, e non solo per fiere, degustazioni e quanto serve a farsi riconoscere. Lo fa in ogni momento delle sue giornate, in quelle spese in vigna e in quelle passate in cantina: se riesci a stargli dietro, se ci riesci, te ne accorgi pure quando a Barile – lei genovese – gira tra i Barigliott* parlandoci tranquillamente in Arbëreshë¤. Un mito!

Basilisco, la cantina storica - foto L'Arcante

Basilisco¤ ha oggi 25 ettari interamente a conduzione biologica, una cantina suggestiva che vale la pena visitare e tante idee che si faranno col tempo nuove grandi bottiglie. Questo 2005 ha una matrice davvero straordinaria, non sorprende che è nel pieno della sua vitalità, è godibile e irreprensibile. Il colore è appena sfiorato da un cenno di granato sull’unghia, il naso è portentoso di frutto, di sottobosco, sensazioni minerali. Il sorso è preciso, ha sostanza e progressione, avvolgente e sapido. Certo lei non c’era, Viviana, nel 2005, ma qualcosa di ”scritto” nel vino forse…

* termine dialettale che indica persone (e cose) di Barile.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Vallagarina Poiema 2012, il rosso autentico di Eugenio Rosi viticoltore di montagna a Volano

10 ottobre 2015

Eugenio Rosi è un viticoltore di montagna, uno di quelli che difficilmente va in copertina o vince premi a ripetizione, e comunque i suoi non sono vini patinati, capaci cioè di convincerci tutti, anzi, il suo è uno stile unico, più che tradizionale varrebbe definirlo originale, forse per questo talvolta divide, a cominciare dal fatto che sta in Vallagarina e fa, per esempio, marzemino. Sì, avete letto bene marzemino.

Eugenio Rosi - foto archivio famiglia

‘Avevo dieci anni, spesso da solo mi incamminavo per la campagna, nessuno mi obbligava, mi piaceva punto e basta. Credo che la passione, questo tipo di legame ancestrale, sia stato fondamentale, se non ci fosse, se non si avvertisse dentro uno non farebbe questo lavoro. Io ho sempre lavorato in Vallagarina e questa mia terra non è solo terra ma è anche le persone che ci vivono. Mi sento un viticoltore artigiano, l’artigianalità ti consente di vivere per interpretazioni personali, di vivere personalmente, senza protocolli, sulla corda delle sensazioni.’

‘Fare il contadino è un lavoro che bisogna imparare a fare, che bisogna essere capaci di fare ma che in dono ti porta la possibilità di interpretare ciò che fai. Quel che più conta, però, è il rapporto con le persone, a volte si trascurano proprio quelle a noi più vicine perché si è presi da mille impegni.’

Vallagarina Poiema 2012 Eugenio Rosi - foto L'Arcante

Il marzemino, dicevamo, questa varietà dal carattere particolare tipica proprio di queste terre, tanto diffusa quanto del tutto ignorata sino all’abbandono, oppure utilizzata perlopiù per farne base di vini frizzantini e dolcini, invero come molti la ricordavamo ancorché vagamente retrò. Eugenio Rosi¤ c’ha lavorato per anni, riprendendo la strada dei vecchi, ripercorrendo a ritroso le origini, lavorando duro in campagna, in vigna, sull’uva, poi in cantina sull’affinamento.

Ha ripreso a sistemare le pergole trentine, a vendemmiarne una parte da far appassire in cantina per 30-40 giorni lasciando l’altra ancora in vigna a maturare sin quando fosse possibile. Ha poi ritrovato, manco a dirlo in Irpinia, quell’antico castagno perfetto per le sue botti da 700 e 500 litri da alternare al ciliegio e al rovere durante il periodo di affinamento.

Il risultato è un gran bel rosso autentico ed originale, luminoso e fragrante, succoso e avvolgente, asciutto e caldo. Il Poiema 2012 è giovane e graffiante, in questa fase anche un poco esuberante ma la spiccata vivacità di questo momento non copre affatto il bel frutto croccante e ricco di polpa, anzi, ne accentua semmai l’anima molto originale da godere sin da subito. Appena una manciata di bottiglie, dalle seimila alle ottomila bottiglie nelle annate migliori.

Poiema 2007, L’Arcante Wine Award 2010¤.

Trento, Osteria Due Spade¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Capri, di Andrea Koch, Scala Fenicia e la prima storica verticale del suo Capri bianco

23 settembre 2014

Andrea Koch continua a dividersi tra Capri e Berlino dove vive con la sua compagna e suo figlio, cerca comunque di stare qui cantina quanto più gli riesce mentre il suo fidato Giggino continua a controllare che in vigna tutto vada per il meglio.

Andrea Koch - foto L'Arcante

Torno volentieri a Scala Fenicia¤, tre anni dopo, ad una settimana dalla vendemmia 2014, la quinta per quella che rimane tutt’ora l’unica etichetta in circolazione della rinata doc Capri bianco. Ritorno con piacere ai profumi di terra e salsedine che impregnano questo moggio di vigna, appena quattro pezze* perlopiù piantate a pergola e spalatrone puteolano dove si arrampicano qua e là un po’ di biancolella, qui detta san nicola, piedirosso, falanghina e ciunchese, quest’ultimo più comunemente riconosciuto come greco.

Di nuovo nella suggestiva cantina dove tutto è piccolo e ridimensionato: una porticina conduce alla stanza dove campeggia l’antico frantoio con mole a pietra, una minuscola pressa pneumatica, piccoli tini in acciaio costruiti su misura su indicazioni dell’enologo Giuseppe Pizzolante Leuzzi. Poco altro, null’altro.

Biancolella, Falanghina, Greco (Ciunchesa) - foto L'Arcante

Ritorno così alle prime bottiglie qui prodotte e finalmente posso anche tracciarne una prima storica verticale in quattro annate francamente sorprendenti e pienamente espressive. Il bianco di Andrea è composto da ciunchese al 50%, san nicola 30% e per il restante 20% falanghina; fa solo acciaio e qualche mese in bottiglia.

Capri bianco 2010. Il colore si è appena ingiallito ma conserva chiarezza e pulizia. Lo stesso fa il naso, appena maturo, sa di albicocca e ginestra. Il sorso è piacevole, ha smesso un po’ di freschezza ma gode comunque di una buona verve.

Capri bianco 2011. Il colore è preciso paglierino, appena verde sull’unghia del vino nel bicchiere. Invitante il naso, a tratti erbaceo e mentolato. Il sorso è sbarazzino, sapido, carezzevole e vivace.

Capri bianco 2012. In perfetto stato di grazia, il colore è paglierino e cristallino, il naso di gran lunga il migliore dei quattro, pienamente espressivo. Alle note varietali vi si aggiunge un tocco quasi officinale ed una nota candita molto avvenente che ne accentua la piacevolezza. In bocca è fresco e sapido, un sorso tira l’altro. Molto buono.

Capri bianco 2013. Ha i giorni contati, nel senso che le scorte di magazzino sono agli sgoccioli. E’ la sintesi del duro lavoro di tutti questi primi anni, il quadro comincia ad essere un po’ più chiaro, in vigna come in cantina, così il vino se ne giova enormemente. Un vino franco ed immeditamente riconoscibile, puntuto e malandrino.

Verticale 2010-2011-2012-2013 Capri bianco Scala Fenicia - foto L'Arcante

Il vino di Andrea è pronto quindi a varcare i confini isolani nonostante le quantità davvero irrisorie – appena 3200 bottiglie – non aiutano certo la sua distribuzione, complice anche la cecità di alcuni operatori incapaci di vedere in una operazione del genere qualcosa che va oltre i semplici margini di guadagno economico; trovo davvero un peccato non portare in giro, magari solo in certi posti, bottiglie che fanno onore allo splendore dell’Isola Azzurra senza banali stratagemmi commerciali, non quindi un souvenir qualsiasi da scordare su una mensola impolverata ma bensì da mettere in tavola con la cucina di mare più tradizionale o da bere a secchiate come aperitivo. Venite gente e bevetene tutti!

*così vengono chiamate localmente le terrazze con muretti a secco.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Le strade del vino dei Campi Flegrei

20 febbraio 2014

La domanda dei prossimi anni? Vitigno o Denominazione? Mi spiego: il territorio dei Campi Flegrei è da sempre inteso con buona ragione come culla della falanghina e del piedirosso. Due varietali sempre in primo piano anche sulle etichette che tutti abbiamo ormai imparato a conoscere. Va bene così o si può pensare a un modello di comunicazione diverso?

Lago d'Averno

Non mancano opinioni contrastanti sull’argomento ed il tempo ci dirà chi ha ragione, frattanto alcuni produttori hanno preso già da tempo a minimalizzare sulle proprie etichette il nome del varietale a favore della doc Campi Flegrei impressa invece a carattere cubitali. Ma facciamo un po’ il punto della situazione sul vigneto flegreo, quali sono i luoghi tanto decantati in passato ed oggi cuore pulsante della doc? Successivamente, in alcuni prossimi post, entreremo ancor più nello specifico in quello che ritengo il quadro organolettico maggiormente espressivo che può offrire oggi il territorio. Frattanto giusto qualche nozione geografica.

Pozzuoli. Qui la vigna è ovunque, spesso invischiata nel caos di una città (praticamente) metropolitana che alterna il borgo antico a quartieri popolari e ruralità inaspettate, un modello urbano per così dire eccentrico, segnato profondamente dal bradisismo e apparentemente senza regole, che inghiotte ogni giorno centomila anime e ne rigurgita almeno la metà, un suburbio senza confine con il centro storico circondato dal mare, il vallone tufaceo di Toiano, le colline ricche di lapilli dello Scalandrone e di Monterusciello, la sabbia della costa cumana.

Foglie di Amaltea, loc. Scalandrone - foto L'Arcante courtesy Grotta del Sole

Vigne però talvolta stupende, baciate dal sole, vedi quelle nel Lago d’Averno, suggestive, consegnateci da una tradizione millenaria e da una vocazione unica e rara: filari a Spalatrone sulla salita di via Scalandrone, zona formidabile per il piedirosso, le coste di Agnano a ridosso del vulcano Solfatara; altre volte fazzoletti un po’ più allungati a Monterusciello e in zona Cuma-Licola carezzati dalla brezza marina, in certi casi con piantagioni moderne, allevate con sistemi contemporanei; nuovamente piccole pezze di vigne vecchie sulla collina di Cigliano laddove raramente il buonsenso ha prevalso sul cemento.

Insomma, Pozzuoli è l’epicentro di una viticoltura flegrea che ha tanta materia per fare qualità e ritornare ad un futuro di normalità territoriale, agricola, sostenibile. Qui operano Grotta del Sole (la Tenuta Foglie di Amaltea nella foto, con cantina a Quarto), memoria storica del territorio, Matilde Zasso, Cantine Babbo, Contrada Salandra, Iovino, la neonata Cantine dell’Averno con parte dello storico vigneto della famiglia Mirabella nel Lago d’Averno (foto di copertina).

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Marano, i dintorni e le colline più prossime a Napoli. L’areale più popoloso ma che, inaspettatamente, cela il futuro più immediato della viticoltura flegrea; luoghi dal passato distratto che ha visto sacrificare all’altare della politica della speculazione edilizia ettari ed ettari di boschi, colture e vigne che dominavano la città a 360° dalle terrazze dei Camaldoli alla piana di Agnano. L’hanno capito, meglio tardi che mai, anche in regione, dove da qualche tempo vanno sostenendo progetti di ricerca e selezione clonale su falanghina e piedirosso di questo pezzo di terra; e ci credono, ancor più, piccoli e grandi viticoltori-produttori che qui vanno investendo sul futuro piantando vigna anziché colare, ancora, cemento. Forza ragazzi!

Da queste parti ci sono Agnanum di Raffaele Moccia (nella foto), Cantine Astroni, prima ancora la storica Cantine Varchetta, Colle Spadaro, Le Vigne di Parthenope, Cantine Federiciane Monteleone della famiglia Palumbo.

A Quarto. L’areale forse meno battuto della denominazione dove il clima torrido e a volte bizzoso di certe estati fa letteralmente impazzire i vignaioli di tutta la piana; chi ha vigne anche di poco più “alte” è costretto a fare tanta selezione in campagna per riuscire a portare a casa il risultato. La collina di Viticella esprime buoni frutti, qui i vini di maggiore fragranza e leggerezza e a prezzi naturalmente più che ragionevoli. Qui operano prevalentemente Carputo, tra i primi ad imbottigliare la doc, più recentemente Quartum della famiglia Di Criscio e Il IV Miglio anche se quest’ultima negli ultimi tempi in maniera più defilata.

Gennaro Schiano - foto A. Di Costanzo

A Bacoli e Monte di Procida. Terrazze e costoni scoscesi con vista mare, la vigna patrimonio di un paesaggio di bellezza unica che lentamente ritorna alla natura. Resti rupestri e vigne storiche in Via Bellavista, su ai ‘Pozzolani’,  lungo le terrazze ai Fondi di Baia, in via Panoramica a Monte di Procida con filari a strapiombo sul mare; qui nascono vini con caratteristiche olfattive decisamente interessanti, con una notevole impronta sapida e capaci, tra l’altro, di attraversare il tempo con discreta disinvoltura. Qui ha sede Cantine Farro, hanno splendide vigne e cantina due piccoli gioiellini come La Sibilla e Cantine del Mare (nella foto Gennaro Schiano).

Piccola Guida ai vini dei Campi Flegrei¤

© L’Arcante – riproduzione riservata

Antonio Papa, l’artigiano del Primitivo

10 febbraio 2014

È sempre un piacere venire da queste parti a trovare Antonio Papa¤ nella sua piccola cantina a Falciano del Massico, nel cuore dell’Ager Falernus, sentire come vanno le cose a lui che fa uno dei migliori primitivo in circolazione.

Falciano del Massico - foto A. Di Costanzo

La sua famiglia coltiva la terra sin dal 1900 e basta buttare un occhio in giro qua è là per cogliere tanti piccoli segnali di una tradizione qui molto forte e radicata. Nei primi anni novanta la svolta e qualche anno più tardi, con l’ingresso di Antonio in azienda, si ha la definitiva consacrazione con le prime bottiglie di Campantuono¤ che spostano immediatamente l’attenzione di appassionati e critica da queste parti.

Scelte drastiche ed incisive, da vero artigiano del vino, di quelle che una volta fatte non si torna indietro. Dimezzare la resa per ettaro sino agli attuali 45-50 quintali non è stato certo facile, men che meno ‘vivere’ delle appena 12/15.000 bottiglie l’anno (quando tutto va bene); ma in fin dei conti, a questo punto della storia, ad ascoltare le parole di Antonio, mi pare che si sia raggiunto un buon equilibrio e che poco o nulla cambierà in futuro.

Antonio Papa - foto A. Di Costanzo

Anzi, a dire il vero qualcosa sembra bollire in pentola, ma Antonio ci sta ancora lavorando, tenendo conto di tutti gli aspetti produttivi che di anno in anno gli si stanno presentando in cantina: l’idea è di eliminare completamente il legno. Che poi qui il primitivo¤ è cosa seria, infatti non è che se ne faccia un uso massiccio, tutt’altro, tant’è che di millesimo in millesimo non se ne coglie nemmeno più il breve passaggio, ma la maturità raggiunta dalle vigne, la bontà dei frutti, ad ogni vendemmia sempre migliore consigliano da tempo di limitarne ancor più l’utilizzo. Così chissà che i prossimi Campantuono, diciamo già col 2010 visto che il 2009 forse non esce nemmeno, potremmo ritrovarceli in bottiglia dopo aver fatto solo acciaio.

Le etichette di Papa - foto A. Di Costanzo

Ci salutiamo con qualche assaggio dalle vasche: annata solida la 2012, matura bene, il 2013 invece mi pare sia stata un’annata così così, sottile, non così polposa ma in fin dei conti i vini sembrano maturare bene ed avere un certo appeal sin da subito. Tra un paio di mesi si deciderà il da farsi, i vari assemblaggi ecc., di certo, frattanto, si ha di che bere, il Conclave 2011 per esempio, il secondo vino di Antonio, che ha buona forgia e la giusta intensità per appassionare palati fini e meno esperti.

© L’Arcante – riproduzione riservata

Piccola Guida ragionata ai vini Asprinio d’Aversa

18 agosto 2013

Abbiamo avuto modo di ribadire più volte che di Asprinio d’Aversa se ne parla troppo poco. L’esperienza degli anni passati ci è servita per capirci ancor di più qualcosa e analizzando quanto questo vino particolare sia apprezzato dagli appassionanti provenienti da tutto il mondo proviamo a dare evidenza di alcune etichette imperdibili.

La vendemmia degli Uomini Ragno - foto Alessandro Manna

L’Asprinio ci piace, e piace un sacco, difficile confonderne il gusto così spiccato: ha una marcia in più, davvero originale, unico! Inebriante nelle versioni spumante resta degno compagno di tutto un pasto nella versione ferma.

Aversa, Carinaro, Casal di Principe, Casaluce, Casapesenna, Cesa, Frignano, Gricignano di Aversa, Lusciano, Orta di Atella, Parete, San Cipriano d’Aversa, San Marcellino, Sant’Arpino, Succivo, Teverola, Trentola – Ducenta, Villa di Briano, Villa Literno in provincia di Caserta e Giugliano, Qualiano e Sant’Antimo in provincia di Napoli. Sono i 22 comuni dove è possibile produrre l’Asprinio d’Aversa, doc istituita nel luglio ’93 per disciplinare la produzione di un bianco fermo e due tipologie di vino spumante, un metodo Martinotti (charmat lungo) e un Metodo Classico. In etichetta, quando le uve provengono esclusivamente da viti maritate, è ammessa la dicitura “alberata” o “da vigneti ad alberata”.

Se ne ottiene un bianco dal colore verdolino e dal profumo tenue, che sa di fiori gialli, di mela, note agrumate. Ma è in bocca che conquista l’appassionato, caratterizzato da un’elevata acidità fissa, dovuta dagli elevati livelli di acido malico che ne fa un’ottima base per la produzione di spumante di qualità: ha un sapore decisamente secco, asprigno appunto, fresco e caratterizzato da una certa profondità degustativa quando lavorato con sapiente attenzione in cantina.

Certo bisogna lavorarci un po’ su, soprattutto saperlo comunicare meglio di quanto venga fatto oggigiorno, visto che ai più è praticamente misconosciuto. Anche per questo auspichiamo una maggiore attenzione da parte di tutti, dal ristoratore che perde l’occasione di distinguersi a caccia del miglior prezzo per il peggiore dei spumantini all’indomito cameriere che sa tutto lui e continua a fare di tutte le bollicine un ‘bel prosecchino’.

Confidiamo poi nella critica di settore affinché si possa in qualche modo sostenere con maggiore entusiasmo un vitigno e vini così autentici¤ che oltre a far parte del patrimonio¤ vitivinicolo italiano rappresentano anche un bel pezzo della nostra storia da più o meno duemila anni.

Questi che seguono alcuni indirizzi utili cui fare riferimento per fare incetta di questi meravigliosi vini freschi, taglienti, minerali. Che nelle versioni Spumante, Metodo Martinotti e ancor più in quelle Metodo Classico¤, sanno essere a dir poco sorprendenti.

 
Salvatore Martusciello
Via spinelli, 4 80010 Quarto (Na) – Tel. 3483809880
info@salvatoremartusciello.it
www.salvatoremartusciello.it
Di particolare pregio: Asprinio d’Aversa Spumante Trentapìoli “Vigneti ad Alberata” (Metodo Martinotti).
 
I Borboni
Via E. De Nicola, 7 81030 Lusciano (Ce) – Tel. 081 814 13 86
info@iborboni.com
www.iborboni.it
Di particolare pregio: Asprinio d’Aversa Spumante Brut (Metodo Charmat),  Asprinio d’Aversa Vite Maritata, Asprinio d’Aversa Santa Patena.
 
Azienda Agricola Vestini Campagnano
Via Casilina, 81044 Conca della Campania (Ce) – Tel. 0823 679087
info@vestinicampagnano.it
http://www.vestinicampagnano.it
Di particolare pregio: Asprinio d’Aversa “da Viti Maritate”
 
Cantine Magliulo
Via G. Manna, 29 81030 Frignano (Ce) – Tel. 081 890 0928
info@vinimagliulo.it
www.vinimagliulo.com
Di particolare pregio: Asprinio d’Aversa.
 
Masseria Campito
Via Casolla, 55 81030 Gricignano di Aversa (Ce) – Tel. 0815027540 – Cell. 3348022297 – 3356641717
info@masseriacampito.it
http://www.masseriacampito.it
Di particolare pregio: Asprinio d’Aversa Atellanum, Asprinio d’Aversa Spumante Brut Priezza (Metodo Classico), Asprinio d’Aversa Spumante Brut (Metodo Martinotti).
 

Leggi anche L’Alberata aversana o di quell’uva sospesa nel tempo Qui.

La foto di copertina è opera dell’amico Alessandro Manna¤.

© L’Arcante – riproduzione riservata

I love Falernum, Papa. Un tempo, la storia del mio Falerno del Massico di Antonio Papa

13 Maggio 2013

La Viticoltura, come arte per attingere al valore originario della vita e per affermare valori profondi e segreti. Uno strumento di contatto con i ricordi e con la realtà del presente, che parte da una volontà di partecipazione al flusso della natura e della storia in contrapposizione all’imbarbarimento della società.

Antonio Papa, da piccolo

Nasco come viticoltore nel 2000, quando intrapresi gli studi in Lettere Classiche, mi accorsi della straordinaria contemporaneità delle tradizioni. Dopo un’adolescenza dominata da un senso di distacco dalla vita agreste, mi resi conto della sublime arte, appena raggiunta l’indipendenza intellettuale. “Ahimè, come sarebbe bello, vivere tra i filari, avendo con sé solo una donna e i propri segreti!”

Mi accorsi – poi – della difficoltà di decidere, quando cominciarono i primi “assemblaggi”: quattro vigneti, ubicati in quattro zone profondamente distinte per natura, creano un subbuglio nello stomaco, ma riuscire – poi – ad accoppiare i sapori, gli umori della terra, i colori, le gioie, i dolori di un anno, è cosa sorprendente ed impegnativa, ma sublime.

Nel 2002 la prima vinificazione con l’enologo che mi segue tuttora, Maurilio Chioccia. “Cambio vita” … si dice. I segni del tempo assumono una fisionomia geometrica. Appare subito chiaro, di non voler snaturalizzare il “canto del terreno”, ma modificare sensibilmente lo spartito è necessario. Gli impianti in vigna e il “modus operandi” in cantina subiscono un rinnovo che ha traghettato il vino (Campantuono¤ in primis), inizialmente materico, in un vino “misterico”, collocandolo nella prospettiva di un prodotto di nicchia e dando voce ad una cultura del vino, capace di assumere caratteri fino ad allora inosservati.

Antonio Papa, oggi

L’apertura a questo mondo – grazie soprattutto a mio padre – ha sì aperto in me anche interrogativi sulla civiltà contemporanea, sui limiti, sui valori di questi anni e del tempo, anche nei suoi aspetti più inquietanti. Però la straordinarietà del vino, sta nel fatto di essere impegno fisico diuturno e travaglio dei sentimenti più nascosti.

“Poetica dell’oggetto” che si muove, sì in direzioni contrastanti ma al momento del suo definirsi è comunque vita ed autocoscienza di poesia. Questa nozione di poesia si realizza con una serie di trasformazioni nei vari momenti dell’attività e naturalmente c’è da dire che questo “travaglio” è ancora in atto, anche attraverso la continua ricerca di “toni nuovi”: intensi, precisi, più dei precedenti opachi e incerti. Rompere una campana di vetro, quella in cui era rinchiuso un paese intero, tristemente opacizzato nel suo definirsi.

Campantuono Papa - foto Altissimo Ceto

Dare nuova linfa al luogo d’origine è pura poesia. Scrivere gli “accordi” per una nuova canzone¤ – quella che canteremo presto (spero)- partendo in primo luogo dalla ricerca di un linguaggio, il cui modello più vicino è ancora il mondo dell’Epos e dell’ormai riconosciuto insediamento Romano in Agro Falerno (Ager Falernus III/II sec. A.C. – II/III sec. D.C.).

Ne risulta un originalissimo equilibrio, tra meditazione esistenziale e definizione del paesaggio, una meditazione appassionata, magniloquente, che come movimento incessante e ripetuto del mare, poggia sulla costa aspra e rocciosa i segni di una vita, la vite appunto!

di Antonio Papa¤, Faccia da Falerno – L’Arcante 2013.

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C’è tanta mediocrità in giro, te ne accorgi al primo sorso di vino, talvolta ancor prima di levare il tappo, certe altre ancor prima di mettere gli occhi sull’etichetta. Le bottiglie di Antonio annullano qualsiasi aspettativa, quale che sia la presunzione, la convinzione con cui credi di sapere tutto di Falerno e di Primitivo. Una continua scoperta, il suo Falerno! (A. D.)

I love Falernum, Masseria Felicia. Il ritorno e il desiderio dell’abitudine di Maria Felicia Brini

9 Maggio 2013

Camminare a passi lenti e brevi tra i filari e lasciarsi cogliere da un sorriso, quasi una smorfia della bocca che si trasforma in mezzaluna, e illuminare l’aria. Questa semplice azione che poi si è trasformata in abitudine, è quella che mi ha spinto a viverci tra queste vigne e questi uliveti. Il ritorno e il desiderio dell’abitudine.

Maria Felicia Brini

Anno zero – Io, sei/otto anni, tra il 1982 e 1984. Le Scale. Gioco sulle scale di marmo dai morbidi profili della casa di mia nonna, anzi della casa di cui lei era il colono. Quella in cui ora vivo. Paura e meraviglia nello stesso tempo, erano queste le emozioni che mi attraversavano salendo quelle scale di pietra lisce. Per arrivare al primo piano. Nella stanza delle bambole intoccabili, con gli occhi di vetro. L’odore forte del pane le domeniche mattina, di olio, di alloro affumicato per spazzare via la cenere dal forno, la luce accecante contro il buio della cantina di tufo e le scale rotte “che non devi scendere altrimenti cadi!”, e quel sentore di umido e la fragranza del sasso gocciolante. Mai scesa fin lì, per me territorio inesplorato. Oggi un giorno sì e un’altro giorno pure. L’abitudine che non c’era, ma il desiderio di goderne, sì.

Masseria Felicia, cantina (le scale)

Anno zero – Vigna Etichetta Bronzo, 1995. Ancora quelle Scale. Papà (Alessandro Brini): tu te la sentiresti di fare il vino? Se proviamo con la cantina mi dai una mano? Che dici, facciamo la cantina qui? Sotto quelle scale. Si riscendono quelle scale, si risalgono, quelle rozze scale della cantina in tufo a nove metri, si sorride. Si guarda fuori, c’è quella meraviglia di Monte Massico. Che protegge da tutto, anche dai pensieri cattivi. affascina e coinvolge. Non per la sua storia, ma per la sua attualità. Per la sua veridicità. Per quello che oggi potrebbe diventare domani. Per la sua vicinanza al vulcano di Roccamonfina, prolungamento, meravigliosamente possente, dei ricordi lavici. Casa comprata. Terra comprata.

Ancora Maria Felicia da piccola

Poi viene il 17 gennaio, le ore 17. Mia nonna è morta, si torna alle origini, l’attuale Masseria Felicia era stata persa a carte dal nonno di mio marito. Comprata da una baronessa che amava il Monte Massico, la mia seconda nonna era diventata colei che la gestiva, (da scriverci un romanzo d’appendice). In anni non li ho mai visti tornare. Si fa il vino, anzi si continua, anzi no, si comincia con una nuova vigna, il Falerno, aglianico e piedirosso. Con i dettami della tradizione. Impiantiamo và!

Anno uno – Io, è il 2000. Gli Esami. Frequentare lettere e imbattersi/sbattersi per l’esame di latino e scoprire che si parla proprio di quella terra dove mi rinchiudo per studiare e da dove, dal balconcino, vedo la vigna e il monte apre l’anima e innesca progetti, pensieri, possibilità, che vedi crescere dopo ogni mese, dalle foglie ai germogli vivi vivissimi. Materici sogni che attecchiscono. Forse, e dico forse, e oggi dico, che è vero: la terra ti dice quello che è giusto. Troppe intuizioni, troppe interferenze emotive e storiche, non si può lasciare andare così un progetto nato dal cuore, dalla carne di mio padre, di mia madre? Perché si viene a studiare qui? Perché è isolato, perché non ci sono sovrapposizioni, nemmeno la televisione. Perché si è soli e soli si rimane. Questo è un grande problema. Ma c’è possibilità di esprimersi, di creare da zero. Di dare voce a questa terra. Darle un nome.

Anno uno – vigna Etichetta Bronzo, 1999/2002. Ancora Esami. E’ il 1999¤, la prima vendemmia. La vigna ci parla di lei. Da sola. Senza ausili. Con tenerezza, come l’odore della pelle di un bambino appena nato. Solforosa? Malolattica? No. Castagno, botticella, torchio a mano con mattoni sporchi. Eccolo il suo primo figlio! Vero. Vulcanico, sanguigno. E’ un Falerno, senza legno, no barrique. E quello che vedo fuori i vetri. E’ quello che viene dalle braccia di mio padre, dai miei occhi indecisi, su quanto si faccia sul serio. E sul serio si fa a Vinitaly nel 2002. Con l’annata 2000, ma senza rendersene ancora conto. Dopo anni il territorio si muove, una nuova cantina si presenta con due etichette, anche questo un caso. Etichetta color Bronzo, Etichetta color Senape. Falerno del Massico Masseria Felicia¤ barrique e quello che non “c’entrava” corre in acciaio. L’esame, quello con la gente, quello con i giornalisti. Chiunque si avvicini ai nostri calici è uno sconosciuto; è, per noi, curiosità di intenti, quello che rotea il bicchiere e che fa roteare i nostri occhi. E’ andata. Che si fa?

Alessandro Brini con Alice

Anno vero – Io, nel 2004. Determinazioni. Mi sono trasferita, è nata mia figlia qui, quest’anno. Le scale sono cambiate, si studia su due binari, la tesi da finire, e il vino da comprendere, stesso Massico protettore, alla finestra, e quella domanda nella testa che sbatte sulle pareti inconsistenti di un piccolo spazio visivo: dove possiamo arrivare? Eccolo il mio lavoro. Unico, si cambia tutto. Eccoli mio padre, mia madre, Fabrizio mio marito, che investono tempo, cuore, anima e corpo soprattutto.

Anno vero – Le vigne, 2001/2003/2005. Ancora Determinazioni. Nel frattempo, la Vigna dell’Etichetta Bronzo¤ cresce, altro non c’è che un vino che piano piano ridefinisce la sua fisionomia, un vino che “attrezza” il suo altare. Altre due vigne impiantate, Ariapetrina, quella che è la voce della vita terrena di questo posto, e la vigna del futuro Falerno del Massico¤ e la nuova conduzione della vecchia vigna del nonno, un piedirosso vecchio, ma vecchio quanto lui. Vendemmia 2004, con Alice qua nel marsupio.

Maria Felicia Brini

Anno canovaccio – Io, è già 2006/2008. Presa di coscienza. Ritorna il 17. Mi sono laureata il 17 febbraio. È il mio numero, lo so. Non sono nemmeno emozionata, né nervosa. Rilassata, forse perché la cosa più importante della mia vita l’ho “già fatta”, quella per cui le foglie delle palme, degli ulivi, della vite, cantano dalla finestra e insieme si ascoltano, al vento d’autunno, ed è Alice che le intende e che da un significato a quelle scale, a quegli esami.

Anno canovaccio – Le vigne, sempre là tra il 2006 e il 2008. Altra presa di coscienza. E’ ora di crescere, di cambiare, di imparare. Di rinunciare alla coincidenza e prendere decisioni, farsi una ragione del perché la strada che da Napoli che conduce a Sessa non sia più percorsa. Perché stare lì. Perché il Falerno e la sua terra è diventata una ragione di vita. Una bottiglia di vino è diventata fondamentale, diventata interlocutrice da comprendere, e da rispettare. L’incontro, voluto, con Vincenzo Mercurio¤ che cambia le prospettive, la progettualità non invasiva, la richiesta di cooperazione, il patto che qui si entra in famiglia, si fa vivo e rinnova con l’annata 2008 la ricerca con la coscienza del fare.

Maria Felicia in cantina

Oggi – Insieme, quasi un tutt’uno. Crescere in maniera naturale, senza alcun tipo di filtri e di barriere mentali o di sovrastrutture che ti appesantiscano un terreno (un territorio), viverlo, sentirne i colori e i profumi, questo è un inizio vero, familiare, questo sta vivendo mia figlia. Questo ho vissuto io. La sua storia, l’immensa consapevolezza che arriva con lo studio, con un ‘assimilazione spinta dalla curiosità, con la cognizione di avere anni di passato alle spalle e sulle braccia fatica umana e sacrificio economico – “narrazione latina” e avvicendamenti familiari, rendono il nostro lavoro molto difficile emotivamente e progettualmente.

Oggi sei i vini. Amo i loro nomi portatori di storie nate singole e rimaste individuali: Etichetta Bronzo¤, Ariapetrina, Falerno del Massico, Anthologia, Sinopea, Rosalice¤, per tre vigne e le loro piccole parcellizzazioni; sono conosciuti, richiesti, ma soprattutto rispettati. La gente viene e ci sorride e percorre con noi quella vigna, vede il Massico, gli raccontiamo una storia che parte dai poeti latini e arriva alla fatica contadina, per essere oggi dimostrazione che c’è del buono, del sano, del vero a Caserta, in quell’Ager Falernus non ancora nominato fin ora: per profondo pudore nel doversi confrontare con così tanto, perché c’è la necessità di doversi reinventare oggi e non “campare di allori antichi”. Per sorridere. Perché siamo fortunati. E bravi, e sì, siamo bravi, ma più importante, felici.

di Maria Felicia Brini, Faccia da Falerno – L’Arcante 2013.

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Pare sentirla la voce di Maria Felicia mentre scrive questo post, raccontare questo pezzo di storia di famiglia. Manco una virgola mi son permesso di spostare. Quale modo migliore per raccontare una terra, un vino, persone se non quello di starle ad ascoltare¤? [A. D.]

Fiano JQN 203 ‘Piante a Lapio’ 2011. Il sogno, la visione di Raffaele Pagano e Maurizio De Simone

21 marzo 2013

Ho avuto spesso, qui e altrove, parole di profonda stima ed ammirazione per Maurizio De Simone e il suo lavoro speso in lungo e in largo in Campania. Opera che ci ha permesso, lo dico soprattutto a noi bottiglieri, di menarcela alla grande con gli appassionati più incalliti in giro pei ristoranti; con, tra le mani, veri e propri piccoli capolavori¤ in bottiglia che a qualcuno infatti non sono certo sfuggiti¤. Raffaele Pagano, Joaquin

Approfitto di questo assaggio del Piante a Lapio 2011 di Joaquin per rendergli pubblicamente omaggio, a lui ma anche a Raffaele Pagano¤ che continua a sorprendere forte: Maurizio¤, nonostante la sua esuberanza l’abbia portato spesso in passato anche a scelte di profonda rottura, continua invece a lavorare con grande attenzione ed abnegazione lasciandoci tracce davvero significative in un circuito che, diciamocelo, talvolta si mostra fin troppo impalpabile. E ciò che ha appena iniziato con Pagano sembra avere tutti i tratti di un sogno cullato per anni con radici molto profonde nella memoria del tempo; così gli ho chiesto qualche chiarimento, da cui poi ne avrei dovuto trarre spunto per scriverci su qualcosa, ma sono così ricche di suggestione queste sue parole che ve le trascrivo pari pari. E’ un post un po’ lungo ma ne vale veramente la pena! 

Maurizio De Simone - foto Giusy Rapuano

Questo il suo pensiero. “Da sempre ritengo che le selezioni massali, operate negli ultimi 50 anni dai vivaisti, abbiamo modificato i caratteri originali delle varietà più antiche. Lo scopo commerciale di riprodurre viti genera criteri di selezione legati a fattori riproduttivi e di attecchimento senza tener conto dei risvolti enologici. Pertanto i vitigni che coltiviamo oggi, sono certamente molto diversi dai loro progenitori”. 

“La Campania è tra le poche zone del mondo dove è possibile trovare piante precedenti alla fillossera, e quindi espressioni primordiali dei vitigni senza interferenze del portainnesto e di selezione artificiosa, da qui deriva la mia ricerca, ormai ventennale, di vinificare le uve di queste piante in purezza e cercare di capire le peculiarità enologiche per individuare quali potessero essere le caratteristiche che hanno reso famosi questi vini già nell’antichità e che hanno avuto tale successo da arrivare fino a noi, a questo serve però legare la ricerca di sistemi di vinificazione quanto più tradizionali e materiali di affinamento capaci di esaltare questa unicità senza interferire nella sostanza”. 

“Oggi si parla tanto di terroir, ma come si fa a definire un carattere ‘tipico’ se non siamo andati a verificare il legame vite-terra-uomo che ne hanno condizionato l’evoluzione? In Campania abbiamo un patrimonio da preservare e potrebbe essere quella marcia in più in un mercato piatto, lo dico da sempre ma ormai sono rimaste pochissime opportunità di ricerca”. 

Prof. Antonio Troisi (1994) - foto Lino Sorrentino“Con Raffaele ho solo ripreso fattivamente un lavoro cominciato e (personalmente) mai interrotto nel lontano 1992, con il prof. Antonio Troisi, papà di Raffaele Troisi di Vadiaperti, che condivideva con me queste idee e riteneva Lapio la culla del fiano, come poi si è dimostrato negli anni, dove cominciammo anche ad individuare i primi ceppi su piede franco che oggi stiamo valorizzando con Joaquin”. 

“Il fatto rilevante è che queste piante sviluppano generalmente il grappolo già alla seconda gemma, elemento che confermerebbe – teoricamente, perché non c’è nessun elemento scientifico per dimostrarlo -, che l’interferenza dell’uomo è stata tale da averne modificato la genetica e se tanto mi da tanto dovremmo anche pensare di rimettere in discussione quei caratteri definiti ‘tipici’ del fiano; sia chiaro, non che ritengo queste piante capaci di dare vini migliori, ma almeno sondando e verificandone tutte le potenzialità sapremmo da dove si è partiti per arrivare poi ad oggi”.

Vigne Vecchie del Piante a Lapio - foto Courtesy of Jaoquin A.A

“L’idea di Piante a Lapio quindi è di produrre un fiano da sole piante centenarie¤ a ‘piede franco’ e intervenire il meno possibile enologicamente¤, come pure, ad esempio, sostituire l’anidride solforosa con un coadiuvante antisettico naturale estratto dai polifenoli del vinacciolo che contribuisce ad eliminare un ulteriore fattore di interferenza quali sono di solito i solfiti aggiunti¤”.

Piante a Lapio 2012 in affinamento - foto A. Di Costanzo

“Abbiamo poi scelto di affinarlo in legni di castagno di Agerola, perchè da sempre viene ritenuto il migliore per la produzione di botti, e la spiegazione che ho individuato in merito è che sul Faito il terreno fertile è spesso pochi centimetri e quindi l’albero stenta a crescere, donando dei legni più compatti e visto che il difetto principale del castagno è l’eccessiva permeabilità di ossigeno, con conseguente ossidazione del vino contenuto, questo fattore ha fatto sì che i nostri ‘vecchi’ lo individuassero come ‘migliore’ perché i vini qui conservati risultavano incredibilmente più espressivi che altrove, nonché più stabili. Ricordo in merito che il papà di Luigi Di Meo (La Sibilla, ndr) mi raccontava che il “Per ‘e Palummo¤” nel castagno di Agerola era di sovente destinato ai Signori napoletani, mentre il vino delle altre botti era il vino per il ‘popolino’ e i prezzi erano notevolmente diversi. Per questo con Cione Botti di Avellino ci siamo selezionati i legni di Agerola e stiamo costruendo botti da 500 litri”. 

L'etichetta - foto A. Di Costanzo

Ma veniamo all’assaggio di questa prima uscita del Piante a Lapio 2011, sulla carta un igt Campania Fiano, per essere pignoli. E’ subito chiarissimo che ha tanta materia in canna, ma anche che solo il tempo, di qui ad almeno due/tre anni la saprà districare, stratificare e consegnare per bene ai palati più attenti. E’ un bianco evocativo, di grande slancio olfattivo, oggi più orizzontale che verticale, concentrico su toni di macchia mediterranea, garighe, origano, arricchito da fluttuanti nuances di acacia e zenzero candito; con un sorso di grande energia, tremendamente asciutto, recalcitrante quasi, a conferma di quanto impeto conservi, con una chiusura di bocca di grande freschezza e dal sapore di una promessa immancabile. Che, naturalmente, sapremo attendere e non ci vogliamo perdere per nulla al mondo.

Quintodecimo, a casa di Laura e Luigi

23 febbraio 2013

I passaggi¤ a Quintodecimo non sono mai ripetitivi, mi portano bene e danno ogni volta quella scossa necessaria per cogliere al meglio quelle nuove prospettive necessarie in un mondo sempre troppo avvitato su se stesso. Il piacere di stare assieme, le storie, la musica, quella dell’anima, alla fine ci salvano tutti!

Luigi Moio, Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Ne lascio qualche traccia non per pavoneggiarmi dell’amicizia di Laura e Luigi, persone per bene, disponibili ed intelligenti quanto basta per fare di ogni attento visitatore il migliore degli ospiti possibili, ma per anticipare a quegli stessi appassionati che vorranno andarci prossimamente, una o due cose abbastanza rilevanti con in più un paio di novità da non mancare.

La prima cosa è che l’azienda è sempre più bella, pure quando la vigna è spoglia, con la cantina, ordinatissima e suggestiva, praticamente vuota! Nel senso che a parte le vasche e i legni con le nuove annate in affinamento e le riserve di Taurasi in elevazione, niente, non v’è traccia di bottiglie se non quelle di prossima uscita in Marzo; e l’archivio storico naturalmente, che però, da quanto confessato da Laura, bene farebbe Moio a tenersele sottochiave. In tempo di crisi, direi che non è poco.

Quintodecimo, passaggio in cantina - foto A. Di Costanzo

La seconda constatazione – che poi sono due – sta nell’aver colto, durante gli assaggi dei cru 2011 in bottiglia e 2012 in affinamento tra vasche e legno, un “alleggerimento” sostanziale del sorso a favore però di una profondità gustativa di notevole rilevanza, così, d’emblé, assai più immediatamente incisiva al primo assaggio che nelle precedenti uscite. Un vero schiaffo!

Ne sono testimonianza, nella loro chiara diversità, la falanghina Via del Campo duemilaundici che sembra avere già tutti i numeri a posto per sparigliare le carte in tavola: luminosa, verticale, ineccepibile e l’Exultet 2012, la cui parte in affinamento in legno sembra chiaramente “urlare” di finire in bottiglia sin d’ora così com’è. Non a torto (nostro).

E’ chiaro che questi ultimi 5 anni sono serviti al Professore per avere piena contezza di quanto dicessero le sue idee e le scelte portate avanti con ragionevole fermezza; che, per coglierne sommariamente una vaga idea basterebbe riassaggiare il sorprendente Exultet 2006¤, il primo, per comprendere a pieno quanto il fiano, ma lo stesso aglianico¤ o il greco, la falanghina nelle mani di Moio avranno tanto da dire soprattutto nei prossimi anni a venire. Una roba da non credersi, un vino in grande forma, sbocciato imperiosamente ed in piena voluttà espressiva.

Fiano di Avellino Exultet 2006 Quintodecimo - foto A. Di Costanzo

Dicevo poi delle novità: una è l’arrivo ormai imminente del secondo cru di Taurasi Riserva, il Grande Cerzito¤ 2009 in uscita si pensa il prossimo novembre 2013, di cui però, come sugli altri rossi, scriverò dettagliatamente a breve; l’altra è l’acquisto di tre ettari e mezzo di vigna a greco nel cuore di Tufo, l’anima più antica forse della denominazione che sarà del Giallo d’Arles¤, quel campione di cui da un paio d’anni faccio davvero fatica a stare senza. Cru era, da una sola vigna di Santa Paolina, cru rimarrà, ma ora, finalmente, di proprietà. Che dopo l’impianto di qualche anno fa proprio a Mirabella Eclano di falanghina (il 2011 già reca in etichetta l’Irpinia doc) ed il consolidamento della conduzione in Lapio con la vigna che da vita all’Exultet, sembra chiudersi il cerchio magico dei domaines di Quintodecimo.

Poi vabbè, ci sarebbe da dire di quel Metamorphosis, ma questa è un’altra bella storia non ancora da svelare.

Lusciano, Asprinio d’Aversa Vite Maritata 1998 e Santa Patena 2011, in mezzo… sempre I Borboni

3 dicembre 2012

Capita una sera a cena Salvo Foti, ti viene così di scendere giù in cantina e prendere una vecchia bottiglia di asprinio da bere con lui che tanto sembra appassionarsi alla storia di questo antico quanto poco conosciuto vitigno. Ed è subito grande intesa.

Carlo Numeroso, I Borboni - foto A. Di Costanzo

Ne rimane rapito Salvo Foti, lui che in Sicilia, col carricante – altro ostico bianco ritrovato -, sta facendo cose più che egregie; ma più di tutti appare sorpreso (anche se non troppo) proprio lui, Carlo Numeroso, vigneron dalla “capa tosta” e patron, col cugino omonimo, de I Borboni di Lusciano. “Le avevamo messe via in ricordo della fondazione della cantina che si inaugurava proprio quell’anno; finalmente stavamo a casa nostra, in questa splendida struttura che abbiamo recuperato dall’abbandono di troppi anni”.

Asprinio d’Aversa Vite Maritata 1998, ben quattordici anni fa. Una vita fa che però nel bicchiere sembra appena ieri. Il colore fisso nel tempo, appena paglierino, luminoso, vivo. Quel naso poi farebbe innamorare chiunque: verticale, appena sporco d‘idrocarburi ma fluttuante, tra il minerale e la macchia mediterranea, poi delicato sino a rinvenire sentori di fiori gialli e spezie dolci. Ma con un sorso dritto, profondo, una stilettata franca e materica. Anima indolente appena adolescente, smaliziata, irreprensibile.

Gianluca Tommaselli, Carlo Numeroso, l'Asprinio 1998 - foto A. Di Costanzo

Così le idee prendono forza, il progetto si arricchisce, la memoria storica ha qualcosa da raccontare e tramandare nel tempo, oggi, finalmente, non più per caso, per riconoscenza, ma per lanciare nel futuro un messaggio che arriva da lontano, da molto lontano con una chiarezza inequivocabile, più autentico che mai, vero e unico quanto sa esserlo solo l’asprinio: non è un vino per vecchi, non è un vino da bere con malinconia, solo per ricordare il tempo. L’asprinio d’Aversa è un vino inesorabile quando giovane, fresco, incalzante, allegro ma sa pure invecchiare bene, incredibilmente bene, ricco, sfrontato, complesso e, soprattutto, maledettamente riconoscibile.

Asprinio d'Aversa Vite Maritata 2011 I Borboni - foto A. Di Costanzo

Con queste premesse è nato e si farà il Santa Patena 2011, sul mercato il prossimo aprile 2013 e che promette di essere davvero una bella sorpresa per tutti gli appassionati di bianchi di spessore e carattere; viene da circa 2 ettari di vigna coltivati sul versante napoletano della dop Asprinio d’Aversa, a Santa Patena appunto, nel comune di Giugliano; si tratta di un vigneto allevato a sylvoz, sistema già ben collaudato da oltre trent’anni nelle vigne dei Numeroso a Lusciano, da cui si sono selezionati circa 25 quintali d’uva per 15hl di vino finito: 12 gradi, con una acidità iniziale pari a 13g/l ma che poi si è ridotta ad oggi a circa 8g/l, tutto lavorato in acciaio e tutt’ora in affinamento sulle fecce fini. 

Il bicchiere dovrà attendere un po’ per rivelarsi in tutto e per tutto ma ha già tanto da raccontare, tant’è che naso, colore e sapore non spostano di una sola virgola il ricordo del varietale che qui pare farsi assai più avvincente e materico del Vite Maritata pari annata. Ciò che più mi piace però in questo momento nel confronto, è che non si possa assolutamente parlare di un mero “esperimento” ma bensì di un normale, se vogliamo coraggioso, tentativo di alzare semplicemente l’asticella qualitativa di un vino, l’asprinio, che merita sicuramente maggiore spazio nelle carte dei vini dei ristoranti e nei taccuini dei degustatori più appassionati, sia quando spumante che vino fermo.

Aversa, Alberata, Asprinio. C’è una sola tripla A

28 novembre 2012

“Non c’è bianco al mondo così assolutamente secco come l’asprinio: nessuno. Perché i più celebri bianchi secchi includono sempre, nel loro profumo più o meno intenso e più o meno persistente, una sia pur vaghissima vena di dolce. L’asprinio no. L’asprinio profuma appena, e quasi di limone: ma, in compenso, è di una secchezza totale, sostanziale, che non lo si può immaginare se non lo si gusta… Che grande piccolo vino!” [Mario Soldati]

Avremmo potuto costruirci nell’Agro aversano la nostra piccola Franciacorta, fare dell’asprinio – il nostro autentico, unico, inimitabile vitigno Principe di Aversa – un protagonista incredibile per un vino ma anche e soprattutto bollicine talmente uniche e rare quanto inarrivabili per tipicità, qualità, storia. Per vent’anni invece ci siamo accontentati, e continuiamo a farlo, nel cercare con superficialità, altrove ed ovunque, di fare, con qualsiasi uva, spumantini che appena lontanamente possano somigliare, ricordare, all’evenienza, il Prosecco di turno quando non – velleità delle velleità per qualcuno – vagamente lo Champagne. Intanto la terra è lì che aspetta, le alberate con tutta probabilità andranno a scomparire e, dalle nostre tavole, pure il vino. Se non fosse che…

Più di tutti, poté uno Sperss 2001

10 novembre 2012

Proprio una bella esperienza, senza dover necessariamente aggiungere dell’altro, soprattutto usando paroloni oltremodo reverenziali per un’azienda che non ha certo bisogno di salamelecchi e cose del genere. Gaja è e rimane un riferimento. Punto.

Poche ma significative parole invece vanno scritte per la notevole esperienza degustativa regalataci proprio da Angelo Gaja in una sala del castello lì a Barbaresco, proprio di fronte, a due passi dalla sede storica della cantina; un luogo che sarebbe dovuto diventare, in origine, un posto d’accoglienza a 360° ma che poi si è scelto far diventare una sorta di showroom/museo aziendale. Per adesso. 

Un incontro aperto naturalmente dal benvenuto del padrone di casa, arricchitosi via via di tanti argomenti messi in campo di volta in volta: il territorio anzitutto, la storia (non solo dell’azienda di famiglia), il presente e il futuro di un areale, l’albese in particolar modo, che sembra rimanere, sospeso, in uno stato di grazia perenne, tra i pochi in Italia a portare avanti uno sviluppo tipicamente industriale senza però stravolgere l’equilibrio rurale delle sue immediate periferie; anzi, a guardar la storia, contribuendo in maniera decisiva a valorizzarlo probabilmente oltre ogni aspettativa.

Degustazione che si è naturalmente dilatata poi nel tempo e, dopo un passaggio obbligato per le cantine, anche a pranzo, all’Antica Torre, posticino davvero delizioso, nel cuore del centro storico di Barbaresco, proprio sotto l’antica torre del paese, dove abbiamo bevuto ancora dell’altro ma questa volta in compagnia di Lucia e Rossana Gaja. 

Questi gli appunti sul mio carnet: teso e minerale il Gaja&Rey 2009, ancora non del tutto schiuso al naso e in costante distensione in bocca (l’ultimo mio assaggio è dello scorso luglio); sopra ogni aspettative invece l’ottimo Alteni di Brassica 1998. Poi un Barbaresco, il duemilaotto, che sembra anticipare quanto vadano ad incidere i cambiamenti climatici in vigna anche da queste parti, “un fenomeno cui bisogna dedicare in futuro sempre maggiore attenzione e sempre più ricerca e studi specifici”, dice chiaramente Angelo Gaja. E la conferma ci arriva da un Sorì Tildin 2010 – un campione da botte servitoci però alla cieca e in bottiglia – che, se non fosse stato per l’evidenza tannica un po’ sgraziata sarebbe tranquillamente passato, per l’opulenza e l’eleganza con la quale si presentava invece al naso e nel complesso in bocca, come un vino “pronto” almeno per il suo lancio sul mercato.

Breve ma circostanziato il passaggio in Toscana, col Magari 2010 di Ca’ Marcanda, dal timbro inconfondibilmente rotondo e grasso tipico del bolgherese, e il Brunello Rennina 2006 di Pieve Santa Restituta, dal naso maturo e dal sorso austero e quasi ferroso tanto è minerale. Prima di ritornare, due volte, in langa, col Costa Russi: con un duemilanove di grandissima levatura, sontuoso per quanto verticale e fitto e un novantotto da manifesto emozionale, di quelli che una volta letti vale spegnere le luci e andare tutti a casa. Senza esagerare.

E infine c’è lo Sperss 2001, uno sparo secco nel buio. Quel buio dove ancora armeggiano tradizionalisti e innovatori alle prese con manuali, libretti e sermoni, quando invero servirebbe solo ascoltarli certi vini, come attraversano il tempo, e quel muro di chiacchiere inutili ai primi quanto ai secondi. Qui c’è una idea precisa, magari diversa, nuova, ma estremamente precisa di un vino verticale, variopinto, nuovo ad ogni sorso, di spessore, nerboruto, opulento, avvenente. Appagante. E dopo più di dieci anni che si mostra come fossero passati appena dieci anni. Un nebbiolo (di Serralunga d’Alba) con un saldo del 5% di barbera, mica pizza e fichi.

Giampaolo Motta, a man beyond immagination #2: La Massa, la terra, le vigne, il suo Giorgio Primo

6 novembre 2012

Che personaggio Giampaolo Motta, che gran personaggio! Fai fatica a stargli dietro, fai fatica a capirlo se non lo conosci. Uno così meno male che c’è. Uno che per farti capire dove vuole andare ti accoglie in casa sua a suon di Haut Medòc e Pomerol, con la chitarra elettrica di Jimi Hendrix a palla e il basso di The Edge che arriva proprio sul più bello, alla fine, col Giorgio Primo 2009.

Così è stato anche per me, alle prese con una domanda a cui facevo fatica a trovare una risposta: per quale ragione uno (di fuori) compra a Panzano, nel cuore del Chianti Classico – nel bel mezzo della Conca d’Oro -, investendo cifre blu con l’idea di fargliela vedere a tutti col sangiovese, per mollare poi tutto quanto dopo appena dieci vendemmie? 

“Mollare un corno!”, ti dice. “Più semplicemente non mi andava bene quello che veniva fuori dalle mie bottiglie dopo appena 6/7 anni. Vini quasi stanchi, distesi, maturi. Per qualcuno era il meglio mai bevuto prima, col meglio che addirittura doveva ancora venire. Assurdo, mi ripetevo. Dieci anni di investimenti, ricerca, mappatura zonale, selezione clonale, sperimentazioni non potevano finire così, non era possibile che si risolvessero in poco più di un lustro con vini dal colore quasi aranciato e note di terra e sottobosco. Doveva esserci dell’altro; da lì, da quelle vigne, da quei terreni, dalla nostra passione doveva venir fuori dell’altro, che ci potesse emozionare nel tempo, un tempo non necessariamente da quantificare!”.

E come gli si può dar torto? Basta dare un’occhiata qua e là in giro, vedere le carte, i numeri, i fatti, la strada fatta sino ad oggi. Semplicemente non gli andava più bene, non era quello il risultato sperato, non era quello il grande vino pensato da Giampaolo a Panzano. Punto. E accapo. Semplice, no? 

Così nel 2002, approfittando dell’annata così così si è messo via la denominazione Chianti Classico. E pian piano, dal Giorgio Primo, il sangiovese, destinato dal 2007 in poi tutto al secondo vino aziendale, il La Massa. Spazio quindi al taglio bordolese, al cabernet sauvignon, merlot e petit verdot in percentuali variabili a seconda dell’annata. E spazio poi ai lavori della nuova cantina, finita solo quest’anno, dove poter lavorare con maggiore serenità e mezzi tecnici all’avanguardia più efficaci. La quadratura di un cerchio dopo i primi quindici anni spesi in vigna a capire dove, come e perché.

Un nuovo percorso cominciato col duemilasette, dicevo, quando poco prima di andare in bottiglia, di ritorno da Bordeaux, Giampaolo decise che fosse finito il tempo concesso al sangiovese, al suo sangiovese, di contribuire al salto di qualità del Giorgio Primo. Un cambio di marcia necessario per un’azienda che conta il 92% del suo fatturato oltre i confini nazionali, per vini che vanno in carta a Capri come a Milano, a New York piuttosto che a Montréal o Parigi. Parigi che vuole il Giorgio Primo per i più ed il La Massa per i tanti, ma che di entrambi apprezza la finezza e la pulizia, con la profondità del primo e la freschezza del secondo; proprio come accade per i vari classemènt di Bordeaux. Perché in fondo l’obiettivo di sempre, la sfida vera è tutta lì, potersela giocare – ancor più nei prossimi dieci/quindici anni, sullo stesso piano, senza paura -, con i bordolesi. Parola di Giampaolo Motta.

Toscana igt Giorgio Primo 2001. L’ultimo Chianti Classico. A distanza di oltre dieci anni, contrariamente a ciò che ne pensa lo stesso Giampaolo, a me è piaciuto tantissimo; un rosso di gran carattere, con un naso ben definito, centrato sì sulla frutta matura, tabaccoso, speziato ma in perfetta armonia con tutto il resto. Sorso di buon nerbo, con un tannino sottile e piacevole. 

Toscana igt Giorgio Primo 2007. Tanta materia in questo duemilasette, figlio di un’annata calda che l’ha certamente aiutato a tirar su muscoli e carattere. Il primo senza nemmeno una goccia di sangiovese. Il naso conferma una nota piuttosto accentuata di confettura di prugna e note tostate, tabacco, muschio e sottobosco a girarci intorno. Il sorso è caldo e avvolgente, senza particolari spigolature. 

Toscana igt Giorgio Primo 2008. Ciò che salta al naso, subito, è la pulizia e la freschezza delle note e dei sentori che vi si colgono. Il colore è violaceo, vivissimo, il naso è tutto di piccoli frutti rossi e neri e liquirizia. Molto verticale. Il sorso è ricco, ciliegioso, di buon nerbo. Molto piacevole il ritorno balsamico sul finale. 

Toscana igt Giorgio Primo 2009. Impressionante la precisione con la quale il bicchiere rivela il frutto, lo spessore e la profondità della gran materia prima, appena in rampa di lancio. Siamo su percentuali importanti di cabernet sauvignon, intorno al 70%. Varietale che va ritagliandosi uno spazio sempre più importante nella cuvée del primo vino di Giampaolo, non a caso. Se questo è l’inizio non si possono certo biasimare le scelte fatte a La Massa. Gran-Bel-Vino! 

Toscana igt Giorgio Primo 2010. In molti, in Piemonte come in Toscana dipingono la duemiladieci come un’annata interlocutoria, calda certo, che ha dato vini di un certo spessore eppure, laddove si sia lavorato con dovizia, soprattutto in cantina, dosando per bene la qualità dei legni, sembrano venir fuori vini di una prontezza insolita ma anche caratterizzati da una rara eleganza. Il frutto c’è tutto, croccante e di gran livello, il sorso ha da scrollarsi di dosso tutti i primi passi appena fatti, ma è lecito aspettarsi un campione di razza. Una cosa è certa, il Giorgio Primo, oggi, è un’altra cosa, e chissà che domani non capiti per davvero di ritrovarselo lì tra i più grandi del firmamento bordolese.

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In Poscritto: bellissimo il gioco sull’assaggio delle Premiere cuvée ancora in affinamento in barriques, soprattutto quelle atte a divenire Giorgio Primo 2011. Mi ha molto impressionato, per profondità, il cabernet sauvignon #9, di uno spessore quasi inaudito nonostante una bevibilità già dissacrante. Un po’ sulle sue invece il petit verdot, che Giampaolo invece intravede tra i migliori dell’annata. Ma pure il sangiovese pare aver fatto un bel balzo in avanti, tanto più che per il La Massa sembrerebbe destinato solo un 50/60 % dei vini base, per dar vita, forse, ad un nuovo imbottigliamento in purezza per conto proprio (un terzo vino o magari un second-vin di mezzo). 

Qui, Giampaolo Motta, a man beyond immagination #1.

Ambonnay, Coteaux Champenois rouge Cuvée des Grands Côtés Vielles Vignes 2009 Egly-Ouriet

30 ottobre 2012

Scrivi Egly-Ouriet e ti viene subito in mente uno Champagne, di razza, e di terroir. Invero con una bottiglia di queste fai quasi sempre centro. Dico quasi sempre perché se non ami quella particolare carica minerale delle sue cuvée fai davvero fatica a starci dietro. Ma se è lì che vuoi andare a parare, se non hai scelto di bere bulles solo per sollazzare il palato, allora benedici cento volte quelle monete, hai la bottiglia giusta tra le mani. 

Un’altra sicurezza ce l’hai quando scopri che la maison produce vini solo con uve dei suoi 11 ettari e mezzo di proprietà, sparsi tra Ambonnay, patria del pinot noir e Bouzy, Verzenay e Vrigny – Les Vignes de Vrigny “vielles vignes” vi ricorda qualcosa? –, dove Francis Egly tira fuori uno straordinario Champagne da pinot meunier in purezza, tra i pochissimi a farlo così buono. 

Ma Proprio ad Ambonnay, col 100% pinot noir si fa pure questo sorprendente vino fermo, dal nome lunghissimo, che più lungo non si può: Coteaux Champenois Ambonnay rouge Cuvée des Grands Côtés 2009. Per capirci subito, tra i migliori pinot noir assaggiati fuori Borgogna quest’anno. Ha una produzione assai limitata, nata dalla collaborazione con il Négociant Dominique Laurent che se ne occupa in prima persona con Francis.

Un vino subito affascinante, già dal colore, un po’ più carico rispetto al classico timbro bourguignonne ma non così distante, è vivace e luminoso. Il naso è un tripudio di piccoli frutti rossi e neri e l’accompagna un sottile aroma speziato che non abbandona mai la scena, nemmeno dopo aver finito tutta la bottiglia. Il sorso è asciutto, moderatamente austero, lungo e persistente; rimanda subito alle note fruttate e tostate del primo naso. Ha buona acidità e nerbo. Ne avrà per un tempo abbastanza lungo ma frattanto regala un vino ad ogni sorso piacevole e ricercato. Proprio una bella scoperta!

Egly-Ouriet è distribuito in Italia da Moon Import.

Giampaolo Motta, a man beyond imagination #1: la nuova cantina di Fattoria La Massa a Panzano

29 ottobre 2012

Certo è che il suo Giorgio Primo non é un vino accessibile a tutti, ma ciò che vale, sopra tutto, è l’idea che Giampaolo rincorre da sempre con i suoi vini, produrre cioè bottiglie che gli assomiglino e che sappiano vivere e viaggiare nel tempo.

Del personaggio, della straordinaria personalità che ne fa una delle persone del mondo del vino che più mi ha impressionato ne parlerò in un successivo post dove anche i vini avranno il loro spazio. I pensieri oggi vanno a mille e le sensazioni sono tutte solo positive. Ma andiamo per ordine.

Una vita in fuga, mi verrebbe da dire, a rincorrere i suoi sogni. Questo ho pensato mercoledì sera dopo la bella serata passata assieme a parlare di calcio, macchine, amici, Bordeaux, Jimi Hendrix. Non a caso l’idea che l’accompagna da sempre era quella di poter rappresentare nella sua cantina una “rossa” con dodici cilindri a V che sfreccia sul traguardo.

E sin qui pensi all’ennesima stravagante idea di chi ha una cosa di soldi da spendere e ne fa quel che vuole; e ci starebbe pure, se questa folle idea non avesse invece alla base una lucidissima visione, un progetto serissimo, di ciò che è e non debba essere una cantina, nella sua massima espressione di bellezza, funzionalità, ergonomia.

La nuova cantina si distende praticamente sotto la collina della dimora storica di Fattoria La Massa, datata più o meno 1340. L’ingresso è a pochi metri da una delle splendide vigne che cingono, a vista, l’intera struttura, è lastricato di piastrelle bianche e nere dove ai suoi lati corrono le “testate” (le vasche), 12, pienamente visibili però solo al piano di sotto. Qui avvengono le prime importanti fasi di lavorazioni. C’è un nastro di cernita doppio, a L: le uve incassettate arrivano in sul primo punto, qui 4 persone si occupano di una prima selezione che viene lasciata salire nella diraspatrice. Da lì, per caduta, tutti gli acini passano su di un breve piano mobile dove i più piccoli vengono automaticamente risucchiati dalle feritoie e passati ad altra destinazione. I migliori invece, continuano la corsa su un secondo nastro di cernita dove il lavoro di almeno 8 persone pensa a quali portare definitivamente a vinificazione. Tutto questo naturalmente accade per ognuna delle varietà coltivate a La Massa: sangiovese, cabernet sauvignon, merlot, petit verdot e alicante.

Dopo la pressatura soffice, le uve ammostate vengono immediatamente passate, per caduta, nelle vasche tronconiche d’acciaio che danno al piano sottostante. Qui, scegliendo la giusta prospettiva, si ha la “visione”: le dodici vasche a V (6 per lato) corrono lungo i lati dello spazio su un piano piastrellato bianco e nero al cospetto del soffitto rosso Ferrari! Questo però è solo uno degli effetti della bellissima suggestione provocatoria di Giampaolo Motta: sfrecciare con le sue bottiglie sulle migliori “piste” del mondo. Ciò che invece colpisce, tanto, è l’estrema razionalità con la quale è costruita la cantina. Addirittura già modulabile per le eventuali future necessità.

A guardala con attenzione, per tutto il perimetro interno della struttura non v’è un solo tubo, dico uno, che intralcia lo spazio o il lavoro. Tutto infatti corre esternamente all’ambiente di cantina, lungo una intercapedine, comodamente ispezionabile, tutt’intorno la struttura. Dalle piastrelle, con una collocazione ben precisa, sbucano solo i rubinetti necessari per il lavoro di cantina.

Vi è poi un braccio meccanico, disegnato proprio da Giampaolo, computerizzato, che corre in lungo e in largo tra le vasche e che ha, tra le varie funzioni principali, quella del batonnage/remontage che avviene praticamente contemporaneamente e senza stress alcuno per i mosti (e per gli operatori). Le vasche infatti, sia dall’alto che in basso sono facilmente accessibili, con le “bocche” poste a circa un metro e mezzo da terra, così dopo i travasi, le fecce vengono agilmente prelevate, messe in un contenitore studiato all’occorrenza che grazie ad un semplice muletto sono portate in un angolo della cantina dove un “torchio meccanico”, con discesa programmata, provvede a spremerle per bene. Due ampie “stazioni di lavaggio” poi segnano il confine tra lo spazio di lavoro e le zone di preparazione.

C’è poi un sistema integrato di controllo della temperatura e di tutte le emissioni interne la cantina che, durante il giorno, ma soprattutto durante la notte, “legge” la situazione negli ambienti. Così, una concentrazione sopra le righe di so2, una fuga di gas o altro viene segnalato da un semaforo posto dinanzi a tutti gli ingressi della cantina cosicché da segnalare, per esempio a chi sta per entrarvi, quale condizione può trovarvi una volta varcata la soglia. Sicuro. Maniacale.

La barriccaia occupa due piani di un secondo tronco della cantina, già modulata qualora in futuro servisse aumentare gli spazi destinati alla vinificazione e allo stoccaggio. Invero, qui vi è solo una parte dei vini in affinamento, altro sta ancora nella parte “vecchia” della fattoria sotto la dimora storica di La Massa. Lì, alcune vasche di cemento vengono utilizzate all’occorrenza per una breve sosta del sangiovese che ormai viene destinato tutto al secondo vino aziendale, il La Massa appunto; ma vi sono anche le barriques di buona parte delle cuvée del Giorgio Primo.

Qui i locali suggeriscono una memoria storica importante, che và piuttosto indietro nel tempo, ma sono angusti, dislocati su più livelli, di difficile gestione soprattutto per un team che ha tratto dal patron tutte le fisime possibili ed immaginabili in fatto di pulizia, muffe e quant’altro! Nella parte nuova, per concludere, un’area importante è destinata al magazzino. Al momento vi sono circa un migliaio di bottiglie in formati speciali (3 litri e litri e mezzo, ndr) e poche altre centinaia delle ultime annate 2007 e 2008. Il 2009 invece è praticamente esaurito. Con grande soddisfazione per Giampaolo.

Mi piace terminare questo primo scritto su Fattoria La Massa con alcune note di degustazione sul Giorgio Primo 2001, l’ultimo con in etichetta la dicitura Chianti Classico, poi abbandonata. Un rosso che a me, a distanza di oltre dieci anni è piaciuto tantissimo e che, per tutto il tempo che l’ho avuto nel bicchiere, ha mostrato gran carattere, un naso ben definito, con un bel timbro di frutta matura, tabacco, nell’insieme complesso, speziato, forse solo un po’ troppo terroso. In bocca era disteso ma ancora con una bella tessitura, con un tannino sottile, piacevolissimo e finale balsamico. Diciamo che, per chi ama i punteggi, in una batteria alla cieca un bel 92/93 non glielo avrebbe negato nessuno.

Bene, a Giampaolo non è piaciuto: “non era questo che volevo ritrovare in una mia bottiglia dopo appena dieci anni”. Avrete senz’altro capito il personaggio.

Qui, Giampaolo Motta, a man beyond immagination #2.

Frasso Telesino, Greco 2010 e Piedirosso 2010 Cautiero: naturali, biologici ma… anche buoni!

22 marzo 2012

Di qui a qualche giorno ne racconterò più diffusamente, frattanto mi preme cominciare a segnalarvi due ottimi assaggi, questi due vini di Fulvio Cautiero, giovane produttore con la moglie Imma in quel di Frasso Telesino, piccolo comune nel cuore del Sannio doc.

L’azienda Cautiero conta nel complesso poco più di 4 ettari di vigna, tutti a regime biologico certificato, con impianti moderni di diverse varietà tra le quali non mancano l’aglianico (cloni “taurasi” e “vulture”) e il piedirosso, ma anche fiano, greco e falanghina. I grandi classici insomma. La cantina è minuta ma ben attrezzata: v’è una piccola pressa, qua e là dei fermentini termo-condizionati in acciaio e legni di vario genere e grandezza stipati in un ambiente a misura d’uomo, pulito, funzionale.

Conosco Fulvio da qualche tempo, 3 forse 4 anni. Mi venne a trovare un tardo pomeriggio con in mano un paio delle sue bottiglie (leggi qui) , frutto del suo primo raccolto, la sua prima vinificazione per conto proprio. Tralasciando l’indimenticabile siparietto sulle etichette di allora, diciamo un tantino kitsch, fu però subito una piacevole scoperta; lo incoraggiai, sentivo che andava fatto, quei vini avevano tanto di buono: mi parvero subito netti e, a tratti soprattutto l’aglianico, ruvidi come non ne sentivo da tempo, eppure estremamente originali, profondi; subivano però inevitabilmente il pregiudizio della provenienza, quel mare magnum del Sannio Beneventano quasi mai considerato come si deve, incompreso e, ahimè a torto, sempre troppo poco attenzionato.

Così ritrovo anche questi due vini. Il primo, un greco duemiladieci, di vibrante complessità gustativa, da far invidia se vogliamo anche a taluni di provenienza irpina; il colore è paglierino scarico, il naso è sottile e sfuggente eppure ricco di sfumature floreali e fruttate: di tiglio, camomilla, pera. Il sorso è asciutto e nervoso, ha carattere da vendere ed è un gran piacere cercarlo mentre il vino ti scivola via, imprevedibile, sulle papille. Sapido ma non risoluto.

E molto buono ho trovato anche il piedirosso, dello stesso anno e come il greco messo in bottiglia senza filtrazioni e solfiti aggiunti. Paga dazio forse in limpidezza ma il colore è di un bel rubino netto e vivido. Il naso è delizioso, varietale nel senso più espressivo del termine, con toni fruttati e floreali e si arricchisce di finissime sfumature boisé grazie al misurato passaggio in legno (tre mesi in carati piccoli e di terzo passaggio). Il sorso è asciutto e di buona consistenza, incentrato sul frutto e sorretto da una ragionevole trama acida. Lungo e rinfrancante. Dei prezzi non ne parliamo nemmeno…

Intervallo. Solide radici

18 marzo 2012

Montemarano, il territorio, un po’ di storia, un vino: l’aglianico Gioviano 2008 de Il Cancelliere

12 marzo 2012

Il territorio è di antica vocazione, dopo Taurasi, e subito prima di Paternopoli, il vigneto ad aglianico più grande d’Irpinia: 161 ettari iscritti all’albo suddivisi tra 116 conduttori, con vigne prevalentemente esposte a nord, con terreni compositi – sostanzialmente argillosi ma ricchi di scheletro e lapilli vulcanici – ed altimetrie che variano dai 400 agli 800 metri, praticamente come fare un salto dal paradiso direttamente all’inferno.  

Un gran peccato aver cominciato a goderne i frutti così tardi. I miei primi ricordi vanno alla prima metà degli anni novanta, quando la parola “Montemarano” cominciai a leggerla su qualcuna delle vecchie bottiglie di Taurasi dei Mastroberardino, che poi, molto poi, imparai non essere una consuetudine ma vera e preziosa rarità per i vini dell’epoca; solo che a quel tempo certe bottiglie, capitate lì sicuramente per caso, quando non finivano scolorite e impolverate sulle mensole del bar della Pizzeria Serapide dove prestavo le mie prime esperienze tra cucina e sala, di sicuro sarebbero andate allungate al meglio con la Coca-cola. Venti, forse ventidue anni fa, altri tempi.

Non più tardi di cinque/sei anni dopo cominciai a capire dove realmente si trovasse Montemarano. Lavoravo adesso a La Fattoria del Campiglione, sempre a Pozzuoli – una gran cantina tra le mani e bella gente a cui dare da bere -, di tanto in tanto mi capitava di ascoltare alcuni clienti confabulare tra loro su quanto si stava bene, e pagava poco, al Gastronomo, un certo ristorante tipico proprio di quelle zone. Il Gastronomo, a Montemarano dicevano. “Ci devi andare Angelo, ci devi andare mi ripetevano, per te che ami il vino poi…”. “Fanno una cucina sana, di territorio, semplice, e c’è in cucina un giovanotto niente male che fa dei primi buonissimi”. Chissà mi domandavo io, ci capiterò prima o poi (vedi qui).

Tant’è, tornando a noi, e al vino, i ricordi si fanno certamente più loquaci con le primissime bottiglie maneggiate di Salvatore Molettieri: l’aglianico base – ve lo ricordate quanto erano sorprendenti le prime uscite? -, ma anche i Taurasi, il ’94, ’96, e poi a seguire quelli che hanno segnato definitivamente il passo, il ’99, ’00 e ’01 su tutti; stiamo parlando più o meno di una dozzina d’anni fa. Eh si, Molettieri, indubbiamente è toccato a lui fare da apripista, Montemarano l’ha fatto conoscere alla critica, cominciato ad imporlo come un indirizzo nuovo e diverso da quel di Atripalda, Sorbo Serpico o contrada Sala a Taurasi, giusto per citarne qualcuno di quelli più conosciuti all’epoca.

Poi, come spesso accade, negli ultimi dieci anni sono arrivati tanti altri, così anche i Romano, con una storia agricola solida che rimanda addirittura alla fine dell’800, ma che vede solo nel 2005 il compimento vitivinicolo definitivo, con i primi imbottigliamenti per conto proprio; nasce allora infatti Il Cancelliere, prendendo spunto dal soprannome di Soccorso Romano e in ricordo di suo nonno, come lui riconosciuto tale “o’ cancelliere”.

Il Gioviano è il loro primo vino, da sempre considerato un gran bel vino, dal rapporto prezzo-qualità ineccepibile, di quelli che difficilmente dimentichi di aver bevuto; e questo duemilaotto, probabilmente il migliore di sempre, quasi a voler far paio con lo splendido Taurasi Nero Né (leggi anche qui) della stessa annata, che arriverà però sul mercato solo il prossimo inverno, si mostra in tutto il suo splendore degustativo, dal primo all’ultimo sorso, esaltando tra  l’altro un millesimo all’epoca preso con le molle ma ogni giorno più apprezzato di quanto se ne pensasse appena raccolto.

Ma a dare un valore aggiunto a tutto sono proprio loro, i Romano, che splendide persone! E che meravigliosa persona è Soccorso: parlarci, starci dietro nei ricordi è uno spasso, verace, fiero, ironico e ruspante, proprio come te lo aspetti; lui preferisce occuparsi della vigna, sette splendidi ettari di aglianico che girano tutto intorno casa, e quasi non ne vuole sapere cosa accade in cantina, dove tra l’altro Antonio di Gruttola pare metterci più l’anima che le mani, limitandosi ad osservare ciò che accade piuttosto che ad intervenire.

Il segreto? Uve sanissime, solo lieviti naturali, macerazioni per almeno una ventina di giorni, legni, piccoli e grandi generalmente già usati, talvolta anche di terzo passaggio. E pensate che sino ad un paio d’anni fa qui si lavorava ancora col torchio, sostituito solo di recente con una più moderna e funzionale pressa pneumatica di ultima generazione. Il colore di questo duemilaotto è un bel rubino carico, nerastro, eppure vivo e luminoso; il naso è un susseguirsi, piacevolissimo, di riconoscimenti di frutti neri, spezie, balsami, tabacco, cuoio, terra. In bocca è secco, avvolgente, caldo, succoso, ha discreta acidità ma ancor più un tannino di spessore, eppure ben fuso, disteso, tutt’uno col corpo del vino. Insomma, un grande rosso quotidiano, decisamente imperdibile.

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

Montemarano, dopo l’anteprima ottime conferme dal Taurasi Principe Lagonessa 2008 di Amarano

9 marzo 2012

E’ proprio il caso di dire che in mezzo scorre il fiume, il Calore, al di là del quale c’è Castelfranci. Siamo a Montemarano, con Taurasi il vigneto ad aglianico più grande d’Irpinia, e senza dubbio alcuno uno dei grand cru per eccellenza della denominazione, dove il vitigno ha da sempre una marcia in più.

E qui c’è Amarano, una delle ultime venute fuori, nel 2004, e già tra le prime coi suoi vini, il Taurasi Principe Lagonessa anzitutto. L’azienda è per la verità in continuo divenire – diciamo pure un cantiere aperto -, ma le premesse per fare cose buone ci sono tutte; anzitutto il vigneto, di più o meno 12 anni e collocato, come detto, in uno degli areali più vocati di tutta l’Irpinia, proprio nel mezzo di contrada Torre, a Montemarano per l’appunto. E proprio qui dopo i primi timidi passi si è anche riusciti a ricavare una funzionale sede di vinificazione ed imbottigliamento, in uno dei capannoni dell’altra azienda di famiglia che si occupa però di edilizia e macchine agricole. I legni invece sono ancora alloggiati nella “cantina” di casa, un tempo la tavernetta di mamma Lucia, da qui distante un centinaio di metri e dove tra l’altro insiste anche un altro bel pezzo di vigna, in parte ad aglianico e parte, circa due ettari, di recente conversione e che verranno invece destinati alla coda di volpe, rinvigorendo quindi quell’antica vocazione locale che voleva questo vitigno, prima di qualsiasi altro, come contraltare al rosso irpino per antonomasia. 

Poi vabbé, c’è l’entusiasmo di Adele Romano, ragazza in gamba, una laurea in economia, una passione per le letture romantiche e la pazza idea che sì, tra un biberon e l’altro si poteva fare anche questo. Ha convinto così il papà a seguirla in questa avventura, tanto che Michele nel ’99 è dovuto volare sin negli Stati Uniti per andare a comprare i terreni da un tizio di Castelfranci che se n’era andato là qualche anno prima. Ancora oggi le difficoltà continuano ad esser tante, e in tutta onestà i tempi sono quelli che sono, non aiutano certo a facili entusiasmi, però lo scenario è suggestivo, la materia prima in cantina indiscutibile e le idee cominciano anche a convergere su obiettivi più concreti e razionali, come concentrarsi sull’aglianico, il Taurasi e magari coda di volpe, senza troppi altri grilli per la testa per inseguire un mercato che in fin dei conti è ancora tutto da scoprire.

Gli assaggi, ci mancherebbe, confermano in tutto e per tutto il grande spessore dell’aglianico di queste terre: nerboruto, voluttuoso, fitto. E il naso di questo 2008, tra l’altro ancora da imbottigliare – uscirà solo in autunno -, fatte salve le inevitabili tracce di legno che ancora lo carezzano, è un manifesto implacabile, intriso di sentori di frutta ed estremamente varietale, con quella nota succosa di amarena che alleggerisce, e bene, prospettive certamente ancora più profonde, voluttuose, in piena evoluzione; un ventaglio olfattivo sfrontato, che conserva addirittura una certa vinosità, fresco e vibrante, che accompagna anche il sorso, asciutto, copioso, di notevole sapidità. Caratteristica che si coglie ancor oggi, con disarmante semplicità, in tutti i Taurasi di Amarano, dal 2004 – l’esordio, ancora ossuto e polposo -, sino al 2010 appena in botte. Insomma, la scoperta è felice e saprà farsi conferma. Noi glielo auguriamo di tutto cuore!

Questo articolo esce anche su www.lucianopignataro.it.

San Mango sul Calore, Taurasi ’08 Antico Castello

7 marzo 2012

Questa dei Romano è una storia moderna, scritta con la ferma volontà di creare praticamente da zero un’impresa vitivinicola che potesse dare lustro alle proprie origini agricole ma soprattutto al proprio territorio.

Un modello di fare vino, viticultura, se vogliamo abbastanza comune negli ultimi anni, molto contemporaneo e non sempre a buon fine; eppure, se tanto mi da tanto, che ben vengano storie come queste. Del resto poi, per come hanno ridotto “il sistema” negli ultimi vent’anni, fare vino pare diventato davvero un’impresa per pochi, altro che poesia della terra e due cuori e una capanna, qui bisogna saperci fare, e bene.

Ma il mondo del vino continua ad avere il suo fascino infinito, che si sa essere molto altro ancora, così sempre nuovi protagonisti vi si affacciano con grande entusiasmo e voglia di fare. E’ per questo che mi ha fatto molto piacere conoscere Francesco, un giovane ingegnere che con la sorella Chiara ed il supporto della famiglia tutta si sono messi in testa di fare vino – e che vino! -, a San Mango sul Calore. Dove, vi starete chiedendo? Eh si, è vero, negli ultimi 15/20 anni abbiamo a fatica imparato – perché l’abbiamo imparato, non è vero? -, dove sta Taurasi e cosa sia un Taurasi. Poi, dopo anni di croniche incomprensioni si è cominciati finalmente a cogliere addirittura certune differenze e – guarda un po’ – che non era mica tutto solo Mastroberardino e Feudi di San Gregorio, c’era dell’altro, e talvolta anche di più buoni. Sicché adesso tocca imparare pure dove sta San Mango sul Calore e, non crederete alle vostre orecchie, della ridente località Poppano, dove stanno vigneti e cantina di Antico Castello.

Tutto ha avuto inizio nei primissimi anni novanta, con appena due ettari di vigna in località S. Agata, poi pian piano la cosa s’è fatta seria e si è arrivati agli 8 ettari di oggi, di cui 5 ad aglianico. Nel 2006 invece la realizzazione della cantina: a misura d’uomo, accorta, funzionale, tecnologica affidata nelle mani di Carmine Valentino; nel 2008 la scelta di piantare fiano e greco, nelle immediatezze dell’azienda, rinunciando sì alle docg (Lapio, per esempio, è a pochissimi chilometri da qui, ndr) ma confidando di valorizzarne una possibile originalità territoriale; i 2011 appena nelle vasche, ci diranno quanto vale questa scelta, voluta fortemente anziché continuare a comprarne da terzi.

Personalmente ne seguivo le vicende da circa tre anni. Ho bevuto il loro primo vino all’Anteprima Irpinia a Taurasi, nel 2010; poi l’anno dopo, sempre al Castello Marchionale, il 2007; lo scorso gennaio invece, a Montemiletto, l’ultimo presentato, questo, un 2008 davvero splendido. Un crescendo assoluto. Era doveroso quindi capire, fargli visita, magari raccontarne. Inutile stare a sottolineare che il progetto è serio ed ambizioso, e ancor più inutile sarebbe rifarsi ostinatamente a radici antiche o storiche vocazioni: qua prima di Antico Castello c’era solo un posto di merito nella docg, null’altro, e manco una goccia di Taurasi s’era mossa prima da San Mango. Oggi c’è invece una bella realtà, che tira fuori da queste terre un vino di spiccata personalità, dal naso estremamente varietale, elegante e dal sapore asciutto, austero, fitto, marcato da una mineralità incredibile e prospettive evolutive enormi. A 10 euro franco cantina!

Antico Castello è un fenomeno da tenere d’occhio, per qualcuno anche inspiegabile essendo fuori dalle solite rotte, eppure è lì, nel bicchiere che chiede solo di essere saggiato. Poi aggiornare il navigatore verrà naturale, perché vorrete anche voi capire, cercare, raccontare.

Reims, Champagne Cuvée Louise 1999 Pommery

30 gennaio 2012

Come scrivevo qualche post più in là, sarebbe stato opportuno ritornare sul breve ma intenso viaggio speso in terra di Champagne, alla scoperta del Domaine Vranken-Pommery di Reims. Così rieccoci qua con in mano gli appunti di quei giorni…

Invero, già essere accolti da Thierry Gasco è stato di per se un inizio piuttosto coinvolgente, non fosse altro che il personaggio, uomo chiave in Pommery, dove in qualità di chef de cave tiene in mano il destino di tutte le cuvée aziendali, è anche una figura di un certo spessore per tutta la Champagne ricoprendo, tra gli altri, un ruolo di prim’ordine nel civc nonché di presidente dell’Union des oenologues de France; ma nello specifico, vestito di grande disponibilità, ci ha tenuto a presentarci in prima persona alcune delle etichette che hanno contribuito definitivamente al rilancio di Pommery nel mondo in questi ultimi anni: il Grand Cru Millésimé, l’Apanage rosé, per dire, ma anche quello che in molti tra critici ed appassionati di settore dicono essere il suo personale capolavoro assoluto, la Cuvée Louise.

Dedicato alla figura leggendaria della fondatrice Madame Louise Pommery, tra le prime Grand Dames ad intuire il valore assoluto dell’arte come fine attrattore culturale – ne sono testimonianza viva le tante straordinarie opere fatte scolpire sin da inizio ‘800 nel gesso vivo delle caves del Domaine – questa cuvée nasce essenzialmente dalle vigne di tre Grand Cru di proprietà ad Avize e Cramant, da dove arriva lo chardonnay, e ad Ay, dove raccolgono le uve per la base pinot noir. Poi almeno otto anni, talvolta dieci, di affinamento nelle buie gallerie che si estendono per diciotto lunghi chilometri nel sottosuolo di Reims. E come ho avuto già modo di sottolinearvi in occasione della recensione del Grand Cru 2004, Thierry ci tiene a “dosare” sempre con molta attenzione e parsimonia le sue cuvée per conservare al massimo tutta l’espressività dei vini base.

Eccolo qua il vino, con questo suo colore paglierino carico e brillante, con spuma fine, densa e sostenuta. Il naso è subito molto invitante, verticale, anche se inizialmente un tantino pungente; offre indubbiamente un bel ventaglio olfattivo, diciamo pure di rara eleganza e compostezza: agrumi, ma anche burro fuso e frutta secca, canditi, con le prime note scandite nitidamente. Tenendolo però un poco nel bicchiere, in verità versandone ancora due dita dopo il primo assaggio, vengono fuori anche piacevoli rimandi di spezie dolci. Il sorso è asciutto e di buona intensità; si beve indubbiamente con una certa soddisfazione. Come accennato, della liquer nessuna traccia così evidente come talvolta può capitare in certi grandi Champagne, spesso volutamente “marcati” dallo chef de cave per firmarne lo stile; però è indubbio che risulti un vino sostanzialmente più adatto ad un approccio meditato piuttosto che per accompagnare aperitivi o tutto un pasto.

Tra qualche mese, in Italia, arriverà anche il 2000, che per la verità trovate già in giro ma solo in formato magnum. Generalmente non sono uno di quelli che ama raccomandare di stipare bottiglie di Champagne, pure quando si tratta di un Grand Cru o un Vintage particolare, però non mi farei troppi problemi nel dimenticarne qualcuna di queste in cantina per ritrovarle magari dopo ancora un po’ di stagioni di affinamento. Naturalmente senza esagerare.

Taurasi Vendemmia 2008| Anticipazioni…

22 gennaio 2012

Lo ammetto, sono a secco di argomenti per elogiare ancora una volta il prezioso lavoro svolto dai ragazzi di Miriade&Partners con questa ennesima interessante anteprima sul Taurasi; ma che bravi, che impegno, che dedizione. E che parterre di giornalisti, blogger, sommelier autorevoli!

Ma prima di tuffarci nel vivo delle degustazioni e delle impressioni a caldo offerte dall’interessante panel di quest’anno, è opportuno dedicare un po’ di attenzione ad alcuni nuovi spunti venuti fuori quest’oggi; un esercizio necessario per inquadrare meglio l’areale, la sua proposta sempre più articolata e le prospettive, certamente complesse ma non più di così difficile interpretazione.

Spesso ci siamo chiesti (e augurati) che si potesse guardare al vino Taurasi con gli stessi occhi con i quali un appassionato si approccia per esempio ad un Barolo, riferendosi cioè non più semplicemente al vitigno originario o alla mera definizione legislativa, ma bensì alla sua tipicità manifesta in un determinato microclima, in una particolare zona della denominazione quando non addirittura di una specifica vigna; insomma, se ai più viene naturale cogliere e raccontare dello stile, delle sfumature dei nebbiolo di Serralunga d’Alba e La Morra, perché non dovrebbe accadere lo stesso per esempio per gli aglianico di Lapìo o Mirabella Eclano o ancora quello di Montemarano?

Da dove cominciare? Bene, a guidarci per mano in questo nuovo scenario ci ha pensato Paolo De Cristofaro¤, con un lavoro certosino, millimetrico quasi, sulle macro-aree interessate alla coltivazione di aglianico e aglianico da Taurasi; un lavoro, per chi mastica vino, straordinariamente puntuale ed efficace, una guida indispensabile, per cominciare a chiarire quegli aspetti ormai ineludibili quando si racconta e si scrive di Taurasi o di aglianico di queste terre; perché, come sottolinea lo stesso autore, “come spesso accade, il disciplinare dice poco di un vino con una forte identità varietale e territoriale e che sempre più richiede di essere declinato al plurale, prendendo atto delle numerose variabili zonali, agronomiche, enologiche-stilistiche e del crescente numero di aziende produttrici, passate da meno di dieci (fine deglia nni ’80) alle 60 di oggi”.

Così con l’impegno di ritornare sull’argomento a breve, soprattutto perché questa lettura mi ha subito appassionato parecchio – ha tanto da insegnarci -, ecco come ci è stato presentato il panel d’assaggio di quest’anteprima che vi racconterò domani. I Taurasi degustati sono stati divisi in cinque gruppi territoriali:

  • Gli Assemblaggi, quei vini cioè provenienti da due o più distinte macro-aree;
  • Quadrante Nord – Riva Sinistra del fiume Calore, con le vigne in Venticano, Pietradefusi e Torre Le Nocelle;
  • Versante Ovest – Le Terre del Fiano, con vigne ubicate a Montemiletto, San Mango sul Calore, Montefalcione e Lapìo; con quest’ultimi due comuni gli unici ammessi alla produzione sia di Taurasi e che di fiano di Avellino);
  • Valle Centrale – Riva Destra del fiume Calore. Il territorio senz’altro più frammentato dell’areale con le vigne ubicate in Taurasi, Mirabella Eclano, Luogosano, Bonito, Sant’Angelo all’Esca e Fontanarosa;
  • Versante Sud – Alta Valle, dove il vigneto ad aglianico assume una quota di rilevanza notevole, talvolta esclusiva, distribuito nei comuni di Castelvetere sul Calore, Montemarano, Castelfranci e Paternopoli.

 Taurasi Vendemmia 2008, qui tutte le degustazioni all’anteprima.

Pozzuoli, good news: Le Cantine dell’Averno, cominciamo dal Piedirosso dei Campi Flegrei ’10

7 dicembre 2011

Giusto per farvi capire subito dove vi trovate: siete a Pozzuoli, affacciati sul lago d’Averno, uno specchio d’acqua dalla forma ellittica che occupa l’antico cratere dove i romani posero l’ingresso agli inferi.

Cento metri sotto di voi, subito sulla sinistra, giacciono le rovine del Tempio di Apollo. In lontananza, a ore 12, il costone dello Scalandrone; dall’altra parte c’è il lago Fusaro. Nel mezzo, il cratere vulcanico spento, nato più o meno 4.000 anni fa, coperto da acque immote e scure; le ripide pareti che lo circondano sono coperte da boschi mentre quelle a pendenza dolce, proprio sotto di voi, sono occupate da vigneti, in parte terrazzati. Vigne straordinarie, quando in fioritura, nel loro pieno splendore, offrono un colpo d’occhio impagabile. Eppure è curioso come in questo luogo dove il verde e la natura splendono si racconti che in passato le acque esalassero tanto acido carbonico e gas da non permettere la vita agli uccelli: così il nome Avernus, dal greco Aornon, luogo senza uccelli.

In questo scenario nasce il sogno di Emilio e Nicola Mirabella, due fratelli, per quanto mi riguarda due amici di lunga data, soprattutto Nicola con il quale abbiamo condiviso tante bevute sin dai tempi del corso sommelier Ais. Era il 2000, con Franco Continisio come Maestro. Sì, s’è fatto anche quello Nicola, un corso per imparare a stare dinanzi a un bicchiere, ma non per sciorinare prosopopea a tavola, magari al ristorante, ma più semplicemente per imparare a leggere il vino, soprattutto il suo, “suo” anche se prodotto per tanti anni da altri a cui conferiva le uve.

Frattanto, un po’ alla volta, con il fratello hanno rimesso a nuovo il vecchio cellaio di famiglia, comprato i ferri del mestiere – tutti quelli utili e indispensabili -, chiamato in aiuto in cantina uno bravo, Carmine Valentino. Tutto questo senza nel tempo perdere mai di vista il vigneto: poco più di un ettaro e mezzo, a piede franco, tutto a per ‘e palummo con viti tra i 40 a i 60 anni d’età; poi altri 40 quintali circa di falanghina conferitegli dalle vigne confinanti di alcuni parenti. Tutto lì intorno al lago insomma. Appena 4.000 bottiglie in tutto, una per ognuno degli anni del lago, verrebbe da dire.

Il 2010 è il debutto: vendemmia svolta tutta a mano, con passaggi ripetuti in vigna; alcune particelle infatti sono giù, sul lungolago, in contrada Canneto, altre invece sulle terrazze che arrivano fin su via Strigari. Le uve pigiate col torchio, come si faceva un tempo, e lasciate fermentare in solo acciaio. Col 2011 appena in cantina invece si sta già lavorando a qualcosa di maggiore slancio: una falanghina, solo quella, che fa anche un breve passaggio in legno (di quelli piccoli e vecchi, ndr). Ma questa è un’altra storia che poi vi racconto. Promesso.

E’ molto severo Nicola, e pignolo. Raccontandomi dei suoi vini si dice abbastanza soddisfatto della falanghina, ancora poco convinto di questo per ‘e palummo: “l’idea è certamente un’altra, il piedirosso è una brutta bestia, ci stiamo lavorando su duramente, ma abbiamo una sola possibilità l’anno di metterla in pratica, per cui non vogliamo aver fretta, dobbiamo saper attendere”.

Invero non mi è dispiaciuto affatto questo vino. E’ vero, manca di lunghezza, al naso come in bocca, ma ha tanta piacevolezza, un ventaglio olfattivo di tutto rispetto ed un tessuto gustativo di estrema godibilità; mi ricorda, ad ogni sorso, quanto questo varietale sia sempre da tenere in considerazione quando si parla di vino oggi, di quei vini, intendo, capaci di conquistare il consumatore immediatamente, al primo sorso, per piacevolezza e bevibilità (oltre che per il prezzo, qui davvero encomiabile). Duemila bottiglie. Quattro euro franco cantina. Dovreste fare a cazzotti! Per quanto mi riguarda, buona la prima Nicò!

Questa recensione esce anche su www.lucianopignataro.it.

Intervallo. Qui Campi Flegrei

5 dicembre 2011

Monte di Procida, Cantine del Mare

28 novembre 2011

Non è più da considerare una anomalia quella di un vino rosato della scorsa annata addirittura non ancora commercializzato, quando siamo praticamente sul finire del 2011: un anno è più dalla vendemmia, tra l’altro con la nuova già in cantina in affinamento nelle vasche d’acciaio.

Unico e prezioso. E’ così che Gennaro Schiano, volto nuovo della viticoltura flegrea, vignaiolo appena quarantenne, ha deciso debba essere il suo rosato ancora in affinamento in acciaio (!): uscirà infatti solo poco prima di natale prossimo, e solo per gli affezionati clienti che si recheranno a comprarlo in cantina da lui a Monte di Procida, o ne faranno magari richiesta esplicita. Una rarità insomma.

E la conferma arriva saggiandolo questo rosato, e viene in mente come in realtà troppo spesso si ha troppa fretta di mettere in tavola certi vini, quando invece potrebbero tranquillamente maturare per poi riproporsi con slancio maggiore. Ma in verità in questa iniziativa non c’è nulla di precostituito, pensato, più semplicemente vi è un numero di bottiglie, appena un migliaio, che sarebbero volate via in un battibaleno e senza nemmeno, forse, una logica commerciale costruttiva vista anche l’improbabilità di riproporlo quest’altro anno. E’ ricco e vivace il colore tra il cerasuolo e il chiaretto, con vivide nuances ramate; primo naso vibrante, intenso di note floreali, e poi officinali; in bocca è asciutto, fresco, il sorso è sapido, appena caldo. Una vera delizia.

Così l’idea di conservarlo per chi ha il piacere di venire qui in cantina, camminare le vigne, conoscere la loro giovane ma intensa storia. E infatti Cantine del Mare è davvero una bella scoperta, lo è stato per me che, scioccamente forse, avevo affidato quasi esclusivamente alla buona presenza ed espressione dei loro vini la sola tangibilità di quanto di buono si faceva da queste parti. E invece no, la sorpresa è stata, per rendere bene l’idea a chi legge, decisamente enorme!

L’azienda è annoverata tra le più giovani del comprensorio flegreo, stiamo parlando del 2003 come costituzione e forse del 2006 come prima vera vendemmia, quella realmente espressiva del progetto di Gennaro, aiutato in questa avventura dalla giovane moglie Sandra e per qualche tempo da suo cognato Pasquale Massa, che ha curato perlopiù soprattutto i primi passi commerciali dell’azienda. Circa due ettari di proprietà, che praticamente cingono la piccola e suggestiva cantina di via Cappella Vecchia a Monte di Procida, più altri 6 in conduzione diretta sparsi qua e là sul territorio: “La mia idea di vino nasce in vigna, in ognuna di esse, e quindi solo gestendole in prima persona potrei dedicarmici a pieno. Ragion per cui, per tutti i vini da me prodotti nei Campi Flegrei, siano essi doc o igt, come per lo spumante e per il passito, non compro uve (nè vino, ndr) da terzi”.

I vigneti in conduzione sono collocati nelle aree tra le più vocate della denominazione, tra Bacoli, Monte di Procida e Pozzuoli; alcuni, dei quali si possono ammirare le splendide immagini qui riportate, sono davvero sorprendenti. Personalmente non ne avevo contezza prima d’oggi, e di questa scoperta sono davvero felice. Il vigneto “stadio” per esempio, praticamente sulla panoramica di Monte di Procida, da dove vi si accede per una piccola viuzza che discende una scarpata di recente ripristinata al passaggio, è di una suggestione unica: un catino di poco più di 2 ettari e mezzo, piantato con sola falanghina – a piede franco, già in produzione -, letteralmente affacciato sul golfo, con vista sulla prospiciente Procida e più in la l’isola d’Ischia.

Un luogo un tempo letteralmente abbandonato a se stesso e recuperato in maniera splendida proprio grazie all’operato di Cantine del Mare. L’impianto è moderno, piuttosto regolare e fitto, e nonostante sia facile immaginare le alte temperature agostane e altrettanto evidente, data la posizione, il beneficio della frescura della brezza marina e delle escursioni termiche che qui già a fine agosto si fanno sentire importanti.

Altra storia è la vigna sul Belvedere, ai più è già conosciuta perché di proprietà della famiglia Vitale che, per qualche anno, ha prodotto in proprio – con l’aiuto di Luigi Di Meo – col marchio dell’Azienda Agricola Il Ramo d’Oro. A loro, una volta decisi a mollare, è subentrato nella conduzione delle vigne Gennaro Schiano: da qui arriva oggi una parte del loro piedirosso “base”. Un vigneto anch’esso suggestivo, caratterizzato da un terreno piuttosto povero e quindi capace di stressare per bene il varietale e dare buona uva. Soffre però particolarmente l’esposizione ai venti forti che soprattutto in settembre, un momento delicatissimo per la vigna, spazzano decisi, talvolta violenti, questo costone collocato tra il Fusaro, Baia e Bacoli. Non è difficile infatti vedere perso tutto o in parte il raccolto, come è già successo per esempio due anni fa.

Ma questo delizioso Rosato, da piedirosso in purezza, è solo una delle chicche della preziosa proposta dell’azienda montese degli Schiano, guidata oggi in cantina dal giovane tecnico Gianluca Tommaselli, subentrato a Maurizio De Simone; e gli assaggi, praticamente di tutti i vini, anche quelli 2011 in vasca e in elevazione tra acciaio e legno, non hanno fatto altro che confermare le già solide mie personali convinzioni di un lavoro sempre costruito con integrità e vivida espressione, in vigna così come in cantina. Queste che seguono alcune tra le più interessanti impressioni.

V. S. Q. Brezza Flegrea Spumante di Falanghina. Assaggio prima il “vino base” appena a fine fermentazione; il prossimo Marzo questa piccola cisterna, così com’è, verrà caricata e spedita a Valdobbiadene per la spumantizzazione in autoclave: ha buona acidità, un buon tenore alcolico, darà un brut quasi al limite con l’extra dry, di indubbie qualità. Poi il vino dell’anno scorso (che al momento però è terminato); offre sensazioni organolettiche naturalmente più compiute: è brillante, fragrante nei profumi varietali, sorso immediato, secco e godereccio. Da bere a fiumi! (per saperne di più, leggi anche qui).

Falanghina dei Campi Flegrei 2010. colori sempre particolarmente cristallini quelli dei vini di Gennaro Schiano, baciati dal sole e rinfrescati dal mare. Naso floreale e agrumato, tenue ma gradevolissimo. Il sorso è secco, ben dritto e di felice bevibilità.

Piedirosso dei Campi Flegrei 2010. Colore intenso, vivo e maturo, con qualche sfumatura ancora porpora sull’unghia. Il primo naso vinoso, floreale e finemente speziato, comunque molto varietale. In bocca è asciutto e rotondo, non manca di nerbo. Un guizzo pepato sul finire.

Campania igt bianco passito Vento di Grecale 2007. Da sole uve falanghina. Splendido il colore oro, ricco e intenso. Naso molto invitante, pronunciato su note candite, confettura di albicocca e cioccolato bianco. Forse solo un tono dolce di troppo, ma il sorso rimane interessante e chiude con una delicatissima nota di crema pasticcera assai persistente.

Falanghina dei Campi Flegrei Sorbo bianco 2006. Parzialmente fermentato in legno, poi in acciaio e quindi in bottiglia. Lungamente affinato in bottiglia. Naso ancora caratterizzato dall’evidente passaggio in rovere, si esprime meglio e molto bene in bocca: voluminoso e di buona persistenza.

Piedirosso dei Campi Flegrei Sorbo rosso “Annata Riserva” 2006. Vino decisamente intenso. Ne avevo già bevuto e scritto in passato, conferma l’ottima trama gustolfattiva e la capacità di reggere il tempo senza particolari sofferenze. Forse solo il naso esprime toni un po’ avanti, maturi, qui la prugna si fa confettura, ma il sorso sa regalare ancora buona intensità e profondità.

Falanghina dei Campi Flegrei Sorbo bianco 2011 – atto a divenire elevazione in castagno. L’idea è quella di ritornare all’utilizzo del “nostro” legno di castagno anziché insistere sul rovere francese. Così una parte di riserve sta venendo affinata in tonneau di castagno. Il naso qui è ancora marcato da note fermentative, siamo ancora agli albori, ma rimangono piacevolmente evocativi i sentori agrumati e fruttati. Vabbè, il lievito, selezionato, è di quelli giusti, ma c’è tanta buona materia, quindi svaniti i primi accordi si dovrà attendere la musica vera. Sorso già pulito.

Piedirosso dei Campi Flegrei Riserva Sorbo rosso 2011 – atto a divenire elevazione in castagno. Qui il discorso pare avere già un profilo molto interessante, e più promettente. Colore molto vivace, intenso e di ottima consistenza. Naso varietale, esplosivo in questa fase, tra classica vinosità ma anche tanta frutta rossa polposa. Nessuna traccia del legno. In bocca è arcigno, ancora acerbo, certo, ma v’è tanta materia. Interessante.

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Napoli, Falanghina Vigna del Pino ’06 Agnanum

21 novembre 2011

E di quattro chiacchiere distintive con Raffaele Moccia¤. Un assaggio può evocare tante belle sensazioni, soprattutto quando condiviso con una persona deliziosa come Raffaele, viticoltore in Agnano, alle porte di Napoli. Sono tornato a trovarlo, mancavo di venirci da due-tre anni, non molti – o forse troppi, chissà -, eppure il tempo qui appare immutato, lento e prezioso com’era. Com’è.

Rompiamo subito il ghiaccio: Raffaele, ci ricordi chi sei, e come nasce Agnanum¤? Niente di complicato: sono un vignaiolo, ma anche un allevatore, soprattutto un padre, e a meno di 50 anni, pure nonno! Vabbè… mio padre ha piantato la vigna qui su per la collina alla fine degli anni sessanta. A cinque anni la mia prima vendemmia e contemporaneamente aiutavo i miei con l’allevamento degli animali. Ne ho spalato di m…a!. Poi nel 2002 la prima imbottigliata. Agnanum¤ è il primo nome che mi è venuto in mente.

Caspita, 2002-2011. Siamo al decennale. Dieci vendemmie sono da celebrare? E’ una buona idea. Pensa tu cosa fare e fammi sapere. Le bottiglie ce l’ho.

Qualcosa è cambiato, dico qui in cantina? Beh sì, abbiamo messo un po’ di cose a posto, comprato qualche piccolo tino in acciaio per serbare meglio i vini. Adesso riesco a vinificare tutte e tre le vigne separatamente. Per il resto poco o nulla. Sono e rimango un artigiano.

Ci spostiamo in campagna. Con una Smart ci arrampichiamo su per la collina. Il maltempo degli ultimi giorni ha reso praticamente impossibile girare motorizzati. Decidiamo così di proseguire a piedi, una scalata in piena regola. Adesso non si sente più nemmeno il rumore di una sola auto nonostante là sotto scivoli via un bel pezzo della tangenziale di Napoli.

In vigna, come siamo messi in vigna? Con qualche reinnesto, tra le piante morte per qualche motivo, e quelle rimaste bruciate dagli incendi che di tanto in tanto hanno investito la zona, siamo oggi a quattro ettari pieni; il vigneto si può dire che ha una età media di quarant’anni. Più i nuovi impianti, lassù “sopra il bosco”, circa 400 nuove viti sul limitare del cratere degli Astroni.

Tornare qui è sempre bellissimo. E’ vero. Respira, tira su, questo è ossigeno allo stato puro, ha un sapore difficile da trovare là sotto. Ho terminato di raccogliere il 2 novembre scorso. Prima la falanghina, il 30 e il 31 ottobre, poi il per ‘e palummo. Al di là di quel muro c’è il Parco degli Astroni, un posto magnifico, per niente valorizzato; un bosco naturale tra i più vecchi d’Europa. Qualcuno ancora oggi vi s’intrufola dalle mie vigne a caccia di funghi. E qualcos’altro.

Raffaè, come vedi questa situazione di mercato? Ci difendiamo, con molte difficoltà. La doc è molto inflazionata, la stanno massacrando, ed è un peccato, per lavoro che c’è da fare è davvero un peccato. Certi vini meriterebbero ben altro. Sinceramente non riesco a capire come si faccia a proporre certi prezzi; è palese che altri non hanno speso fatica in campagna, dedicato abbastanza tempo alle proprie vigne. E’ indubbio che comprare e rivendere uva o addirittura vino bello e fatto rende economicamente molto meglio che spezzarsi le reni ogni giorno.

Spiegati meglio. Il mio vigneto è tutto qui, su per la collina; faccio tutto a mano, piantare, curare, raccogliere; e scavare canali per l’acqua, il continuo sovescio, tutto il ciclo naturale della campagna insomma. Io dico che i costi in cantina possono più o meno essere omogenei, fatte le dovute proporzioni; in campagna però c’è da buttare il sangue, io il vino lo faccio con la mia uva, coltivata nella mia terra.

Un vignaiolo a tutto tondo. Non potrebbe essere altrimenti. Guarda, se non fossi continuamente in campagna certe cose scapperebbero di mano; con tutta l’acqua caduta nei giorni scorsi per esempio, se non avessi scavato per tempo questi canali, sai dove avremmo rincorso questa vigna? Qui adesso mi tocca rimettere a posto, riportare le terrazze a un giusto livello. Il terreno qui è talmente povero, sciolto, che dopo certi disastri si rischia che l’acqua si porti via anche le piante.

Torniamo in cantina, e dopo un breve ma meditato passaggio tra le vasche, ad assaggiare “i vini nuovi”, ci accomodiamo nell’ampia sala degustazione nelle immediate adiacenze della cantina; un luogo spartano e rustico, ma accogliente, seppur in questo momento un tantino impicciato dai lavori in fermento in cantina per la vendemmia appena alle spalle. Qui Raffaele conserva almeno un centinaio di bottiglie di tutte le annate prodotte, sin dalla prima duemiladue. Apriamo un Vigna del Pino 2006, falanghina passata in legno ed affinata almeno due anni in bottiglia.

Come è andata la vendemmia 2011? Non male; come ti ho detto ho terminato da poco, sono riuscito a rispettare i miei tempi, quella della mia vigna. Vendemmiare il 2 novembre quest’anno per molti sarebbe stato disastroso. Qui è andata così.

Poca uva o che? Quella necessaria, la migliore possibile. Appena 20 quintali di per ‘e palummo, più o meno 50 di falanghina.

Là dentro che c’è? Qui ci metto parte della falanghina raccolta nella vigna più bassa, quella subito a ridosso della cantina, e tutte quelle poche cassette delle uve da sempre in vigna, piantate da papà come si faceva una volta, e che tu conosci bene: la gesummina, la catalanesca e un poco di biancolella e coda di volpe. Ci faccio l’igt.

Con Gianluca Tommaselli come va? Ho deciso per la continuità. Maurizio De Simone è stato un passaggio indispensabile per inquadrare bene il lavoro da fare, pur tra le mille difficoltà avute. Lui è un uomo di pancia, grande enologo ma prima ancora una grande persona. Gianluca è un tecnico, si muove bene, sa cosa fare, come seguirmi, e fin dove si può spingere. Poi, come è ovvio che sia, decido io.

Continua a dire la sua questo vino, ancora dopo più di 5 anni? Sei tu l’esperto. Però si, sono molto felice quando li riassaggio e riesco, evocandone la travagliata genesi, ancora a sentire la mia uva. E’ una sensazione molto bella.

In effetti sì, questo Vigna del Pino 2006 conserva ancora una certa espressività. Il colore è ben definito, oro, limpido e cristallino. Il naso conduce ancora al varietale, però buccioso, polposo, cremoso quasi. Piacevoli le note di uva spina ed albicocca che si sovrappongono senza confondersi; chiude con un finale ammandorlato e di zenzero candito. In bocca è secco, gode ancora di buona freschezza nonostante l’età, ma colpisce ancor più la soave rotondità che infonde lungamente al palato, ricca e persistente; particolarmente incisivo il timbro minerale che regala un sorso vibrante e sapido. Inaspettato.

Mentre parliamo, tra un assaggio e l’altro, gli arriva una telefonata: è una promoter di un noto Magazine settimanale; lo tiene al telefono non poco, lui interloquisce con una certa disponibilità, la sua, quella di sempre; dall’altro capo del telefono – adesso in viva voce – sento proporgli un paio di uscite sulle proprie testate e in più un passaggio sull’omonimo canale tematico satellitare, alla modica cifra di 1000,00 euri + iva. Lui è sibillino, non se lo può permettere, ringrazia e rimanda alla prossima; poi mi fa un gesto come a dire “ma c’è ancora chi ci crede a ‘ste cose?” Sorridiamo…

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Alba, di Montanaro e della grappa dell’Alchimista

18 ottobre 2011

“S’ci l’è foll!”. Questo è un matto, per dirla alla maniera albese. E a pensarci bene Giulio Bongiovanni non fa proprio niente per smentirsi, per apparire alla mano, anche più di quanto in realtà lascerebbe intuire d’essere. “L’è così, prendere o lasciare!”. Noi, naturalmente, prendiamo…

La grappa, o “il sole d’uva imbottigliato” per dirla con Paolo Monelli, ha avuto in Alba il suo più autorevole precursore in Francesco Trussoni, maestro di alambicchi, detto l’alchimista, che nel 1885 si mise in testa di fare la prima grappa di Barolo, la prima monovitigno della storia. Una storia proseguita negli anni trenta sotto l’egida di Mario Montanaro, suo genero, che contribuì in maniera sostanziale a delineare l’attuale fama di cui gode la distilleria di Gallo d’Alba, nel cuore delle Langhe. Da poco più di un ventennio la Distilleria Montanaro è passata nelle mani di Giulio Bongiovanni, altro maestro artigiano langarolo di primissimo piano. Un gran personaggio!

Le vinacce arrivano in distilleria, quindi selezionate tra quelle ritenute di pregio, adatte quindi agli standards di casa, e quelle meno funzionali destinate magari a lavorazioni di tipo industriale, del tipo per tirarne fuori alcol puro o utilizzate come combustibile bionaturale. Ma la materia prima non è altro che un mezzo per arrivare al cuore della lavorazione, l’ispirazione necessaria per godere di tutti i segreti di una distillazione che conserva un’arte antica e mistica, infinatamente preziosa. Vengono quindi stoccate in silos di cemento da dove man mano vengono confluite, attraverso un nastro trasportatore, alle caldaie in rame.

Le “cotte” durano all’incirca un ora, e le caldaie, praticamente, si autoalimentano grazie alla pressione e al vapore da loro stesse prodotti. Sono infatti collegate tra loro due a due, alimentandosi a vicenda; esauritasi una “cotta”, attraverso l’apertura/chiusura di determinate valvole se ne fa entrare in funzione una seconda coppia, e così via sistematicamente. L’impianto è rimasto praticamante immutato, salvo piccoli ammodernamenti, sin dalla sua creazione nel 1927.

Giulio Bongiovanni, come detto è da poco più di vent’anni proprietario della distilleria Mario Montanaro. Qui è un’istituzione, lo dipingono come uno tosto e dal carattere ruspante, “ruvido”; a me è sembrato un tizio che la sa davvero lunga, un piacere ascoltare i suoi aneddoti, e poi, quel suo bianco Montanaro poi…

Dalle caldaie, attraverso una serie innumerevole di tubi e tubicini, il primo fiore distillato fa un giro piuttosto virtuoso spostandosi in tre diversi locali della distilleria, passando dallo stato liquido a quello gassoso almeno un paio di volte durante il suo “cammino”, così da liberarsi anche del benché minimo residuo sgradevole allo scopo di ottenere acqueviti o grappe purissime.

Il ragno invece, è un complesso sistema di tubicini e microfiltri che s’incrociano apparentemente caotici in una piccola caldaietta che sembra essere la destinazione finale del nettare dell’alchimista. Qui tutto è in rame: poco prima, in una caldaia poco più grande (se ne scorge uno scorcio nella foto, in alto a destra) il liquido viene “intiepidito” e “valorizzato” prima di venire fuori, purissimo, a circa 80 gradi. Praticamente una bomba. Da qui, la raccolta del distillato, tutto sigillato secondo normativa dalle punzonature della Guardia di Finanza; poco dopo il via libera, dritto all’infernot.

Qui riposa il meglio della produzione, dove vi rimane per almeno una dozzina d’anni prima di finire nelle bottiglie di acqueviti o grappe Montanaro. Qui però vi è anche dell’altro, infatti in alcune di queste botti giacciono anche acqueviti e grappe di almeno quarant’anni che concorrono al patrimonio aziendale, che è davvero importante, con alcune partite che arrivano sino al 1960. Non so voi, ma il fascino dell’alchimista mi attira non poco…

Distilleria Dott. Mario Montanaro
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Tel. 0173/262.014
Fax: 0173/231.378
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